I Garanti regionali dei detenuti preoccupati per lo stop alla riforma di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 gennaio 2018 I decreti attuativi su ordinamento minorile, lavoro, giustizia riparativa e misure di sicurezza non sono ancora all’ordine del giorno del consiglio dei ministri. I Garanti regionali e locali dei diritti dei detenuti fanno pressione al ministro della Giustizia affinché si realizzi al più presto la riforma dell’ordinamento penitenziario e chiedono un incontro urgente con lui. La loro preoccupazione è stata espressa durante il seminario “Costituzione e clemenza collettiva. Per un rinnovato statuto dei provvedimenti di amnistia e indulto”, organizzato venerdì scorso dalla Onlus “La società della ragione”. Il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasia, tramite un comunicato spiega che i garanti “manifestano una grave preoccupazione per il ritardo nella trasmissione alle Camere dello schema di decreto legislativo di riforma dell’ordinamento penitenziario già approvato dal Consiglio dei ministri, e ancora più per la mancata approvazione dei decreti sull’ordinamento minorile, sul lavoro, sulla giustizia riparativa e sulle misure di sicurezza”. Il garante Anastasia sottolinea che “un particolare allarme suscita il blocco del decreto sull’affettività in carcere: dopo 18 anni dal tentativo di inserimento nel Regolamento del 2000 risulta incomprensibile uno stralcio imputabile alle pressioni di alcuni sindacati della Polizia penitenziaria”. Anastasia spiega che i garanti si fanno interpreti di un malessere presente nelle carceri rispetto ad aspettative che potrebbero andare deluse. “Quindi - conclude il garante, per i rapporti di stima e la leale collaborazione istituzionale sempre perseguita, manifestiamo al ministro Orlando la nostra disponibilità a un incontro in tempi rapidi in cui rappresentare le nostre preoccupazioni”. Preoccupazioni, ricordiamo, espresse anche dall’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini e per questo ha deciso di riprendere lo sciopero della fame dalla mezzanotte del 22 gennaio. Una riforma che rischia di non realizzarsi. La parte dei decreti delegati approvati lo scorso 22 dicembre in via preliminare dal Consiglio dei ministri devono ancora passare all’esame delle commissioni giustizia della Camera e Senato. Secondo la procedura hanno 45 giorni di tempo per esprimere eventuali pareri. A questo si aggiunge la proroga fino al 31 marzo data alle commissioni instituite dal Guardasigilli che hanno elaborato i decreti. Però, nel mezzo, ci sono le elezioni politiche e ciò potrebbe rallentare, o nelle peggiore ipotesi bloccare, l’intero iter di approvazione. Una preoccupazione, come detto, espressa anche dai garanti dei diritti dei detenuti. La loro richiesta al ministro Orlando è maturata dopo l’incontro di venerdì scorso. Un seminario organizzato per affrontare il discorso dell’amnistia. Sì, perché è stato evidenziato come la clemenza, atto contemplato dall’articolo 79 della nostra Costituzione, è stata inattuata da quasi 30 anni. Dopo l’ampia amnistia di pacificazione concessa nel 1946, è vero che amnistia e indulto sono stati approvati con regolarità quasi ciclica: nel 1948, 1949, 1953, 1959, 1963, 1966, 1970, 1973, 1978, 1980, 1981, 1982, 1983, 1986, 1990, 1992. Da allora però, con l’unica eccezione dell’indulto nel 2006, sono trascorsi tre lustri senza una legge di clemenza. Nei confronti di tale strumento, come hanno denunciato gli organizzatori, c’è l’ostilità giuridica, politica e informativa. Per questo motivo il seminario ha proposto di contestare la fondatezza di tale pregiudizio “al fine di restituire agibilità, politica e costituzionale, alle leggi di amnistia e indulto”. Da questo seminario è stata elaborata una proposta di revisione costituzionale dell’art. 79 Cost che, nella sua attuale formulazione, concorre all’oblio degli strumenti di clemenza. Ricordiamo che non è un caso che dal 1992 il Parlamento non emana la clemenza collettiva. Questo perché, è bene ricordare, che con la legge costituzionale 6 marzo 1992 n. 1 è stato modificato l’articolo 79 della Costituzione. Il testo originario dell’articolo stabiliva che questi provvedimenti di clemenza fossero concessi dal Presidente della Repubblica su legge di delegazione delle Camere: di fatto la modifica ha codificato quello che già avveniva nella prassi, poiché il Capo dello Stato normalmente si limitava a far propria la proposta di legge approvata dal Parlamento, ma ora, imponendo, anche la maggioranza qualificata dei due terzi che viene richiesta per l’approvazione dei singoli articoli e per la votazione finale. Quindi non basta più la maggioranza relativa, ma ben due terzi del parlamento. L’obiettivo, oggettivamente raggiunto, era quella di porre un freno alle concessioni di amnistia e di indulto. Il testo di riforma elaborato dal seminario sarà poi messo nella disponibilità di tutti i parlamentari della prossima XVIII Legislatura, facendone mezzo e fine per una battaglia di politica del diritto. A tal proposito giova ricordare che, all’indomani della morte di Marco Pannella, il senatore Luigi Manconi depositò al Senato un disegno di legge costituzionale dedicato proprio al leader storico del Partito radicale. Il ddl era volto per modificare l’articolo 79, facilitando la concessione dell’amnistia. “Oggi offriamo l’opportunità di verificare se l’omaggio a Pannella era mera ipocrisia o può avere un seguito concreto”, disse Manconi. Sono passati due anni, la legislatura è al termine, ma quel disegno di legge è rimasto nel cassetto. Nota del Conams sulla riforma dell’Ordinamento penitenziario Ristretti Orizzonti, 16 gennaio 2018 In relazione all’esercizio della delega in materia penitenziaria, il Coordinamento Nazionale dei Magistrati di sorveglianza auspica che l’emanazione dei decreti attuativi, primo intervento organico a oltre quarant’anni dalla riforma del 1975 e trenta da quella del 1986, costituisca solo l’inizio di una nuova stagione per l’affermazione dei diritti in carcere e per l’effettiva realizzazione del principio costituzionale del finalismo rieducativo della pena. La magistratura di sorveglianza associata esprime apprezzamento per il tendenziale superamento del regime delle preclusioni e degli automatismi, e per il rafforzamento dei sistemi giurisdizionali di tutela dei diritti in capo al magistrato di sorveglianza, riservandosi una più compiuta valutazione su quello che appare fin d’ora un nodo problematico in tema di semplificazione del rito con riguardo alla concessione di misure alternative ai soggetti liberi. Evidenzia, altresì, l’urgenza di completare l’esercizio della delega anche sul tema così sentito dell’affettività in carcere. Il Coordinamento inoltre ribadisce che una seria ed organica riforma del sistema penitenziario non può assolutamente prescindere da un impegno economico corrispondente agli obiettivi prefissati. La magistratura di sorveglianza si rende disponibile da subito ad una fattiva interlocuzione con i soggetti istituzionali coinvolti nel processo di riforma. Il Comitato direttivo del Coordinamento Nazionale dei Magistrati di sorveglianza Il Procuratore contro la gogna: “basta foto degli arrestati” di Edmondo Bruti Liberati* Il Dubbio, 16 gennaio 2018 L’articolo che segue, scritto dall’ex Procuratore di Milano, è tratto da “Questione giustizia”, la rivista on- line di Magistratura democratica, ed è stato pubblicato l’ 8 gennaio 2018. Chi avesse scorso i quotidiani del 6 gennaio 2018 avrebbe trovato due notizie, di segno molto diverso, sul tema della diffusione di foto e riprese di persone arrestate. Il quotidiano Libero in prima pagina, con grande evidenza titola: “Il comandante dei carabinieri infuriato: “Questi signori ladri tornano liberi e riprenderanno a rubare”. I volti degli otto clandestini albanesi segnalati pubblicamente dai carabinieri di Padova” ; nel riquadrato le otto fotografie segnaletiche a colori. L’articolo prosegue a pagina 13 con il titolo. “L’avvertimento del comandante dell’Arma di Padova. “Occhio a questi ladri, stanno per uscire di cella”. I carabinieri segnalano otto pregiudicati albanesi. “Tenete a mente queste facce, potrebbero riprendere a rubare nelle case”. Nel testo dell’articolo si riferisce che, nel corso di una conferenza stampa, il comandante provinciale dei Carabinieri di Padova “ha mostrato le foto segnaletiche perché le telecamere delle televisioni locali riprendessero bene i volti di questi malviventi e li diffondessero nelle case della gente. Sono tutti pregiudicati, hanno precedenti specifici, sono albanesi di famiglia zingara e sono sprovvisti del permesso di soggiorno. Vivono grazie ai proventi dei loro furti. Il colpo più datato è di tre mesi fa, sono stati ammanettati da poco, ma il comandante dei Carabinieri si sente in dovere di dire alla popolazione di stare attenta, di guardarsi attorno dieci volte prima di lasciare la propria casa incustodita perché questi ceffi quando a breve avranno saldato il loro conto con la legge potrebbero tornare in azione. (…) Nel corso della conferenza stampa il comandante ha anche illustrato una sorta di vademecum per difendersi dai ladri”. Segue, sempre a pagina 13, un commento dal titolo: “A questo porta l’inefficienza della nostra giustizia”. La notizia viene riportata anche dai quotidiani della catena La Nazione- Il Resto del Carlino- Il Giorno con toni analoghi e pubblicazione delle otto foto; segue un commento dal titolo “Onore all’Arma”. Non sappiamo quanto di enfasi sia dovuto alla penna dei cronisti rispetto alle dichiarazioni effettivamente rese dal comandante provinciale dei Carabinieri, ma il dato di fatto pacifico è l’iniziativa di diffondere alla stampa le foto segnaletiche degli arrestati. Sarà interessante vedere se vi saranno reazioni da chi ricorrentemente denuncia (e giustamente) episodi di “gogna mediatica” ovvero se l’indignazione si confermi selettiva in base alla personalità dei soggetti offerti alla gogna. Il Corriere del mezzogiorno (Napoli e Campania) sempre il 6 gennaio 2018 a pagina 6 titola: “Melillo: stop alla diffusione delle foto di persone indagate oppure arrestate. Circolare del procuratore alle forze dell’ordine, ad avvocati e giornalisti: va tutelata la dignità. Soprattutto se il soggetto coinvolto sia vulnerabile, come nel caso di chi ha perso la libertà”. Merita subito una segnalazione il fatto che la circolare diretta alle autorità di polizia sia, molto opportunamente, indirizzata, per conoscenza, oltre che al procuratore generale e ai magistrati dell’ufficio, anche al Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati e al Presidente del Consiglio dell’Ordine dei giornalisti. La circolare muove dalla premessa: “La doverosa cura delle condizioni di efficace tutela della dignità delle persone sottoposte ad indagini ovvero comunque coinvolte in un procedimento penale appare, infatti, maggiormente meritevole di attenzione qualora la persona versi in condizioni di particolare vulnerabilità, come nel caso in cui sia privata della libertà personale”. E prosegue: “Come costantemente rilevato dalla giurisprudenza di legittimità, il sistema normativo vigente impone il raggiungimento di un ponderato equilibrio tra valori diversi contrapposti, tutti di rilievo costituzionale, stante l’esigenza di un necessario contemperamento tra i diritti fondamentali della persona, il diritto dei cittadini all’informazione e l’esercizio della libertà di stampa”. Vengono quindi richiamate le disposizioni dell’art. 25 del Codice per la protezione dei dati personali, l’art. 8 del Codice di deontologia dei giornalisti, il provvedimento n. 179 del 5 giugno 2012 dell’Autorità di garanzia dei dati personali, nonché la sentenza Cedu 11 gennaio 2005 (Sciacca contro Italia), che ha ravvisato una violazione dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo nella diffusione della foto segnaletica di una persona arrestata. La circolare dopo aver rammentato che: “Del resto, tali principi sono espressamente richiamati anche nella circolare 123/A183. B320 del 26.2.1999, con la quale il Ministero dell’Interno ha sottolineato l’esigenza che, anche nell’ipotesi di indiscutibile “necessità di giustizia e di polizia” alla diffusione di immagini, “il diritto alla riservatezza della tutela della dignità personale va sempre tenuto nella massima considerazione” conclude disponendo: “In conformità alle precise indicazioni normative appena