Se la pena è disumana, non c’è prevenzione che possa fermare i suicidi Il Mattino di Padova, 15 gennaio 2018 Dalla riforma dell’Ordinamento penitenziario, che forse questo governo riuscirà a portare a termine tra mille difficoltà, è stata però stralciata la parte dedicata agli affetti delle persone detenute, non sappiamo se per mancanza di risorse o per quale altra ragione. Intanto, nelle carceri si continua a scegliere di morire con molta più “determinazione” che nel mondo libero, mentre le Istituzioni sono impegnate a cercare strade nuove per prevenire i suicidi. Noi però restiamo saldamente ancorati alla convinzione che la prevenzione si fa non tanto controllando ossessivamente le persone a rischio, quanto piuttosto creando le condizioni perché i detenuti, tutti, possano vedere e sentire di più le loro famiglie; usando il meno possibile “l’arma” dei trasferimenti, o meglio trasferire solo per avvicinare a casa le persone detenute; parlando con coraggio dei suicidi, e di chi fa questa triste scelta, e non lasciando le famiglie sole, disperate e senza notizie certe dei loro cari. Le riflessioni fatte da alcuni ergastolani, dopo il suicidio di un loro compagno, mettono in luce tutta la sofferenza che c’è in un carcere dietro la scelta di togliersi la vita: la prima riflessione, di Gianfranco R., è proprio sul peso del silenzio, sul non sapere mai cosa sia realmente accaduto, sul non poterne parlare con nessuno, sul non poter conoscere la verità, un silenzio imposto che fa tacere tutto e tutti; la seconda, di Andrea G., sul fatto che ogni suicidio in carcere è, in realtà, un grande fallimento di tutti, dell’istituzione ma pure delle persone detenute e della società esterna che entra in istituto, e anche della comunità cittadina troppo distratta e indifferente; infine l’ultimo pensiero, di Claudio C., parla di un clima pesante che si vive e si respira in certe carceri, un isolamento che fa pensare alla Casa di reclusione di Sulmona negli anni in cui era diventato appunto “il carcere dei suicidi”. Lui c’è stato e può facilmente fare il confronto. Aggiunge, però, che è possibile “umanizzare” un istituto e che ora a Sulmona si sta molto meglio, per quanto si possa “star meglio” in un luogo di privazione della libertà, perché il carcere abruzzese si è aperto alla comunità esterna e le persone recluse possono finalmente intravedere la vita oltre le sbarre. La vita, invece, non riesci a intravederla da nessuna parte, se la condanna all’ergastolo ti arriva quando di anni ne hai poco più di venti e sei ancora un ragazzo. E questo è un altro degli orrori della legge che nel nostro Paese prevede la condanna al fine pena mai: il fatto che, più giovane sei quando ti prendi la condanna, più anni di galera sei destinato a farti Una condanna all’ergastolo a 23 anni ti toglie qualsiasi voglia di vivere Se devo pensare cosa vuol dire ergastolo per me mi viene veramente difficile parlarne, perché penso che per chiunque tenga tantissimo alla propria vita, vedersela passare davanti giorno per giorno, vuota e inutile, è una cosa che ti consuma molto lentamente. Per una serie di motivi e di situazioni che la vita mi ha messo davanti, sono cresciuto molto in fretta, a 17 anni vivevo da solo a 21 mi sono sentito realizzato come uomo e a 22 la mia vita è finita in una cella per il resto dei suoi giorni. La vita oggi per me è il frammento di qualche ricordo d’infanzia e nient’altro, il pensiero fisso da quando mi sveglio a quando vado a letto è: fine pena mai. Scambio qualche parola con qualcuno, cerco di distrarmi guardando la televisione, ma anche quella fa male, perché ti fa vedere la vita che tu non potrai mai più avere e che non hai avuto, quando guardi oltre le mura ti senti mancare l’aria, quindi eviti anche di avvicinarti alle finestre e dopo qualche anno ti convinci che ormai questa e la tua vita e inizi a diventare un uomo ombra, cioè un uomo che vive senza avere una vita. Un giovane ergastolano vive il giorno più brutto della sua vita tutti i giorni per 10, 20, 30, 40 anni. Ad oggi io ho diviso la mia vita da ergastolano in diverse fasi, la prima era quella fase in cui ancora facevo fatica a credere che poteva essere davvero successo a me, ma ogni giorno continuavo a nutrirmi di una falsa speranza e mi illudevo che sarebbe stata soltanto una situazione temporanea e ne sarei uscito presto. Quando è arrivata la condanna di primo grado a 30 anni di carcere il mio primo pensiero era stato: “Ma se io ho vissuto soli 23 anni, come fanno a darmi 30 anni di carcere?” Poi l’appello che, invece di riformulare la pena come io speravo, riformula la pena dai 30 anni in quella dell’ergastolo, e qui iniziavo a pensare che fosse davvero un brutto sogno, ma non era cosi, quelle persone parlavano della mia vita e avevano deciso che l’avrei dovuta passare tutta in carcere, e questo mi ha spinto verso una totale confusione che alimentava i miei impulsi più aggressivi. Iniziavo a pensare che ormai mi avevano fatto tutto quello che potevano farmi, quindi mi sentivo libero di fare tutto quello che volevo, anche perché dopo la condanna l’unica cosa che potevano farmi era mettermi in isolamento, e da un lato era anche meglio per me perché volevo stare da solo, cosi iniziai a dare ascolto solo a me stesso. Poi è arrivata la Cassazione che ha confermato il peggio, cioè la sentenza d’appello, quindi ha messo la parola fine alla mia vita, e lì si è sfogata tutta la mia rabbia contro tutto e tutti. Ormai la mia vita era il carcere, quindi iniziai ad isolarmi anche dall’esterno e dalla famiglia, così facendo allontanavo da me tutto quello che mi poteva far soffrire più di quanto avevo già sofferto guardando gli occhi di mia madre, ascoltando le difficoltà della mia famiglia senza poter muovere un dito per sostenerla, anzi con la consapevolezza che le ero solo di peso. Cosi, diventato un uomo ombra a tutti gli effetti, mi sono chiuso nella solitudine più totale. Io avevo quindi 23 anni quando ho iniziato a scontare il mio fine pena mai, oggi ne ho 29 e l’unica cosa che vedo davanti a me è un’immagine di poco tempo fa: un anziano signore accasciato sopra una panca all’interno della chiesa del carcere, aveva più di 70 anni ed era un ergastolano, questo è il mio futuro - l’ho già visto proprio davanti ai miei occhi - la morte dopo una lunga sofferenza. Che senso ha studiare, mettersi in discussione, confrontarsi se già sai che finirai la tua vita in un carcere dopo aver scontato 30, 40, 50 anni di pena? Tutte le persone cambiano, non solo i detenuti, una persona può essere aggressiva a 20 anni e riflessiva a 30, invece un ergastolano non può cambiare perché sarà per tutta la vita quella persona che ha commesso il reato a 20 anni, eppure l’art 27 della nostra Costituzione dice che le pene devono tendere alla rieducazione ed al recupero del condannato, considerando la mia età finirò di scontare la mia pena ad 80 anni e oltre, se però per fortuna/sfortuna morirò prima, sconterò meno, ma in ogni caso finirò di scontarla con la fine dei miei giorni, quindi che senso ha tenere una persona in carcere dopo che è cambiata totalmente? Ci sono più di 1500 persone in Italia che stanno morendo ogni giorno e quello che fa più paura è il silenzio, l’assoluta indifferenza di chi non conosce il carcere, di chi non conosce la storia di tanti ragazzi che hanno intrapreso una strada sbagliata da molto giovani e stanno pagando giorno per giorno con la propria vita senza avere la possibilità di riscattarsi. L’ergastolo mette un muro davanti ai tuoi occhi e non ti fa vedere niente, ti fa “vivere” nel buio. I detenuti con un fine pena la sera quando vanno a letto possono pensare che il giorno appena passato è un giorno in meno da scontare, un ergastolano invece no, perché quello stesso giorno si ripeterà all’infinito, finché la morte non ti strappa da questa orribile realtà, a meno che non decida tu di mettere fine alla tua pena e alla tua vita. Giuliano N. La violenza dei ragazzi dimenticati di Roberto Saviano La Repubblica, 15 gennaio 2018 Perché queste continue aggressioni a Napoli? Cosa genera questa ferocia di ragazzini su loro coetanei inermi? Questa violenza è un fenomeno che esiste da vent’anni: oggi è più grave perché si è troppo a lungo sottovalutato il problema, che non è solo di Napoli ma che a Napoli ha assunto proporzioni drammatiche. Chi sono queste bestie, ancorché bambini, che vanno in giro armati di lame o pistole? Sono ragazzini identici a molti loro coetanei romani, milanesi o berlinesi. Sono ragazzini che spesso non vanno a scuola. La dispersione scolastica in Italia è superiore alla media europea, e quella del Sud Italia è superiore alla media italiana. Come riportato da Save The Children, in Campania il 18,1% abbandona precocemente la scuola, cifra seconda solo a quella della Sicilia dove si raggiunge il 23,5%. Questi dati sgretolano dalle fondamenta la democrazia nel totale silenzio in campagna elettorale. Silenzio per incapacità, ignoranza, incompetenza. Si tratta di eserciti di ragazzini che hanno una visione della vita come di un inferno: considerano impossibile realizzarsi con le proprie forze. Ci sarà sempre un raccomandato, un protetto che ce la farà, un fortunato che riuscirà a cavarsela. Il loro pensiero è semplice: il mondo si divide tra fottuti e fottitori, tra chi comanda e chi è comandato. E allora meglio sparare prima di “essere sparati”. L’aggressione subita da Arturo a dicembre e ora quella contro Gaetano non c’entrano con le paranze di camorra. Le paranze sono organizzazioni di adolescenti che vanno dai 10 ai 21 anni e controllano già un segmento importante dell’economia illegale. In questi casi, invece, si tratta di “paranzelle”, come già le stanno definendo sui social, cioè gruppi di ragazzini che ambiscono a mostrarsi più potenti di quello che sono e lo fanno aggredendo a caso. Picchiare così, gratuitamente, porta vantaggio. In un luogo che non offre alternative, il capitale paura è una moneta preziosa che puoi spendere per crescere. Corrado Alvaro scriveva 60 anni fa: “Quando una società dà poche occasioni di mutare stato, o nessuna, far paura è un mezzo per affiorare”, e le cose non sono cambiate. Ogni volta che si verifica un’aggressione, ormai so già che il titolo dei media sarà “aggressione come in Gomorra”. Una semplificazione che fornisce un comodo alibi alla politica e alle istituzioni. Le serie si ispirano a dinamiche reali: attraverso la rappresentazione sullo schermo, ciò che già esiste diventa immediatamente riconoscibile. Alla politica che non riesce a trasformare la realtà non resta che provare a prendersela con la sua rappresentazione. A Napoli invece basterebbe fare un breve esame di coscienza per accorgersi di come stanno le cose. Questi bambini hanno già la disillusione tipica degli anziani che hanno vissuto tutto e che non possono aspettarsi altro se non la morte. E quindi? Qual è la soluzione? Scuole aperte, ma aperte davvero. Qualcuna già esiste: poche, troppo poche. Scuole non fatiscenti e, soprattutto, popolate