Convalescenza sociale: il carcere oltre il carcere di Luigi Ferrarella Corriere della Sera - La lettura, 14 gennaio 2018 In Parlamento i primi decreti legislativi per cambiare le regole del 1975. In realtà già ora delinque di nuovo solo il 19% di chi sconta pene alternative e l’1% di chi lavora. Se fosse una “fabbrica” chiamata a “produrre” una merce che si chiama “sicurezza”, il carcere (inteso, come amano osannarlo gli entusiasti della pena detentiva, quale unica modalità di sanzione di chi abbia infranto la legge) sarebbe già fallito, perché il suo “prodotto” sarebbe già stato snobbato e rifiutato dagli insoddisfatti cittadini “consumatori” di sicurezza. I condannati che espiano la pena in carcere tornano infatti a delinquere nel 68% dei casi, contro il 19% di chi invece ha scontato parte della pena in misure alternative alla detenzione (a fine anno erano 10.373 persone in detenzione domiciliare e 13.921 affidate in prova ai servizi sociali), percentuale che ulteriormente crolla all’1% - mostrano le ricerche sulla recidiva - tra i pochi condannati che durante l’espiazione della pena hanno la fortuna di essere inseriti in un circuito lavorativo. La controprova è che al 31 ottobre 2017 le persone presenti in carcere con già altre condanne alle spalle erano 26.781 italiani (quasi 3 su 4 fra i detenuti italiani, oltre 6.000 addirittura con più di 5 precedenti carcerazioni) e 8.441 stranieri (cioè il 43% sul totale degli stranieri). Muovendo dal lavoro arato a tempo record dalla Commissione di studio presieduta dal professor Glauco Giostra, il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha portato in Parlamento i primi decreti legislativi di riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975 sulla base della legge delega approvata dal Parlamento nel giugno 2017 sotto l’iniziale titolo “per l’effettività rieducativa della pena”. “Nella realtà - spiega Giostra - l’esecuzione penale ha sinora sostanzialmente tradito il finalismo rieducativo voluto dalla Costituzione. La diffusa convinzione che il carcere sia l’unica risposta alle paure del nostro tempo e la corrispondente tendenza politica (elettoralmente molto redditizia) ad assecondarla, hanno indotto a spostare l’attenzione dal reo al reato, dalla persona all’indelebile “tatuaggio” criminale che la contrassegna, dal recupero sociale al rigore custodiale”. E il lavoro nell’anno precedente di 200 esperti nei 18 tavoli degli Stati generali dell’esecuzione penale “ha cercato di ribaltare questa logica per apprestare una “placenta culturale” all’imminente riforma che si prefigge non di gestire il recluso in modo da forgiare un “buon detenuto” ma di offrirgli opportunità e strumenti per divenire un “buon cittadino”“. A tal fine, il tempo dell’esecuzione della pena non deve essere quella che Giostra chiama “una clessidra senza sabbia, ma un tempo di traguardi (personali, professionali, culturali) da conquistare per essere il responsabile artefice del processo di reinserimento”. Per questo la riforma elimina (salvo per casi di mafia e terrorismo) ogni automatismo, sia preclusivo che concessivo, nel ricorso alle misure di progressivo ritorno alla libertà; ma, per la stessa ragione, con un intervento di segno opposto abroga la legge 199/2010 che, al solo fine di decongestionare le carceri, consentiva pressoché automaticamente di espiare a casa la pena sino a 18 mesi. “L’idea - riassume Giostra - è che al condannato si debba dare e chiedere di più. Si deve offrire più rispetto della sua dignità e più strumenti per prepararsi a vivere nella società da cittadino responsabile e consapevole di diritti e doveri. E si deve pretendere che dimostri volontà e capacità di conseguire questo obiettivo, anche impegnandosi in favore della collettività e della vittima, con una condotta “intramuraria” corretta e partecipativa e con il dibattito delle idee rispetto delle prescrizioni quando fruisce di misure esterne al carcere”. Poiché ad esempio nella prassi quotidiana i magistrati di sorveglianza sono spesso schiacciati nell’alternativa del diavolo tra il dover mantenere per forza il carcere oppure arrischiare la concessione di spazi di libertà spesso avvertiti come eccessivi anche per la consapevolezza di un non sempre efficace sistema di controlli, la riforma punta a incrementare la vigilanza esterna (coinvolgendo la polizia penitenziaria accanto agli assistenti sociali) proprio in modo da rendere più affidabili (e dunque anche più credibili per la collettività) le misure alternative. Che spesso vengono negate dai magistrati non perché la persona ne sia immeritevole, ma perché (essendo senza tetto, oppure straniera) non dispone del domicilio necessario ad attivare la misura alternativa: per questo la riforma prevede “luoghi pubblici di cura, assistenza o accoglienza ovvero di dimora sociale appositamente destinati all’esecuzione extracarceraria della pena detentiva, nella disponibilità di enti pubblici o enti convenzionati”. Il nuovo ordinamento attua poi la scelta molto impegnativa (criticata da alcuni componenti della Commissione ma imposta dal Parlamento nella legge delega) di fissare non più a 3 ma a 4 anni di pena da scontare la soglia entro la quale i condannati potranno chiedere ai magistrati di sorveglianza di essere ammessi a misure alternative al carcere, meglio (secondo la ratio della riforma) se facendolo dalla libertà senza passare nemmeno dalle “porte girevoli” di un breve “assaggio di carcere”. È un tetto alto già in teoria, e ancor più nell’applicazione pratica, visto che a 4 anni di pena da scontare si può arrivare in concreto da sentenze in partenza ben più alte (in teoria anche 9/10 anni) che siano però state ridotte dal riconoscimento di attenuanti o dal rito abbreviato, pur corrispondendo a reati di notevole gravità. Di conseguenza la riforma rende cruciale la valutazione della meritevolezza o meno, caso per caso, dell’ammissione del condannato all’espiazione della pena fuori dal carcere nelle forme dell’affidamento ai servizi sociali o della detenzione domiciliare: e a questo scopo, per non lasciare che i bei propositi isteriliscano se non accompagnati dalle necessarie risorse, il ministero nella legge di bilancio ha previsto l’assunzione di 300 nuovi assistenti sociali. E dall’altro le nuove norme puntano a superare una visione stereotipata e burocratica della concessione delle misure alternative, in particolare insistendo sulla necessità che il condannato affidato in prova ai servizi sociali assuma impegni volti a elidere o attenuare le conseguenze del reato che ha commesso. Come? Con varie forme di condotte riparatorie, tra le quali anche la possibilità di accettare di prestare lavoro di rilievo sociale e utilità pubblica, specie nei casi in cui le condizioni economiche del condannato non consentano risarcimenti monetari, o manchi una persona offesa dal reato, o a essere lesi dal reato siano stati interessi collettivi o diffusi. Ai 58.115 detenuti che a fine novembre 2017 stavano in 50.511 posti di capienza - calcolata secondo il criterio minimo di 9 mq per singolo detenuto più 5 mq per gli altri, imposto dalle sentenze Sulejmanovic e Torreggiani con le quali la Corte europea dei diritti umani a Strasburgo nel 2009 e 2013 condannò l’Italia per trattamenti degradanti in violazione della Convenzione - i 30 articoli del nuovo ordinamento penitenziario promettono di cambiare la vita. Letteralmente. Ad esempio dove affermano in modo chiaro il diritto dei detenuti a ricevere prestazioni sanitarie tempestive, indicano diritto fondamentale alla salute la possibilità per un detenuto di chiedere di essere visitato a proprie spese e prescrivono all’ingresso in carcere una visita medica che, più di oggi, additi eventuali segni di maltrattamenti. Per prevenire fenomeni di radicalizzazione verrà insegnata la lingua italiana agli stranieri, si farà conoscere loro la Costituzione e verrà garantita un’attenzione non formale alle regole di alimentazione professate secondo i diversi credo religiosi. Saranno ampliate (con le solite esclusioni per particolari ragioni di sicurezza) le modalità dei colloqui familiari, anche attraverso l’utilizzo della posta elettronica e dei colloqui via Skype oggi esistenti solo in 17 carceri su oltre 200; e tra i motivi di “permessi di necessità” verranno considerati non solo (come oggi) quelli luttuosi come la presenza a un funerale, ma anche quelli che possono essere rilevanti per le relazioni affettive del detenuto (come il matrimonio di un parente, la laurea del figlio, un compleanno significativo). Stralciato per adesso il capitolo dell’affettività in carcere, sul quale tanto insiste il Partito radicale di Rita Bernardini e Deborah Cianfanelli, all’appello sembra mancare il cruciale capitolo-lavoro: in realtà anche qui la Commissione già in ottobre aveva scritto e consegnato il relativo testo, che però a dicembre non era stato licenziato dal governo insieme alle altre parti della riforma perché in quel momento era ancora privo della copertura finanziaria richiesta dalla Ragioneria dello Stato: ma di recente le risorse necessarie sono state individuate, e il varo anche di questa parte appare imminente. Sarà l’altro pilastro di una riforma potenzialmente epocale, che tuttavia “sarebbe facilmente scompaginata - teme Giostra - dalla prima folata allarmistica, se non potesse contare su una imponente mobilitazione culturale per la quale è indispensabile l’insostituibile funzione dei mass media per far capire come sia socialmente ottusa, oltreché costituzionalmente inaccettabile, l’idea che il carcere sia una sorta di buio caveau, in cui gettare e richiudere monete che non hanno più corso legale nella società sana e produttiva. E come sia miope la convinzione che la vittima riceva tanto più rispetto e risarcimento morale, quanto più ciecamente afflittiva