ricordate, pertanto, le SS. LL. vorranno assicurare - impartendo ogni opportuna disposizione agli uffici e ai comandi dipendenti - la più scrupolosa osservanza del divieto di indebita diffusione di fotografie o immagini di persone arrestate o sottoposte ad indagini nell’ambito di procedimenti la cura dei quali competa a questo Ufficio, segnalando preventivamente le specifiche istanze investigative o di polizia di prevenzione ritenute idonee a giustificare eventuali, motivate deroghe al principio sopra richiamato”. La diffusione e la pubblicazione di riprese filmate e foto di persone al momento dell’arresto o della traduzione in carcere o delle foto segnaletiche, a dispetto dei principi e della normativa vigente, è purtroppo un costume diffuso. La comprensibile e pur legittima esigenza di visibilità delle autorità di polizia che hanno proceduto alle indagini può trovare uno sbocco nel modulo comunicativo che si realizza con la partecipazione alla conferenza stampa tenuta negli uffici della Procura della Repubblica. Il tema è controverso e le prassi sono difformi. Non sono mancate iniziative dirette a contrastare le prassi distorte. Nel Bilancio di Responsabilità sociale 2014/ 2015 della Procura della Repubblica di Milano, reperibile nel sito internet della procura, in un passaggio della Introduzione dedicato alla “Comunicazione della Procura” si segnala: “Per i casi di significativo interesse pubblico, è stata privilegiata la comunicazione con lo strumento del comunicato stampa emesso dal Procuratore e diffuso con la massima tempestività possibile consentita dal livello di discovery raggiunto, anche al fine di garantire parità di accesso a tutti i media. Nel periodo in esame sono stati diffusi numerosi comunicati stampa. In occasione di indagini di particolare rilievo al comunicato stampa è seguita una conferenza stampa, tenuta negli uffici della Procura della Repubblica, con la partecipazione dei responsabili della o delle forze di PG interessate. L’obiettivo è di fornire all’opinione pubblica una informazione il più possibile completa su quegli aspetti della indagine che non sono più coperti da segreto e sempre nel rispetto della presunzione di non colpevolezza. Il rispetto della dignità delle persone ha comportato, d’intesa con le forze di polizia, la adozione di precise prassi operative per evitare la ripresa fotografica o televisiva di persone al momento dell’arresto. Nel quinquennio, nonostante siano stati eseguiti numerosi arresti in tema di criminalità mafiosa, terrorismo, corruzione e criminalità economica suscettibili di grande risonanza mediatica, in nessuna occasione vi è stata la diffusione di immagini delle persone”. Ma è sufficiente una rapida ricerca sul web per trovare diverse riprese filmate degli arrestati. Altrettanto frequente è la diffusione delle foto segnaletiche degli arrestati sia da parte delle autorità di polizia, sia anche nel corso di conferenze stampa tenute con la presenza del procuratore della Repubblica. Tre esempi recenti sul web: l’Operazione Gorgòni, Catania 28 novembre 2017; l’Operazione Metauros, Reggio Calabria 5 ottobre 2017; il Blitz Contatto, Lecce 5 settembre 2017. In questo contesto è tanto più apprezzabile la iniziativa del procuratore di Napoli, sia per la puntuale motivazione sia per le precise disposizioni impartite. Può essere utile una rassegna della normativa per evidenziarne la inosservanza nella prassi. Con l’art. 14, comma 2 della legge 16 dicembre 1999, n. 479 è stato introdotto un nuovo comma 6 bis all’art. 114 cpp: “È vietata la pubblicazione dell’immagine di persona privata della libertà personale ripresa mentre la stessa si trova sottoposta all’uso di manette ai polsi ovvero ad altro mezzo di coercizione fisica, salvo che la persona vi consenta”. Per la risposta sanzionatoria rimane operante l’art. 115 cpp: “Violazione del divieto di pubblicazione. Salve le sanzioni previste dalla legge penale, la violazione del divieto di pubblicazione previsto dagli artt. 114 e 329 comma 3 lettera b) costituisce illecito disciplinare esercenti una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato. Di ogni violazione del divieto di pubblicazione commessa dalle persone indicate nel comma 1 il pubblico ministero informa l’organo titolare del potere disciplinare”. Non risultano segnalazioni del pubblico ministero e tantomeno iniziative disciplinari a fronte della non infrequente pubblicazioni di foto e riprese di arrestati in manette, talora, ma non sempre, con l’ipocrita accorgimento delle manette “pixelate” e dunque paradossalmente ancor più sottolineate. Eppure vige da tempo il Codice di deontologia relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica (Provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali del 29 luglio 1998, Gazzetta Ufficiale 3 agosto 1998, n. 179) che prevede: “Art. 8. Tutela della dignità delle persone. Salva l’essenzialità dell’informazione, il giornalista non fornisce notizie o pubblica immagini o fotografie di soggetti coinvolti in fatti di cronaca lesive della dignità della persona, né si sofferma su dettagli di violenza, a meno che ravvisi la rilevanza sociale della notizia o dell’immagine. Salvo rilevanti motivi di interesse pubblico o comprovati fini di giustizia e di polizia, il giornalista non riprende né produce immagini e foto di persone in stato di detenzione senza il consenso dell’interessato. Le persone non possono essere presentate con ferri o manette ai polsi, salvo che ciò sia necessario per segnalare abusi”. È interessante segnalare che in Francia la legge n. 2000- 516 del 15 giugno 2000, intitolata al rafforzamento della presunzione di innocenza e dei diritti delle vittime, all’art. 92 ha introdotto un nuovo articolo 35-ter alla legge del 29 luglio 1881 sulla libertà di stampa: “Salvo che sia realizzata con il consenso dell’interessato, la diffusione, con qualunque mezzo o supporto, dell’immagine di una persona identificata o identificabile soggetta ad una procedura penale, ma non ancora condannata, che la mostri sottoposta all’uso di manette ovvero ad altro mezzo di coercizione fisica, ovvero mentre viene posta in detenzione provvisoria, è punita con l’ammenda di 100.000 F”. La stessa legge del 2000 ha modificato l’art. 803 del codice di procedura penale nei termini seguenti: “Nessuno può essere sottoposto all’uso di manette ovvero ad altro mezzo di coercizione fisica, salvo che sia considerato pericoloso per sé o per gli altri o suscettibile di tentare la fuga. In queste ipotesi devono esser adottate tutte le misure utili, compatibilmente con le esigenze di sicurezza, ad evitare che la persona sottoposta all’uso di manette ovvero ad altro mezzo di coercizione fisica, sia fotografata o soggetta a ripresa audiovisiva”. Una rapida ricerca sui siti web francesi non fa emergere casi di diffusione di foto segnaletiche o di persone ammanettate; è pubblicata una ripresa video di violenze da parte della polizia in servizio di ordine pubblico nei confronti di persone arrestate e ammanettate nel corso di una manifestazione in Place de la Republique il 28 aprile 2016. Il tema è stato riproposto con particolare evidenza nel 2011 quando il Consiglio superiore dell’audiovisivo (Csa) ha ritenuto che non fossero pubblicabili in Francia le foto diffuse negli Stati Uniti in occasione dell’arresto di Dominique Strauss Kahn. Le foto e le riprese televisive, largamente diffuse, in Italia hanno mostrato Dominique Strauss Kahn in manette deliberatamente e ripetutamente offerto alle riprese giornalistiche dalle autorità di polizia secondo la pratica cosiddetta del “perp walk”, controversa ma largamente diffusa. Il termine “perp” è una abbreviazione di “perpetrator”, con buona pace della presunzione di innocenza, trattandosi di persona arrestata dalla polizia e messa in pasto al pubblico prima ancora di essere presentata davanti al giudice. Gli esempi di “perp walk” sono numerosi: forse il più celebre è quello in cui Jack Ruby viene ripreso in diretta dalle Tv mentre spara ed uccide Lee Harvey Oswald, arrestato come sospetto assassino di J. F. Kennedy. A partire dagli anni 80 alla pratica del “perp walk” sono stati sottoposti anche “colletti bianchi”, soprattutto per iniziativa di Rudolph Giuliani. Se in Italia siamo ben distanti dalla barbarie del “perp walk” americano, il confronto con la Francia mostra quanto si debba operare ancora nel nostro Paese per eliminare prassi distorte. Eppure un monito forte ci è stato offerto oltre un decennio addietro dalla sentenza Cedu dell’ 11 gennaio 2005 Sciacca contro Italia, opportunamente citata nella circolare del procuratore di Napoli. La Corte ha ritenuto la violazione dell’art. 8 della Convenzione nella divulgazione alla stampa da parte della autorità di polizia della foto di una persona arrestata, in quanto ingerenza non giustificata nel diritto al rispetto della vita privata, non essendo necessaria per lo sviluppo delle indagini. Vi è da augurarsi che la meritoria iniziativa del procuratore Giovanni Melillo riesca ad innescare un circolo virtuoso tra magistratura, polizia e stampa. *Ex procuratore di Milano Salta il codice Anm su magistrati e uso di Facebook di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 16 gennaio 2018 Non c’è intesa tra le correnti: resta la libertà totale. Negli ultimi anni, con l’avvento dei social network, si è assistito ad un radicale cambiamento delle modalità di comunicazione che ha portato questi strumenti ad assumere un ruolo preponderante, nelle interazioni umane. Senza scomodare Umberto Eco (“i social danno diritto di parola a chi prima parlava al bar dopo un bicchiere di vino e poi veniva messo a tacere senza danneggiare la collettività”) la questione è diventata imprescindibile. E per evitare che si possano determinare “danni di immagine” in conseguenza di un uso improprio dei social, le amministrazioni pubbliche hanno nel tempo approvato apposite linee guida a cui i propri dipendenti devono attenersi scrupolosamente. In quasi tutti i codici di comportamento compare questa frase: “Il personale si astiene dall’esprimere, anche nell’ambito dei social network, giudizi o commenti che possano danneggiare la reputazione dell’Amministrazione e la fiducia dell’opinione pubblica”. Fra le amministrazioni che si sono dotate di codici di condotta non compare, però, la magistratura ordinaria. Fra le toghe italiche, al momento, vige “l’autogestione”. La scorsa settimana, l’Associazione nazionale magistrati, ha tentato di affrontare il tema, mettendo all’ordine del giorno una delibera che delegava la stessa Giunta esecutiva centrale ad avanzare una proposta in tal senso. Di fatto un modifica dello statuto dell’Anm. La discussione è stata subito rimandata a data da destinarsi per divergenze fra le correnti. La regolamentazione dell’uso dei social è stata più volte affrontata anche al Csm. Ma ogni tentativo in tal senso è sempre finito in un sostanziale nulla di fatto. Nessun consigliere togato in questi anni ha mai voluto intestarsi questa battaglia. Troppo elevato il rischio di inimicarsi la base con atteggiamenti “censori”. Ci provò il consigliere laico Pierantonio Zanettin, indicato da FI, senza trovare seguito. Quando qualche magistrato esagera su Facebook, dopo l’iniziale clamore mediatico, la situazione rientra in virtù della citata “autogestione”. Vedasi il pm che di Imperia che faceva apprezzamenti sull’aspetto fisico di Gabriel Garko o quello di Trani che, dopo il flop della sua inchiesta sulle agenzie di rating, si sfogava con i suoi follower lamentando di “essere stato lasciato solo” Oppure il giudice di Trieste che sparava a zero contro la governatrice del Pd Debora Serracchiani (“un errore della Storia”), fino al presidente del Tribunale di Bologna che ha assimilato ai “repubblichini” chi era favorevole al referendum costituzionale. Una tirata d’orecchie o poco più. Il motivo? La libertà di pensiero che deve essere garantita a chiunque. E quindi anche ad una toga. Libertà che, comunque, necessita di limitazioni imposte da esigenze di carattere istituzionale. In soccorso dell’Anm potrebbe venire l’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, la quale, una volta riconosciuta al primo comma ad ogni persona la libertà d’espressione, intesa come libertà d’opinione e libertà di ricevere e di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera, prevede al secondo comma che “l’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge”. Si