da un esercito di maestri e professori: sono loro l’unico vero antidoto. Come mi disse una delle madri in eterna fila per vedere suo figlio in carcere, “il mondo è uno straccio bagnato. Se lo si strizza, escono questi ragazzini. Sono o’ risultat di questo mondo ‘e mmerd che abbiamo creato”. Guardare nella ferita di questi ragazzini significa specchiarsi. Chi recupera le vite dei giovani di Antonio Mattone Il Mattino, 15 gennaio 2018 Cosa avrebbe da dire don Pino Pugliesi sulla violenza che si è impossessata della vita dei giovani di Napoli? Qual è oggi il suo messaggio per gli adulti che sembrano impotenti e rassegnati e sono pronti solo a colpevolizzare una generazione intera? Certo i fenomeni delle baby gang e del bullismo non hanno la stessa rilevanza a Palermo. La mafia educa in Sicilia i bambini fin da piccoli ad entrare nei clan malavitosi per gradi, senza il clamore di un’azione violenta. Li prepara accompagnandoli con cura a comprendere la cultura e i metodi dell’”onorata società”. E fu proprio l’azione volta a contrastare il fascino del potere mafioso sui minori a determinare la condanna a morte del sacerdote palermitano. A Napoli non c’è questo tutoraggio malavitoso così attento e scrupoloso, e così quando la famiglia (malavitosa o meno) e le agenzie educative non riescono ad intercettare il disagio di giovani difficili, questi scaricano violenza e frustrazione sul primo che passa, soprattutto se ci si ritrova in branco e se il malcapitato è debole e indifeso, come è successo ad Arturo e a Gaetano. Tuttavia l’approccio che aveva don Puglisi contiene degli spunti su cui vale la pena fare qualche riflessione. Innanzitutto ascoltava con semplicità ma con grande attenzione i ragazzi di Brancaccio, un atteggiamento che gli conferiva una certa autorevolezza. Anche se la sua giornata era piena di impegni, sembrava non avere mai fretta. Non faceva grandi discorsi, ma guardava dritto negli occhi e spesso la mano si posava ferma sulla spalla dell’interlocutore. Racconta un ragazzo che il giorno che lo conobbe gli disse solo poche parole: “Sei il benvenuto, se vuoi qui c’è tanto da fare”. Con i giovani parlava dei problemi del suo quartiere perché riteneva che bisognava conoscere il territorio, perché se è vero che le periferie sono accomunate dal disagio, ogni quartiere ha la sua peculiarità, la sua mentalità, mentre spesso non viene fatta alcuna distinzione e si parla genericamente di povertà ed emarginazione dei quartieri a rischio. Infine, credeva molto nella collaborazione con gli assistenti sociali, gli insegnanti e tutti quegli attori sociali a cui riconosceva competenze e ruoli fondamentali nell’individuazione di carenze socio-pedagogiche e nell’individuazione di percorsi di recupero dalla devianza. Tanto che con l’equipe con cui collaborava elaborò un questionario di rilevazione dei bisogni dei bambini di Brancaccio e fece delle accurate ricerche sulla dispersione scolastica nel quartiere. Quella di don Puglisi fu una grande azione di prevenzione educativa che oggi sta dando i suoi frutti, come può percepire chi si reca a Brancaccio e vede il grande lavoro di chi ne ha raccolto l’eredità. Di fronte ai tanti episodi di violenza c’è stata una grande indignazione. Un sentimento giusto e sacrosanto che però resta sterile se rimane fine a se stesso. Certo c’è bisogno di controllo del territorio, di telecamere, ma quando un ragazzo di 17 anni viene condannato per due omicidi commessi quando ne aveva 15, capiamo che tutto questo non basta. Bisogna partire da lontano. Innanzitutto dall’ascolto di questa infanzia marginale, dal suo disagio, mentre il mondo degli adulti, troppo spesso è distratto e concentrato su se stesso. E poi bisogna capire che i ragazzi di San Giovanni a Teduccio non sono uguali a quelli di via Foria né a coloro che abitano a Chiaiano. Vivono in contesti socioeconomici diversi e hanno differenti percezioni della loro identità e appartenenza. Solo la violenza li rende simili. Ma soprattutto c’è bisogno di una grande azione di cooperazione tra istituzioni (scuola e assistenti sociali in primis), mondo delle associazioni e forze dell’ordine. Purtroppo assistiamo a realtà che tanto spesso non dialogano tra loro e non mettono in campo azioni congiunte, soprattutto per combattere il principale nodo, quello della dispersione scolastica. Allora ascoltiamo espressioni di autoreferenzialità, evocazioni di un passato nostalgico o una strenua difesa di ufficio che si limita a dire “facciamo quel che si può”. Ma nessuno si misura mai con i risultati raggiunti. E per finire si da la colpa a Roberto Saviano e alla fiction Gomorra, che può piacere o meno, ma a cui certo non si può imputare un fenomeno sociale di queste dimensioni. Ma poi cosa viene fatto in concreto per arginare la violenza giovanile? Quale azione specifica e condivisa è stata intrapresa? Ha ragione Gianluca Guida che nel Forum che si è tenuto ieri nella sede del Il Mattino ha evidenziato come ci sia bisogno di un piano di azione pluriennale per recuperare il rapporto educativo con i minori napoletani. Da qualche parte bisogna pur cominciare. Non si potrebbe allora partire dal quartiere di Arturo? Potrebbe essere un modo per essere accanto a sua madre che con la sua denuncia e il suo comportamento civico ha rappresentato un esempio di grande coraggio. Chi comincia a dire a questi ragazzi, metti da parte il tuo coltello e vieni con noi che qui c’è tanto da fare? Nella Napoli dove il vuoto diventa violenza urbana di Francesco Grignetti La Stampa, 15 gennaio 2018 Ieri l’ultimo caso: due giovani presi a catenate in una rapina. Rintracciati due componenti del branco: hanno 15 e 13 anni. L’ultima aggressione, due sere fa. A Pomigliano d’Arco un branco di dieci adolescenti ha aggredito due coetanei, di 15 e 14 anni, per rubargli il cellulare. I carabinieri sono riusciti a bloccare due degli aggressori: uno di 15 e l’altro di 13 anni. Colpisce in questa storia l’età delle vittime e dei carnefici. Che fossero in strada a tardissima ora. Che lo smart-phone sia un trofeo, a coronamento dell’aggressione. E la serialità dei fatti. La penultima aggressione è della sera prima. Davanti alla stazione della metropolitana di Chiaiano, estrema periferia di Napoli, il branco ha colpito Gaetano, 15 anni, preso a calci e pugni fino a spappolargli la milza. Ci sono già dieci minori identificati per quel pestaggio. Stazione di Chiaiano, ieri. La nuova linea di metropolitana parte dal cuore della città e vi deposita a destinazione in venti minuti. Dietro le spalle ci si lascia l’arte, le opere di Pistoletto lungo i percorsi, le scale mobili luccicanti. Ma già il viaggio inizia con un pugno allo stomaco. Un uomo sui cinquant’anni chiede la carità, offre il solito campionario di calze. Poi di colpo si getta a terra: “Aiutatemi. È da stamattina che vado in giro e non ho abbastanza da mangiare. Io mi inchino di fronte a voi. Meglio umiliarsi che andare a rubare o fare rapine... Aiutatemi”. E bacia il pavimento della carrozza. Arrivati a Chiaiano, il nulla. Qualche murales a ingentilire il cemento armato. Cassonetti fetidi della spazzatura. Tre ambulanti di colore con una misera bancarella e qualche occhiale da sole. La gente, soprattutto giovani, va via a testa bassa. Si aspetta l’autobus o la macchina del papà che viene a prendere. “Sa - arriva per telefono la voce del questore di Napoli, Antonio De Iesu - da quelle parti mi colpisce soprattutto il vuoto. Non c’è un centro di aggregazione, non un esempio positivo. I ragazzi vivono in strada. E la strada è la loro unica prospettiva. Ma guardi che a Napoli sono tanti i quartieri sensibili, anche in centro. E il problema di queste nuove generazioni violente è serio per davvero”. Il vuoto. A Chiaiano, si tocca con mano. C’è un addetto della metropolitana barricato nel suo gabbiotto blindato. E nulla più. La polizia sta esaminando le registrazioni delle telecamere di sorveglianza per identificare gli aggressori. Ma nessuno ha visto, nessuno si è fatto avanti. E si è trattato di un pestaggio violentissimo e reiterato. Gaetano, il quindicenne su cui si sono accaniti di più, ha perso la milza al termine di un’operazione d’urgenza. “Mio figlio è vivo per miracolo - si è sfogata la madre, Stella -, se qualcuno ha visto qualcosa, lo denunci. Fatti del genere o non si devono ripetere più”. Qualche tempo fa, il sociologo Domenico De Masi, per parlare della sua amata Napoli, disse che “ormai è come vivere in Afghanistan”. Se lo divorarono di polemiche. Ma poi ieri anche Roberto Saviano ha parlato di “barbarie” per descrivere la realtà giovanile di Napoli. Secondo Saviano, con tassi di abbandono scolastico come quelli di Napoli, al 18%, inimmaginabili nel resto della civile Europa, è la cultura della sopraffazione che sta vincendo. Violenza cieca. Se ne parla da mesi a Napoli. Inizialmente quando si scoprì la movida violenta. Bastava uno sguardo di troppo, per dare il via a risse selvagge. Ma anche pestaggi di tanti contro uno. Ed ecco come è finita. L’animatore di un comitato contro la movida selvaggia, Mauro Boccassini, presidente dei residenti in via Aiello Falcone, è terrorizzato. Si è sfogato con Il Mattino. Da settimane gli squarciano le ruote della macchina. “Ormai è più il tempo che passo in commissariato di quello in famiglia”. Alla vigilia di Natale lo hanno dovuto scortare al supermercato perché era stato sufficiente affacciarsi dal terrazzo per scatenare gli insulti e le minacce dagli avventori di un bar vicino. È stato pestato a sangue a ottobre. E c’è stato un raid di cinque incappucciati nel palazzo che hanno distrutto tutto al loro passaggio, dai citofoni alle piante. “Noi siamo ormai sotto attacco di un nuovo terrorismo urbano”, dice con voce accorata la mamma di Arturo, 17 anni, accoltellato al collo il 18 dicembre scorso nella centralissima via Foria. Il ragazzo, studente modello di liceo, mentre cammina viene preso di mira da una banda di minorenni. Lo mettono in mezzo, lo spintonano, poi partono le coltellate. È salvo per miracolo. Oggi torna a scuola. “Ma è ancora traumatizzato e non riesce a parlare. Però i compagni insistono. E anche a lui farà bene un primo avvicinamento alla normalità”, dice la mamma, la signora Marisa Iavarone. Per lui si mobilitano in tanti. I compagni di scuola, altri adolescenti che non ce la fanno più. Sotto Natale c’è stata persino una manifestazione con centinaia di ragazzi che rifiutano questa violenza dilagante e senza scopo. “Io lo definisco terrorismo urbano perché lo scopo è solo di spargere il terrore tra i nostri figli. E temo che siamo solo agli inizi di questa storia. Il quadro è drammatico. Stanno crescendo delle nuove generazioni che conoscono solo la cultura della violenza, sono camorristi dentro. E i loro genitori li spalleggiano. L’unico del gruppo che hanno arrestato è un quindicenne che fa il bullo pure con il magistrato, non si rende conto, è evidente che queste sono le uniche regole che conosce. E sua madre lo giustifica pure. Dice che “non è cattivo. Sono solo atteggiamenti”. Io mi rivolgo a quella madre, a tutte le madri. Ma si rendono conto del vuoto genitoriale dove crescono i loro figli?”