sia la pena per il suo sopraffattore; e invece importante che un’assunzione di responsabilità del colpevole lo sospinga a condotte in favore della società e di chi il torto ha subito. O come sia utile per la collettività (sia in termini economici, che di minor recidiva) che il sistema, quando ne maturino i presupposti, con l’operosità riparatoria delle misure di comunità favorisca la “convalescenza sociale” dell’autore di un reato”. Il buonismo non c’entra, ma “quando ad esempio si verifica un mancato rientro da un permesso premio”, accanto all’ovvia riprovazione, non bisognerebbe scordarsi che “dai permessi rientrano regolarmente 99 volte su 100: servirebbe a chiarire che l’insuccesso registrato non è frutto di un errore del magistrato o dell’eccessivo permissivismo del sistema, ma è il prezzo che la collettività è disposta con lungimiranza a pagare per assicurarsi l’enorme vantaggio derivante dalla comprovata drastica riduzione della tendenza alla recidiva da parte di chi ha avuto occasioni di progressivo ritorno alla libertà rispetto a chi ha espiato l’intera pena in carcere”. Il Coordinamento dei Garanti dei detenuti preoccupato per il blocco dei decreti attuativi linkabile.it, 14 gennaio 2018 Ciambriello: “riprendere il tema del lavoro, dell’affettività e della giustizia minorile”. In data odierna, il Coordinatore dei Garanti dei detenuti, nella persona del Dr. Corleone, a seguito della riunione di Coordinamento, tenutasi in data 12.01.2018 a Roma, ha inviato una comunicazione al Capo di Gabinetto affinché le preoccupazioni dei Garanti dei detenuti in merito al blocco degli attesi decreti venisse portata a conoscenza del Ministro della Giustizia. Ad onore del vero, i Garanti sono preoccupati, ancor più, per le lacune giuridiche degli atti aventi forza di legge, che dovrebbero già costituire una migliore tutela per l’utenza detenuta, in quanto, ancora una volta, non comprendono i motivi che hanno portato ad una mancata approvazione delle nuove norme riferite all’ordinamento minorile, al lavoro, alla giustizia riparativa ed alle misure di sicurezza, approvazione che avrebbe costituito un passo avanti per la civiltà del nostro paese. I Garanti regionali e comunali, in occasione della partecipazione al seminario organizzato dalla Società della Ragione sul problema della clemenza collettiva, tenutosi sempre in data 12.01.2018, hanno riflettuto sull’intervento reso dal Sottosegretario Ferri, che ha confermato che il decreto sull’ordinamento penitenziario, approvato dal Consiglio dei Ministri il 22.12.2017, è ancora in attesa della bollinatura della Regione Generale. L’onorevole Walter Verini si è impegnato a sollecitare il superamento dell’impasse ribadendo quanto asserito dai Garanti ossia quanto fosse necessario orientare culturalmente la società a delle pene più umane. I Garanti regionali e comunali esprimono una grave preoccupazione per il ritardo nella trasmissione alle Camere dello schema del decreto legislativo approvato ed intendono rimarcare la mancata approvazione del decreto rispetto alle tematiche dell’ordinamento minorile, del lavoro, della giustizia riparativa e delle misure di sicurezza, così che il Ministro possa impegnarsi per la risoluzione di tali difficoltà. Un particolare allarme ha suscitato il blocco del decreto sull’affettività in carcere; dopo 18 anni dal tentativo fallito di inserimento nel Regolamento del 2000 risulta incomprensibile uno stralcio, asseritamente imputato alle pressioni di alcuni sindacati della Polizia Penitenziaria. Per il garante campano Samuele Ciambriello:” I Garanti si fanno interpreti di un malessere presente nelle carceri rispetto ad aspettative che potrebbero andare deluse, pertanto, sul punto, restano in attesa di un confronto con il Ministro della Giustizia.” Il “caso Montmédy”. Piano francese per un telefono fisso in ogni cella di Stefano Montefiori Corriere della Sera - La lettura, 14 gennaio 2018 Il governo di Parigi vuole estendere a tutte le prigioni francesi l’esperimento in corso dal luglio 2016 a Montmédy, nell’Est del Paese, dove ogni cellula è dotata di un telefono fisso. Ci sono molte ragioni per questa scelta: la prima è il benessere dei detenuti, che mantengono più facilmente i contatti con la famiglia e in particolare con i figli, un fattore importane per il reinserimento nella società. Poi si cerca di uscire dall’ipocrisia che oggi prevede il divieto, ampiamente aggirato, di tenere uno smartphone in cella. In molte carceri francesi gli agenti penitenziari spesso ne tollerano l’uso per mantenere una forma di pace sociale ma così mettono a rischio la sicurezza, perché i carcerati pericolosi possono scattare e condividere foto del personale e della struttura. Infine, il telefono fisso nella cella consente di ridurre la tensione per l’accesso limitato alle poche cabine, e soprattutto di intercettare e controllare meglio quel che dicono i detenuti. “In certi casi un detenuto ha 4 persone davanti a lui prima di accedere al telefono in corridoio - dice Christopher Dorangeville, sindacalista della Cgt Pénitentiaire - e quando tocca a lui deve tornare in cella. Questo crea situazioni difficili da governare”. Philippe Godefroy, direttore del carcere di Montmédy, dice che i 296 ospiti del penitenziario devono dichiarare quali numeri vogliono chiamare, che vengono controllati e poi autorizzati. “Le comunicazioni vengono registrate, possono essere ascoltate in diretta o in un secondo tempo”. Su scala nazionale, l’amministrazione penitenziaria ha precisato che i detenuti potranno essere autorizzati a chiamare tra 5 e 20 numeri, a seconda della durata e della ragione della pena. Il contratto con la società privata verrà firmato a primavera dopo una gara d’appalto, e si prevede che ci vorranno una trentina di mesi per equipaggiare tutte le 50 mila celle delle 178 carceri francesi. Tutto l’investimento sarà a carico dell’azienda vincitrice dell’appalto, che guadagnerà poi sulle bollette a carico dei detenuti. A Montmédy i sequestri di telefonini nel 2017 sono diminuiti del 20% rispetto al 2016 “e nello stesso periodo il volume delle comunicazioni via fisso è aumentato 4 volte”, dice Godefroy. Il piano del governo non incontra l’unanimità. Per Stéphane Barreau, segretario del sindacato Ufap, maggioritario tra gli agenti penitenziari, questo progetto punta su un effetto annuncio ma non permetterà di diminuire il traffico di portatili delle carceri: “Il detenuto che vuole parlare senza essere controllato eviterà il telefono fisso della cella come oggi evita quello delle cabine telefoniche dentro gli stabilimenti carcerari. E anche se i numeri sono registrati e verificati, non si sa mai chi c’è davvero all’altra estremità del filo, è impossibile controllare”. C’è poi la difficoltà di ascoltare le telefonate di decine di migliaia di detenuti che possono chiamare a tutte le ore. “Oggi intercettiamo in diretta le chiamate dei detenuti pericolosi che telefonano dalle cabine nei corridoi a orari prefissati. Quando tutti potranno telefonare sempre, non riusciremo a monitorare le conversazioni”. Secondo il direttore di Montmédy, da quando i detenuti hanno il telefono sono più sereni e la vita in carcere è migliorata. François Bes, di “Observation international des prisons”, dice che “poter parlare ai propri cari in qualsiasi momento è molto importante, specie per prevenire i suicidi”. Giustizia è sfatta di Annalisa Chirico Panorama, 14 gennaio 2018 Che si indaghi se c’è da indagare. Ma troppo spesso le inchieste dei pm distruggono carriere, vite e aziende per essere poi azzerate dalle sentenze di assoluzione. E per quelle carriere, vite e aziende non c’è più nulla da fare. Come nei casi che raccontiamo qui. Assolto o condannato, il processo serve a questo. Che l’ipotesi accusatoria possa essere sconfessata dalla sentenza definitiva, è fisiologico. Tuttavia, nel caso italiano, la canea di ribaltamenti e smentite, con annesse conseguenze reputazionali, economiche, sociali e politiche, fa ritenere che nella “giudicatura” nazionale, dove contano le accuse e non i dibattimenti, e dove la centralità del magistrato si traduce nella ipertrofica espansione del controllo giurisdizionale, il rovesciamento della prospettazione accusatoria sia diventato quasi la norma. Si parte con roboanti imputazioni e misure preventive esemplari, salvo poi ritrovarsi, a valle del processo, con un pugno di mosche in mano. Nel frattempo procedimenti dalla durata sterminata, accuse in dissolvenza e verdetti assolutori lasciano sul campo un mucchio di macerie. Vite violate, carriere spezzate, aziende fallite. Quel che è peggio è che a questa giustizia d’impatto ci siamo assuefatti. “Cogliere e prevedere le conseguenze delle decisioni giudiziarie, il loro impatto sull’economia e sulla società non può più essere considerato un tabù”, si espresse così il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini nel luglio 2015, all’indomani dei sequestri preventivi dei colossi Ilva e Fincantieri. A giudicare dai fatti, si direbbe che il suo auspicio sia rimasto inascoltato, e l’anno appena archiviato non fa eccezione. Gli ultimi casi, in ordine di tempo, riguardano Giuseppe Orsi e Stefano Ricucci. Orsi era ai vertici di Finmeccanica e nel 2013 finì in carcere per 80 giorni: accusato di una maxitangente pagata per far comprare elicotteri agli indiani, è stato assolto in appello. Ricucci è invece l’ex “furbetto del quartierino”, come si definì lui stesso in un’intercettazione telefonica. La quinta sezione penale di Roma lo ha assolto dall’accusa di bancarotta fraudolenta aggravata dalla distrazione e dissipazione di quasi un miliardo di euro per il crac della società Magiste International. La procura capitolina contestava a lui e ad altre nove persone 26 episodi nei quali l’immobiliarista e i suoi collaboratori avrebbero svuotato