può, si potrebbe, ma per ora il tema non pare scuotere più di tanto la magistratura, né quella associata né il suo organo di autogoverno. Al comitato direttivo centrale di sabato dell’Anm, ci si è soffermati con maggiore risolutezza su altre due questioni: l’accesso alla funzione di magistrato - tema riproposto dalla vicenda della scuola di formazione dell’ex consigliere di Stato Francesco Bellomo, destituito nei giorni scorsi dalle funzioni - e la norma sul rientro in servizio dei “togati” del Csm. È stata la discussione su quest’ultimo tema, in particolare, a mettere in evidenza una diffusa preoccupazione, tra le correnti, per i danni all’immagine dei magistrati. Tanto che il comunicato approvato all’unanimità da tutti i gruppi, al termine del direttivo, ha sollecitato la politica a “ripristinare il regime normativo abrogato”, che prevedeva un periodo cuscinetto di un anno, dopo il mandato a Palazzo dei Marescialli, prima di poter assumere incarichi direttivi o fuori ruolo. L’Anm ha invitato inoltre i “consiglieri uscenti e i candidati alle prossime elezioni del Csm” a “non avvalersi delle prerogative di cui alla modifica normativa”. Trattativa Stato-mafia. Le tesi farlocche dei pm sul 41bis di Luca Rocca Il Tempo, 16 gennaio 2018 Vertici Dap sostituiti dopo il patto con Cosa Nostra? Ma il teorema non funziona: smentito da sentenze e decisioni politiche. Una delle tesi sostenuta nel processo sulla fantomatica “trattativa” Stato-mafia, già accennata dai pm, riguarda l’allontanamento di Nicolò Amato e del suo vice Edoardo Fazzioli dalla direzione del Dipartimento amministrazione penitenziaria, organo con ampi poteri sulle applicazioni del carcere duro, a cui subentrarono Adalberto Capriotti e, soprattutto, il collega Francesco Di Maggio. L’obiettivo, secondo i pm, era quello di allentare le morse di quel regime penitenziario attraverso la cacciata di chi lo applicava con fermezza. Scopo: andare incontro alle richieste della mafia in nome, ovviamente, della “trattativa”. La sostituzione di Amato avvenne il 4 giugno del 1993 su provvedimento del ministro della Giustizia Giovanni Conso (a cui i pm imputano di non aver rinnovato, nel novembre del 1993, 334 decreti di 41bis) ma su suggerimento, sostengono ancora i pm, dell’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scal-faro (ministro dell’Interno, in quel momento, era Nicola Mancino, anche lui presunto “complice” dei “trattativisti”). I fatti, però, dimostrano che anche sui motivi che portarono all’avvicendamento al Dap la tesi dei magistrati non regge nemmeno un po’. Assolvendo l’ex ministro Calogero Mannino dall’accusa di essere stato l’iniziatore della “trattativa”, ad esempio, il Gup riporta una nota dell’epoca nella quale Amato scriveva che il 41bis era sì “giustificato dalla necessità” di dare alla mafia, dopo gli eccidi di Capaci e di via D’Amelio, “una risposta ferma”, ma che “la legge configurava il ricorso al regime applicato con i decreti di 41bis come uno strumento emergenziale e temporaneo, che non poteva essere protratto indefinitamente ed assurgere a normale regime penitenziario, non potendosi giustificare al di fuori delle eccezionali situazioni che lo motivano e solo a criminali irrecuperabili e gravemente pericolosi”. E subito dopo l’allora capo del Dap proponeva di “rinunciare all’uso di questi decreti, salvo ricorrervi successivamente nella malaugurata, deprecabile ipotesi di un ripresentarsi delle situazioni eccezionali che li giustificano”. Inoltre, annota il Gup, Amato aggiungeva che “c’erano due strade per porre rimedio alla situazione determinatasi, quella di non confermare i decreti alla scadenza annuale, e quella, da lui preferita, di revocarli subito in blocco”, cosa che “avrebbe rappresentato un segnale di uscita da una situazione emergenziale e di ritorno a un regime penitenziario normale”. In sostanza, dunque, spiega il giudice, “Amato rivendicava una lettura completa e meno scandalistica della sua posizione, rispecchiata nell’insieme articolato di proposte di misure alternative, non inutilmente afflittive, ma, a suo dire, davvero funzionali alle finalità del carcere e ad impedire i contatti dei detenuti con l’organizzazione mafiosa”. Questa nota dell’ex direttore del Dap porta il Gup a concludere nell’unico modo possibile: “La vicenda Amato appare emblematica di come elementi di sospetto, che non abbiano quindi una grave e autonoma natura indiziaria, se invece considerati come se possedessero tali connotati possono prestarsi ad interpretazioni facilmente ribaltabili e tutte analogamente plausibili e in fin dei conti prive di specifico valore dimostrativo processuale”. Questo perché, “ricorrendo a criteri indiziari elastici, come quelli utilizzati dal pm, avrebbero potuto individuarsi anche a carico di Amato una serie di situazioni sospette ed astrattamente indicative di una sua volontà di favorire l’abolizione del 41bis, con l’intento di favorire la mafia e quindi la trattativa”. Logica vuole, e il giudice lo scrive, che “nell’ottica indiziaria adottata dal pm”, la circostanza che il 4 giugno del 1993, dopo aver scritto quella nota, ad Amato venne revocato l’incarico di direttore del Dap, “potrebbe interpretarsi come una volontà del ministro o del governo di eliminare un oppositore del 41bis”, mentre “la circostanza che il ministro Conso a luglio, vale a dire alla prima scadenza annuale dei primi decreti di 41bis, rinnovò quei decreti (emessi all’indomani della strage Borsellino), potrebbe considerarsi una conferma della divergenza di vedute fra Amato e Conso e quindi come una conferma delle ora dette ragioni di rimozione di Amato”. In poche parole, il ragionamento dei pm che vede un direttore del Dap convinto sostenitore del 41bis cacciato dalla direzione per piazzarci un sostituto più morbido nell’applicazione del carcere duro, non sta in piedi non solo perché, come dimostra la nota citata, non è vero che Amato fosse uno strenuo difensore di quel regime carcerario, ma soprattutto perché, data questa premessa, la sua sostituzione potrebbe dimostrare, al contrario, che Scalfaro e Conso, indicati dai pm come complici della “trattativa”, si erano voluti liberare di un direttore incerto sull’applicazione del carcere duro. Che è l’esatto opposto di quanto afferma la pubblica accusa. Fra l’altro, come detto, nel luglio del 1993, pochi giorni prima delle stragi di Roma e Milano, e quando Amato non era già più al comando del Dap, fu proprio Conso a rinnovare i decreti applicativi del 4Ibis in scadenza. Fece l’opposto, invece, nel novembre dello stesso anno, quando non rinnovò 334 decreti sul carcere duro. Ma se per i pm questo sarebbe un solido indizio della “trattativa” in corso, per il giudice che ha assolto Mannino non è affatto così: “La circostanza che tra il 27 e il 28 luglio dello stesso anno vi furono gli attentati di Roma e Milano - afferma, infatti, il Gup, e che dopo quegli attentati, a novembre, il ministro Conso, prendendo atto anche del loro collegamento con la strage dei Georgofili del maggio precedente, non rinnovò quei 334 decreti di 41bis, coerentemente dovrebbe deporre nel senso sostenuto da Conso, che la sua, cioè, fu una decisione autonoma, presa sotto la pressione del senso di responsabilità che gravava sulla sua coscienza”. Nuovo Codice antimafia, la stretta sui diritti dei terzi non è retroattiva di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 16 gennaio 2018 Corte di cassazione, Quinta sezione penale, sentenza 15 gennaio 2018 n. 1412. La riforma del Codice antimafia non è retroattiva. E, almeno per il momento, la banca tira un sospiro di sollievo. La stretta decisa con la legge n. 161 del 2017 quanto a tutela delle ragioni del terzo interessato da una miusura di prevenzione non si applica ai procedimenti in corso al 19 novembre. Lo ha chiarito la Corte di cassazione con la sentenza n. 1412 della Quinta sezione penale depositata ieri. La Corte ricorda innanzitutto che con la riforma di poche settimane fa si è proceduto a rendere più difficile l’esercizio del diritto reale di garanzia costituito in un’epoca antecedente il sequestro. Quello che in precedenza era alternativo, la mancanza di strumentalità del credito all’attività illecita e l’ignoranza in buona fede del collegamento stesso, adesso invece è cumulativo, nel senso che il mancato pregiudizio della misura di prevenzione scatta solo in presenza di entrambi gli elementi. E tuttavia, puntualizza la sentenza, questo vale solo per il futuro. Per il passato bisogna tenere presente l’esistenza della legge n. 228 del 2012 con la quale è stata introdotta una sorta di disciplina-ponte, alternativa cioè all’applicazione di quanto era stato disposto nel 2011 con il codice delle misure di prevenzione entrato in vigore il 13 ottobre 2011. Si tratta cioè di una disciplina delimitata sul piano cronologico, varata nel 2012 interessa i beni confiscati all’esito di un procedimento di prevenzione per i quali non è applicabile la disciplina del 2011, sempre che il bene stesso non sia stato trasferito o aggiudicato anche in via provvisoria. In questo senso i terzi, come le banche, titolari di diritti reali di garanzia, non vedevano pregiudicata la loro richiesta di ammissione al credito, a condizione di avere comunque presentato tempestivamente la domanda. La sentenza, fatta questa premessa, osserva allora che deve valere quanto già disposto dalla stessa Cassazione in suoi precedenti, dove si faceva notare come i diritti dei terzi sono pienamente esercitabili a condizione che non emerga l’eventuale strumentalità del credito all’attività illecita oppure la sua funzione di mezzo di riciclaggio. E nel merito il ricorso deve essere accolto perché non sono stati valutati elementi come il fatto che i mutuatari non erano stati sottoposti ad alcun procedimento di prevenzione. Tre anni di carcere e multa per chi traffica e maltratta cuccioli di cane di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 16 gennaio 2018 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 15 gennaio 2018 n. 1448. I cani così come gli altri animali hanno una loro dignità e meritano di essere rispettati e comunque non maltrattati. In caso contrario interviene il codice penale che all’articolo 544-ter prevede espressamente il carcere nonché multe pesanti per gli autori di atti violenti e gratuiti contro gli animali. Questo in estrema sintesi il contenuto della sentenza n. 1448/18 della Cassazione. La vicenda - La Corte si è trovata alle prese con una vicenda di notevole degrado, in cui un soggetto aveva maltrattato con crudeltà e senza necessità ben 112 cuccioli di cane. E le contestazioni contro l’uomo erano diverse. Irregolare importazione dall’Ungheria, mancanza di certificati veterinari, mancanza di ciotole per il cibo e per il beveraggio, assenza di spazi minimi vitali per i cuccioli, omesso soccorso verso i cuccioli ammalati e addirittura ritrovamenti di animali deceduti in posti impensabili quali frigoriferi in disuso. Sembrerebbe un film dell’horror eppure la vicenda secondo la puntuale descrizione dei Supremi giudici era proprio questa. Solo per continuare erano stati contraffatti i passaporti canini, in particolare su venti passaporti era stato apposto un timbro contraffatto di un veterinario ungaro che provvedeva all’inoculazione del microchip di riconoscimento del cane e all’attestazione sul passaporto, risultando quindi a seguito ad accertamenti a campione, la falsità del numero di microchip in quanto già attribuito ad altri, la falsità dell’età dei cuccioli. Irregolarità anche sulle attestazioni delle vaccinazioni antirabbiche. L’imputato si era difeso eccependo di non essere consapevole della contraffazione del timbro veterinario, mancata assunzione di prova decisiva ossia l’esame radiologico che avrebbe consentito in maniera più certa di ricostruire l’età del cucciolo, rispetto a quello della conformazione dentaria. Il ricorso è stato dichiarato inammissibile sulla base di numerose controdeduzioni che evidenziavano come gli animali fossero stati trattati in modo crudele. L’aggravante. Peraltro ricordano i Supremi giudici nessuna attenuante poteva essere concessa all’imputato dal momento che a seguito della vendita dei cuccioli circa il 30% era deceduto dopo poche settimane proprio a testimonianza delle condizioni in cui erano vissuti. E questo si legge nella sentenza integra il comma 3 dell’articolo 544-ter del cp secondo cui “la pena è