. C’è una Napoli che funziona, insomma. La Napoli del turismo sempre in crescita. Con i suoi monumenti e musei tirati a lucido. E poi la Napoli della violenza cieca, dei modelli negativi, delle “paranzelle” come ci racconta Saviano, dove ci si divide tra “chi fotte e chi è fottuto”, dove i bambini non sognano, si sentono vecchi e disillusi a 15 anni. “Il carcere rende i giovani più aggressivi dobbiamo rieducarli assieme ai genitori” di Giuseppe Crimaldi Il Mattino, 15 gennaio 2018 Intervista a Gemma Tuccillo, responsabile del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità. Contro i minori che delinquono, commettendo reati gravissimi come quelli perpetrati da chi ha ridotto in fin di vita Gaetano il 15enne di Melito al quale dopo un linciaggio violento e gratuito i medici hanno dovuto asportare la milza - “non servono pene più severe. Meglio agire con le misure alternative e sollecitando il corretto esercizio della responsabilità genitoriale in modo consapevole”. Gemma Tuccillo, magistrato di lungo corso oggi in servizio al Ministero della Giustizia, dove è responsabile del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, non ha dubbi. “Le aggressioni avvenute in questi giorni a Napoli e in provincia indicano come si sia abbassata l’asticella della responsabilità e della tollerabilità. Il dato che più mi colpisce - afferma il magistrato - è quello che richiama, ancora una volta, ad un disagio generalizzato: ad ambienti nei quali regna il degrado culturale, il disagio familiare, laddove impera una disgregazione culturale ed economica”. Possibile che dietro ogni aggressione, ogni azione violenta commessa da adolescenti contro coetanei, vi siano sempre e comunque figli di qualche Dio minore? E quale messaggio si trasmette nel momento in cui chi ha ridotto quasi in fin di vita un ragazzino sembra quasi di riuscire a fare franca? “Sarò sincera. Non generalizzerei, fermo restando l’allarme e la portata di azioni violente e gravi come quelle accadute a Napoli e a Pomigliano d’Arco. Piuttosto mi preoccupano le motivazioni che sono alla base di queste vicende. Il dato che colpisce di più è la facilità di alcuni minori a ricorrere alla violenza: specie quando parliamo di minori che non hanno consapevolezza delle proprie azioni in considerazione della loro giovanissima età. E tuttavia considero pericoloso generalizzare e riportare tutto alla camorra, o alle baby gang”. E dunque? “Siamo di fronte a minori che agiscono e commettono reati. I quali, non necessariamente, sono i figli di ?Gomorra?”. Tuttavia la legge sembra offrire armi spuntate. Come si fa a non assicurare alla giustizia gli adolescenti che rischiano di uccidere o che, comunque, si rendono responsabili di fatti gravissimi? “Lo dico subito: contro questi fenomeni non serve abbassare l’età imputabile. Anzi, aggiungo che nessuna misura repressiva - dall’arresto, all’isolamento, alla detenzione - serve, ma anzi esse possono potenzialmente accrescere l’aggressività del giovane. La repressione fine a se stessa non ha mai prodotto effetti sanzionatori e tanto meno rieducativi. Ma allora quali sono gli strumenti per bloccare questa spirale di violenza? “Serve la prevenzione. A cominciare dalla scuola. Cominciamo non dai licei, ma molto prima: dalle medie e le elementari. Tenendo presente che da noi, al Sud, abbiamo tassi di evasione scolastica da mettere i brividi”. Che cosa propone allora? “Lezioni periodiche alle quali dovrebbero partecipare gli alunni insieme con i propri genitori, ed estese anche agli insegnanti. Perché spesso l’isolamento di un minore comincia proprio nelle aule scolastiche”. Napoli in copertina di nera. Sempre di più, e sempre più per i fenomeni legati al bullismo e alle violenze sui minori perpetrate da altri minori. “Non credo si possano fare facili equazioni in merito. Probabilmente a Napoli e nella sua provincia siamo di fronte a territori nei quali è più difficile che altrove porre in essere una efficace politica di prevenzione. Forse proprio perché abbiamo un tessuto sociale che da troppo tempo si va sempre più deteriorando”. Eppure dagli atti dell’inchiesta sul ferimento di Gaetano emergono collusioni e responsabilità ascrivibili agli stessi genitori dei presunti responsabili: alcuni dei quali esortavano i propri figli a non rispondere alle domande degli investigatori. “C’è sicuramente una gravissima e perniciosa “non cultura”, associata ad una sorta di forza di rassegnazione, che purtroppo finisce con l’incidere sui ragazzi che vivono in certi contesti familiari”. Torniamo al caso di Gaetano. Ferito gravemente, e che dovrà vivere il resto della sua vita senza la milza. Possibile che di fronte a simili episodi non si preveda il fermo o l’arresto dei responsabili di tale violenza? “Non è questione da porre in questi termini. Senza entrare nel merito del caso, e rispettando il lavoro del magistrato minorile che sta indagando io dico che una risposta repressiva assoluta non dà nessuna vittoria, se non quella che invoca - di pancia - l’opinione pubblica. Ogni risposta repressiva, in simili casi, rischia di diventare - anzi - un boomerang”. E sulle misure alternative? Sulla limitazione della responsabilità dei genitori che non educano i propri figli? “C’è una logica da seguire su questo punto: perché il concetto di potestà richiama diritti doveri e cura: per questo serve un dialogo costante tra giustizia penale minorile e giustizia civile minorile”. Quelle toghe senza lezioni di Liana Milella La Stampa, 15 gennaio 2018 Sembra incredibile che dovesse esplodere il caso Bellomo per scoprire che in Italia esiste la giungla delle scuole private per formare i magistrati ordinari in vista del concorso. Costose nelle rette e nelle dispense, addirittura con divieto di fotocopia nel caso di “Diritto e scienza”, la scuola dell’ex consigliere di Stato Francesco Bellomo, incontrollabili sia nelle tariffe che nei programmi, in ovvia concorrenza tra loro, oscure nei bilanci e nella contabilità, a volte affidata alla titolarità non del magistrato amministrativo che di fatto la gestisce, ma a un membro della sua famiglia, la moglie, tanto per fare un esempio. Tutti sapevano, come hanno raccontato gli studenti e le studentesse di Bellomo, uomini e donne - non bisogna dimenticare che c’erano gli uni e le altre - che hanno accettato regole meschine nella prospettiva di superare, magari con qualche agevolazione rispetto ad altri, un concorso difficile, che giunge anche dopo dieci anni di studio. “ Diritto e scienza” prometteva, nei contratti sottoscritti, di mettere a disposizione i “segreti industriali” della scuola. Nessuno si è chiesto, e ora saranno i magistrati a doverlo fare, cosa mai si potesse nascondere dietro quei “segreti industriali”. Forse le tracce dei compiti? Senza le performance sessuali di Bellomo, e senza la denuncia del padre di Francesca, “ Diritto e scienza” potrebbe ancora vantare le alte percentuali di superamento dei concorsi, migliori di quelle dei colleghi che tuttora gestiscono, nella stessa Bari, altre scuole. Tutti sapevano, come continuano a dire gli allievi di Bellomo, ma di fatto era come se nessuno sapesse. Tant’è che anche all’interno del Consiglio di Stato, nel corso dell’ultimo anno, in parallelo col caso Bellomo, non trovavano sponda le battaglie di chi aveva avvertito per tempo il bubbone delle scuole e voleva porci riparo. Adesso non si può più far finta di niente. Tant’è che l’ultimo consiglio di presidenza della giustizia amministrativa ha varato una griglia di obblighi per chi sarà autorizzato a guidare una scuola, tra cui una totale trasparenza nella gestione finanziaria. Ora si muovono il ministro della Giustizia Orlando che istituisce una commissione per disboscare la giungla delle scuole, il Csm che col vice presidente Legnini propone un accesso diretto al concorso per gli studenti meritevoli ed economicamente deboli, e infine il sindacato dei giudici. Il presidente dell’Anm Eugenio Albamonte conia una felice espressione - “guardiamoci dai cattivi maestri” - e chiede un censimento delle scuole esistenti. Albamonte, pm a Roma e toga di Md, mette in guardia da docenti “magari bravi, ma carenti dal punto di vista dei valori e dei principi”. Sta qui lo strascico penoso e incomprensibile del caso Bellomo, che inevitabilmente rischia di lasciare un’ombra su chi ha frequentato la sua scuola e ha accettato, in alcuni casi pur con forti dubbi, obblighi singolari (il dress code, il divieto di sposarsi, l’imposizione di misurare il quoziente intellettivo dei fidanzati). Gli interrogativi sono molti: com’è possibile che sulle scuole non ci sia stato controllo; perché ai magistrati ordinari è vietato gestire scuole, mentre quelli amministrativi possono farlo; perché, dopo sette anni di studio tra università e perfezionamento, è necessaria una scuola per superare il concorso. La spiegazione fornita è singolare: dall’università si esce senza gli strumenti per superarlo, quindi la scuola serve. Se quest’affermazione assurda è vera, allora apriamo subito un’inchiesta a monte, quella sui corsi universitari. Alessandro Pajno: “Bellomo ha leso il nostro onore. Basta con le scuole fai-da-te” di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 15 gennaio 2018 Il presidente del Consiglio di Stato parla della destituzione del giudice. “Vicenda dolorosa, ma abbiamo reagito. Chi ci attacca vuole il far west”. Alessandro Pajno, presidente del Consiglio di Stato, parla per la prima volta della destituzione di Francesco Bellomo, il giudice ormai noto per i contratti con clausole sulle minigonne che faceva firmare alle allieve della scuola di preparazione al concorso per magistrati. Mai, in 180 anni, vicende del genere si erano verificate nella suprema magistratura amministrativa. Esiste una questione morale nel Consiglio di Stato? “Non in senso specifico. Fisiologicamente, come in tutte le organizzazioni sociali, ci può essere qualcuno che sbaglia”. I “cattivi maestri” di cui parla il presidente dell’Anm Albamonte? “I cattivi maestri possono essere dovunque, non solo nelle scuole per aspiranti magistrati. Quindi tutti devono stare in guardia. Noi abbiamo agito immediatamente, senza che ci fosse un procedimento penale, e lo stesso Csm si è pronunciato subito dopo che noi lo avevamo informato”. Come ha vissuto questa vicenda? “Con dolore. Sono figlio di magistrato e ho dedicato la vita alla magistratura e alle istituzioni. Bellomo è il terzo giudice destituito nella storia della giustizia amministrativa. Solo chi ha la coscienza per fare giustizia al proprio interno può rivendicare l’autorevolezza per farla all’esterno”. La considera una vittoria o una sconfitta? “Entrambe. Una sconfitta per aver dovuto scoprire comportamenti di un collega incompatibili con la dignità della funzione. Ma soprattutto una vittoria, per la capacità del sistema di curare le patologie con anticorpi adeguati. Ed è la prima volta che un qualsiasi giudice viene destituito senza che nei suoi confronti fosse neanche iniziato - all’avvio del procedimento disciplinare - un’inchiesta penale”. Bellomo protesta: nessun rilievo alla mia attività di giudice, avete censurato la mia vita privata. “Si lede l’onore e il prestigio della magistratura anche con comportamenti esterni all’attività giurisdizionale, non solo alterando la regolarità di un processo”. Bellomo farà ricorso. Decideranno Tar e Consiglio di Stato. Saranno imparziali? “Certo. Abbiamo nel nostro sistema un meccanismo di garanzia: i magistrati che esamineranno l’eventuale ricorso sono tra quelli che non si sono mai occupati del caso nella fase disciplinare”. Ma appartengono allo stesso corpo. Lei si fiderebbe, al posto di Bellomo? “Assolutamente sì. In fondo, quando un magistrato ordinario commette un reato, chi lo giudica? Un altro magistrato: lei dubita che sia imparziale? E comunque abbiamo una lunga casistica di sentenze di giudici del Consiglio di Stato che smentiscono precedenti valutazioni di altri giudici dello stesso corpo in sede consultiva. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha più volte riconosciuto l’imparzialità del sistema”. Come risponde a chi vi accusa di essere una casta che si autotutela? “Con i fatti. Questo caso, con il clamore e le storture collegate, non sarebbe emerso senza l’intervento del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, il nostro organo di autogoverno. Siamo arrivati prima delle Procure. Noi abbiamo avviato il procedimento disciplinare, noi abbiamo avvisato il ministro della Giustizia, il procuratore generale della Cassazione, il Csm. Se avessimo voluto temporeggiare, nascondere o insabbiare, avremmo fatto l’opposto”. Un anno per decidere: perché? “Abbiamo ricevuto una denuncia nel dicembre 2016 e ci siamo mossi immediatamente. In assenza di risultanze di indagini penali, è stato necessario un accertamento particolarmente rigoroso dei fatti”. Proprio non si poteva accelerare l’istruttoria, considerando la singolarità del caso? “I tempi sono stati quelli più rapidi consentiti dalla legge. L’azione disciplinare è stata avviata in 10 giorni anche se la legge consentiva fino a un anno di tempo. Il procedimento si è svolto nel rispetto del contraddittorio e dei diritti di difesa, effettuando tutte le audizioni necessarie e deliberando direttamente la sanzione più grave. Il parere dell’Adunanza generale e l’ultima delibera del Consiglio di presidenza sono stati adottati praticamente all’unanimità. Sfido chiunque a trovare un corpo istituzionale o un ordine professionale più severo e rigoroso”. Ma perché Bellomo è rimasto in servizio per un anno, mentre era sotto accusa? “In assenza di un procedimento penale, la sospensione cautelare avrebbe richiesto gli stessi tempi della sanzione definitiva”. Dunque la sua conclusione è che il sistema funziona? “Con i mezzi a disposizione, si è fatto il massimo. Ma il nostro procedimento disciplinare è regolato da norme obsolete, che in parte risalgono ancora al periodo fascista. Le più recenti sono dell’82. Al contrario, per i magistrati ordinari sono state modificate nel 2006”. Che cosa si può fare? “Non possiamo cambiarle noi. Da anni il Consiglio di presidenza ha segnalato l’inadeguatezza a vari governi; nel dicembre scorso ne ho ribadito l’esigenza in una lettera alla presidenza del Consiglio. Abbiamo anche predisposto bozze di riforma, ma non possiamo approvarcele da soli”. Csm e Associazione nazionale magistrati hanno sollevato la questione delle scuole per preparare il concorso in magistratura. Ai magistrati ordinari sono vietate, a quelli amministrativi no. Bisogna estendere il divieto? “Già nel luglio scorso il nostro Consiglio di presidenza aveva deliberato misure più severe per l’autorizzazione degli incarichi. Ho chiesto una verifica dell’attuazione di questa delibera. Allo stesso Bellomo, dopo i primi accertamenti, era stata negata l’autorizzazione a insegnare”. È sufficiente? “No. Occorre procedere a un profondo ripensamento della materia degli incarichi di insegnamento nelle scuole di preparazione per i concorsi in magistratura, senza riflessi difensivi e autoreferenziali, confrontandoci con mondi diversi dal nostro: Csm, ministero, università. Il dibattito si è già avviato all’interno del Consiglio di presidenza”. Molti politici negli ultimi anni vi hanno preso di mira accusandovi di essere un freno per il paese. Questa vicenda vi indebolisce? “Semmai ci rafforza, perché abbiamo dato prova di speditezza ed efficienza. Le stesse documentate dall’attività giurisdizionale, al di là di certe fake news che ancora circolano: arretrato dimezzato in pochi anni, tempi processuali tra i migliori in Europa”. Ci sono studi che attribuiscono danni economici al Paese dall’eccesso di processi amministrativi. L’ex premier Prodi sì è chiesto, provocatoriamente, se non sia il caso di abolire Tar e Consiglio di Stato. “Ci sono anche studiosi che hanno colto come la giustizia amministrativa possa costituire un vantaggio economico per il Paese: perché una sana economia si fonda sul rispetto delle regole da parte di amministrazioni e di operatori economici, non sul far west del più furbo”. E i cantieri fermi? Le opere bloccate? Gli appalti e i concorsi annullati? “Non siamo affatto i giudici del no: non siamo noi a bloccare il Paese, semmai la cattiva legislazione e l’eccesso di burocrazia. Anche quest’ultima vicenda, con le sofferenze che ci ha procurato, dimostra che in fondo i cittadini possono fidarsi di noi”. Il legale scagionato dopo 10 anni. “E l’ho scoperto solo per caso” di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 15 gennaio 2018 Giuseppe Melzi, che negli anni 70 difese i risparmiatori truffati da Sindona, venne accusato di riciclaggio per i clan: nel 2008 è stato dieci mesi agli arresti. “Contro di me un’inutile persecuzione basata su una fake news finalmente smascherata dai giudici”. Dei tre agenti che lo vennero a prendere l’avvocato Giuseppe Melzi non dimentica i modi decisi con cui lo portarono a San Vittore. Avrebbe volentieri accettato che con la stessa risolutezza dieci anni dopo gli avessero comunicato che contro di lui erano cadute tutte le accuse. Invece l’ha scoperto da solo, per caso. Tra carcere e domiciliari, l’avvocato si fece quasi dieci mesi di custodia cautelare ai quali vanno aggiunti anche tre anni e due mesi di sospensione dalla professione. Lo arrestarono con altre 8 persone il primo febbraio del 2008 a Milano accusandolo di aver riciclato e reimpiegato, attraverso un giro di società fittizie tra Svizzera, Spagna e Italia, almeno 80 milioni di euro che erano il frutto dei traffici illeciti della cosca della ‘ndrangheta Ferrazzo di Mesoraca (Crotone). Il tutto, secondo l’accusa iniziale dell’allora pm della Dda milanese Mario Venditti (ora procuratore aggiunto a Pavia) con l’aggravante della finalità mafiosa. Era un’inchiesta imponente. Diventato famoso negli anni 70 quando assisteva i piccoli risparmiatori vittime del fallimento della Banca privata italiana di Michele Sindona, interrogato dopo l’arresto, Melzi disse che non ne sapeva niente e se quella storia era vera allora voleva dire che lui era stato uno “strumento inconsapevole” in mano a un gruppo di criminali sconosciuti, tutti tranne uno che aveva visto poche volte. Era l’inizio di un “calvario” al quale “sono sopravvissuto grazie alla mia coscienza pulita e integra e all’affetto incondizionato della mia famiglia, degli amici e delle persone da me assistite in oltre 45 anni”, dopo che “la mia vita personale e la mia attività professione sono state esaminate senza alcun limite e rispetto”, scrive in una lettera al Presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano, Remo Danovi, al quale chiede di “ristabilire pubblicamente” la sua “dignità professionale”. Un anno dopo la retata, la Procura chiese il rinvio a giudizio ma il gup Paolo Ielo, ora procuratore aggiunto a Roma, trasmise il procedimento a Cagliari per competenza territoriale (un imputato patteggiò, un altro scelse il rito abbreviato subendo un paio di anni di carcere ciascuno). Melzi dichiara che da allora non ha saputo più niente. “Per più di sette anni non sono stato mai convocato”, protesta rivolgendosi a Danovi. Di sicuro, però, la Procura di Cagliari ha indagato sulla vicenda aprendo anche un nuovo fascicolo nel 2012, per il quale “è stata recentemente chiesta l’archiviazione”. Come per tutto il resto. Lo scrivono il procuratore capo di Cagliari, Gilberto Ganassi, e il sostituto Guido Piani chiedendo il 4 aprile 2016 al gip Mauro Grandesso Silvestri, appunto, l’archiviazione di tutti gli indagati, compreso Alfonso Zoccola che era stato definito il “responsabile finanziario” dei Ferrazzo. I pm parlano di “debolezza degli elementi indiziari” e dell’aggravante della “mafiosità”, per la quale ci possono essere “elementi di forte sospetto”, ma “non decisivi”, visto che la stessa esistenza della cosca non pare essere provata. Dalle indagini emerge una “vicenda di straordinaria complessità la cui ricostruzione, sia in fatto che in diritto, appare caratterizzata da numerose lacune ed incertezze” sul “merito dei fatti”, sulla “loro configurazione giuridica”, sul “ruolo dei singoli indagati e sull’elemento soggettivo”, oltre ad esserci problemi di prescrizione e di competenza territoriale. Il 5 maggio 2016 il gip archivia. Ci vorranno altri venti mesi prima che l’avvocato Melzi venga a sapere da un collega sardo, ma senza una notifica ufficiale, che tutto è finito dopo quella che lui definisce una “inutile persecuzione” basata su una “fake news” che è stata “finalmente smascherata dai giudici cagliaritani”. Stupefacenti, l’aggravante dell’ingente quantità resta legata alla valutazione del giudice di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 15 gennaio 2018 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 7 dicembre 2017 n. 55014. Ai fini della determinazione della “quantità ingente” di sostanza stupefacente (articolo 80, comma 2, del Dpr 9 ottobre 1990 n. 309), pur dopo le innovazioni determinate dalla sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale e dagli interventi normativi che a essa sono seguiti (principalmente il decreto legge 20 marzo 2014 n. 36, convertito, con modificazioni, dalla legge 16 maggio 2014 n. 79, con cui si è innovato al sistema tabellare delle sostanze stupefacenti), mantengono validità le indicazioni fornite dalla sentenza delle sezioni Unite, 24 maggio 2012, Biondi (secondo la quale l’aggravante non sarebbe di norma ravvisabile quando la quantità sia inferiore a “2000 volte” il valore massimo in milligrammi - valore-soglia - determinato per ogni sostanza nella tabella allegata al Dm 11 aprile 2006, ferma restando la discrezionale valutazione del giudice di merito), nella misura in cui possono essere utilizzati come criteri orientativi: la sentenza Biondi, infatti, introduce un criterio “flessibile”, soprattutto nel caso del superamento del