le casse di due società del gruppo. I giudici hanno ritenuto che tale tesi non fosse suffragata da prove, da qui l’assoluzione perché il fatto non sussiste. Le motivazioni non sono ancora note, eppure il collegio difensivo deve aver persuaso i magistrati che a causare quella bancarotta non furono le spese in barche, ville e immobili, ma i guai giudiziari dello stesso Ricucci. All’epoca l’ex odontoiatra di Zagarolo, tra i finanzieri più discussi degli ultimi anni, era già invischiato nelle inchieste sulla scalata a Rcs e in quella a Bnl-Unipol. A sentire i legali, il collasso delle due società fu dovuto ai sequestri ordinati dai giudici e ai ritardi, “ingiustificati”, per i dissequestri. Così, dopo dieci anni di udienze e graticola mediatica, Ricucci, tornato in carcere nel 2016 per un presunto giro di false fatture, accoglie la notizia con un filo di amarezza per ciò che è andato ingiustamente distrutto. Tra i protagonisti dell’estate 2005, nel “quartierino” dei parvenu della finanza con il pallino del mattone e delle scalate, c’è pure Danilo Coppola, detto Er Cash, due tentati suicidi e due anni da detenuto innocente. Dopo una condanna in primo grado a sei anni, Coppola viene assolto in via definitiva dalle accuse di bancarotta fraudolenta, associazione a delinquere, appropriazione indebita e falso ideologico. Perché il fatto non sussiste, sentenzia la Corte d’appello di Roma. Gli vengono restituite le partecipazioni azionarie poste sotto sequestro, ma ormai è troppo tardi, le sue società immobiliari sono fallite sotto il peso dei debiti. “Questa vicenda” racconta lui all’indomani dell’assoluzione “è costata al mio gruppo 1,2 miliardi di euro”. Coppola denuncia come il sequestro l’abbia obbligato alla svendita di diversi asset. “Prendete le azioni Bim” spiega lui, “All’epoca del sequestro, valevano 22 milioni, quando me le hanno restituite erano scese a 10. Non si può arrestare una persona, tenerla in custodia cautelare per un tempo lunghissimo, far fallire una società a sua insaputa, e poi si scopre che nulla era vero”. A ben vedere, il 2017 si è aperto nel segno del flop giudiziario. A gennaio la procura guidata da Giuseppe Pignatone chiede l’archiviazione del filone romano dell’inchiesta Tempa rossa, avviata dai colleghi di Potenza. A maggio è ufficiale: il gip di Roma mette una pietra tombale sulla sfilza di accuse - dall’associazione a delinquere all’abuso d’ufficio al traffico di influenze - sul “quartierino romano” che, secondo i pm potentini, voleva fare affari con il petrolio in Basilicata. L’inchiesta Tempa rossa, nel frattempo, ha provocato lo stillicidio mediatico, a colpi di intercettazioni ad elevato tasso scandalistico, nei confronti di Federica Guidi, all’epoca ministro dello Sviluppo economico e costretta alle dimissioni. Archiviata pure la posizione dell’ammiraglio Giuseppe De Giorgi, ex capo di Stato maggiore della Marina, accusato di abuso d’ufficio. A poche settimane dall’esplosione del caso sulla stampa, De Giorgi viene destinato alla pensione senza ipotesi di proroga, concessa invece ai predecessori. Lo scorso marzo la Corte d’appello di Torino conferma l’assoluzione dell’imprenditore Francesco Bellavista Caltagirone nel processo sulle presunte irregolarità nella costruzione del porto turistico di Imperia (i pm avevano chiesto una condanna a sei anni di reclusione). Le accuse rinfocolate dai giornali si esauriscono in una bolla di sapone, ma i danni morali ed economici sono incalcolabili. Caltagirone subisce un arresto preventivo, eseguito a sei mesi di distanza dalla richiesta dei pm, e quando non riveste più alcuna carica nella società. A 73 anni e con problemi di salute, varca la soglia del carcere dove perde oltre venti chili. Intanto, nelle more del procedimento, il blocco dei lavori di costruzione del porto innesca un groviglio di cause civili da parte di quanti avevano già proceduto all’acquisto di posti barca o strutture legate al progetto. Il gruppo Acqua marcia, che impiegava 4.500 dipendenti, tra lavoratori diretti e indotto, porta i libri in tribunale. Lo scorso ottobre, in assenza di un ricorso della procura generale, l’assoluzione è diventata definitiva. Nell’ordalia giudiziaria non si annoverano soltanto nomi eccellenti. Dalle agenzie di rating assolte a Trani all’ex generale Mario Mori ingiustamente calunniato, dalla fine del calvario di Bruno Contrada alle assoluzioni di Clemente Mastella e Ottaviano del Turco: queste vicende hanno occupato le cronache del 2017. Ma, al di fuori della cerchia dei soliti noti, esistono cento, mille casi analoghi che si affacciano sulla stampa locale. A Nocera inferiore, lo scorso novembre, il tribunale ha assolto un imprenditore, Fabio Borrelli, accusato di associazione a delinquere finalizzata, secondo i pm, a truffe per ottenere finanziamenti pubblici. Il fatto non sussiste, hanno stabilito i giudici. Dopo otto anni di udienze e carte bollate, Borrelli, erede del marchio di abbigliamento Luigi Borrelli, ha visto riconosciuta la propria innocenza. Un sollievo amaro dal momento che il gruppo leader nel settore del total look, con un fatturato di 25 milioni annui e negozi monomarca in tutto il mondo, ha chiuso i battenti. Con gli amministratori agli arresti e gli opifici chiusi, le società sono entrate in crisi fino al fallimento, interrompendo un indotto che occupava 600 persone. “Pur a fronte dell’eccellente lavoro dei giudici del dibattimento” ha dichiarato Borrelli “la giustizia è intervenuta tardivamente, ormai le aziende non esistono più”. Sardegna: Caligaris (Sdr): nelle carceri dell’isola in aumento i detenuti stranieri L’Unione Sarda, 14 gennaio 2018 “Una discarica sociale detentiva”: questa la descrizione della Sardegna secondo Maria Grazia Caligaris, presidente di “Socialismo Diritti Riforme”, che ha confrontato i dati degli arrivi nell’Isola di nuovi detenuti. “In un anno le carceri sarde hanno registrato un incremento di persone private della libertà, in particolare di detenuti stranieri, prevalentemente extracomunitari. Il 31 dicembre 2016 erano complessivamente 532, alla stessa data dell’anno appena concluso sono invece risultati 813”, secondo le informazioni dell’Ufficio Statistiche del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria diffusi dal ministero della Giustizia. “I ristretti nei 10 Istituti dell’Isola - osserva Caligaris - sono 2.380 ma erano un anno fa 2.137. Sono quindi aumentati di 243 unità. Il saldo negativo ha però riguardato i cittadini stranieri privati della libertà. È anche interessante notare che i detenuti per regione di nascita, vale a dire i sardi nelle strutture penitenziarie, sono 1.150. Il che conferma l’inutilità per l’Isola di 2.706 posti di carcerazione e dell’uso degli spazi locali per ‘scaricarè in Sardegna problematiche di altra origine”. A crescere in un anno sono stati soprattutto gli stranieri detenuti al carcere sassarese di Bancali, “passati da 134 a 181, battendo in numeri assoluti la presenza di stranieri nella Colonia Penale di Mamone-Lodè (172) tradizionalmente depositaria del record”. Questa crescita, conclude, “pone degli interrogativi e impegna le istituzioni locali su diversi fronti. Innanzitutto sanitari e culturali. Nel frattempo infatti non sono aumentati gli operatori penitenziari, con la conseguenza di episodi preoccupanti quali aggressioni e atti di autolesionismo”. Napoli: noi, assaliti nella comunità per minori di Vincenzo Morgera, Silvia Ricciardi, Giovanni Salomone* La Repubblica, 14 gennaio 2018 Quando i fenomeni di grande allarme sociale vengono affrontati con una forte connotazione ideologica si corre il rischio di sottovalutare il problema e deresponsabilizzare tutti. Mentre la stessa città sembra prendere coscienza della pericolosa recrudescenza di violenza agita e subita, i cui protagonisti sono minori e giovani adulti, ci sono alcune voci isolate dell’intellighenzia che minimizzano il fenomeno. Eppure parliamo di una violenza trasversale consumata nei luoghi della movida, nelle strade, nelle comunità che accolgono minori in misura cautelare, e negli stessi luoghi Istituzionali come gli istituti penali minorili. Non è allarmismo, non è un falso problema creato dai media, da fiction televisive o da giornali e giornalisti alla ricerca spasmodica delle brutte - false notizie per screditare la nostra città. È la realtà quotidiana di una città che non riesce a trovare risposte adeguate ai suoi problemi. Una città intesa non solo come amministrazione, ma nella sua totale interezza e complessità: una costellazione di corporazione, di gruppi di interessi e di potere, con un approccio politico post-sessantottino incapace di elaborare un progetto credibile che non danneggi l’interesse generale. In questo coacervo di contraddizioni leggiamo riflessioni che ci lasciano perplessi anche perché fatte da persone da sempre in prima linea per il ruolo che svolgono e per questo anche esempio pubblico di impegno sociale da seguire. Riflessioni che sottolineano che quello che accade a Napoli non è diverso da quello che succede nelle altre città, come a voler suggerire una immaginaria sovrapposizione tra Napoli e Pordenone, sottovalutando le specificità di una situazione del tutto peculiare. Sono i giornali, i nuovi media, a fornire invece un quadro “reale” di ciò che accade, restituendolo attraverso la cronaca, attraverso il racconto dei fatti. La prima obiezione è che in democrazia ci possono essere commenti e idee diverse ma la realtà non si può distorcere. In questi giorni i giornali hanno riportano la cronaca e commenti di opinionisti di diversa estrazione e cultura che non fanno i giornalisti per mestiere e nei loro interventi raccontano un’altra realtà (che può anche non piacere) sul fenomeno della devianza minorile che stiamo vivendo. Una realtà nuda e cruda spogliata da categorie e pregiudizi