aumentata della metà se dai fatti di cui al primo comma (ndr maltrattamenti) deriva la morte dell’animale”. Confermati - in definitiva - i 3 anni di carcere, il risarcimento nei confronti della parte civile costituta da determinarsi innanzi al giudice civile, nonché il pagamento di una provvisionale di 15mila euro. Non è reato la mancata contabilità di Debora Alberici Italia Oggi, 16 gennaio 2018 Rischia al massimo una sanzione amministrativa e non la responsabilità penale l’imprenditore che non ha mai tenuto la contabilità. Lo ha sancito la Corte di cassazione che, con la sentenza n. 1441 del 15 gennaio 2018, ha fornito un’interpretazione restrittiva dell’articolo 10 del dlgs 74 del 2000. A fare da ago della bilancia il principio di tassatività della legge penale. Per la terza sezione, infatti, la condotta sanzionata dall’art. 10 del dlgs n. 74 del 2000 è solo quella, espressamente contemplata dalla norma, di occultamento o distruzione delle scritture contabili obbligatorie e non anche quella della loro mancata tenuta, espressamente sanzionata in via meramente amministrativa dall’art. 9, comma 1, del dlgs n. 471 del 1997. Da ciò deriva che può essere configurata la fattispecie delittuosa di cui all’art. 10 cit. in quanto la documentazione contabile, di cui si assume l’occultamento o la distruzione, sia stata previamente istituita. La vicenda riguarda un imprenditore di Lecce accusato di non aver messo a disposizione degli inquirenti la contabilità per impedire la ricostruzione del volume d’affari. La Guardia di finanza aveva infatti rintracciato soltanto delle lettere di intenti con le quali la società si impegnava ad esportare alcolici all’estero. Il tribunale prima e poi la Corte d’appello lo avevano condannato per occultamento delle scritture contabili. Contro il doppio verdetto sfavorevole di merito la difesa ha presentato ricorso alla Suprema corte. E infatti i documenti non erano mai stati istituiti quindi non poteva esistere uno degli elementi fondamentali del reato: l’occultamento. La terza sezione penale ha quindi annullato la condanna resa dai giudici di merito pugliesi rinviando la causa per una nuova decisione alla Corte d’appello di Lecce. La norma contenuta nell’articolo 10 del dlgs 74 del 2000 va letta in modo restrittivo e l’imprenditore potrà al massimo essere punito con una sanzione amministrativa e non con il carcere. Contrasto tra dispositivo e motivazione nella sentenza penale. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 16 gennaio 2018 Sentenza penale - Dispositivo e motivazione non contestuali - Contrasto - Carattere unitario della sentenza - Contemperamento - Necessità. In caso di contrasto tra due parti della sentenza, la motivazione conserva sempre la sua funzione di spiegazione e chiarimento delle ragioni per cui il giudice a quo è pervenuto alla sua decisione e, pertanto, ben può contenere elementi certi e logici che facciano ritenere errato il dispositivo o parte di esso. Invero, nell’ipotesi di contrasto tra dispositivo e motivazione non contestuali, il carattere unitario della sentenza nella quale l’uno e l’altra si integrano a vicenda, non sempre determina l’applicazione del principio generale della prevalenza del dispositivo per via della sua natura di immediata espressione della volontà decisoria del giudice. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 15 novembre 2017 n. 52048. Sentenza penale - Dispositivo e motivazione - Errore nel dispositivo - Contrasto apparente - Carattere unitario della sentenza - Contemperamento - Necessità. Laddove nel dispositivo della sentenza ricorra un errore materiale oggettivamente riconoscibile, il contrasto con la motivazione della medesima decisione è meramente apparente: è dunque consentito fare riferimento a quest’ultima per determinare l’effettiva portata del dispositivo, individuando l’errore che lo affligge ed eliminandone gli effetti. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 15 novembre 2017 n. 52048. Sentenza penale - Sentenza penale (in genere) - Contrasto tra dispositivo e motivazione della sentenza - Prevalenza del prima - Motivazione - Volontà del giudice. In caso di contrasto tra dispositivo e motivazione della sentenza, la regola della prevalenza del primo quale immediata espressione della volontà del giudice non è assoluta ma va contemperata, tenendo conto del caso specifico, con la valutazione dell’eventuale pregnanza degli elementi tratti dalla motivazione significativi di detta volontà. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 17 febbraio 2017 n. 7680. Sentenza - Requisiti - In genere - Contrasto fra motivazione e dispositivo - Prevalenza del dispositivo - Regioni - Fattispecie. In caso di difformità tra dispositivo e motivazione, il primo prevale sulla seconda, in quanto il dispositivo costituisce l’atto con il quale il giudice estrinseca la volontà della legge nel caso concreto, mentre la motivazione ha una funzione esplicativa della decisione adottata. (Fattispecie in cui la corte territoriale, pur avendo dichiarato estinti per prescrizione due dei tre reati per i quali vi era stata condanna in primo grado, non aveva provveduto ad eliminare la quota parte di pena pecuniaria e detentiva ad essi riferibile; nell’affermare il principio, la S.C. ha ritenuto di non poter procedere direttamente alla rideterminazione del trattamento sanzionatorio, non essendo stati esplicitati, dal giudice di merito, i riferimenti relativi ai singoli aumenti da eliminare). • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 19 aprile 2016 n. 15986. Sentenza - Penale - Contrasto - Dispositivo - Motivazione - Prevalenza - Dispositivo. In tema di sentenza penale, nel caso di contrasto tra motivazione e dispositivo, va ritenuta la prevalenza del dispositivo, in particolare del dispositivo letto in udienza. Peraltro, l’interpretazione va effettuata attraverso una completa integrazione delle due parti del provvedimento, alla luce delle argomentazioni contenute nella parte motiva, attesa la sua funzione di spiegazione e chiarimento delle ragioni che hanno portato il giudice alla decisione e pertanto ben può contenere elementi certi e logici, utili per dirimere il contrasto. • Corte d’Appello di Roma, sezione III, sentenza 20 giugno 2017 n. 5017. Lazio: bando per il sostegno all’inclusione socio-lavorativa della popolazione detenuta lazioeuropa.it, 16 gennaio 2018 La Regione Lazio ha adottato l’Avviso pubblico, a valere sul Por Fse 2014-2020, denominato “Interventi di sostegno alla qualificazione e all’occupabilità delle risorse umane: sostegno all’inclusione socio-lavorativa della popolazione detenuta”. Attraverso l’Avviso si intende rafforzare l’integrazione sociale e lavorativa della popolazione detenuta, sostenendo l’implementazione di interventi che dovrebbero favorire percorsi di reinserimento sociale del condannato, anche nella prospettiva di dare concretezza alla più ampia strategia per la coesione sociale del capitale umano dell’intero territorio regionale. L’Avviso si propone pertanto di attuare una serie di progetti finalizzati a sostenere l’inclusione sociale delle persone maggiormente vulnerabili, rafforzandone l’occupabilità, attraverso iniziative di formazione professionale e di valorizzazione delle capacità di inserimento e reinserimento lavorativo, che tengano conto delle particolari condizioni di fragilità delle singole situazioni personali, attraverso un set di azioni (orientamento, formazione, certificazione delle competenze, tirocinio, esperienze di lavoro) che consentono di sostenere, in termini di efficacia, la futura ed effettiva inclusione sociale e lavorativa dei destinatari. In particolare, si prevede di finanziare due Azioni che si attiveranno in fasi successive, ovvero la realizzazione di corsi di formazione (Azione 1) e successivamente di tirocini extracurriculari (Azione 2). L’iniziativa è cofinanziata con le risorse del Fondo Sociale Europeo del POR Lazio 2014/2020 ed è attuata nell’ambito Asse 2 - Inclusione sociale e lotta alla povertà. L’importo complessivamente stanziato è 627.000 euro. Il presente Avviso disciplina la presentazione di proposte progettuali relative all’Azione 1. Il proponente dovrà inoltre dichiarare la sua disponibilità a svolgere un’attività di promozione per l’eventuale realizzazione di tirocini extracurriculari (Azione 2) destinati ai detenuti indicati dagli Istituti penitenziari di riferimento. Tali tirocini saranno realizzati con ulteriori risorse previste all’interno del “Piano strategico per l’empowerment della popolazione detenuta”, in aggiunta a quelle indicate al paragrafo 7 del presente Avviso. Possono presentare proposte progettuali gli Operatori della Formazione, da soli o in forma associata (Ati/Ats), anche in partenariato con altri soggetti quali enti o associazioni di promozione sociale impegnati in progetti e/o percorsi di sostegno e accompagnamento al reinserimento sociale a favore della rieducazione delle persone in esecuzione penale, aventi almeno una sede operativa nella regione Lazio. Sono destinatari dell’Avviso tutte le persone sottoposte a provvedimenti dell’Autorità giudiziaria di limitazione o restrizione della libertà individuale, detenute e internate nei diversi Istituti del territorio regionale, come elencati nella Scheda tecnica allegata all’Avviso. I progetti devono essere presentati esclusivamente attraverso la procedura telematica accessibile dal sito regione.lazio.it/sigem. La procedura di presentazione del progetto è da ritenersi conclusa solo all’avvenuta trasmissione di tutta la documentazione prevista dall’avviso, da effettuarsi a partire dalle ore 9 del 18 gennaio 2018 ed entro le ore 17:00 del 20 febbraio 2018. Per fornire assistenza e supporto anche in fase di presentazione delle proposte è possibile scrivere al seguente indirizzo di posta elettronica, a partire dal secondo giorno di pubblicazione dell’Avviso e fino a tre giorni prima di ciascuna scadenza per la presentazione delle proposte: avvisoristretti@regione.lazio.it, e al tel. 06 5168 4947. Barcellona Pozzo di Gotto (Me): suicida in cella un detenuto romeno di 40 anni Comunicato Sappe, 16 gennaio 2018 Ha deciso di togliersi la vita impiccandosi nella sua cella della Casa Circondariale di Barcellona Pozzo di Gotto, nel Messinese, dov’era detenuto da una decina di giorni. La notizia è diffusa dal Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria. Vito Fazio, segretario del Sappe barcellonese, commenta: “L’uomo, di circa 40 anni, rumeno, era in osservazione psichiatrica e si è suicidato, impiccandosi, in cella. L'Agente di Polizia Penitenziaria di servizio si è accorto dell'accaduto e ha dato l'allarme. Purtroppo sono stati vani i tentativi di soccorso per rianimarlo, anche con l'ausilio di altri colleghi e dello staff infermieristico. Il suicidio è spesso la causa più comune di morte nelle carceri. Gli istituti penitenziari hanno l’obbligo di preservare la salute e la sicurezza dei detenuti, e l’Italia è certamente all’avanguardia per quanto concerne la normativa finalizzata a prevenire questi gravi eventi critici. Ma il suicidio di un detenuto rappresenta un forte agente stressogeno per il personale di polizia e per gli altri detenuti. Per queste ragioni un programma di prevenzione del suicidio e l’organizzazione di un servizio d’intervento efficace sono misure utili non solo per i detenuti ma anche per l’intero istituto dove questi vengono implementati. E’ proprio in questo contesto che viene affrontato il problema della prevenzione del suicidio nel nostro Paese. Ma ciò non impedisce, purtroppo, che vi siano ristretti che scelgano liberamente di togliersi la vita durante la detenzione”. Donato Capece, segretario generale del Sappe, aggiunge: “Questo nuovo drammatico suicidio di un altro detenuto, il secondo in 24 ore dopo l’uomo morto in cella nel carcere di Civitavecchia, evidenzia come i problemi sociali e umani permangono, eccome!, nei penitenziari, lasciando isolato il personale di Polizia Penitenziaria (che purtroppo non ha potuto impedire il grave evento) a gestire queste situazioni di emergenza. Si consideri che negli ultimi 20 anni le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria hanno sventato, nelle carceri del Paese, più di 18mila tentati suicidi ed impedito che quasi 133mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze”. Amara la conclusione del Sappe: “Il sistema delle carceri non regge più, è farraginoso. E’ vero quel che ha detto durante la consueta conferenza stampa di fine anno il Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, ossia che avere un sistema carcerario più moderno e più umano aiuta la sicurezza. Ma oggi la realtà in Italia non è affatto così. Oggi, nelle 190 prigioni del Paese, sono presenti oltre 57.600 detenuti, quasi 20mila dei quali sono gli stranieri, ossia ben oltre la capienza regolamentare, e gli eventi critici tra le sbarre (atti di autolesionismo, risse, colluttazioni, ferimenti, tentati suicidi, aggressioni ai poliziotti penitenziari) si verificano quotidianamente con una spaventosa ciclicità. E da tempo il Sappe denuncia, inascoltato, che la sicurezza interna delle carceri è stata annientata da provvedimenti scellerati come la vigilanza dinamica e il regime aperto, l’aver tolto le sentinelle della Polizia Penitenziaria di sorveglianza dalle mura di cinta delle carceri, la mancanza di personale - visto che le nuove assunzioni non compensano il personale che va in pensione e che è dispensato dal servizio per infermità, il mancato finanziamento per i servizi anti intrusione e anti scavalcamento. La realtà è che sono state smantellate le politiche di sicurezza delle carceri preferendo una vigilanza dinamica e il regime penitenziario aperto, con detenuti fuori dalle celle per almeno 8 ore al giorno con controlli sporadici e occasionali, con detenuti di 25 anni che incomprensibilmente continuano a stare ristretti in carceri minorili. Mancano Agenti di Polizia Penitenziaria e se non accadono più tragedie più tragedie di quel che già avvengono è solamente grazie agli eroici poliziotti penitenziari, a cui va il nostro ringraziamento. Ed allora si comprenderà perché da tempo il Sappe dice che nelle carceri c’è ancora tanto da fare: ma senza abbassare l’asticella della sicurezza e della vigilanza, senza le quali ogni attività trattamentale è fine a se stessa e, dunque, non organica a realizzare un percorso di vera rieducazione del reo”. Civitavecchia (Rm): detenuto polacco di 40 anni si impicca in cella romatoday.it, 16 gennaio 2018 Ha deciso di togliersi la vita impiccandosi alla finestra della cella della Casa Circondariale di Civitavecchia dov’era detenuto da agosto perché imputato di spaccio di droga. La notizia è diffusa dal Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria. Maurizio Somma, segretario nazionale Sappe per il Lazio: “L’uomo, di 40 anni, polacco, era giunto in carcere ad agosto e si è suicidato, impiccandosi, in cella. L’Agente di Polizia Penitenziaria di servizio si è accorto dell’accaduto e ha dato l’allarme. Purtroppo sono stati vani i tentativi di soccorso per rianimarlo, anche con l’ausilio di altri colleghi e dello staff infermieristico”. Donato Capece, segretario generale del Sappe, commenta: “Questo nuovo drammatico suicidio di un altro detenuto evidenzia come i problemi sociali e umani permangono, eccome, nei penitenziari, lasciando isolato il personale di Polizia Penitenziaria (che purtroppo non ha potuto impedire il grave evento) a gestire queste situazioni di emergenza. Il suicidio è spesso la causa più comune di morte nelle carceri. Gli istituti penitenziari hanno l’obbligo di preservare la salute e la sicurezza dei detenuti, e l’Italia è certamente all’avanguardia per quanto concerne la normativa finalizzata a prevenire questi gravi eventi critici. Ma il suicidio di un detenuto rappresenta un forte agente stressogeno per il personale di polizia e per gli altri detenuti. Per queste ragioni un programma di prevenzione del suicidio e l’organizzazione di un servizio d’intervento efficace sono misure utili non solo per i detenuti ma anche per l’intero istituto dove questi vengono implementati. È proprio in questo contesto che viene affrontato il problema della prevenzione del suicidio nel nostro Paese. Ma ciò non impedisce, purtroppo, che vi siano ristretti che scelgano liberamente di togliersi la vita durante la detenzione”. “Negli ultimi 20 anni le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria hanno sventato, nelle carceri del Paese, più di 18mila tentati suicidi ed impedito che quasi 133mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze - aggiunge il leader nazionale del primo Sindacato del Corpo. Il dato oggettivo è che la situazione nelle carceri resta allarmante. Altro che emergenza superata”. Sistema della carceri farraginoso - Amara la conclusione del Sappe, che ha già formalmente chiesto la revoca immediata della disposizione del Dap: “Il sistema delle carceri non regge più, è farraginoso. È vero quel che ha detto durante la consueta conferenza stampa di fine anno il Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, ossia che avere un sistema carcerario più moderno e più umano aiuta la sicurezza. Ma oggi la realtà in Italia non è affatto così. Oggi, nelle 190 prigioni del Paese, sono presenti oltre 57.600 detenuti, quasi 20mila dei quali sono gli stranieri, ossia ben oltre la capienza regolamentare, e gli eventi critici tra le sbarre (atti di autolesionismo, risse, colluttazioni, ferimenti, tentati suicidi, aggressioni ai poliziotti penitenziari) si verificano quotidianamente con una spaventosa ciclicità”. Asti: detenuti in digiuno per protesta contro il freddo in cella lanuovaprovincia.it, 16 gennaio 2018 Seppur in un italiano un po’ stentato, il senso della protesta è chiaro: “Stiamo facendo lo sciopero della fame perché siamo al freddo”. Arriva dal carcere di Quarto e a firmarla è uno dei detenuti del circuito dell’alta sicurezza. È datata agli inizi di gennaio e la denuncia che contiene è molto semplice: al carcere di Quarto da novembre alla data della lettera, non c’era acqua calda, né nelle celle né nelle docce comuni e il riscaldamento non funzionava. Parla di “freddo totale”, il detenuto ironizzando sull’essere in “celle frigorifere” ricordando i giorni in cui la temperatura è scesa anche di molti gradi sotto zero. “Ci trattano come bestie” chiude la lettera, chiedendo che qualcuno faccia sapere l’inizio dello sciopero della fame per il freddo. La conferma è arrivata dal Garante regionale per i Detenuti il cui ufficio è presieduto da Bruno Mellano. A verifica della notizia, “ci hanno comunicato dal carcere che il problema, che riguardava sia i detenuti che gli stessi operatori, è stato risolto da una settimana con la sostituzione delle caldaie, dunque ora riscaldamento e acqua calda sono normalmente disponibili e anche lo sciopero è cessato”. Risolto questo, rimangono altri problemi in piedi segnalati già in passato anche dallo stesso Garante regionale (mentre si attende la nomina di quello comunale da parte della nuova amministrazione). Uno è anch’esso segnalato nella lettera e riguarda i disagi per i famigliari che vanno ai colloqui con i detenuti e non dispongono di una sala d’attesa né di servizi sanitari dedicati. Nel dossier aggiornato a dicembre sulle carceri piemontesi, poi, si parla della lunga e travagliata conversione del carcere di Quarto da casa circondariale per detenuti comuni a casa di reclusione per detenuti in regime di alta sicurezza. “Tuttora si registra la mancanza di spazi significativi ed adeguati da dedicare alla socializzazione o utilizzabili per laboratori formativi e scolastici, incontri culturali, attività lavorative che, in un carcere di alta sicurezza sono indispensabili e prioritari - scrive il Garante nella sua relazione. Si era suggerita la realizzazione di fabbricati in economica utilizzando moduli prefabbricati che potrebbero trovare posto sulle aree attigue all’edificio già dedicato alla formazione e alla scuola - suggerisce aggiungendo anche - bisogna riconsiderar e l’utilizzo di spazi esistenti e dedicati ad attività ora non più compatibili con il target attuale dei ristretti ed occupati da strumentazione importante oggi inutilizzata”. Catania: progetto carcere, imprenditori incontrano i detenuti di Bicocca siciliaedonna.it, 16 gennaio 2018 Professionisti e imprenditori incontreranno detenuti in regime di alta sicurezza per mettere in relazione le rispettive esperienze. È questo il cuore del Progetto carcere, una convenzione stipulata tra il Rotary Club “Catania Etna Centenario” e l’istituto penitenziario di Bicocca. L’obiettivo finale è quello di non considerare il carcere come un luogo lontano dalla città e avviare percorsi di riavvicinamento e continuo dialogo. “Crediamo che questa, grazie al contributo della società, sia una via per la riabilitazione dei detenuti”, afferma Yolanda Medina Diaz, presidente del “Catania Etna Centenario”. A lei fa eco Giovanni Rizza, direttore dal 1997 del penitenziario etneo. “Spesso si avverte una condizione di distacco, di distanza dal resto della città. Bicocca viene considerata l’estrema periferia di Catania - continua - Pensare al carcere è considerato quasi inutile. In realtà così non è”. La casa circondariale di Bicocca ospita in media 240 tra imputati e condannati per reati gravi. Il Progetto carcere ha preso il via a novembre e prevede due incontri al mese con medici, avvocati, docenti, imprenditori. “Questi professionisti parlano della propria esperienza e si confrontano con i detenuti - descrive Giovanni Rizza - Nascono dei dialoghi interessanti, non necessariamente legati a temi come quello della giustizia e c’è un forte interesse da parte dei partecipanti”. Secondo il dirigente, “l’iniziativa del Rotary, con persone che si mettono in gioco in prima persona, ha un impatto molto forte”. Alla base della convenzione c’è la volontà di ampliare quella rete che dovrebbe circondare e sostenere il mondo carcerario. Un reticolo formato sì da forze dell’ordine e servizi sociali, ma anche da elementi che possano diventare un’opportunità di crescita e reintegro per le persone che poi terminano il percorso detentivo. “La riabilitazione e la rieducazione sono delle cose complesse”, riflette Rizza. “L’esperienza ci ha fatto capire che la formazione lavorativa concreta su certuni ha creato delle opportunità una volta fuori”. Si tratta di casi numericamente ridotti, riconosce il dirigente, “ma esistono. Si possono creare delle opzioni, si possono ottenere dei risultati”. Padova: lavoro al posto del carcere, un patto con otto Comuni del cittadellese di Michelangelo Cecchetto Il Gazzettino, 16 gennaio 2018 Sono state 17 le persone che nel corso del 2017 hanno svolto a Cittadella lavori di pubblica utilità, andando così a convertire una pena pecuniaria o detentiva in attività i cui benefici sono andati a favore di tutta la comunità. Questo è possibile grazie ad una particolare convenzione che il Comune di Cittadella ha stipulato con il Tribunale di Padova. Convenzione che è stata rinnovata pochi giorni fa, il 22 dicembre scorso, ampliandola anche con la previsione dell’istituto della messa alla prova. Si tratta di una modalità alternativa di definizione del processo, attivabile sin dalla fase delle indagini preliminari, con la quale è possibile pervenire ad una pronuncia di proscioglimento per estinzione del reato, laddove il periodo di prova cui acceda l’indagato, o imputato, ammesso dal giudice in presenza di determinati presupposti normativi, si concluda con esito positivo. Ma c’è di più, sempre l’Amministrazione cittadina, nell’ottica della collaborazione con i Comuni contermini, dà la possibilità di svolgere i lavori di pubblica utilità, non più esclusivamente ai residenti nella città murata. È stato perciò escluso il vincolo territoriale della residenza anagrafica nel Comune di Cittadella, ampliandola a chi abbia domicilio o residenza in altri Comuni, purché associati o convenzionati con lo stesso Comune di Cittadella, per la gestione coordinata di servizi pubblici da erogare in favore della comunità”, recita la delibera di Giunta del 10 gennaio scorso. I lavori svolti fino ad ora hanno visto i cittadini impegnati in lavori di pulizia di spazi e aree pubbliche, giardinaggio, altre attività con il personale tecnico del Comune ed anche mansioni all’interno degli uffici. Tutto sulla base di una precisa valutazione della persona che viene assicurata e fornita degli ausili necessari al lavoro da svolgere. La decisione di aprire anche a non residenti è stata adottata nella considerazione delle continue richieste di disponibilità per l’ammissione a svolgere lavori di pubblica utilità o di messa alla prova da parte di non cittadellesi. “Si tratta degli altri otto Comuni con i quali Cittadella compone il Distretto di Polizia locale