valore-soglia, poiché in tali casi la valutazione circa la configurabilità dell’ingente quantità non è automatica, ma è rimessa al giudice di merito. Lo ribadisce la sezione IV penale della Cassazione con la sentenza 7 dicembre 2017 n. 55014. La Corte recepisce l’orientamento secondo cui, in tema di circostanza aggravante dell’ingente quantità di sostanza stupefacente, prevista dall’articolo 80, comma 2, del Dpr 9 ottobre 1990 n. 309, il principio di diritto affermato dalle sezioni Unite (sentenza 24 maggio 2012, Proc. gen. App. L’Aquila e altro in proc. Biondi), in forza del quale l’aggravante non è di norma ravvisabile quando la quantità sia inferiore a “2000 volte” il valore massimo in milligrammi (valore-soglia), determinato per ogni sostanza nella tabella allegata al Dm 11 aprile 2006, ferma restando la discrezionale valutazione del giudice di merito, quando tale quantità sia superata, mantiene validità anche dopo la sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale. Infatti, il “senso” della decisione delle sezioni Unite è stato quello di trovare un parametro “convenzionale”, non arbitrario o invasivo delle competenze del legislatore, perché basato sull’esperienza giurisdizionale, cui poter ancorare una applicazione della norma tendenzialmente omogenea su tutto il territorio nazionale, conservando ovviamente gli spazi di libertà interpretativa del giudice in ragione delle peculiarità del caso concreto; cosicché, in questa prospettiva, i parametri indicati nel citato decreto ministeriale costituiscono solo un dato oggettivo da cui muovere e non già il presupposto di legittimità del ragionamento probatorio e dimostrativo (sezione IV, 12 ottobre 2016, Palumbo e altro; sezione VI, 6 maggio 2015, Proc. gen. App. Bologna in proc. Perri; sezione VI, 4 febbraio 2015, Berardi). In tal modo, la Corte prende invece le distanze, consapevolmente, dal diverso orientamento secondo cui, ai fini dell’apprezzamento dell’aggravante dell’ingente quantità, la modifica del sistema tabellare realizzata per effetto del decreto legge 20 marzo 2014 n. 36, convertito con modificazioni dalla legge 16 maggio 2014 n. 79, che ha fatto seguito alla sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale, imporrebbe una nuova verifica in ordine alla sussistenza dei presupposti per l’applicazione dell’aggravante, in considerazione dell’accresciuto tasso di modulazione normativa, difficilmente compatibile con un’interpretazione tendenzialmente solo aritmetica e, dunque, automatica di tale aggravante. Per l’effetto, secondo questa diversa prospettazione interpretativa, dovrebbe essere rimeditato il principio di diritto già affermato dalle sezioni Unite, nella sentenza Biondi, e ciò sul rilievo che si tratterebbe, di un principio affermato nell’ambito di un sistema normativo caratterizzato dalla presenza di un’unica tabella relativa a tutte le sostanze stupefacenti e psicotrope droganti, e non più compatibile ora con una disciplina che ha “spezzato” la sostanziale equiparazione tra le droghe pesanti e quelle leggere (cfr. sezione III, 27 maggio 2015, Gavagna). Cagliari: detenuto suicida nel carcere di Uta, la vittima è un algerino di 42 anni Ansa, 15 gennaio 2018 Si è tolto la vita impiccandosi in una cella del carcere di Uta dove si trovava recluso. Un detenuto algerino di 42 anni si è suicidato nella notte tra sabato e domenica. Lo rende noto il sindacato Fns Cisl. Il detenuto, da quanto si apprende, aveva problemi psichici. “Uno dei maggiori problemi in carcere è proprio l’elevato numero di detenuti con disturbi di natura psicologica e psichiatrica e di tossicodipendenza, come quelli ristretti nel reparto Cagliari del penitenziario di Uta - sottolinea il segretario generale aggiunto del sindacato Giovanni Villa. Il livello di assistenza sanitaria è assolutamente inadeguato”. Secondo il sindacalista questi detenuti sono i primi a rendersi responsabili di aggressioni ad agenti e altri carcerati. “A volte, come in questo caso - evidenzia ancora Villa - non sempre riusciamo a salvarli. Questo è dovuto principalmente alla forte carenza di unità: pochi agenti non possono controllare più sezioni. Ben venga l’innovazione con strumenti di ultima generazione, ben venga la sorveglianza dinamica ed il controllo attenuato - conclude il sindacalista - ma tutto questo non potrà mai sostituire la presenza costante del poliziotto che garantirebbe un costante monitoraggio e quindi interventi celeri a garanzia della vita umana”. Venezia: detenuti e artigiani al lavoro, nasce un’area verde per gli incontri con i figli di Barbara Ganz Il Sole 24 Ore, 15 gennaio 2018 In un progetto firmato dall’associazione la Gabbianella e altri animali di Venezia si incontrano due esigenze; quella di rendere agibile l’antico chiostro di Santa Maria Maggiore e quella di dare un lavoro a qualche detenuto al momento del fine pena (cosa che, dicono le statistiche, riduce il rischio di ricadute, motivo per cui in molte carceri italiane il lavoro è diventato una buona prassi: fra i casi studiati anche all’estero c’è la pasticceria Giotto del Due Palazzi di Padova). La Gabbianella ha alle spalle grandi battaglie - come quella per l’affido ai single - e una lunga esperienza con le mamme detenute alla Giudecca, con un lavoro di accompagnamento dei bimbi a scuola, ma anche in piscina o al mare d’estate, e di sostegno (anche nelle famiglie). A questo si è poi aggiunto il lavoro con i figli dei detenuti nel carcere maschile di Santa Maria Maggiore. Tre anni fa è partito “Essere padri in carcere”, finanziato dall’allora Coop Adriatica, e poi, con la Regione, già finanziato dalla Regione Veneto, “Lavorare per i propri figli” Il progetto “Da detenuti a ponteggisti” - che può essere reso possibile da un bando di “Azione Cattolica” e si può sostenere con un click - è un’integrazione di un altro progetto già finanziato dalla Regione Veneto, chiamato “Lavorare per i propri figli”. L’obiettivo del progetto “Lavorare per i propri figli” è riattivare l’area verde all’interno del chiostro di S.M. Maggiore per farne un luogo adatto agli incontri tra i detenuti e i loro figli. Il lavoro necessario alla riattivazione dovrebbe essere svolto, anche in accordo con chi si occupa della manutenzione ordinaria dell’Istituto, dai detenuti sotto la guida di artigiani dell’associazione Artigiani Venezia - Confartigianato e di un architetto, Athos Calafati, capace di orientare gli stessi sia nel senso della necessaria sicurezza che della ricerca dell’armonia estetica. “Da molto tempo - spiega Carla Forcolin dell’associazione veneziana - si cerca di riattivare l’ex chiostro di S. M. Maggiore e questo bando potrebbe spingere all’attuazione di progetti da tanto tempo voluti e necessari, perché oggi le famiglie dei detenuti incontrano i loro congiunti in uno spazio dove ci sono pochissimi metri quadri liberi da tavoli fissi, per giocare insieme, e dove manca uno spazio-eventi, che sarebbe stimolante per tutti”. Già esistono degli accordi tra Ministero e associazioni come “Bambini senza sbarre” che prevedono la creazione di aree destinate ai colloqui tra padri e figli. Nel caso veneziano i “ristretti” dovranno apprendere dagli artigiani e dall’architetto a fare i lavori a regola d’arte, sia per accogliere i figli in un ambiente favorevole al dialogo, sia per poter ricevere un attestato che certifichi la loro abilità come muratori, pittori, elettricisti e per la capacità di mostare e smontare le impalcature. Un attestato privo di valore legale, ma che comunque certificherebbe il lavoro realmente attuato e la loro regolarità nella presenza agli incontri e dunque in qualche modo spendibile nella ricerca di un lavoro. “I colloqui con i figli saranno preparati anche da uno o due psicologi - spiega Forcolin - che accoglieranno i detenuti che avranno il desiderio o bisogno di aprirsi a una riflessione su se stessi e sui rapporti con la famiglia. Gli incontri con i figli saranno favoriti dall’UEPE (Ufficio di esecuzione penale esterna), e attuati in collaborazione con “La gabbianella” nei casi in cui accompagnare i bambini sia necessario. I colloqui saranno resi piacevoli ai bambini da animatori che cercheranno di far giocare insieme padri e figli, o intratterranno i bambini mentre i detenuti parlano con i familiari. Un ruolo importante nel curare materialmente delle piante in giardino lo avrà un giardiniere e la crescita delle piante, curate insieme, dovrebbe rappresentare simbolicamente la crescita dei rapporti”. In tutto questo percorso - è l’obiettivo - saranno acquisite competenze artigianali e di maggior consapevolezza nell’attuazione del ruolo paterno, “che al di là delle schede compilate, non saranno misurabili con indicatori precisi, ma rimarrà, alla fine del progetto, l’Area Verde, luogo adeguato agli incontri tra famigliari e ad eventi come rappresentazioni teatrali o mostre, o anche solo di disegni fatti dai bambini durante i colloqui. Per ripristinare l’intonaco e ridipingere i muri del chiostro abbiamo bisogno di ponteggi, il cui noleggio è particolarmente costoso. Realizzare i ponteggi secondo le normative vigenti è un altro lavoro”. Ecco perché si ipotizza quindi di integrare il progetto “Lavorare per i propri figli” con il progetto “Da detenuti a ponteggisti - imparare a lavorare in sicurezza”, per costruire e imparare a costruire in sicurezza le impalcature. “Con il primo bando - fa sapere l’associazione - non è possibile utilizzare altri fondi per l’acquisto di materiali. I ponteggi hanno un costo elevato, ma senza gli stessi non si può fare un lavoro decoroso nel chiostro. Ecco perché i due bandi si sposano perfettamente. Senza il secondo finanziamento, che qui richiediamo, le mura del chiostro saranno intonacate solo ad altezza d’uomo e tutto il lavoro risulterà misero, meno completo e bello. Se invece questo secondo progetto venisse promosso, le facciate sarebbero completate e acquisterebbero maggiore dignità. Inoltre i detenuti avrebbero la possibilità ricevere una formazione professionale davvero utile da spendere dopo la conclusione della pena”. Monza: uno “Spazio-casa” in carcere per supportare le famiglie di Sarah Valtolina ilcittadinomb.it, 15 gennaio 2018 Una casa con tutti i confort per ritrovare, almeno per qualche ora, il clima intimo e il calore di una vera casa. È il nuovo Spazio - casa nato nella casa circondariale di Monza. Il progetto presentato dalla direttrice Maria Pitaniello. Una casa con tutti i confort per ritrovare, almeno per qualche ora, il clima intimo e il calore di una vera casa. È il nuovo Spazio - casa, l’area realizzata all’interno del settore colloqui della casa circondariale, pensata per facilitare l’incontro dei padri detenuti con i figli e con le madri dei piccoli. Il progetto, che sarà inaugurato il prossimo 15 gennaio, è stato realizzato grazie al contributo del club Soroptimist di Monza. “È stata la presidente della sezione monzese, Tiziana Fedeli, a proporre all’amministrazione dell’istituto la realizzazione di uno spazio pensato per i figli dei