ideologici che desta preoccupazione per la modalità con la quale la violenza si manifesta e che evidenzia come nessuno si possa sentire al sicuro. Si esce in branco e si cerca senza nessuna specifica motivazione la vittima predestinata. Gli stessi quotidiani nazionali raccontano una violenza ben più complessa e articolata da quella dovuta alla noia e all’insoddisfazione di una vita virtuale vissuta in rete. Noi stessi siamo testimoni diretti di questa violenza aggravata dal fatto di averla subita in un luogo “protetto”, la comunità dove lavoriamo. Un senso di impotenza e di angoscia ti assale, sei impotente e disarmato di fronte al tuo assalitore. Ogni tuo tentativo di difesa, di mediazione è percepito dal tuo aggressore come debolezza che aumenta la sua violenza, si è in balia di una “follia” distruttiva, fisica e psicologica che non ha argini. Il lato “oscuro” di questa violenza per chi la esercita è quello di sentirsi onnipotente e provare piacere dal terrore che assale la vittima. La seconda obiezione è una domanda. Ma quanti conoscono veramente chi sono questi ragazzi in conflitto con la giustizia e con la società civile? Un dato da cui partire per capire la specificità e la particolarità del territorio, che non consente facili ed approssimative letture, è data dal fatto che i minori in carico ai servizi della giustizia minorile della Campania (Ipm e Comunità) sono nella quasi totalità minori “figli” di Napoli e della sua area metropolitana. E non si tratta di minori accusati di bullismo o di teppismo. Un fenomeno territoriale che non è possibile comparare con altri distretti della giustizia minorile sia del Nord che delle altre regione del Sud. La terza obiezione che è anche la più pericolosa per le conseguenze che può generare è che nello sminuire il problema si finisce per negarlo. Sottovalutare il problema è una forma di negazione che non solo non serve ma principalmente punisce in maniera indiscriminata e irresponsabile gli stessi minori, perché nega loro qualsiasi sostegno e opportunità. Negare il problema significa lasciare i genitori, gli insegnanti e educatori, nella loro solitudine testimoni di fallimenti educativi e sociali ampiamente annunciati. La negazione di questa emergenza toglie la speranza che le cose possano veramente cambiare. Se vogliamo concretamente iniziare a ragionare sul “ che fare”, bisognerebbe produrre quello scatto intellettuale e civico che ci consenta di abbandonare l’ideologia e lasciare spazio ad un’analisi libera da condizionamenti politici. *Gli autori fanno parte della associazione Jonathan Trieste: dai dolcetti al web, così i detenuti diventano pasticceri di Laura Tonero IL Piccolo, 14 gennaio 2018 La neodirettrice Iannucci illustra i corsi attivati al Coroneo. In aumento gli stranieri rinchiusi. Cronico il sovraffollamento. Dal 2002 al 2005 è stata vicedirettrice della Casa circondariale del Coroneo. Ora, da poche settimane, Irene Iannucci è tornata nel carcere triestino in qualità di direttrice, carica che ricopre anche all’istituto penitenziario di Udine. Tra le mura del Coroneo - che ha una capienza di 143 posti - oggi vivono 213 persone: di queste 30 sono donne e 123 sono stranieri. L’età media oscilla tra i 30-40 anni. Come ha trovato, dopo anni di assenza, questa struttura? Come le altre strutture detentive è cambiata perché è cambiato il sistema, si è modificata la filosofia della detenzione. Il sovraffollamento, seppur in minor misura, è divenuto ormai cronico e da due anni è profondamente cambiata la popolazione detenuta. Assistiamo a un innalzamento del numero di stranieri, obbligando anche l’istituzione penitenziaria a un confronto con costumi, culture e, soprattutto, lingue diverse. Ci sono differenze da questo punto di vista con Udine? Se a Trieste gli stranieri rappresentano circa il 60% della popolazione detenuta, a Udine la percentuale si attesta intorno al 50%. Per il resto sono istituti similari, ospitando entrambi detenuti appartenenti al circuito della “media sicurezza”. Qui a Trieste c’è un numero più elevato di detenuti provenienti dall’Est Europa, come rumeni e albanesi, mentre nel capoluogo friulano ci sono più afgani e pakistani. Gli stranieri partecipano in buon numero alle attività proposte? Può sembrare paradossale, ma proprio attraverso i corsi di italiano e le diverse attività che proponiamo, molti iniziano in carcere un percorso di integrazione. L’obiettivo è offrire ai detenuti un’opportunità di formazione spendibile per gli italiani sul nostro territorio, per gli stranieri anche sul loro. Le attività in un istituto penitenziario sono essenziali. Un detenuto ha la facoltà di scegliere se prenderne parte o meno. Sono più partecipi gli uomini o le donne? Gli uomini tendono a voler uscire dalla camera detentiva e a impegnare il tempo in molteplici iniziative, le donne invece tendenzialmente restano di più nelle loro stanze, cercano di abbellirle, di tenerle pulite e dedicano tempo alla cura della persona. Quali attività ci sono al Coroneo? Per il periodo 2017-2018 è stato attivato il corso di scuola media per la sezione maschile, uno di educazione alla cittadinanza per entrambe le sezioni e diversi livelli di lezioni di italiano per stranieri. Ci sono poi le attività di formazione professionale, come i corsi di sanificazione, quelli di ristorazione legati anche alla gestione delle cucine che provvedono al fabbisogno dell’istituito, corsi di edilizia, di web publishing e quello di audio-video legato a Maremetraggio. I corsi sono finanziati dalla Regione e dal Fondo sociale europeo”. Siete in attesa del bando regionale per far partir i corsi di falegnameria e tappezzeria. Inoltre, dopo anni di inattività, anche grazie alla caparbietà della direttrice dell’Area pedagogica del carcere, Anna Buonomo, è stato riacceso il forno del laboratorio di panetteria aperto nel 2011. Presto prenderà forma il progetto di sfornare e commercializzare pasticcini secchi e grissini. Dodici detenuti stanno frequentando il corso da 500 ore. Il progetto è frutto della collaborazione con il consorzio Open, il centro di formazione Micesio Onlus, il Cosm e la cooperativa Basaglia, che a fine corso assumerà alcuni dei partecipanti per poi procedere alla produzione e alla commercializzazione dei prodotti. Il logo e il packaging sono stati creati dagli stessi detenuti. Hanno coniato e disegnato il marchio “I Galeotti - È un delitto non mangiarli”. Ora si lavorerà per mettere a punto un prodotto di qualità. Mi indica un pregio e un difetto del carcere di Trieste? Il difetto è sicuramente strutturale: l’edifico è vecchio e non conforme architettonicamente ai principi previsti oggi per la vita detentiva. Il pregio è l’integrazione con il tessuto cittadino che qui si percepisce forse più che altrove. Bologna: il teatro in carcere alla berlina, Billi mette in gioco se stesso di Massimo Marino Corriere della Sera, 14 gennaio 2018 Applausi calorosissimi del pubblico, fitto di studenti, e qualche muso storto degli addetti ai lavori di provenienza teatrale. Divide l’ultimo spettacolo del Teatro del Pratello, come sempre firmato da Paolo Billi e interpretato da una compagnia formata da ragazzi in carico alla giustizia penale minorile, attrici di Botteghe Molière e anziani provenienti dalla Primo Levi. Il titolo fa capire che qualche provocazione c’è: Mère Ubu impresaria di teatro in carcere. Dopo due testi di Giuliano Scabia, presentati negli anni scorsi sempre all’Arena del Sole, questa volta il regista-autore bolognese torna a una vena satirica swiftiana, che rovescia luoghi comuni e esplora paradossi. La nobile attività di teatro in carcere, che egli persegue da una ventina d’anni tra istituti minorili e per adulti, diventa appannaggio di uno dei personaggi inventati da Alfred Jarry, la moglie dagli appetiti smisurati di quel buffone crudele che è Ubu, parafrasi grottesca del Macbeth. La signora si presenta con una compagnia di volontarie di Santa Scalognasi). di nero vestite, entusiaste di alleviare la vita dei giovani reclusi con il teatro, “non dando corpo ai fantasmi inventati dagli scrittori ma rendendo i fantasmi reclusi corpi”. Qualcuno noterà che questa battuta somiglia a quella che si sente tra gli Scalognati dei Giganti della montagna di Pirandello. Il testo è un centone di citazioni, che vanno da Pirandello e Swift (appunto) al Rabelais più mordace, da Metastasio e Goldoni con impresari imbroglioni fino ad Armando Punzo e ad altri scritti di poetica o di interpretazione del teatro in carcere (c’è pure qualche frase di studiosi, come “immaginazione contro emarginazione” del compianto Claudio Meldole. Il tutto frullato dietro un velo trasparente in una specie di Hellzapoppin” piena di colori, balletti, visioni, con giovani reclusi che si presentano al provino e stagionate drag queen che commentano abbandonate su una panchina dietro sbarre. Il teatro in carcere è messo alla berlina per le ambiguità tra arte e azione sociale che contiene, per i brividi voyeuristici che scatena negli spettatori. Ce n’è per tutti, e lo stesso Billi si mette in mezzo. Lo spettacolo però rivela se stesso nei momenti in cui la scena è invasa dalle proiezioni in bianco e nero del panopticon, il carcere a controllo e isolamento totale progettato nel 700. Immagini di ombre che si affacciano dietro sbarre, ringhiere, in corridoi vuoti, come vite desolate. Billi ride con il dolore di chi ogni giorno affronta situazioni di vita desolanti, capaci di distruggere. E vuole dire: ogni cosa, anche la più nobile, quando si esaurisce in formule diventa consolatoria, stantia. Bisogna ogni giorno, confrontandosi col dolore, distruggersi e ricostruirsi e distruggersi. Come il teatrino dello spettacolo: alla fine abbattuto, il velo caduto, la petulante Mère Ubu appesa per i piedi sullo sfondo in controluce. Lecce: se la violenza