PD1A - spiega il sindaco Luca Pierobon. È giusto dare una possibilità di fare del bene alla comunità alle persone che hanno compiuto un atto sbagliato ed in questo modo vanno a riparare. Nello stesso periodo potranno essere impegnate fino ad un massimo di dieci persone”. Torino: qualcuno “adotti” il bus del carcere di Mariachiara Giacosa La Repubblica, 16 gennaio 2018 L’appello è dell’associazione la Brezza, che l’ha attrezzato e dipinto insieme ai detenuti sette anni fa, per farne una ludoteca destinata ai bimbi in attesa di incontrare i genitori alle Vallette. Ma non l’ha mai usato nessuno e da anni è abbandonato in fondo al cortile del carcere. Destinato agli incontri tra i reclusi e i loro figli è stato “superato” da un altro progetto e ora è abbandonato in un cortile del carcere. Doveva essere la ludoteca per i figli dei detenuti del carcere di Torino, e invece quel pullman multicolore regalato da Iveco ormai sei anni fa è parcheggiato in fondo al cortile delle Vallette. Abbandonato e da qualche tempo neppure più funzionante. “Un’occasione persa” secondo Lucia Sartoris, presidente dell’associazione la Brezza che si gestisce laboratori di espressione creativa all’interno dell’istituto di pena e che nel 2012 aveva lanciato il progetto di creare uno spazio di gioco dove i bambini potevano attendere il proprio turno per il colloquio con i genitori reclusi. “Avevamo chiesto in regalo quell’autobus e con un anno e mezzo di lavoro gli ospiti delle Vallette l’avevano sistemato - racconta Sartoris - dipinto all’esterno con le vernici giuste e allestito all’interno in modo che potesse ospitare giochi e attività per i più piccoli”. Una volta pronto, però, non è stato possibile collocarlo: lo spazio previsto era occupato da macerie. “Nel frattempo il Politecnico mi aveva presentato un progetto di restyling di un’area verde molto estesa, con singole postazioni di colloquio”, racconta Domenico Minervini, diventato direttore del carcere quando il pullman era già attrezzato, ma senza destinazione. “Lo spazio che abbiamo adesso è molto più bello e funzionale - spiega - però certo è un peccato che quel autobus si deteriori in fondo al nostro cortile e che nessuno possa usarlo”. Di idee in questi anni i volontari della Brezza se ne sono fatte venire parecchie, ma il bus multicolor non è ancora riuscito a uscire da dietro le sbarre. “Era stato incluso in un piano di rilancio dell’area di Ponte Mosca - racconta ancora la presidente Sartoris - ma poi è naufragato tutto. C’era stato l’interesse della Circoscrizione 2 per farne uno spazio di attività del quartiere, ma alla fine hanno rinunciato. E persino l’ospedale Regina Margherita ci aveva buttato l’occhio, ma alla fine ha dovuto rinunciare in mancanza di un’area adatta in cui parcheggiarlo”. Insomma nessuno lo vuole, eppure farebbe comodo a molti. “Facciamo un appello alle associazioni che cercano spazi per attività creative o laboratori teatrali: il pullman multicolor è attrezzato e disponibile. E anche l’associazione Brezza - conclude la presidente - è disponibile a collaborare in attività che consentano di non sprecare il grande lavoro fatto per questo bus e il progetto creativo a cui hanno lavorato in tanti”. Brindisi: “mio marito recluso al Cie di Restino, lo voglio a casa con me” di Roberta Grassi Quotidiano di Puglia, 16 gennaio 2018 È tornata a casa, a Sorrento. Da sola. Jasvir, suo marito, è ancora “ristretto” al Centro di identificazione ed espulsione di Restinco, nonostante sia ormai sposato con un’italiana dallo scorso sabato. La storia di Gelsomina e del suo amore indiano, che non ha potuto neppure partecipare al ricevimento nuziale, non ha ancora un lieto fine. Manca di un “e vissero felici e contenti” che potrà essere sancito unicamente dal rilascio del permesso di soggiorno per motivi familiari. Nel frattempo lei attende risposte, non può far altro. Non può andare a fargli visita al Cie, come invece sarebbe consentito alla moglie di un detenuto in carcere. Attende che le istanze, le decine di spiegazioni date a uomini in divisa e a giudici di pace, trovino finalmente accoglimento e condivisione. “Jasvir è una persona molto amata dai suoi amici italiani. Si farebbero in quattro per lui. È molto ben integrato - racconta Gelsomina - eppure è finito in un Cie. In questi mesi ha sofferto tantissimo ed io con lui, spero che centri simili chiudano presto perché non hanno veramente senso di esistere in questa forma”. Di narrazioni simili, in transito in quelle strutture, ce ne sono centinaia. Storie di umana disperazione, di speranza trasformata in angoscia per via di un provvedimento amministrativo. Ne passano anche molte altre di segno opposto: non di rado ad essere trattenuti sono delinquenti, persone vicine alle cellule di terrorismo islamico. Nelle maglie, in alcuni casi troppo strette, della normativa sull’immigrazione, è incappato un ragazzo indiano che aveva da tempo una normalissima vita da italiano e che potrebbe ora ambire a ottenere la cittadinanza del Paese in cui vive e lavora ormai da anni e a cui è legatissimo, nonostante le disavventure patite. “Mio marito - racconta Gelsomina - fu trattenuto nel Cie nell’ottobre scorso, per un presunto pericolo di fuga. Dopo il nostro fermo a Sorrento (quando fu trovato senza permesso di soggiorno era in motorino che la futura moglie, ndr), Jasvir fu invitato di ripresentarsi due volte al commissariato, invito al quale lui rispose regolarmente ripresentandosi, come riportato nel verbale dei carabinieri di Sorrento. Le sue intenzioni erano di regolarizzarsi, non di sfuggire alla legge. Dopo 60 giorni di il giudice di pace, in accordo con l’ufficio immigrazione ha riconvalidato il trattenimento per altri 60 giorni con un documento nel quale si afferma che Jasvir deve essere trattenuto perché e ancora “in fase di identificazione”, cosa che non ha nessun senso visto che mio marito possiede un regolare e valido passaporto, la patente, la macchina ed un domicilio dichiarato con la sua convivente (ora finalmente moglie) al comune di Sant’Agnello, in provincia di Napoli, con tanto di lettere di richieste di lavoro da parte di imprenditori che lo stimano e lo vogliono impiegare regolarmente”. Salerno: carceri, progetto di reinserimento sociale attraverso lo sport salernonotizie.it, 16 gennaio 2018 Nella mattinata di sabato 20 gennaio presso la Casa Circondariale A. Caputo di Salerno-Fuorni, si terrà cerimonia di consegna degli attestati di partecipazione al corso di formazione per istruttore di base di primo livello rivolto ai detenuti. Il progetto denominato “Corpus sanum ad mentem sanam. Rieducazione e reinserimento sociale attraverso lo sport” nasce dalla collaborazione del comitato scientifico, composto dalla prof.ssa Ileana del Bagno, dall’avv. Antonella Simone e dall’avv. Marco De Luca, e l’Università degli studi di Salerno- Dipartimento di Scienze Giuridiche Scuola di Giurisprudenza. Lo scopo del corso, ormai giunto alla VI edizione, è quello di fornire ai detenuti coinvolti un attestato in grado di offrire future opportunità di lavoro, o comunque favorire un più agevole reinserimento sociale al termine della pena. Alla cerimonia presenzieranno il Questore Dott. Pasquale Errico ed una rappresentanza di atleti del Gruppo Sportivo Fiamme Oro della Polizia di Stato a prova dell’attenzione rivolta nei confronti del progetto e dei giovani detenuti. È prevista, inoltre, la partecipazione di una delegazione di studenti del Liceo Scientifico “F. Severi” accompagnati da personale docente. L’incontro mira ad indurre gli studenti a riflettere sulle conseguenze delle scelte sbagliate, dimostrando, piuttosto, come lo sport, ed in genere l’impegno ed il rispetto delle regole, consentano la realizzazione di importanti traguardi. Il percorso formativo offerto dal progetto contribuisce ad attuare in concreto il fine rieducativo della pena prescritto dall’art. 27 della Costituzione, favorisce il reinserimento socio-lavorativo di soggetti spesso costretti all’emarginazione, promuove i valori etici, primo fra tutti quello dell’inclusione, e la cittadinanza attiva, ma soprattutto cerca di offrire un sollievo ed una speranza, capaci di scalfire la monotonia e l’alienazione della vita carceraria. In definitiva, lo sport vissuto come impegno e confronto, come nuova ed altra opportunità formativa e rieducativa. La realizzazione del progetto è stata resa possibile anche grazie al contributo prestato dalla Casa Circondariale A. Caputo e dal Comune di Salerno. Ruolo determinante hanno svolto l’Asd Avantagarde Sport, affiancata dall’Aics, la Fondazione Ca.Ri.Sal, da sempre sensibile verso la persone emarginate ed in difficoltà, nonché la Centrale del Latte di Salerno, che ha fornito e gadget, rendendo così più agevole la buona riuscita dell’evento. Il corso, offerto gratuitamente, è stato strutturato in otto giornate ed è ripetibile ciclicamente, al fine di coinvolgere il maggior numero possibile di partecipanti, sia uomini che donne. Le molteplici competenze tecniche e professionali a disposizione, ponendo sempre come centro d’interesse la persona (e la sua integrazione) più che il gesto tecnico, si concretizzeranno nello svolgimento di un corso completo di formazione. Il progetto rientra a pieno titolo tra le iniziative inerenti i temi della formazione e del lavoro, ed è volto a realizzare l’obiettivo di contrastare i pregiudizi ed i diffusi stereotipi connessi alla realtà detentiva, il comitato scientifico mira, dunque, a farsi promotore di percorsi idonei alla socializzazione ed all’integrazione nel tessuto cittadino. Milano: incontro sul tema delle carceri nell’ambito della Mostra Che Guevara milanotoday.it, 16 gennaio 2018 Nell’ambito della mostra su Ernesto Che Guevara alla Fabbrica del Vapore, sabato 20 gennaio 2018 alle 16 si parlerà di giustizia in un incontro con quattro relatori. Il titolo dell’incontro è “La giustizia nella giustizia. Un confronto sulla rieducazione e il reinserimento come obiettivo della pena”. Visto l’ingente numero di detenuti, il carcere italiano potrebbe essere annoverato tra le prime cinquanta città della penisola per numero di abitanti. La maggior parte degli istituti è sovraffollata, degradata e i reclusi trascorrono la giornata senza poter far nulla; eppure modelli diversi sono possibili e esistono già. Interverranno quattro professionisti attivi per rendere la detenzione dignitosa, e il reinserimento dei detenuti nella società una pratica comune e diffusa. Promotori di nuove forme di carcerazione, con l’obiettivo del reinserimento sociale, racconteranno le proprie esperienze, nonché lo stato dell’arte degli istituti penitenziari italiani. Parleranno di dignità, recupero e ripresa, come vera risposta alla domanda di sicurezza dei cittadini. La conferenza viene moderata da Daniele Zambelli, fondatore e amministratore delegato di Simmetrico e Simmetrico Cultura, ideatore e curatore della mostra. Partecipano Lucia Castellano, direttore generale per l’esecuzione penale esterna al Ministero della Giustizia, precedentemente direttore della Seconda Casa di Reclusione Bollate; Sergio Cusani, dirigente d’azienda e impegnato in progetti di recupero per detenuti presso l’Agenzia di solidarietà per il lavoro - Agesol; Luigi Pagano, provveditore regionale alle carceri; Franco Mussida, storico chitarrista, co-fondatore della Pfm, inventore e realizzatore del progetto Co2 che porta la musica negli istituti penitenziari. Le bande giovanili e l’autorità svanita di Marco Demarco Corriere della Sera, 16 gennaio 2018 Ciò che si chiede è uno Stato più autorevole e più responsabile. E un apparato meno conformista e meno compiaciuto. Se quattromila poliziotti e altrettanti carabinieri a Napoli sono pochi, bisogna trovarne altri. A Napoli c’è una mamma ferita che pone domande e merita risposte. Una madre che non parla per “fatto personale” ma per dare voce a un’angoscia collettiva. Il tema è quello della sicurezza urbana, che è di ieri come di oggi, di Napoli come di Milano. Ovunque, dai tempi di Charles Dickens e di Oliver Twist, ci sono finestre rotte dai teppisti, e negli Usa - un quarto di secolo fa, ormai - ne hanno anche dedotto una fortunata teoria sulla tolleranza zero. Ovunque ci sono bande, gang, “paranze” o “paranzelle” (cioè non collegate alla criminalità organizzata) che spaccano nasi e spappolano milze per una bicicletta o un telefono cellulare. O che accoltellano e sparano per sancire il dominio