detenuti - racconta la direttrice, Maria Pitaniello - Avendo già a disposizione una ludoteca abbiamo voluto offrire ai padri che si trovano in carcere uno spazio ancora più intimo dove poter incontrare i loro figli. È nata così l’idea dello Spazio - casa”. L’idea è stata finanziata e realizzata da Soroptimist. Due architetti hanno progettato un’area pensata proprio per accogliere il nucleo famigliare che avrà a disposizione un angolo cottura, un tavolo per mangiare tutti insieme, un tinello con un divano e un bagno privato. “Il senso di questo nuovo spazio è proprio quello di riproporre la quotidianità dei gesti famigliari - continua il direttore dell’istituto di via Sanquirico - A breve verranno individuati i nuclei famigliari tra quelli che maggiormente hanno bisogno di essere supportati per sostenere la genitorialità”. Permettere al padre, seppur detenuto, di poter trascorrere alcune ore con la propria famiglia sarà certamente di aiuto e supporto all’intero nucleo famigliare. Il nuovo Spazio - casa è stato ricavato all’interno della sezione colloqui, ristrutturando una stanza dismessa. I lavori di ristrutturazione e la posa degli impianti sono stati eseguiti dagli stessi detenuti e dagli agenti del nucleo di Polizia penitenziaria che si occupa della manutenzione dell’istituto. L’ambiente è stato volutamente realizzato in maniera essenziale. “Per rendere ancora più confortevole il piccolo monolocale sono stati appesi alle pareti alcuni quadri realizzati dagli stessi detenuti all’interno di un laboratorio avviato grazie alla collaborazione con l’accademia di Brera. Lo Spazio - casa si affianca alla ludoteca, in funzione all’interno dell’istituto di Monza già dal 1997: un’area gestita in collaborazione con i volontari del Telefono azzurro, dove i detenuti possono giocare con i propri bambini, e dove vengono solitamente realizzate feste a tema per i bambini. Roma: riunione dei Garanti, regionali e locali, dei diritti dei detenuti di Nunzio Marotti* tenews.it, 15 gennaio 2018 Venerdì scorso a Roma si è svolta la riunione dei Garanti, regionali e locali, dei diritti dei detenuti. È stata un’occasione di confronto su diversi aspetti della realtà carceraria italiana. È stata espressa la preoccupazione, fatta pervenire al Ministro della Giustizia, per la sorte dei decreti attuativi della legge delega sulla riforma dell’ordinamento penitenziario. I decreti, infatti, sono stati approvati dal Consiglio dei ministri, prima della pausa natalizia, e inviati alla Commissione parlamentare per il prescritto parere. Ma si registra un ritardo nella trasmissione perché ancora in attesa della bollinatura della Ragioneria generale. Allo stesso tempo è stata affermata la necessità di riprendere il tema del lavoro e dell’affettività che sono stati stralciati dai decreti. I garanti si fanno interpreti di un malessere presente nelle carceri rispetto ad aspettative che potrebbero andare deluse. Ed è per questo che si resta in attesa di un confronto con il Ministro della Giustizia. *Garante dei diritti dei detenuti di Porto Azzurro Asti: botte a un detenuto musulmano, condannato l’agente di Andrea Giambartolomei Il Fatto Quotidiano, 15 gennaio 2018 Ma vittima non può stare vicino alla famiglia: lì lavora chi lo ha picchiato. La Cassazione ha condannato a un anno di reclusione un agente della Polizia penitenziaria per le violenze messe in atto nel 2010 nei confronti di un italo-brasiliano convertito all’Islam e detenuto ad Asti. Oggi l’uomo non può ottenere il trasferimento nel carcere più vicino ai familiari, perché ci lavorò il secondo poliziotto autore delle violenze, già condannato nel 2016. Prima le provocazioni contro la religione islamica. Poi le botte. A subirle in carcere, nel 2010, un italo-brasiliano, all’epoca 25enne, convertito all’Islam e detenuto nel penitenziario di Asti. Per questi fatti la Corte di Cassazione ha condannato a un anno di reclusione per lesioni aggravate un agente della Polizia penitenziaria ora in pensione. La condanna nei confronti di un suo collega coinvolto nei fatti era invece già definitiva nel 2016 perché quest’ultimo non ha fatto ricorso dopo la sentenza della Corte d’appello di Torino. Ne dà notizia l’Associazione Antigone per la tutela dei diritti dei detenuti, che adesso denuncia un altro aspetto: la vittima - tornata in cella - non può ottenere il trasferimento nel carcere più vicino alla sua famiglia, quello di Alessandria, perché il secondo poliziotto lavora lì. “È molto importante ora che il ministero della Giustizia assicuri protezione al detenuto e che sempre più nei programmi di formazione dello staff si parli anche di libertà religiosa”, commenta Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. L’episodio è avvenuto nel carcere di Asti dove, intorno al 2004, secondo gli atti dell’inchiesta, una squadra di agenti seminava il terrore. L’unico processo nei confronti di alcuni di loro per le violenze ai danni di due detenuti era finito nel nulla e soltanto a ottobre la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia a risarcire le vittime di quelle violenze qualificate come torture. Il fatto denunciato adesso da Antigone, invece, è avvenuto il 27 maggio 2010: il giovane detenuto con problemi di droga, diventato musulmano poco prima di finire in cella nel 2008, doveva essere accompagnato in infermeria dal “secondino”, che nel percorso inizia a rivolgergli domande provocatorie sulla sua barba e sulla sua religione. “Allora il brigadiere tormentatore di musulmani mi fa: “Il vostro Profeta puzzava e ci puzzava anche quella cazzo di barba” - scriveva il detenuto al suo avvocato Guido Cardello in una lettera inviata sotto falso nome per evitare le censure - A quel punto io ho tirato un calcio alla scrivania perché qualunque musulmano non sarebbe stato zitto e fermo”. L’agente gli intima di rimettere a posto il tavolo, il 25enne si rifiuta, il poliziotto gli dà un pugno e, mentre chiede all’altro agente di prendere le forbici per tagliargli la barba, lo trattiene per il collo: “Guarda, hai pure il trattamento dei tuoi fratellini di Abu Graib”, è la frase pronunciata dal primo poliziotto e citata nella lettera in cui il detenuto ricorda l’affronto subito e i calci al collo. Nella lettera, però, non segnala l’ulteriore maltrattamento subìto a cui i giudici non hanno creduto perché raccontato troppo tardi. I due agenti denunciati e altri due non identificati lo avrebbero imbavagliato e, dopo aver alzato il volume della radio per non fare sentire i rumori, gli avrebbero tolto i vestiti e coperto la testa con un sacchetto. Dopo avrebbero legato caviglie e polsi alle sbarre della finestra dell’infermeria e lo avrebbero fatto salire su un letto per poi togliergli l’appoggio e farlo penzolare in aria. Il 5 dicembre 2014 il Gup Giulio Corato ha condannato due agenti a 2 anni e 8 mesi il primo e due anni e due mesi il secondo per lesioni aggravate, violenza privata, ingiuria e vilipendio alla religione, dando credito soltanto al primo episodio. In secondo grado la Corte d’appello di Torino ha ridotto le pene a un anno di reclusione perché, nel frattempo, il reato di ingiuria era stato abrogato e l’accusa di violenza privata era stata ritenuta insussistente. Soltanto un agente ha fatto ricorso in Cassazione, che però ha respinto, mentre il collega non ha impugnato la sentenza della Corte d’appello, che è diventata definitiva. I due hanno risarcito la loro vittima con cinquemila euro. La vicenda potrebbe ritenersi chiusa, ma a luglio l’italo-brasiliano è tornato in cella e, non potendo essere rinchiuso ad Asti (riservato a chi ha condanne definitive), né ad Alessandria, dove lavora il secondo agente, è stato mandato a Cuneo. “Il mio cliente ha scritto al Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria chiedendo un trasferimento - spiega l’avvocato Cardello. Potrebbe andare nel carcere di Vercelli, più vicino alla famiglia, ma non gli è stato concesso”. Padova: dietro le sbarre “Il lavoro libera...” di Anna Donegà La Difesa del Popolo, 15 gennaio 2018 Fino al 21 gennaio la mostra al Centro d’arte di Piove. L’associazione Operatori Carcerari Volontari presenta la mostra mercato “Il lavoro libera...” con gli oggetti realizzati a mano dai detenuti in regime di massima sicurezza: sono il frutto di due laboratori che impegnano otto ore al giorno una decina di persone. La libertà può avere la forma di un airone in legno, di una coperta in patchwork o di un puzzle di animali. Questi sono solo alcuni dei lavori realizzati dai detenuti del carcere Due Palazzi grazie ai volontari dell’associazione Operatori carcerari volontari ed esposti al Centro d’arte e cultura di Piove di Sacco. Entrando nelle due sale, nelle quali è allestita la mostra mercato “Il lavoro libera...”, ciò che colpisce è la vivacità dei colori e dei disegni che contrasta con l’immagine, buia e angusta, di una cella carceraria. E il senso di stupore continua quando Livia e Sergio, volontari dell’associazione, spiegano che gli autori sono una decina di uomini, sopra i 60 anni, reclusi da vent’anni o più in regime di massima sicurezza. Il messaggio che gli Operatori carcerari volontari vogliono trasmettere è che l’arte e il bello possono nascere anche in situazioni difficili e ristrette e possono avere pari dignità delle espressioni creative nate “fuori”. Livia Gaddi è volontaria da sette anni, da quando è in pensione, ed è la curatrice dei due laboratori di cucito e di falegnameria dai quali nascono i lavori esposti. “I laboratori sono aperti tutti i giorni e i detenuti possono accedervi per otto ore al giorno. Sono due attività nate dai volontari dell’associazione Ocv circa tre anni fa e che proseguono grazie alla fondamentale apertura della direzione del carcere e della disponibilità degli agenti, che devono gestire un supplemento di lavoro”. Non è infatti scontato che detenuti in regime di “carcere duro” (articolo 41 bis) e soggetti a isolamento e limitazione di comunicazioni con l’esterno, possano uscire dalla cella ed essere impegnati in un’attività creativa di questo tipo con una buona autonomia, tanto che possono accedere ai laboratori anche in assenza dei volontari. “I 10 detenuti per ora coinvolti - continua a raccontare Livia Gaddi - sono divisi nei due laboratori e si occupano di tutte le fasi del lavoro, dalla progettazione degli oggetti, agli ordini del materiale alla realizzazione. È una occasione concreta di sperimentarsi in un contesto semilavorativo, che permette di dare nuova dignità, di imparare la collaborazione e il rispetto e, soprattutto, è un volano per il riscatto sociale. Poter mettere in campo la propria creatività e mostrare i lavori realizzati ai propri familiari ha un valore di collante affettivo molto forte. A questo si aggiunge il riconoscimento economico, anche se minimo, del lavoro svolto grazie alla vendita degli oggetti. La piccola somma che ciascun detenuto riceve va alle loro famiglie, se bisognose, oppure in beneficenza”. Le attività permettono, inoltre, di sviluppare la collaborazione