sulle donne la interpretano gli uomini di Antonella Gaeta La Repubblica, 14 gennaio 2018 Il laboratorio “Le spose di BB” curato da Paola Leone all’Ex Fadda: stasera lo spettacolo. Un agricoltore, un sindacalista, un ex detenuto sono tra i protagonisti de “ Le Spose di BB”, laboratorio ispirato a Barbablù e condotto da Paola Leone Stasera il debutto all’Ex Fadda, poi il tour. “Proviamo a scardinare il patriarcato”. Camminare con indosso una gonna, una campana di stoffa che struscia, addentrarsi nella storia come fa l’ottava delle spose quando il marito le proibisce di andare nella stanza segreta dove lei, invece, scopre appesi i cadaveri delle sette mogli che l’hanno precedute nella sorte, cattivissima. Vittime di femminicidio plurimo, si direbbe adesso. La favola nera, terribile, che Charles Perrault scrive nel Seicento è ispirata, come tutte le favole, a un fatto di cronaca sanguinosa, da ricondurre molto probabilmente a Gilles de Rais, eroe nazionale della presa di Orléans al fianco di Giovanna d’Arco, e poi assassino seriale condotto, nel 1440, alla forca. Il gesto dell’ammazzare una donna attraversa i secoli, si reitera, tutt’altro che debellato, fino a oggi. Le gonne le indosseranno questa sera sul palcoscenico dell’ExFadda di San Vito dei Normanni, alle 20,30, i dodici uomini che hanno partecipato a un laboratorio speciale intitolato, appunto, Le spose di BB. A condurlo Paola Leone, che spiega: “È un nuovo esperimento, aperto a soli uomini di tutte le estrazioni, professionisti e non, dal panettiere al potatore di alberi. L’intento è lavorare sulla tecnica di percezione, perché la maggior parte delle azioni si rivolgono a donne vittime di violenza, mentre i movimenti europei e americani ci dicono che, prima di tutto, bisogna prevenirla, scardinare la cultura patriarcale, cosa non facile, ma possibile”. Ci crede la regista e creatrice della compagna “Io ci provo”, nata a Lecce in carcere, esperienza che ha dovuto interrompere le attività nella casa circondariale di Borgo San Nicola per mancanza di adeguati finanziamenti, nonostante i risultati raggiunti. Circostanza che non ha spento la volontà di continuare, appunto, a provarci. Ed ecco Paola con Andrea Rosini, uno dei suoi attori ex detenuti - che come spesso capita la seguono nelle sue avventure teatrali - in mezzo alle campagne di San Vito dei Normanni, all’Ex Fadda, ex stabilimento enologico e ora fabbrica di azione e di idee guidata da Roberto Covolo. Qui ha preso vita lo scorso lunedì il laboratorio teatrale gratuito di sensibilizzazione, prevenzione e contrasto alla violenza sulle donne. E, alla chiamata hanno risposto in dodici, un gruppo composito di uomini che comprende, tra gli altri, un agricoltore di Latiano, un sindacalista e copyright da San Vito, due attori rispettivamente da Brindisi e da Terlizzi, un precario da Lecce, due studenti da Villa Castelli. “Si sono messi in gioco per davvero, operando un ripensamento del sé in relazione a queste tematiche. Oltre alle scarpe rosse e alle sedie vuote, occorre riflettere culturalmente, e lo dico avendo lavorato al fianco di molti violenti per dieci anni in carcere, sul fatto che le donne vengono picchiate e uccise. Pertanto l’intervento va fatto con il teatro sulla comunità. Se uomini da perfetti estranei al tema indossano i loro panni, allora a questa roba ci devi pensare per forza”. La ricerca, che si propone anche come raccolta di dati, vuole promuovere nuovi modelli di comportamenti socioculturali per eliminare pregiudizi, costumi, tradizioni, stereotipi dei ruoli delle donne e degli uomini, e vuole farlo partendo proprio da San Vito. Nelle intenzioni, infatti, la compagnia riprodurrà questo modello laboratoriale in dieci città italiane (la prima richiesta è arrivata, proprio in queste ore, dal Centro antiviolenza di Andria), in collaborazione con istituzioni, scuole, associazioni e collettivi. Si raccoglieranno informazioni con una videocamera che produrrà, alla fine, un documentario realizzato da Stelvio Attanasi, e con la macchina fotografica di Martina Leo insieme a testimoniare quanto viene detto e agito nel corso degli incontri laboratoriali tra i protagonisti, di volta in volta diversi. “La lettura, lo studio dei testi e la loro narrazione attraverso il prestare il proprio corpo scenico - conclude Paola Leone - creano condizioni favorevoli di riflessione nei partecipanti. Le Spose di BB è il racconto intimo di una donna, un quadro in movimento che vede protagonisti solo uomini che prestano il corpo e la voce alla vittima e ne raccontano la storia. Se metto in scena una donna ammazzata, qualcosa si prova, l’empatia si mette in moto e il cambiamento è già in atto”. Bullismo. Il dovere di non girare lo sguardo di Agnese Moro La Stampa, 14 gennaio 2018 Il problema del bullismo sembra essere finalmente entrato non episodicamente nel palinsesto della televisione pubblica. Lo dimostra il fatto che, per il secondo anno, sia stata realizzata e messa in onda “Mai più bullismo”. Un buon segnale, al quale fanno riscontro sul piano territoriale e più quotidiano progetti come “Media Mente Bullo” nato a Torino e in Piemonte grazie alla collaborazione tra Essere Umani Onlus (essereumani.org), il Rotary Club e 15 istituti scolastici piemontesi. Il progetto puntava sulla conoscenza del fenomeno e su attività di autoconsapevolezza, dialogo e forme di mediazione che vedano protagonisti giovani in aiuto ai giovani. Una esperienza interessante e certamente da seguire nel tempo. Nel contrasto al bullismo ridare dignità al dialogo tra pari e alla parola è particolarmente significativo perché contrasta il contesto del silenzio in cui la violenza prende forza e si sviluppa. Un silenzio che ha almeno tre forme, che corrispondono anche a tre gravi malattie della nostra cultura sociale: non intervenire quando si avrebbe il dovere di farlo, sfuggendo alla propria responsabilità; girare la testa dall’altra parte facendo finta di non vedere; tacere (omertà) sulle cose sbagliate che accadono. Sono tre comportamenti fratelli, senza i quali i bulli e molti altri violenti non potrebbero seguitare ad agire. Progetti come quello di Essere Umani possono aiutare a far emergere simili comportamenti e ad incoraggiare tutti i soggetti coinvolti ad abbandonarli. L’attenzione, infatti, non è da rivolgere solo agli attori e alle vittime degli atti di bullismo, ma anche a coloro che, soprattutto in ambito scolastico, dove molti di questi comportamenti indesiderati si manifestano, possono e debbono fare qualcosa. Molti adulti, e soprattutto insegnanti, non intervengono a fronte di atti di prevaricazione che avvengono in loro presenza. È un fenomeno ampiamente studiato e del quale tanti di noi hanno avuto purtroppo conoscenza diretta. Si nega il fatto, si minimizza, si parla di ragazzate o lo si propone come se fosse un incidente. Perché magari non si sa che cosa fare, come reagire. Il bullismo è uno di quei fenomeni che fa capire la necessità di “fare sistema”, di essere società, di impegnare competenze professionali differenti e tante energie per comprendere e curare davvero ferite tanto profonde. Migranti. Rimpatri collettivi dei sudanesi: l’Italia rischia una condanna Cedu di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 gennaio 2018 L’Italia rischia di essere condannata dalla Corte europea per i diritti dell’uomo per aver rimpatriato collettivamente dei cittadini sudanesi. Sono stati dichiarati tutti ammissibili i ricorsi presentati dai cittadini sudanesi contro il governo italiano per il respingimento collettivo che, il 24 agosto 2016, ha dato esecuzione all’accordo tra il capo della Polizia italiana Franco Gabrielli ed il suo omologo sudanese. La Corte ha comunicato formalmente i ricorsi al governo italiano e ha posto dei precisi quesiti volti a conoscere le modalità dell’espulsione e se siano stati rispettati i diritti e le garanzie previste dalla Convenzione europea. I ricorsi sono stati tutti depositati dagli avvocati dell’associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). Secondo gli avvocati, i cittadini sudanesi furono oggetto di una vera e propria “retata” a Ventimiglia, alcuni furono trasportati in condizioni disumane e poi rinchiusi illegittimamente nell’hotspot di Taranto. Quindi vi fu il tentativo di rimpatriarli tutti. Alcuni furono effettivamente riportati in Sudan e cinque di loro incontrarono rappresentanti di Asgi ed Arciche, tra il 19 ed il 22 dicembre 2016, si recarono a Khartoum al supporto di una delegazione di parlamentari europei del gruppo della Sinistra europea. Tutti coloro che non furono rimpatriati hanno ottenuto il riconoscimento della protezione internazionale in Italia, in quanto soggetti a persecuzioni e discriminazioni nel Paese da cui provenivano. I ricorsi presentati dall’Asgi hanno denunciato la violazione di diverse norme della Convenzione europea e della Convenzione di Ginevra. Il governo italiano, entro il 30 marzo 2018, dovrà quindi fornire una risposta al proprio operato dinanzi alla Cedu. L’Asgi denuncia che negli ultimi mesi la collaborazione con il Governo di Al Bashir per l’espulsione di cittadini sudanesi si è rafforzata anche con altri paesi europei. A fine dicembre sono state ufficialmente richieste le dimissioni del Segretario di Stato per l’asilo e la migrazione belga dopo la diffusione di informazioni relative a torture subite da cittadini sudanesi espulsi da Bruxelles. Il memorandum d’intesa con il Sudan è solo uno dei numerosi accordi siglati dall’Italia per semplificare la riammissione di cittadini di paesi terzi ritenuti “irregolari”. L’accordo con il Sudan è stato particolarmente discusso e contestato trattandosi di una delle peggiori dittature al mondo. Sul presidente Omar al-Bashir pende un mandato di cattura emesso dalla Corte penale internazionale per genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra nel contesto del conflitto in Darfur - che ha causato circa 400mila vittime e oltre 2 milioni di sfollati. L’esistenza del memorandum d’intesa fu svelata solo a fine agograzie sto 2016, proprio quando venne denunciato il rimpatrio collettivo dei sudanesi. L’allora Ministro dell’Interno Angelino Alfano rivendicava così la legittimità dell’operazione: “Violazione dei diritti umani? No, pieno rispetto di un accordo tra la polizia italiana e quella del Sudan”. Peccato che quell’accordo, mai passato all’attenzione del Parlamento e reso pubblico solo nell’ottobre del 2016, sia in violazione del diritto italiano e internazionale. Trattasi infatti, secondo la denuncia delle organizzazioni del Tavolo Nazionale Asilo di un atto “totalmente illegittimo”: “l’accordo di polizia tra il governo italiano e quello sudanese si pone in contrasto con principi di diritto interno e internazionale, tra cui in primis il divieto di refoulement ovvero di rimpatrio a rischio di persecuzione L’Italia ha l’obbligo di non trasferire persone verso paesi dove corrono un rischio concreto di gravi violazioni dei loro diritti umani”. L’azione giudiziaria costituisce una tra le iniziative intraprese da Asgi ed Arci per contrastare i processi di esternalizzazione delle frontiere e del diritto di asilo attuati dal Governo italiano - che nel corso dell’ultimo anno si sono concretizzati anche nei nuovi accordi con la Libia e più recentemente col Niger, dove l’Italia invierà militari e armamenti. L’Europa vicina ai regimi e la politica estera comune di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 14 gennaio 2018 È un errore pensare che l’Unione non abbia una linea. Ma è una linea che nasconde, sotto la retorica del rispetto dei diritti umani, una scelta strategica: ricercare a tutti i costi l’accomodamento con i regimi nemici dei diritti umani. È una tesi da tanti condivisa quella secondo cui l’Europa non avrebbe una politica estera comune. Ma è una tesi errata. L’errore dipende dal fatto che tutte le volte in cui gli Stati membri della Ue scoprono di avere interessi vitali in rotta di collisione fra loro (dai contenziosi sulla distribuzione dei migranti alla sorda lotta a coltello fra Italia e Francia sul presente e il futuro della Libia), quella politica estera comune viene meno temporaneamente. Ma essa poi ricompare quando non ci sono vitali interessi nazionali in conflitto. Il fatto che non possa piacere a chiunque abbia a cuore la libertà e le sue sorti, non la rende meno reale. Si tratta di una politica estera che nasconde, sotto la retorica del rispetto dei diritti umani, una scelta strategica: ricercare a tutti i costi l’appeasement, l’accomodamento, con i regimi nemici dei diritti umani. Precisiamo che non ci sono tracce né intenzioni di moralismo nelle considerazioni che seguono. Sono le conseguenze politiche che qui interessano. Si consideri quanto sia stata differente la reazione dell’Europa sulla questione di Gerusalemme e su quella della rivolta anti-regime in Iran. Nel primo caso, immediata, vibrante e solenne condanna della mossa di Trump. Nel secondo caso, solo qualche farfugliamento sulla necessità che l’Iran rispetti i diritti umani (che è un po’ come consigliare a un carnefice di fare almeno una carezza alle sue vittime). Spiace dirlo ma, per lo meno in questa fase, le dichiarazioni del “ministro degli Esteri europeo” Federica Mogherini (lo confermano anche le proteste dei dissidenti per ciò che ella ha detto o non detto, a nome della Ue, nella sua visita a Cuba), rappresentano piuttosto fedelmente questa politica. La condanna europea della scelta di Trump di spostare l’ambasciata a Gerusalemme non poteva essere più netta. L’Europa si è disinteressata del quadro strategico in cui è maturata la scelta americana. Un quadro strategico in cui, tra Libano, Siria, Striscia di Gaza, preme ormai sui confini di Israele una potenza in fortissima ascesa: quell’Iran il cui regime ha fatto dell’aspirazione alla distruzione dello Stato di Israele una componente della propria “ragione sociale”, della propria ideologia, nonché la principale carta che esso gioca per accreditarsi agli occhi dell’opinione pubblica araba, per ridurne le ostilità nei propri confronti. Si consideri inoltre che un altro attore cruciale per gli equilibri della regione, la Turchia, pur essendo ancora membro della Nato, ha ormai fatto un’irreversibile scelta antioccidentale (e ciò non può non avere ricadute anche sui suoi rapporti con Israele). La decisione americana, oltre a dare attuazione a una deliberazione del Congresso risalente al 1995, è servita a ribadire in tali circostanze l’impegno degli Stati Uniti al fianco di Israele. L’Europa, preoccupata di compiacere i nemici dello Stato ebraico, ha finto di ignorare questi dati di fatto. In ogni caso, a tanto malriposto zelo europeo su Gerusalemme non è seguito altrettanto zelo a sostegno della protesta anti-regime in Iran (come ha osservato Franco Venturini su questo giornale l’11 gennaio). Non c’è stato neppure un rinvio dell’incontro a Bruxelles (11 gennaio) fra il ministro degli Esteri iraniano e i rappresentanti europei sul dossier nucleare. Secondo l’avvocata iraniana Nasrin Sotoudeh (“Corriere”, 8 gennaio), la flebile reazione europea di fronte ai fatti iraniani avrà conseguenze nefaste: renderà molto più facile per il regime liquidare fisicamente (e, il più possibile, silenziosamente) gli oppositori. Esiste dunque una politica estera comune europea ma non è precisamente quella che sognavano gli europeisti agli albori dell’avventura comunitaria. È la politica estera di una “Europa invertebrata” che mentre si allentano i legami transatlantici (fra Stati Uniti ed Europa) punta a stabilire connessioni sempre più strette con un ampio ventaglio di regimi illiberali, a cominciare dal più ingombrante di tutti, quello russo. L’idea è che più pericolosi sono e più vanno blanditi. Finita la guerra fredda, per almeno un decennio, Stati Uniti ed Europa, di concerto, hanno favorito ovunque possibile l’affermazione di democrazie e la costruzione di mercati aperti. Era una fase in cui c’era una certa coerenza fra la politica estera praticata dai Paesi occidentali e la loro natura di società libere. Tutto ciò è finito da un pezzo. Le coerenze sono saltate. Ciò che è imperdonabile in Donald Trump è che egli abbia fornito il migliore alibi che si potesse immaginare per l’intensificazione di quell’antiamericanismo che era già presente, e anche molto forte in Europa da gran tempo, e che, a causa sua, ha ora la scusa (come ha osservato Paolo Mieli su questo giornale il 28 dicembre) per manifestarsi senza più remore. Contrariamente a quanto dicono alcuni, forse sprovveduti (o forse troppo furbi), ciò non significa che l’Europa, liberandosi della tutela americana, diventerà finalmente “padrona del proprio destino”. Invece, si predisporrà a entrare nell’area di influenza russa. Naturalmente, al momento, i giochi sono ancora, almeno in parte, aperti. Se l’allentamento in atto dei legami con gli Stati Uniti, la crescente indifferenza per le sorti di Israele (anche a causa del riemergere di sentimenti antisemiti in Europa), i rapporti che si desiderano sempre più stretti e amichevoli con la Russia e i suoi alleati autoritari - come l’Iran, per l’appunto -, spingono in una direzione, c’è pur sempre ancora la Nato (Trump permettendo), ci sono pur sempre i legami storici, non smantellabili in un giorno, fra le varie componenti di quella che un tempo era conosciuta come “società occidentale”. Però c’è anche una forza inerziale che sta dividendo e allontanando le parti di quella società. Se la scelta di riposizionarsi internazionalmente diventerà definitiva, forse l’Europa un giorno scoprirà quali ne siano le ricadute più spiacevoli, gli effetti negativi di quel riposizionamento sulle proprie libertà. World Watch List: l’Islam in testa alle persecuzioni anti-cristiane nel mondo di Franca Giansoldati Il Messaggero, 14 gennaio 2018 “L’oppressione islamica continua a essere la fonte principale delle persecuzione dei cristiani”: il World Watch List 2018, l’annuale rapporto sulla libertà religiosa dei cristiani nel mondo ha pochi dubbi su dove collocare la provenienza di oppressione e violenza per la comunità cattoliche. Secondo i dati analizzati nel corso del 2017 sta aumentando anche il fattore “nazionalismo religioso come prorompente fonte di persecuzione anti-cristiana (e di altre minoranze)”, come ad esempio sta accadendo in alcune regioni in India. Secondo il Rapporto ben 3.066 cristiani sono stati uccisi a causa della loro fede, 15.540 gli edifici di cristiani attaccati (chiese, case private e negozi). La persecuzione anti-cristiana però sembra andare ben oltre questi numeri considerando che ci sarebbero 1.922 cristiani detenuti senza un processo, 1.252 rapiti, senza contare anche le migliaia di stupri, così come 1.240 matrimoni forzati e 33.255 cristiani “fisicamente o mentalmente abusati”. Il rapporto fotografa solo una parziale realtà, perché il sommerso resta indecifrabile e non sempre conteggiabile in cifre e statistiche. I crimini non denunciati o non registrati contro i cristiani in molti Paesi restano coperti dal silenzio. In aumento la persecuzione anti-cristiana nel mondo in termini assoluti, con oltre 215 milioni i cristiani perseguitati. Il World Watch List 2018 è stato presentato in Italia dall’associazione Porte aperte, pubblicando anche la lista dei 50 Paesi dove i cristiani sono più perseguitati, vale a dire dove subiscono maltrattamenti come “singoli o gruppi di persone a motivo della fede in Gesù”. Le violenze possono andare dalla discriminazione culturale e sociale, al disconoscimento familiare, dalla privazione di lavoro e di reddito fino ad abusi fisici, torture, rapimenti, mutilazioni, distruzione