territoriale. Ma altrove, come a New York, appunto, una soluzione si trova, o almeno si tenta, anche se le amministrazioni politiche cambiano colore e i “portatori ideologici” sono sindaci molto diversi come Rudolph Giuliani e Bill de Blasio. In Italia, invece, il dibattito sulle cose da fare da anni si avvita inutilmente su se stesso. E nell’inconsapevole rispetto di una drammaturgia consolidata, alla “Carnage” di Roman Polanski per intenderci, va avanti all’infinito. Anche nel film tutto inizia con un ragazzino che nel parco colpisce a bastonate al volto un coetaneo. Ma lì la divisione è tra genitori tolleranti e genitori intolleranti. Nella vita reale, quella degli opportunismi politici, invece, tutto si complica. E più si complica meno si decide. Ci sono i “contestualisti”, secondo cui quasi tutto dipende dal contesto urbano e sociale. E ci sono i “liberali”, per i quali neanche le periferie mai rammendate e la precarietà assoluta possono cancellare il libero arbitrio. Ci sono gli allarmisti-assolutisti (“ora basta, la misura è colma”) e i minimalisti-relativisti (“niente panico, tutto il mondo è paese”). Ci sono quelli per cui molto dipende dal potere persuasivo di “Gomorra” e quelli che invece assolvono la fiction ma accusano la globalizzazione dei social e i video jihadisti. Mentre si discute, però, il sangue, come a Napoli, continua a scorrere: nelle piazze dei quartieri residenziale come davanti alle stazioni della metropolitana. Proprio da Napoli, però, ora viene questo documento eccezionale e coraggioso, che quasi appellandosi all’antica “parresia” greca dice a tutti verità scomode: ai potenti perché sono nelle istituzioni e ai potenti perché sono armati e minacciano. È la lettera che Maria Luisa Iavarone, la madre di Arturo, il ragazzo accoltellato alla gola e al petto, ha inviato al direttore de Il Mattino. Il senso è questo. Molti minori violenti di cui tanto si parla sono già “senza famiglia”, perché hanno i genitori in carcere o impegnati a delinquere; o “senza scuola”, perché non la frequentano o perché il sistema li lascia cinicamente indietro: evitiamo allora che restino anche senza Stato. Lo Stato delle leggi e delle regole. Di ciò che è lecito fare e di ciò che non lo è. Più che dal caso di suo figlio, per la cui aggressione di gruppo, dopo tre settimane, l’unico identificato è ancora solo un minorenne “che si trincera nel silenzio e aderisce completamente agli inviti degli amici di Facebook a “stare tranquillo”“, la signora Iavarone parte da uno degli ultimi episodi napoletani. E segnala che “sono tutti tornati a casa, con una semplice denuncia, i quindici ragazzi che a calci e pugni hanno spappolato la milza a un loro coetaneo”. La domanda è: se non i genitori, se non i professori, se non i giudici minorili che nell’aggressione di quindici contro uno non hanno ravvisato né il tentato omicidio né l’associazione a delinquere, chi, una volta tornati a casa, spiegherà a questi ragazzi che hanno sbagliato? “Non parlo - dice la madre di Arturo - da una posizione morale forcaiola, ma solo perché questa violenza insensata mi pare figlia di troppi sfilacciamenti e amnesie civili”. In effetti, ciò che si chiede è uno Stato più autorevole e più responsabile. E un apparato meno conformista e meno compiaciuto. Se quattromila poliziotti e altrettanti carabinieri a Napoli sono pochi, bisogna trovarne altri. Se l’esercito guasta la vista ai turisti, pazienza, tanto i dati sui flussi sono confortanti. E se la popolazione non collabora alle indagini perché omertosa o impaurita, questo non costituisca un alibi per lo Stato ma uno stimolo a fare di più. Anche nel rammendare le periferie. Italia in armi, dal Baltico all’Africa di Manlio Dinucci Il Manifesto, 16 gennaio 2018 L’arte della guerra. Che cosa avverrebbe se caccia russi Sukhoi Su 35, schierati nell’aeroporto di Zurigo a una decina di minuti di volo da Milano, pattugliassero il confine con l’Italia con la motivazione di proteggere la Svizzera dall’aggressione italiana? A Roma l’intero parlamento insorgerebbe, chiedendo immediate contromisure diplomatiche e militari. Lo stesso parlamento, invece, sostanzialmente accetta e passa sotto silenzio la decisione Nato di schierare 8 caccia italiani Eurofighter Typhoon nella base di Amari in Estonia, a una decina di minuti di volo da San Pietroburgo, per pattugliare il confine con la Russia con la motivazione di proteggere i paesi baltici dalla “aggressione russa”. La fake news con la quale la Nato sotto comando degli Stati uniti giustifica la sempre più pericolosa escalation militare contro la Russia in Europa. Per dislocare in Estonia gli 8 cacciabombardieri, con un personale di 250 uomini, si spendono (con denaro proveniente dalle casse pubbliche italiane) 12,5 milioni di euro da gennaio a settembre, cui si aggiungono le spese operative: un’ora di volo di un Eurofighter costa 40 mila euro, l’equivalente del salario lordo annuo di un lavoratore. Questa è solo una delle 33 missioni militari internazionali in cui l’Italia è impegnata in 22 paesi. A quelle condotte da tempo nei Balcani, in Libano e Afghanistan, si aggiungono le nuove missioni che - sottolinea la Deliberazione del governo - “si concentrano in un’area geografica, l’Africa, ritenuta di prioritario interesse strategico in relazione alle esigenze di sicurezza e difesa nazionali”. In Libia, gettata nel caos dalla guerra della Nato del 2011 con la partecipazione dell’Italia, l’Italia oggi “sostiene le autorità nell’azione di pacificazione e stabilizzazione del Paese e nel rafforzamento del controllo e contrasto dell’immigrazione illegale”. L’operazione, con l’impiego di 400 uomini e 130 veicoli, comporta una spesa annua di 50 milioni di euro, compresa una indennità media di missione di 5 mila euro mensili corrisposta (oltre la paga) a ciascun partecipante alla missione. In Tunisia l’Italia partecipa alla Missione Nato di supporto alle “forze di sicurezza” governative, impegnate a reprimere le manifestazioni popolari contro il peggioramento delle condizioni di vita. In Niger l’Italia inizia nel 2018 la missione di supporto alle “forze di sicurezza” governative, “nell’ambito di uno sforzo congiunto europeo e statunitense per la stabilizzazione dell’area”, comprendente anche Mali, Burkina Faso, Benin, Mauritania, Ciad, Nigeria e Repubblica Centrafricana (dove l’Italia partecipa a una missione dell’Unione europea di “supporto”). È una delle aree più ricche di materie prime strategiche - petrolio, gas naturale, uranio, coltan, oro, diamanti, manganese, fosfati e altre - sfruttate da multinazionali statunitensi ed europee, il cui oligopolio è però ora messo a rischio dalla crescente presenza economica cinese. Da qui la “stabilizzazione” militare dell’area, cui partecipa l’Italia inviando in Niger 470 uomini e 130 mezzi terrestri, con una spesa annua di 50 milioni di euro. A tali impegni si aggiunge quello che l’Italia ha assunto il 10 gennaio: il comando della componente terrestre della Nato Response Force, rapidamente proiettabile in qualsiasi parte del mondo. Nel 2018 è agli ordini del Comando multinazionale di Solbiate Olona (Varese), di cui l’Italia è “la nazione guida”. Ma - chiarisce il Ministero della difesa - tale comando è “alle dipendenze del Comandante Supremo delle Forze Alleate in Europa”, sempre nominato dal presidente degli Stati uniti. L’Italia è quindi sì “nazione guida”, ma sempre subordinata alla catena di comando del Pentagono. Missioni militari. “Meno uomini in Afghanistan e Iraq, più presenza nel Mediterraneo” La Repubblica, 16 gennaio 2018 La ministra della Difesa Pinotti: in audizione con Alfano davanti alle commissioni Esteri e Difesa di Senato e Camera in seduta congiunta, in vista del voto sulla “rimodulazione” dell’impegno militare all’estero. “In Niger con 470 uomini, ma con compiti esclusivi di addestramento”. Più presenza di militari italiani nell’area mediterranea, meno in Iraq e Afghanistan. Lo ha detto la ministra della Difesa Roberta Pinotti nelle comunicazioni del governo alle commissioni Esteri e Difesa di Senato e Camera, riunite in seduta congiunta, sull’andamento delle missioni internazionali autorizzate per il 2017, sulla loro proroga per l’anno in corso e sulle missioni da avviare nel 2018. Nel corso del suo intervento, la ministra ha precisato anche il “perimetro” della missione militare in Niger: “Solo addestramento”. Per la “rimodulazione” dell’impegno Italiano nelle missioni internazionali, che prevede l’invio di 470 militari in Niger e 400 in Libia e arriverà mercoledì alla Camera, si profila un via libera ampio e bipartisan. Per quanto riguarda l’Iraq, Pinotti ha parlato di “dimezzamento del contingente (attualmente di 1500 uomini) perché non c’è più quell’urgenza di combattimento quando c’era il Daesh. Abbiamo addestrato 30mila persone, un pezzo del successo contro Daesh lo dobbiamo ai nostri militari. Ora si sta lavorando all’addestramento delle forze di sicurezza locali che dovranno gestire i territori liberati” dalla presenza dello Stato Islamico. Stesso discorso in Afghanistan, dove, ha aggiunto al ministra “pensiamo di diminuire l’impegno, chiedendo agli alleati di contribuire a compiti oggi affidati a noi”. Al momento in Afghanistan ci sono circa 900 militari italiani, “vogliamo andare in riduzione”. In LIbia, sarà proposto un aumento della presenza militare italiana di 25 unità, per complessivi 400 uomini. La titolare della Difesa ha poi allargato lo sguardo sul quadro più generale delle missioni oltre confine. A partire dal Libano dove, ha ricordato Pinotti, i militari italiani sono presenti in Unifil ma anche in missione unilaterale “perché c’è grande fiducia nell’Italia e stiamo addestrando le forze armate locali”. Pinotti ha sottolineato la delicatezza dell’impegno italiano ricordando quanto la stabilità del Libano sia “centrale per tutta la regione del Mediterraneo, c’è infatti una situazione di tensione, dovuto anche al forte afflusso di rifugiati dalla vicina Siria, è una situazione molto delicata”. Anche il Kosovo “fa parte della realtà del Mediterraneo, che noi dobbiamo continuare a presidiare”, ha proseguito Pinotti. Un focolaio di tensioni nel cuore dell’Europa, il Kosovo, tra la comunità albanese e serba, con rischi di infiltrazioni. “Come comunità internazionale - ha affermato la ministra - dobbiamo sostenere il ruolo di assistenza e aiuto alla crescita, e quindi manteniamo la missione”, inserita nel dispositivo Kfor-Nato. E si parla della missione italiana in Niger. “Non è una missione combat - chiarisce subito Pinotti - né una missione in cui pensiamo di mettere 470 uomini come sentinelle ai confini. È una missione di addestramento, sulla base di una richiesta specifica del Niger, per questo è una missione bilaterale. Il Niger ha detto di avere un problema nel controllo dei confini, ma non vogliono che li controlliamo noi. Vogliono diventare in grado di controllarli e sentono di avere bisogno di un supporto di addestramento”. “Sappiamo che stiamo parlando di zone pericolose, c’è bisogno di sicurezza - ha convenuto Pinotti. Ma nelle nostre intenzioni la missione non ha nulla di neocoloniale o di nascosto. Il supporto logistico per la missione in Niger sarà soprattutto via mare. Esistono missioni europee, esiste un intervento della Francia come degli Stati Uniti. Noi ci coordiniamo con la strategia che riguarda il G5 Sahel, ma si tratta di una missione bilaterale”. Migranti. Toni trionfalistici o derive xenofobe, così non funziona di Emma Bonino e Riccardo Magi* Il Manifesto, 16 gennaio 2018 I toni trionfalistici ascoltati a Roma da parte del presidente Macron e del presidente Gentiloni sui successi del controllo dei flussi migratori mal si addicono alle cifre riportate nelle stesse ore dalle organizzazioni internazionali sulla situazione del Mediterraneo: 200 tra morti e dispersi in soli quattro giorni, 840 persone sbarcate da inizio anno e almeno 800 persone intercettate dalla guardia costiera libica e riportate indietro nell’inferno ormai ben noto a tutti. Omissioni che ben rappresentano la difficoltà di giustificare l’approccio scelto da entrambi i paesi per affrontare la questione migratoria, puntando sull’esternalizzazione delle frontiere e il rafforzamento degli apparati militari e di sicurezza dei paesi di origine e transito, senza però essere nelle condizioni di esigere dai propri interlocutori le condizioni minime di rispetto dei diritti umani. A partire dalla