tra il sistema carcerario e l’esterno e tra realtà che operano all’interno del carcere, tra le quali la cooperativa Giotto, Altracittà e Granello di senape, partner anche della mostra. L’allestimento a Piove di Sacco s’inserisce al termine di alcuni incontri degli studenti piovesi in carcere, grazie a Ornella Favero di Granello di Senape ed è merito anche dell’accoglienza dell’amministrazione comunale che, concedendo la sala mostre della Saccisica, aiuta a dare alla mostra la dimensione culturale e sociale che merita. I volontari aspettano la cittadinanza per questo interessante viaggio dentro al carcere, tra le problematiche e gli aspetti positivi, tutti i giorni in via Garibaldi 40 a Piove di Sacco fino al 21 gennaio, dalle 10 alle 12.30 e dalle 16 alle 18.30. Migranti. Nel 2017 sbarchi in calo del 34%: ma a gennaio sono tornati a salire di Lorenzo Salvia Corriere della Sera, 15 gennaio 2018 L’effetto dell’accordo con la Libia nelle tabelle del ministero dell’Interno. Nei primi giorni del 2018, però, gli arrivi sono cresciuti del 15%, ma è ancora presto per parlare di inversione di tendenza. La partita a Bruxelles per un nuovo piano di redistribuzione. Un crollo se si guarda agli sbarchi di tutto il 2017: -34% rispetto all’anno precedente, grazie soprattutto alla stretta arrivata con l’accordo fra Italia e Libia, contestato però dalle organizzazioni non governative. Un aumento se si abbassa la lente di ingrandimento sui primissimi giorni del 2018: + 15% fino al 12 gennaio, anche se il periodo considerato è troppo breve per parlare di inversione di tendenza. E anzi con i dati provvisori aggiornati a oggi dovremmo tornare al segno meno. Il Papa parla del timore per l’arrivo dei migranti, il tema comincia a prendere quota nella campagna elettorale e tornerà presto sul tavolo di Bruxelles, finito lo stallo per la formazione del nuovo governo nel Paese azionista di maggioranza dell’Unione europea, la Germania. E allora per orientarsi nel dibattito che verrà è utile analizzare i numeri di quella che per anni abbiamo cambiato emergenza. Ma che ormai è un fenomeno stabile del nostro tempo. Forse governabile, difficilmente superabile. Il calo dell’anno scorso - Secondo i dati del dipartimento di pubblica sicurezza del ministero dell’Interno, in tutto il 2017 sono sbarcati in Italia 119.310 migranti. Nel 2016 erano stati molti di più: 181.436. Il calo è stato del 34,24%. C’è stato uno spartiacque nei flussi dell’anno scorso. Fino al mese di giugno gli arrivi erano in leggero aumento rispetto all’anno precedente. Poi è arrivato il crollo. Sulla causa sono tutti d’accordo: è l’effetto del nuovo accordo tra Italia e Libia per la sorveglianza delle coste. Una stretta sui controlli a terra e sui pattugliamenti in mare attuati dalla Libia in cambio di un pacchetto di aiuti economici per lo sviluppo del Paese. Diverse organizzazione governative criticano l’intesa e parlano di pesanti violazioni dei diritti umani. Accuse più volte respinte dal governo italiano che invece sostiene come proprio l’accordo spinga i libici a un maggiore rispetto dei diritti, in un Paese dove la situazione generale non è certo facile. Un modello simile c’è anche in Niger: un accordo con l’Italia c’è già da anni ma è allo studio un potenziamento. L’inizio del 2018 - Nei primi giorni del 2018, i dati del Viminale arrivano al 12 gennaio, i migranti sbarcati in Italia sono stati 841. Nello stesso periodo dell’anno scorso erano stati meno, 729. C’è dunque una crescita del 15,36%. Ma perché sarebbe azzardato parlare di inversione di tendenza? I giorni considerati sono pochi e quindi anche un solo sbarco può far sballare le statistiche. È proprio il caso dei primi giorni di gennaio. Giovedì scorso c’è stato un grosso sbarco a Crotone, 264 persone partite dalla Turchia. Mentre il 15 gennaio dell’anno scorso, giorno ancora fuori dal confronto nelle tabelle del Viminale, ne erano arrivati 182 a Reggio Calabria. Per questo già oggi nelle tabelle ufficiali del ministero dovrebbe tornare il segno meno. In ogni caso, in questo inizio di 2018, sono in flessione gli arrivi dalla Libia: sono stati 544 contro i 623 dello stesso periodo del 2016. Un calo del 12,68%. Il nodo europeo - Il 2017 è stato anche l’anno della cosiddetta relocation, la redistribuzione dei richiedenti asilo arrivati nei Paesi frontiera dell’Europa, Italia e Grecia, nel resto dell’Ue. Un piano osteggiato dagli Stati del Nord, che per questo non ha raggiunto gli obiettivi previsti. Dovevano essere 20 mila i migranti arrivati in Italia e redistribuiti nel resto dell’Unione. Alla fine quelli coinvolti nel progetto sono stati 13.918. Anche se quelli effettivamente trasferiti sono stati 11.464 mentre per gli altri il procedimento è ancora in corso. Una grande fetta dei trasferimenti ha avuto come meta la Germania, che si è fatta carico di 4.894 richiedenti asilo. E qui arriviamo al punto. A Bruxelles si dovrebbe tornare presto a parlare di un nuovo piano per la redistribuzione dei migranti. Finora tutto è rimasto fermo per la mancanza di un governo nel pieno dei suoi poteri in Germania, dopo il voto senza vincitori di settembre. Ma dopo la svolta verso le larghe intese degli ultimi giorni, la situazione si potrebbe sbloccare. Aprendo la strada a una delocation 2 sulla quale la Germania, oltre all’Italia e alla Francia, dovrebbero essere d’accordo. Se così sarà, però, l’accoglienza dei migranti provenienti da altri Paesi sarà su base volontaria, non obbligatoria. Nel calcolare il peso dell’operazione bisognerà considerare la tara non solo di una macchina burocratica complessa ma anche degli interessi nazionali. Basta pensare all’Austria e al suo governo di ultradestra guidato da Sebastian Kurz. Sarebbe sbagliato aspettarsi grandi numeri. La mappa nelle regioni - Al netto dei trasferimenti già completati, e in attesa di un rilancio del progetto europeo, i “migranti in accoglienza” in Italia sono al momento 183.681. La distribuzione sul territorio è fatta in base alla popolazione delle singole regioni. Per questo in Lombardia ce ne sono oltre 26 mila, il 14% del totale, mentre Lazio e Campania ne hanno poco più di 16 mila a testa. Anche questo sarà tema da campagna elettorale. Mentre si parla meno di un altro dato. Nel 2017 sono sbarcati in Italia 15.731 minori non accompagnati. Molti meno rispetto all’anno precedente, quando avevamo superato quota 25 mila. Ma dietro ognuno di loro c’è sempre un dramma nel dramma Migranti. Nel 2017 arrivati in Italia 15mila minori soli di Alessandra Ziniti La Repubblica, 15 gennaio 2018 Save the Children: “Serve accoglienza adeguata”. Nella giornata mondiale del Migrante e del Rifugiato l’allarme di Save the Children: “In 380 da soli in Italia in attesa di essere collocati in altri Pesi europei”. Solo un migrante su tre in Italia usufruisce della relocation. Tutori volontari: oltre 2700 cittadini disponibili a seguire un ragazzino straniero non accompagnato. Più di 380 minori migranti arrivati da soli in Italia o rimasti orfani durante i viaggi in mare ancora in attesa di essere ricollocati in altri paesi europei nelle condizioni ritenute migliori per loro dai tribunali dei minori. Il blocco della cosiddetta relocation per quanti sono giunti in Europa dopo il 26 settembre preoccupa molto Save the children che, nella giornata mondiale del Migrante e del Rifugiato, lancia un appello per la piena attuazione della legge-Zampa che garantisce opportunità di inclusione sociale a bambini e ragazzi. Solo un migrante su tre in Italia è riuscito ad usufruire del programma di relocation. A quattro mesi dal blocco della procedura, sono 79 i minori che hanno visto approvare le loro richieste ma che restano in attesa di trasferimento, 151 quelle inviate in attesa di approvazione da parte degli Stati europei individuati e 154 quelle per le quali lo stato di destinazione deve essere ancora individuato. Nei due anni in cui il programma è stato in vigore, dall’Italia hanno trovato collocazione adeguata in Europa 1.083 bambini accompagnati e appena 99 soli. “Troppi minori migranti giunti in Europa soli, con esperienze drammatiche alle spalle, sono ancora oggi privi di protezione, di una accoglienza adeguata e di opportunità di inclusione sociale”, dice Raffaela Milano, direttrice dei Programmi Italia-Europa di Save the Children. “La decisione di interrompere il programma di relocation - aggiunge - ha significato abbandonare nuovamente al loro destino i minori soli, costringendoli in molti casi a riaffidarsi ai trafficanti o a rischiare la propria vita pur di varcare i confini, come avviene per i tanti ragazzi che anche in questi giorni vediamo ammassarsi ai valichi della frontiera nord, a Como e Ventimiglia, o come mostrano le immagini dei migranti che tentano di attraversare le Alpi innevate a piedi”. Nel 2017 sono stati 15.730 i minori giunti via mare in Italia da soli. Il sistema di accoglienza in Italia registra attualmente la presenza di 18.500 minori non accompagnati di 40 nazionalità diverse. Assenza di personale nelle strutture e mancanza di servizi volti a favorire il loro percorso di integrazione, come l’iscrizione a scuola o la partecipazione a corsi di italiano, sono tra le maggiori criticità evidenziate dai ragazzi. Una buona notizia invece arriva sul versante dei tutori volontari previsti dalla legge Zampa. Sono più di 2700 i cittadini che hanno dato la loro disponibilità a seguire un ragazzino straniero non accompagnato garantendo il supporto necessario al processo di integrazione nel nostro Paese, dall’iscrizione a scuola al sistema sanitario. Il dramma delle spose bambine: 5 milioni senza infanzia e diritti di Patrizia De Rubertis Il Fatto Quotidiano, 15 gennaio 2018 Qual è l’età giusta per sposarsi? Oggi nel mondo ci sono oltre 700 milioni di donne che lo hanno fatto in età minorile. Tanto che ogni anno, nonostante sia considerato una violazione dei diritti umani, 15 milioni di matrimoni hanno per protagonista una minorenne e una volta su tre (5 milioni di casi) si tratta di ragazzine con meno di 15 anni che diventano spose bambine di persone che hanno il doppio, il triplo anche il quadruplo dei loro anni. Uomini che le comprano per pochi spiccioli o qualche accordo tra adulti e le strappano all’infanzia. Se il numero di spose bambine nel mondo crescerà ai ritmi attuali, lancia l’allarme Save the Children, nel 2030 avremo 950 milioni di donne sposate giovanissime e 1,2 miliardi nel 2050. Povertà, guerre e crisi umanitarie contribuiscono ad alimentare il fenomeno: in questi mesi le razioni alimentari sono diventate un fattore determinante nella decisione delle famiglie di far sposare la propria prole il prima possibile nei campi profughi Rohingya in Bangladesh. Anche un solo tozzo di pane in più spinge, infatti, i genitori a vendere le figlie di 11 anni. Ma è l’India il Paese al vertice di questa agghiacciante classifica: il 47% delle ragazze, più di 24,5 milioni, si sposano prima di aver compiuto 18 anni. Solo lo scorso ottobre, la Corte Suprema ha annullato