Anche i detenuti invecchiano: sempre più anziani in carcere La Stampa, 13 gennaio 2018 La popolazione carceraria è sempre più anziana. I giovani dietro le sbarre si sono ridotti drasticamente, anche grazie a leggi come quella che nel 2014 ha stabilito lo sconto pena fino a 25 anni negli istituti di pena minorili per chi era stato arrestato quando ancora non aveva compiuto 18 anni. Il fenomeno, però, ha dimensioni più importanti. Abbiamo preso in considerazione le fasce d’età dei detenuti italiani degli ultimi dieci anni (2007-2017). Abbiamo calcolato, per ogni anno, quanto variava il peso percentuale di ogni fascia d’età rispetto al totale dei detenuti. Il risultato: detenuti che hanno meno di 40 anni contano sempre meno, quelli più anziani crescono sempre. Abbiamo chiesto ad Alessio Scandurra, responsabile dell’Osservatorio Carceri dell’associazione Antigone, una spiegazione. “L’invecchiamento della popolazione carceraria è un fenomeno mondiale - ci ha risposto - ma quello italiano ha alcune peculiarità. A seguito della sentenza Torreggiani sul sovraffollamento delle carceri, gli ingressi sono calati. Una serie di interventi legislativi in questi anni ha tentato di svuotare le Case circondariali. Infine si è assistito a un inasprimento delle pene. Conclusione: in carcere ci sono sempre più persone che scontano pene lunghe”. Al via l’inserimento dei profili dei detenuti nella Banca dati del Dna di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 gennaio 2018 Il 28 dicembre 2017 ha avuto inizio l’inserimento dei profili del Dna dei detenuti ricavati in Banca dati nazionale Dna. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria rende noto che l’Ente Italiano di Accreditamento Accredia, con Certificato n. 1671, ha dichiarato che il Laboratorio Centrale per la Banca dati nazionale del Dna è conforme ai requisiti della norma quale “Laboratorio di Prova”. Il Comitato Settoriale per l’Accreditamento dei Laboratori di Accredia, riunitosi in data 19 dicembre 2017, ha approvato l’accreditamento del Laboratorio Centrale ritenendolo conforme ai principi previsti dalla Norma Uni Cei En Iso/ Iec 17025: 2500 “Requisiti generali per la competenza dei Laboratori di prova e taratura”. L’accreditamento attesta la competenza tecnica del Laboratorio per le finalità dettate dalla normativa vigente istitutiva della Banca dati nazionale e del Laboratorio Centrale. Tale accreditamento costituiva il requisito imprescindibile senza il quale non era possibile procedere alla profilazione dei campioni biologici prelevati alle persone detenute ristrette presso gli Istituti penitenziari. Di che cosa parliamo? L’Italia, con la legge di ratifica del trattato di Prùm (30 giugno 2009 n. 85), in attuazione degli accordi di Schengen diretti a rafforzare la cooperazione con gli altri Stati nella lotta ai fenomeni del terrorismo, immigrazione clandestina, criminalità internazionale e transnazionale, ha disciplinato, tra l’altro, la istituzione della banca dati del Dna. La stessa legge, all’art. 16, rinvia a uno o più regolamenti la specifica attuazione dei principi e criteri indicati nel testo normativo di istituzione della Banca Dati del Dna presso il Ministero dell’Interno e di un Laboratorio centrale presso il ministero della Giustizia avente la finalità di identificazione degli autori dei reati. Con Decreto del Presidente della Repubblica 7 Aprile 2016 n. 87 è stato emanato l’annunciato regolamento con le disposizioni di attuazione della L. n. 85/ 2009 concernenti l’istituzione della banca dati e del laboratorio centrale per la banca dati nazionale del Dna, pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 122 del 26- 52016. Il testo, composto di 8 Capi e 36 articoli, disciplina sia le modalità di funzionamento ed organizzazione della banca dati e del laboratorio centrale che lo scambio di profili del Dna per le citate finalità di cooperazione