Libia. L’unica nota positiva è il piano dell’Unhcr di evacuazione delle persone più vulnerabili registrate in Libia - la stima è di 1.300 entro gennaio - e di trasferimento di richiedenti asilo dal Sahel e dal Corno d’Africa in Europa, per un totale di 40.000 beneficiari entro la fine del 2018. Sempre che gli Stati membri accettino di farsene carico. Ma evidentemente non basterà fino a che non diventerà una priorità - e un prerequisito di qualsiasi azione esterna verso paesi terzi - assicurare canali umanitari per le persone bisognose di protezione e fino a che non si avrà la lucidità di adottare un approccio a lungo termine verso la migrazione economica, attivando vie legali di accesso per lavoro a livello nazionale e a livello europeo. Non si è parlato nel vertice romano di quanto avviene ormai da tempo ai confini tra Italia e Francia: respingimenti in automatico, a prescindere dalle condizioni individuali dei migranti, siano essi donne incinte o minori non accompagnati, violando sistematicamente lo stesso regolamento di Dublino a cui con tanta solerzia si rifanno per giustificare le riammissioni di massa nel nostro paese. Difficile sostenere che vanno accolti quanti hanno bisogno di protezione se nessuno degli eventuali richiedenti ha la possibilità di esprimere quella volontà. Del resto la riforma del diritto d’asilo in corso in Francia ha molti punti in comune con quanto fatto recentemente dal governo italiano, dalla drastica riduzione dei tempi per l’iter della richiesta - a scapito di alcune garanzie - all’intensificazione di espulsioni e rimpatri. Tutto ciò mentre nel nostro paese, puntuali come in ogni campagna elettorale, risuonano i toni xenofobi dei soliti imprenditori politici della paura che arrivano a dichiarare che tutti i migranti sbarcati sono delinquenti, al di là di dati facilmente verificabili. E mentre si va avanti con gli interventi per contrastare l’irregolarità senza però affrontare le cause vere del fenomeno e mettere finalmente mano alla legge Bossi-Fini, normativa restrittiva e iniqua che non ha fatto altro che ostacolare percorsi di legalità e integrazione. È stato riaperto l’ex-Cie, ora Cpr, a Bari e pochi giorni fa quello di Palazzo San Gervasio, strutture già teatro di sofferenze e di attese lunghissime e inutili, vista la ben nota difficoltà nel rimpatriare i cittadini stranieri riscontrata da quando i centri di espulsione sono stati introdotti. Siamo sicuri che la soluzione all’irregolarità nel nostro paese siano i Cpr? E che si riesca davvero a rimpatriare le decine di migliaia di cittadini stranieri che hanno ricevuto risposta negativa alla domanda d’asilo? Non sarebbe meglio, come abbiamo proposto e come chiedono anche molti amministratori e imprenditori, offrire la possibilità al richiedente che è stato formato e che ha un datore di lavoro pronto ad assumerlo, di regolarizzarsi senza rischiare di vivere illegalmente? E più in generale, pur consapevoli delle difficoltà esistenti, abbiamo il coraggio di investire finalmente sull’integrazione, a partire dalla formazione e dall’accesso al lavoro, dal coinvolgimento dei territori, moltiplicando le buone prassi esistenti? Su questo vorremmo confrontarci nelle prossime settimane, senza eludere i nodi critici e riportando la discussione sull’immigrazione in una visione più lucida e consapevole di governo del fenomeno. *promotori di +Europa con Emma Bonino Migranti. La stretta già c’è: asilo solo a 4 profughi su 10 di Leo Lancari Il Manifesto, 16 gennaio 2018 I dati delle commissioni territoriali. Sbarchi in calo anche nel 2018 mentre aumentano i rimpatri. E le vittime in mare. Da almeno sette mesi gli arrivi di migranti in Italia sono in netta diminuzione, così come è in calo il numero di reati compiuti, in generale da delinquenti italiani e stranieri. Certo, chi ha deciso di cavalcare paura e xenofobia nella campagna elettorale appena cominciata non si farà fermare dai dati diffusi dal Viminale e dal ministero della Giustizia e continuerà la caccia al voto di pancia. Lo ha fatto Silvio Berlusconi domenica scorsa descrivendo in televisione l’Italia come un Paese in cui “accade un reato ogni venti secondi”, e ha rilanciato ieri il candidato leghista alla regione Lombardia Attilio Fontana vagheggiando su fantomatici rischi per “la razza bianca” derivanti dalla presenza di migranti. Ieri a smentire il leader di Forza Italia è intervenuto direttamente il ministro della Giustizia Andrea Orlando: “I dati dicono cose diametralmente opposte a ciò che afferma Berlusconi: i reati della microcriminalità continuano scendere mentre aumentano le frodi informatiche, poco legate all’aumento degli extracomunitari”, ha spiegato il Guardasigilli. Se la realtà ha dunque ancora un senso bastano le statistiche - e la volontà di leggerle - per mettere a tacere chi soffia sul fuoco creando inutili allarmismi. Richiedenti asilo - A smentire l’immagine dell’Italia come Paese in cui è facile entrare e rimanere, tanto cara alla destra, ci sono tanto per cominciare i dati delle commissioni territoriali alle quali spetta il compito di accogliere o respingere le richieste di asilo. E i numeri dicono che nel 2017 sono state esaminate 80 mila domande su un totale di 130 mila, 10 mila in meno rispetto al 2016. Quelle accolte sono state appena il 40% (47.839), il che significa che sei richiedenti asilo ogni dieci si sono visti respingere la domanda. La Fondazione Ismu sottolinea come tra quanti hanno avuto un esito positivo crescono coloro che hanno ottenuto lo status di rifugiato (8,5% contro il 5,5% del 2016), mente cala il numero dei rifugiati ai quali è stata riconosciuta la protezione sussidiaria (concessa a chi non può dimostrare una persecuzione ma comunque rischia di subire ritorsione facendo rientro nel Paese di origine). Uno su quattro, infine, ha ricevuto la protezione umanitaria (riconosciuta per oggettive situazioni personali gravi). Sbarchi - Nel 2017 sono arrivati in Italia poco meno di 120 mila migranti (119.369), pari a meno 34,24% rispetto all’anno prima. La flessione è cominciata a partire dal mese di luglio in seguito all’accordo siglato dal governo italiano con quello libico per affidare alla Guarda costiera nordafricana il compito di fermare i barconi carichi di uomini, donne e bambini. Ieri il Viminale ha fornito i dati per quanto riguarda le prime due settimane del 2018: 841 quelli sbarcati dal primo al 15 gennaio, il 64,29% in meno rispetto allo stesso periodo del 2017. Dato frutto di una recente inversione di tendenza, visto che i primi giorni dell’anno nuovo sono stati invece caratterizzati da un aumento degli arrivi. Ricollocamenti - Sempre la Fondazione Ismu ricorda come in più di due anni - da settembre 2017 a dicembre 2017 -sono stati trasferiti dall’Italia verso uno Stato membro solo 11.464 richiedenti protezione internazionale. Nella quasi totalità dei casi si tratta di eritrei (95%) seguiti da soli 521 siriani e da 98 persone appartenenti ad altre nazionalità Tra i trasferiti anche 1.83 minori e 99 minori non accompagnati. La Germania è il paese che ne ha accolti di più (43%). Morti e dispersi - Purtroppo resta alto il numero di coloro che hanno perso la vita tentando di raggiungere l’Europa attraverso il Mediterraneo: nel 2017 si stima siano stati 3.116, in pratica 18 morti ogni mille persone sbarcate. Nazionalità - Il 2018 sembra per il momento segnare una novità per quanto riguarda i Paesi di origine dei migranti. In cima alla classifica figurano infatti i senegalesi (90), seguiti da nigeriani (56), gambiani (50), marocchini e guineani (42). Fino allo scorso mese di dicembre erano invece i nigeriani la nazionalità più numerosa. Rimpatri - In aumento rispetto al 2016, l’anno scorso sono stati rimandati nei paesi di origine 6.340 stranieri irregolari contro i 5.300 del 2016. Venezuela. Ucciso Oscar Perez, l’ex poliziotto “Rambo” anti-Maduro di Annalisa Grandi Corriere della Sera, 16 gennaio 2018 Perez, che a giugno aveva guidato un elicottero e lanciato granate contro la Corte Suprema, sarebbe stato ucciso dalle forze di sicurezza di Caracas. È stato ucciso dalle forze di sicurezza venezuelane Oscar Perez, l’ex poliziotto e attore che a giugno si era impadronito di un elicottero e aveva lanciato granate contro la Corte Suprema. Ribelle anti-Maduro, era diventato molto popolare anche sui social. Secondo quanto riferisce la Cnn sarebbe stato ucciso nell’assedio da parte delle forze di sicurezza in un sobborgo di Caracas. Perez, 36 anni, pilota di elicottero e paracadutista, ispettore delle brigate speciali di azione del Cicpc, il corpo di investigazioni scientifiche penali e criminali dell’intelligence venezuelana, aveva 36 anni. Molto attivo sui social, dove qualcuno l’aveva ribattezzato “Rambo”, si autoproclamava patriota e giustiziere. In un video postato sui social si era scagliato contro il governo di Nicolas Maduro e aveva chiesto ai venezuelani di continuare a manifestare in piazza. Era lui, a quanto si era appreso, che guidava l’elicottero che a fine giugno aveva sorvolato il centro di Caracas per poi lanciare granate contro la sede del Tribunale supremo di giustizia e colpi di arma da fuoco contro il Ministero dell’Interno. Perez era stato protagonista anche di un film “Muerte Suspendida”, un poliziesco in cui si raccontava della liberazione di un ostaggio. Poche ore prima del blitz in cui è stato ucciso Perez aveva postato su Instagram un video in cui raccontava che i militari lo avevano circondato e che stava negoziando la resa insieme ai suoi uomini. “Ci stanno sparando, lanciano granate. Noi vogliamo arrenderci ma loro vogliono ucciderci” diceva. Guinea Equatoriale. Oppositore muore in carcere dopo torture Nova, 16 gennaio 2018 Il partito di opposizione guineano Cittadini per l’innovazione ha denunciato la morte di uno dei suoi sostenitori, deceduto in prigione a seguito di torture. Santiago Ebee Ela, questo il nome dell’oppositore, era stato arrestato questo mese nella capitale Malabo. Il partito ha denunciato che più di 200 suoi membri sono stati arrestati negli ultimi mesi. Il governo della Guinea Equatoriale ha denunciato il mese scorso un tentativo di colpo di stato. La scorsa settimana il ministro degli Esteri, Agapito Mba Mokuy, ha affermato che il tentato golpe, sventato dalle autorità di Malabo nella notte fra il 27 e il 28 dicembre scorsi, è stato pianificato in Francia. “L’azione è stata pianificata in territorio francese”, ha detto Mokuy nel corso di una conferenza stampa tenuta il 10 gennaio nella capitale guineana. Il ministro ha tuttavia precisato che nel tentato golpe non vi è stato alcun coinvolgimento delle autorità francesi e ha annunciato l’intenzione di collaborare con Parigi “non appena avremo avuto maggiori informazioni”. Nel frattempo, ha aggiunto Mokuy, 27 sospetti mercenari sono stati arrestati finora nell’ambito del tentato golpe, tuttavia almeno altri 150 sono ancora latitanti nell’area situata al confine con il Camerun. Tra i presunti golpisti figura anche l’ambasciatore guineano in Ciad, Enrique Nsue Anguesom, attualmente detenuto in una caserma a Bata. Nei giorni scorsi il presidente della Repubblica Centrafricana, Faustin-Archange Touadera, si è recato a Malabo per fornire il proprio sostegno al governo di Malabo, dopo che è emerso come fra i sospetti golpisti ci fossero anche mercenari di nazionalità centrafricana, ciadiana e sudanese. Le relazioni franco-guineane sono notevolmente peggiorate da quando la giustizia francese ha condannato, nel mese di ottobre, Teodorin Obiang, figlio del presidente Teodoro, a tre anni di carcere e al pagamento di una multa di 30 milioni nell’ambito di un’inchiesta per presunta appropriazione indebita. Dopo l’apertura a Parigi del processo nei confronti di Teodorin, il governo di Malabo nell’ottobre 2016 ha trascinato la Francia davanti alla Corte internazionale di giustizia delle Nazioni Unite per cercare di fermare il procedimento giudiziario. Le autorità guineane sostengono infatti che il vicepresidente goda dell’immunità secondo il diritto internazionale e per questo chiedono da tempo l’annullamento del processo. Il vicepresidente della Guinea equatoriale ha già subito il sequestro dei suoi beni in Francia e negli Stati Uniti, tra cui ville e auto di lusso. Teodorin Obiang, 47 anni, è uno dei possibili successori del padre al potere dal 1979, ma attualmente su di lui pende un mandato di cattura internazionale emesso nel luglio 2012.