una legge di 77 anni fa, stabilendo che il rapporto sessuale tra un uomo e una donna minore di 18 anni va sempre considerato stupro. Senza nessuna protezione restano ancorale giovani della Nigeria: quelle sposate tra i 15 e i 19 anni sono circa il 60%. Poi ci sono la Repubblica Centrafricana (55%), il Bangladesh (44%) e il Sud Sudan (40%). In Europa il fenomenoriguardalragazzasul0, mentre in Italia il dato è dell’1,5%. Su pressione della comunità internazionale, che si è impegnata a mettere fine alla pratica dei matrimoni precoci entro il 2030, tra il 2015 e il 2017 sono 9 i Paesi (Chad, Costa Rica, Ecuador, Guatemala, Malawi, Mexico, Nepal, Panama, Zimbabwe) che hanno migliorato la normativa sull’età minima del matrimonio. “Le leggi - spiega Save the Children - sono il primo passo necessario per difendere le ragazze dalla pratica del matrimonio precoce, ma sono necessari ulteriori interventi per evitare che questo fenomeno continui ad essere perpetrato”. Il riferimento va alla Turchia, dove è vietato sposarsi prima dei 17 anni, eppure la piaga delle spose bambine non si ferma: le stime parlino di 181 mila spose sotto i16 anni negli ultimi tre anni. A remare contro è la Diyanet (la Direzione per gli Affari religiosi, massima autorità musulmana nel Paese) che negli scorsi giorni ha pubblicato in precetto sul suo sito: “Il matrimonio evita l’adulterio e può essere contratto appena si entra nell’età della pubertà”. In poche ore la comunità internazionale ne ha richiesto la cancellazione facendo pressione sul presidente Erdogan, che già lo scorso novembre aveva presentato tramite l’Akp (il suo partito) una proposta di legge, p oi ritirata, che avrebbe consentito i matrimoni al di sotto dei 16 anni. Tunisia. Un piano Marshall della Ue per sostenere le riforme di Paolo Messa Il Messaggero, 15 gennaio 2018 Tunisi non è Teheran. Se nei giorni scorsi le proteste in Iran hanno acceso i fari dell’opinione pubblica sui limiti del regime dei pasdaran e sul rispetto dei diritti umani in quel Paese, i sommovimenti in Tunisia meritano una diversa lettura poiché le condizioni di quella che ora si può dire democrazia, con tanto di Costituzione, sono completamente diverse. La cosiddetta “rivoluzione dei Gelsomini”, avviata proprio sette anni fa, ha determinato l’apertura di un processo politico serio e di successo culminato appunto nel varo di sistema politico inclusivo e la formazione di un governo, quello attualmente in carica, che potremmo dire di “grande coalizione”. Certo, una Carta condivisa non basta se le condizioni economiche della popolazione non migliorano in modo altrettanto chiaro. Ed è sin troppo evidente il tentativo, di matrice jihadista, di infiltrare e guidare le proteste di questi giorni. In palio, se così si può dire, c’è il controllo di uno Stato che ha una posizione geografica strategica e che oggi è impegnato - soprattutto al confine con la Libia - a contenere e contrastare la minaccia terroristica. Sono numerosi i foreign fighters di origine tunisina, un vero e proprio esercito che va controllato e combattuto sul piano della prevenzione. Per non parlare dei rischi connessi al cosiddetto traffico di vite umane ovvero al fenomeno migratori nel suo complesso. L’Italia ha molto chiara la priorità politica della stabilità tunisina e non è un caso che il Parlamento sarà chiamato mercoledì ad esprimersi non solo sulla missione militare in Niger ma anche sulla presenza di sessanta militari nell’ambito della missione Nato volta a garantire la sicurezza nel Paese nostro dirimpettaio. Il nostro sforzo c’è tutto ed è apprezzabile. Rischia però di essere insufficiente. La Tunisia ha bisogno di un grande sostegno economico, di una sorta di Piano Marshall. Si tratta di un impegno che non può che avere dimensione europea. Lo sanno bene personalità come il presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, e l’ex presidente della Commissione europea Romano Prodi: entrambi ne hanno scritto sulle colonne del Messaggero. Non possiamo permetterci che, a poche bracciate dal confine meridionale dell’Unione Europea, si apra una stagione di crisi dopo il successo - l’unico forse tra le cosiddette primavere arabe - di questa primavera dei gelsomini. Un’Europa che si sbraccia per gli ayatollah e non interviene con investimenti massicci in Tunisia sarebbe una istituzione politica che sacrificherebbe il proprio interesse comunitario sull’altare di un bizzarro politicamente corretto. La situazione del Mediterraneo invoca la nostra presenza. Roma, come dimostrato anche dal vertice Med7 ospitato da Gentiloni e dal supporto di Forza Italia e Berlusconi alle missioni militari, c’è. Ora deve scendere in campo Bruxelles, e non con le dichiarazioni ma con aiuti concreti. Siria. Le voci dei jihadisti: “i capi ci hanno venduti, combattono solo per soldi” di Francesco Semprini La Stampa, 15 gennaio 2018 L’ira dei ribelli di Al Qaeda assediati a Idlib mentre i leader fuggono. “È il comandante Abou Motassam che vi parla, attenzione combattenti, non c’è più niente da fare, conviene andarsene. Siamo stati venduti, è finita”. L’appello, drammatico, è di uno dei capi dei gruppi ancora presenti nella provincia di Idlib e che sono riconducibili al vecchio Jabhat al Nusra, gravitante nella galassia qaedista. Voci intercettate nel corso di conversazioni telefoniche o via radio da servizi di intelligence e di supporto alla coalizione di forze che combattono contro gli jihadisti in Siria. Sono cinque conversazioni che raccontano l’incubo vissuto nelle ultime settimane dai miliziani una volta al comando di Abu Mohammad al-Julani. Abbandonati a se stessi e intrappolati in una delle ultime sacche di “sopravvivenza” rivolgono invettive, accuse e anatemi alla cupola “Tahrir al-Sham”, ovvero ai capi di Al Qaeda in Siria: “Non avete combattuto per Dio ma per il denaro”. “Le difese crollano e l’esercito (siriano) si espande a macchia d’olio”, si sente in uno dei colloqui. A parlare è il responsabile di una postazione che addossa la colpa sulle perdite di vite a un comandante chiamato Abou Al Walid: “Oggi è stato ucciso un altro dei nostri, un altro martire se n’è andato”. Si sente invece un boato in sottofondo quando a parlare è un altro “marconista” dei nuclei ribelli. “Cosa stiamo aspettando, i jet russi colpiscono, i jet siriani colpiscono, le forze di terra avanzano, colpiscono al Maarah, Sarakeb, Bab Al Hawa, al Khan colpiscono ponti, strade palazzi, vogliono spazzarci via”. La conversazione è, secondo le ricostruzioni, relativa a una richiesta di aiuto per trovare una via di fuga. Aiuto che però non sembra arrivare, mentre l’avanzata delle forze pro-Damasco si fa sempre più incalzante su Idlib. Un altro capo pattuglia racconta come alcuni gruppi tentino di ricompattarsi o cerchino riparo nella stessa direzione: “Sono tutti da me”, dice, e nomina le organizzazioni, almeno una decina tra cui Liwa Al Moatasim e Al Qadisiyat. “Ogni giorno abbiamo incontri, ma non si decide nulla, un giorno combattiamo gli uni contro gli altri, un altro no”. Erano circa 390, nuclei e sigle della galassia qaedista che operavano in tutta la Siria durante la guerra. Ora si trovano concentrate nella provincia di Idlib o bloccati a macchia di leopardo in altri territori, circa 6.000 combattenti, 1.400 combattenti dalla città di Daraya a 30 km da Damasco, 2 mila da Qudsaya, 1.500 dal quartiere Waer nella periferia di Homs. Altre centinaia sono partiti dal Qalamoun in Libano. E si combattono tra loro per le rivalità create dalle onde d’urto dei dissidi tra Qatar, tra Arabia Saudita e Turchia. “Questo è il risultato ci hanno fatto inutili promesse, solo bugie e bugie”. Altri tentano di darsi una mano tra loro nella speranza di dar vita a un’altra offensiva anti-Damasco, con macchine bomba e attacchi kamikaze. “Ci chiedono rinforzi per gli uomini di Seif Al Haq, sono assediati. Che dio li aiuti e li liberi”, dice una voce jihadista. “È possibile che l’esercito avanzi senza sosta? È possibile che nessuno riesca a fermarlo? È possibile tutto ciò?”, grida un altro miliziano. Per lui i capi hanno tradito. “Voi dite che state combattendo per dio ma combattete per i dollari, per i vostri propri fini, per conquistare la salvezza e la felicità terrena, avete mentito. Avete venduto la vostra coscienza, avete venduto il vostro onore, avete tradito i combattenti, i martiri, i prigionieri, ci avete condannato alle sofferenze. Vigliacchi, complottisti, che cada la leadership, che cadano tutti i capi. Che dio si vendichi di voi tutti, ci liberi di voi. Che dio mi ascolti”. Ecco quindi Abou Motassam: “È il vostro comandante che vi parla, siamo alla fine, siamo stati venduti, è finita. Lasciate la zona Assekeh, salvate il vostro onore e le vostre famiglie e andate”. Quindi un rumore stridulo... poi solo fruscii. Brasile. Ancora nessuno a processo per la “madre coraggio” uccisa 25 anni fa di Riccardo Noury Corriere della Sera, 15 gennaio 2018 Il 15 gennaio 1993 Edméia da Silva Euzébio venne uccisa in un parcheggio di Rio de Janeiro. Edméia era una delle più combattive madri impegnate nella ricerca della verità e della giustizia di tutto il Brasile. Ne aveva ben donde. Suo figlio Luiz Enrique era scomparso il 26 luglio di tre anni prima insieme a 10 amici. Agenti di polizia li avevano arrestati in una casa di Magé e da quel momento se n’erano perse le tracce. Il caso divenne noto come la “Chachina de Acari”, le uccisioni di Acari, dal nome della favela di Rio in cui viveva la maggior parte delle vittime. Edméia aveva fondato il gruppo delle Madri di Acari. Il giorno in cui venne uccisa aveva appena incontrato un detenuto nella prigione Hélio Gomez del quartiere di Estácio. Secondo le indagini, Edméia venne uccisa perché quel detenuto le aveva rivelato qualcosa sul luogo in cui gli 11 scomparsi di Acari erano stati sepolti. Nel 2011, 18 anni dopo la sua uccisione, sette persone tra cui un parlamentare dello stato di Rio de Janeiro e un alto ufficiale della polizia militare sono state accusate di omicidio e, tre anni dopo, sono state rinviate a giudizio. Gli imputati hanno fatto appello contro la decisione. L’appello dev’essere ancora esaminato. In sintesi, dopo un quarto di secolo nessuno è stato processato per l’omicidio di Edméia. Nel frattempo, nel 2010, l’inchiesta sulle uccisioni di Acari è stata chiusa. Non dimentichiamo i nomi delle vittime: Rosana Souza Santos (17 anni), Cristiane Souza Leite (17), Luiz Henrique da Silva Euzébio (16), Hudson de Oliveira Silva (16), Edson Souza Costa (16), Antônio Carlos da Silva (17), Viviane Rocha da Silva (13), Wallace Oliveira do Nascimento (17), Hédio Oliveira do Nascimento (30), Moisés Santos Cruz (26) e Luiz Carlos Vasconcelos de Deus (32). Un recente libro, intitolato “Madri di Acari: la storia di una lotta contro l’impunità” ha rilanciato la denuncia fatta da Amnesty International nel 1990, corroborata da diverse testimonianze. A far sparire e a eliminare gli 11 di Acari sarebbe stata una squadra della morte chiamata “I cavalli al galoppo”.