di proprietà, imprigionamenti, assassini. Al vertice della classifica dei Paesi in cui i cristiani riscontrano maggiori difficoltà ci sono Corea del Nord e Afghanistan, Somalia, Sudan, Pakistan, Eritrea, Libia, Iraq, Yemen e Iran. Ma è in Pakistan che la persecuzione ha i connotati più violenti in assoluto. I Paesi europei nella lista con la maglia nera sono la Turchia, al 31esimo posto, e l’Azerbaigian, al 45esimo. Colombia e Messico, invece, gli unici del continente americano. Una escalation di intolleranza è stata registrata in Libia e in India, dove a motivo della crescente influenza del radicalismo induista sono stati compiute aggressioni su oltre 24mila cristiani indiani. Nel corso degli scorsi mesi sono peggiorate anche il Nepal. Primavere arabe, sette anni dopo: cosa resta della speranza di Francesca Caferri La Repubblica, 14 gennaio 2018 Proteste in Tunisia, subito dopo Teheran. L’Egitto (in crisi) al voto. La ricetta del Marocco funziona a due velocità. Corruzione, disoccupazione, aumenti dei prezzi, assenza di opportunità per i giovani: a sette anni dall’inizio della Primavera araba le ragioni che portarono migliaia di persone in strada restano sul tavolo. In quei giorni sarebbe stato difficile immaginare il numero di morti, rifugiati, i colpi di Stato e le guerre civili che dalle rivolte sarebbero scaturiti. Allora tutto partì dalla Tunisia: oggi che è di nuovo in strada è possibile ipotizzare un altro sommovimento regionale? “Le cause strutturali dei moti del 2011 non sono migliorate, anzi semmai sono peggiorate - risponde Andrea Teti, professore di Relazioni internazionali dell’università di Aberdeen e coordinatore del progetto di ricerca Arab Transformations - questo non significa che nel giro di pochi anni vedremo un ripetersi delle Primavere, ma sicuramente possiamo aspettarci che a questo scontento ci saranno conseguenze”. Egitto - È uscito da quelle giornate con un’economia a pezzi che i provvedimenti del presidente Abel Fatah Al Sisi faticano a risollevare. Con un’inflazione attorno al 30%, la moneta che ha perso in pochi mesi il 50% del valore, le riserve valutarie ridotte della metà rispetto al 2010 e il 50% di una popolazione di 95 milioni di persone sotto la linea di povertà, la decisione di ridurre i sussidi statali su richiesta del Fondo monetario internazionale ha messo a dura prova la stabilità. A marzo le manifestazioni contro l’aumento dei prezzi hanno fatto pensare al ritorno della protesta, così non è stato. Il Paese va alle presidenziali di marzo preoccupato di non scivolare di nuovo nell’instabilità. Con buona pace dei diritti umani, della libertà di espressione o di stampa. Marocco - Mohammed VI è riuscito a contenere le rivolte che pure erano iniziate nel 2011 con una calcolata serie di aperture e pugno di ferro. Un massiccio programma di investimenti punta a diversificare l’economia ancora dipendente dall’agricoltura e a ridurre il tasso di disoccupazione, che supera il 9%. Il simbolo del nuovo Marocco è la ferrovia ad alta velocità che collegherà Tangeri a Casablanca: ma è il simbolo anche di un Paese a due velocità, con gli investimenti concentrati lungo le coste e il resto lasciato indietro. Le rivolte in estate nella regione del Rif sono state le peggiori dal 2011 e hanno sottolineato le questioni aperte. Il re ha promesso altri investimenti: i prossimi due anni sono cruciali. Arabia Saudita - Il crollo dei prezzi del petrolio ha messo a dura prova l’economia del più importante produttore del mondo. Il piano di riforme economiche del principe ereditario Mohammed bin Salman - tagliai sussidi, investimenti in energie rinnovabili, più spazio a donne e giovani - è anche una rivoluzione sociale per uno dei Paesi più conservatori del mondo. Non tutti lo hanno accolto con entusiasmo, ma finora ogni critica è stata repressa. A inizio gennaio è stata introdotta l’Iva per la prima volta: e sono stati tagliati importanti sussidi statali (gas, elettricità, acqua). Decisiva nel 2018 sarà la privatizzazione di Saudi Aramco, il più grande gruppo petrolifero al mondo. Se avrà successo frutterà almeno 100 miliardi di dollari: linfa vitale per mantenere il consenso. Qatar - Stato toccato solo marginalmente dalle proteste del 2011. Deve fare i conti con l’embargo imposto da sauditi, Egitto e Paesi del Golfo a giugno, ma inizia a mostrare segni di ripresa. Il deficit 2018 dovrebbe essere di 28,1 miliardi di ryal (7,6 miliardi di dollari) rispetto ai 28,4 del 2017. E ripartono le spese per completare le infrastrutture per i Mondiali di calcio del 2022. L’embargo ha unito i qatarini attorno alla figura dello sceicco Tamim al Thani: facendo tacere ogni dissenso interno. Iran - Non è un Paese arabo, ma molti hanno guardato alla rivolta del 2009 contro la vittoria dell’ultraconservatore Ahmadinejad come al prologo della Primavera araba. Oggi torna in piazza contro un’economia in mano a pochi, un’inflazione alle stelle e le spese massicce per campagne militari all’estero. La rivolta pare placata, ma le cause restano e se il presidente Rouhani non riuscirà ad affrontarle perderà il consenso di chi lo ha eletto. Egitto. Caso Regeni, il coro mediatico dalla parte della contro-rivoluzione di Francesco Strazzari Il Manifesto, 14 gennaio 2018 “Colpa di Cambridge”. Invece che appuntare lo sguardo sui meccanismi che proteggono i carnefici dal finire davanti a un tribunale, in Italia si scatenano congetture. Avvezzo alla fiction noir, il pubblico ha sete di colpi di scena e Giulio viene spogliato della dignità di ricercatore che studiava - per l’appunto - la semplificazione autoritaria del conflitto sociale. “Il genere di fiction che preferisco sono le elezioni egiziane” - scrive l’architetto e umorista arabo Karl Sharro, riferendosi all’apparecchiatura elettorale che porterà il generale al-Sisi a celebrare la propria riproduzione con una corsa solitaria. Il quadro mediorientale e mediterraneo evolve rapidamente: la regione viene riconfigurata dallo scontro in atto fra sauditi ed Emirati da un lato, Qatar e Turchia - e dunque la Fratellanza Musulmana - dall’altro. Il Sudan, tradizionalmente vicino all’Egitto, è passato al campo avverso, amico della Fratellanza: un segnale che preoccupa il Cairo anche perché prefigura un asse con l’Etiopia, con conseguenze sulla partita vitale delle acque del Nilo. Persino il precipitare della crisi tunisina, questa settimana, porta traccia di questo scontro: Tunisi ha passato una legge di bilancio con tagli draconiani anche per restituire un grosso prestito al Qatar, mentre Abu Dhabi, iniziando con un travel ban alle donne tunisine sulla compagnia Emirates, esercitava pressioni per mettere fuori gioco a Tunisi il partito islamista Ennahda - affiliato alla Fratellanza. Le pulsioni autoritarie che caratterizzano la risposta al riaccendersi del conflitto sociale in Tunisia segnano un tentativo nemmeno troppo coperto di mettere da parte la formula di governo inclusiva e condivisa seguita dall’unica democrazia sopravvissuta dalle primavere arabe del 2011. Governi europei e Stati uniti non danno prova di scrupoli verso le semplificazioni autoritarie che si sono susseguite anche per effetto dello scontro in atto circa la natura e i termini dell’islamismo politico, a partire dal golpe militare che con il sostegno salafita portò al potere proprio al-Sisi, inaugurando la fase della reazione, come ben documenta Jean-Pierre Filiu nel recente “Generali, gangster e jihadisti: storia della contro-rivoluzione araba” (La Découverte). In Tunisia, la comunità internazionale detta l’agenda dell’aggiustamento di bilancio e del pacchetto austerità (che include misure poco comprensibili anche in chiave neoliberale, quali gli aumenti delle tariffe telefoniche): mentre prevedibilmente stenta a incoraggiare l’occupazione e un diverso patto di welfare, si prodiga ad assistere Tunisi sul versante militare e della sicurezza. Così che, mentre combatte le brigate jihadiste nelle regioni remote di Kasserine, il governo dispiega l’esercito nelle strade contro i dimostranti. Fra le centinaia di arresti, alcuni leader dell’opposizione, anche se i comunicati del governo, ampiamente ripresi dai media italiani, enfatizzano la presenza di “jihadisti fra gli arrestati”. Ma ci sono modi più sottili per non disturbare i nostri “partner strategici” mentre sono impegnati a svuotare di senso e direzione la nozione di democrazia, assicurandosi il governo, reprimendo le rivendicazioni sociali, ed infine chiudendo la botola sui dissidenti. Nel nostro piccolo, ci distinguiamo sempre: mi riferisco al coro politico-mediatico da standing ovation che ha accompagnato la notizia della perquisizione di cui è stata fatta oggetto la supervisor di Giulio Regeni a Cambridge. A leggere i principali quotidiani italiani sembrava avessimo mandato le teste di cuoio a fare irruzione nel campus. La polizia inglese ha poi chiarito di aver agito su mandato italiano con piena collaborazione di Abdelrahman su ogni richiesta. La notizia di una borsa intitolata a Giulio Regeni rende plausibile che ci sia stato un input di governo verso una linea di maggiore collaborazione. In questi due anni non sono mai stato tenero rispetto alla diffidenza e alla reticenza dell’ateneo britannico. E tuttavia occorre far ricorso a parecchia condiscendenza per nascondere dietro alla farisaica formula ‘indagare a 360 gradi’ il dettaglio che Giulio è stato rapito, torturato e ucciso al Cairo, non a Cambridge. Le istituzioni di ricerca si avvalgono di comprensibili margini di autonomia, gli apparati di sicurezza no: eppure nello scenario di dinieghi e depistaggi egiziani, non si ha notizia di una sola perquisizione su mandato italiano in Egitto, dove si trovano gli assassini. Tutto ciò che abbiamo visto e appreso non lascia infatti ragionevole dubbio circa il coinvolgimento degli apparati di sicurezza egiziani. Avanzamenti nell’inchiesta sono commisurati alla pressione che l’Italia sarà esercitare, e agli assestamenti degli equilibri interni del regime, che potrebbero prima o poi incrinare il patto di omertà. Ma ecco che invece che appuntare lo sguardo sui meccanismi che proteggono i carnefici dal finire davanti a un tribunale, notizia che per l’Egitto avrebbe ripercussioni ben più ampie del solo “caso Regeni”, in Italia si scatenano congetture che vanno alla ricerca di inneschi ed attenuanti, di una cornice di senso ed eccezionalità per tanto orrore, non volendone accettare la documentata quotidianità. Avvezzo alla fiction noir, il pubblico ha sete di colpi di scena e di “l’avevo sempre sospettato”. Giulio Regeni insomma viene spogliato anche della dignità di ricercatore consapevole del lavoro che stava compiendo con competenza e professionalità, studiando - per l’appunto - la semplificazione autoritaria del conflitto sociale. Mentre nel Sinai egiziano l’Isis opera con checkpoint a cielo aperto, dichiarando guerra ad Hamas (Fratellanza), nella narrazione mediatica mainstream autoritarismo e conflitto sociale vengono rimossi, e Giulio Regeni, che era più avanti nel comprendere la natura delle sfide, viene ridotto a giovane ignaro e vittima sacrificale di una oscura macchinazione. Nelle insinuazioni più o meno esplicite che leggiamo su Maha Abdelrahman non c’è la sventolata ricerca della verità, né tanto meno il tentativo di non spezzare il filo della speranza di chi, a partire dagli assistenti legali dei Regeni, è finito nelle carceri egiziane. Prende forma invece un triste cocktail: risentimento provinciale verso la “perfida Albione”, complesso di inferiorità verso Cambridge, senso di superiorità e invidia verso un’intellettuale egiziana, inquadrata con contratto precario in una prestigiosa istituzione. E, da ultimo, l’incapacità di capire che non stiamo servendo né verità, né giustizia, né democrazia, ma una fiction che ha per protagonisti dittatura e jihadismo. Turchia. Il co-presidente dell’Hd Demirtas in tribunale dopo 14 mesi di carcere Nena News, 14 gennaio 2018 Per la prima volta ieri il co-presidente del partito turco di opposizione Hdp, Selahattin Demirtas, è apparso di fronte al tribunale di Istanbul. Dal 4 novembre 2016, quando fu arrestato insieme alla co-presidente Yuksekdag e a altri dieci deputati del partito, non ha mai presenziato ad alcun udienza dei 20 processi che pesano sulla sua testa. Accolto come un eroe da un migliaio di sostenitori, Demirtas è arrivato nel tribunale di Bakirkoy circondato dai gendarmi per assistere all’udienza del caso che lo vede accusato di insulti al presidente Erdogan: nel dicembre 2015 durante un comizio “osò” criticare la presidenza sul caso del caccia russo abbattuto dall’esercito turco e la rottura dei rapporti con la Russia. “Demirtas è il nostro onore”, “Spalla a spalla contro il fascismo”, ha gridato la folla al “capo Selo”, il suo soprannome. Una volta dentro l’aula, Demirtas è andato all’attacco accusando la corte di avergli impedito di difendersi e soprattutto insistendo sull’immunità parlamentare di cui dovrebbe godere se il parlamento turco non l’avesse cancellata nel maggio 2016 - pochi mesi prima il suo arresto, tempistica perfetta - su richiesta di Erdogan e con il chiaro scopo di ripulire gli scranni parlamentari della presenza delle voci critiche e dell’opposizione più pericolosa per il partito di governo Akp. Ovvero l’Hdp, il solo a non scendere mai ad alcun compromesso e il solo in grado di mettere insieme le tante istanze della sinistra turca e curda, dei movimenti di base e dello spirito di Gezi Park. Ai giudici Demirtas ha chiesto ieri il rilascio condizionato. Con un mezzo successo: la corte ha stabilito che tale richiesta richiede un più “attento esame” e ha rinviato tutto al 17 maggio, ma non ha rigettato l’appello. Resterà dunque in carcere altri quattro mesi, una situazione sempre più assurda dal punto di vista legale che però non attira troppo l’attenzione europea: con 10 deputati di opposizione in carcere da un anno e due mesi e 55 parlamentari Hdp su 59 sotto inchiesta, le voci che si sollevano per protestare contro la repressione governativa turca sono pressoché inesistenti. Eppure Demirtas rischia un secolo e mezzo di carcere: tra le accuse pendenti c’è quella di terrorismo, per appartenenza al Pkk. Restano in prigione anche i giornalisti Sahin Alpay e Mehmet Altan, nonostante la sentenza della Corte Costituzionale che giovedì ne ha imposto il rilascio per violazione dei loro diritti. A bloccarla è stata una corte di Istanbul che ha sfidato l’Alta Corte in un caso senza precedenti: i giudici costituzionali non avevano mai emesso una sentenza simile dal 15 luglio 2016, dal fallito golpe. Le ragioni dello stop al rilascio non sono state date, anche se fonti interne al tribunale di Istanbul parlano della mancata notifica formale dell’ordine di scarcerazione. Alpay e Altan sono due dei 151 giornalisti detenuti in Turchia nel corso dell’ultimo anno e mezzo. Il primo è editorialista per il quotidiano Zaman, considerato vicino alla rete dell’imam Gulen, accusato dal governo di essere la mente dietro al tentato colpo di Stato. Altan è autore di numerosi articoli e libri sulla politica turca e fratello dello scrittore Ahmet, anche lui detenuto. Stati Uniti. Medicaid solo per i poveri “che se lo meritano” di Marina Catucci Il Sole 24 Ore, 14 gennaio 2018 La Casa bianca pubblica il vademecum per gli Stati che intendono applicare la riforma sanitaria: sì alla copertura dei più disagiati ma solo se utili alla comunità. Esclusi disabili, disoccupati, donne incinte, ovvero le categorie protette dall’Obamacare. L’amministrazione Trump prosegue con lo smantellamento dell’Obamacare: la Casa bianca ha emanato una guida per consentire agli Stati di concedere il Medicaid, una basica copertura sanitaria statale per i più poveri, ma non per tutti: è prevista solo per chi ha un lavoro, va a scuola o partecipa a forme approvate di “impegno comunitario”. Una proposta di questo tipo era stata sempre rifiutata dall’amministrazione Obama, in quanto esclude dal Medicaid i disabili, le donne incinte e gli anziani, vale a dire proprio le persone per cui il Medicaid era stato istituito. Le nuove regole di Trump sono arrivate mentre dieci Stati tra i più conservatori chiedevano di includere clausole di questo tipo per restringere la copertura sanitaria “a chi se lo merita”. E tra Arizona, Arkansas, Indiana, Kansas, Kentucky, Maine, New Hampshire, Carolina del Nord, Utah e Wisconsin, il Kentucky è stato il primo ad adottare il nuovo corso. Gli Stati che vogliono abbandonare le regole di Medicaid usate fino ad ora e abbracciare le nuove dovranno avere un permesso federale e ricorrere a un processo noto come “1115 deroghe”. Per poter beneficiare di una deroga, uno Stato deve fornire una giustificazione convincente sul fatto che il suo esperimento “promuova gli obiettivi” della legge, ossia quelle di Medicaid. Negli Stati che adotteranno il nuovo corso ci saranno aggiustamenti caso per caso, elemento che spinge molti critici a immaginare che gli effetti investiranno le categorie più vulnerabili e si creeranno complicazioni burocratiche infinite. In Kentucky, ad esempio, i cittadini saranno obbligati a segnalare i cambiamenti di reddito entro dieci giorni, ma per i lavoratori a basso salario - come i camerieri con salari che dipendono dalla discrezionalità delle mance - “ci sarà di che impazzire”, ha dichiarato Cara Stewart del Kentucky Equal Justice Center. Myanmar. I birmani Wa e Kyan, giornalisti in carcere di Paolo Lepri Corriere della Sera, 14 gennaio 2018 È stata una trappola fatta scattare dalle forze di sicurezza del Myanmar. Wa Lone e Kyaw Soe Oo, giornalisti della Reuters, hanno ricevuto in un ristorante alcuni documenti da due agenti di polizia dai quali erano stati convocati. Era il 12 dicembre. Pochi minuti dopo, senza nemmeno aver avuto il tempo di leggere quelle carte (che peraltro non avevano richiesto), sono stati arrestati. Ora rischiano una condanna a quattordici anni di carcere sulla base dell’Official Secrets Act, una legge di quell’epoca coloniale britannica che il ministro degli Esteri Boris Johnson rievocava con nostalgia, nel settembre scorso, recitando la poesia di Rudyard Kipling The road to Mandalay durante una visita alla Pagoda di Shwedagon a Yangoon. Non stiamo parlando di due agitatori, come vorrebbe far credere il regime. Wa Lone e Kyaw Soe Oo sono stati trasferiti in un luogo segreto, privati per due settimane della possibilità di avere contatti con familiari e avvocati. La loro colpa? Aver fatto il proprio lavoro. Il primo, che ha trentuno anni, ha scritto quello che ha visto nella regione di Rakhine, teatro delle violenze contro i Rohingya. Il secondo, ventisette anni, ha raccontato le sofferenze subite da questa minoranza musulmana a cui il Papa ha chiesto perdono. Le cifre parlano chiaro: la pulizia etnica ha provocato dall’agosto scorso 6.700 vittime (molte centinaia bambini) e 650.000 profughi che vivono in condizioni disperate (il 90 per cento sono denutriti) nei campi del Bangladesh. Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace, oggi “Consigliere di Stato” e ministro degli Esteri del Myanmar, tace. Una seconda cosa, oltre l’impegno, unisce questi due giornalisti: essere riusciti a farsi strada a costo di grandi sacrifici. Wa Lone, nato in una famiglia di agricoltori poveri, ha fatto il cuoco in un monastero buddista di Mawlamyne, la città (un tempo Moulmein) dove si svolge Shooting an Elephant di George Orwell. Kyaw Soe Oo, cresciuto a Sittwe, la capitale del Rakhine, ha sempre avuto, fin da bambino, la passione della scrittura. “Credo - ha detto la moglie - che abbia fatto la cosa giusta”. Non è l’unica a pensarlo.