transfrontaliera. L’art. 5 del regolamento disciplina l’acquisizione del campione biologico dei soggetti indicati nell’art. 9 della Legge 85/ 2009, ovvero: i soggetti ai quali sia applicata la misura della custodia cautelare in carcere o quella degli arresti domiciliari; i soggetti arrestati in flagranza di reato o sottoposti a fermo di indiziato di delitto; i soggetti detenuti o internati a seguito di sentenza irrevocabile, per un delitto non colposo; i soggetti nei confronti dei quali sia applicata una misura alternativa alla detenzione a seguito di sentenza irrevocabile, per un delitto non colposo e i soggetti ai quali sia applicata, in via provvisoria o definitiva, una misura di sicurezza detentiva. Musica, robot, diritto: la cultura in carcere con Fondazione Irti di Nicola Saldutti Corriere della Sera, 13 gennaio 2018 Il protocollo firmato con il Csm e l’amministrazione penitenziaria. Dalla Costituzione all’ambiente: incontri a Sulmona, Rebibbia e Regina Coeli. La questione delle carceri, non solo in Italia, è da sempre legata a un equilibrio: la punizione per i reati commessi dai detenuti e la condizione di persone che restano tali anche se condannate. La Costituzione, all’articolo 27, ha racchiuso da settant’anni questo principio, che alle volte appare impossibile: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Dove si debbano porre i confini tra questi due estremi è oggetto di dibattito (probabilmente irrisolvibile). Accade però che la società civile, quella fatta dell’impegno dei volontari, mostri sempre maggiore attenzione verso il mondo delle carceri. Laboratori, corsi. Addestramento al lavoro, necessario certo. Eppure c’era qualcosa che si poteva ancora fare. La “Fondazione Nicola Irti per le opere di carità e di cultura”, promossa dal professor Natalino Irti e dalla madre Elena Angelini dopo la prematura scomparsa del figlio, ha immaginato un suo contributo proprio in questo campo: contribuire alla rieducazione attraverso la cultura. Non solo dunque laboratori tecnici, attività. Ma far entrare nelle carceri la riflessione su temi che riguardano tutti. Un progetto condiviso subito dal Consiglio superiore della magistratura e del ministero della Giustizia. E che ha portato alla firma di un protocollo di intesa per un percorso che durerà tre anni e che vedrà una serie di iniziative quest’anno negli istituti penitenziari di Sulmona, Roma Rebibbia Nuovo Complesso e Regina Coeli. L’idea è organizzare corsi, seminari su una serie di argomenti che consentano di coinvolgere i detenuti su questioni che anche “fuori” dal carcere sono decisive: dai temi legati alla Costituzione all’informatizzazione e la robotica, all’ambiente. Ci saranno corsi di economia e di musica. Il progetto vuole tenere al centro la persona, la necessità di dare attuazione all’articolo 27 della Carta costituzionale. Un’intesa che è il risultato della collaborazione tra società civile e istituzioni, rappresentate dal vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini e dal capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Santi Consolo. Accordo che verrà presentato all’Accademia dei Lincei, giovedì 18 gennaio. Come dire: pubblico e privato, se lavorano insieme, possono contribuire al cambiamento. La società punitiva di Rocco Schiavone L’Opinione, 13 gennaio 2018 Viviamo nell’era della giustizia come vendetta sociale. Parola dell’avvocato Marcello Petrelli, alto rappresentante dell’Unione delle camere penali di Roma. Una vendetta promossa - anche parzialmente in maniera inconsapevole - da partiti politici e associazioni culturali di ogni tipo - di solito “anti” qualcosa - con il pratico risultato che la mentalità garantista è sempre sospetta. Il culmine opposto era stato silenziosamente raggiunto nel 1975 con il varo della Legge Gozzini in Italia, mentre in Francia spopolava il libro “Sorvegliare e punire” di Michel Foucault. E gli intellettuali di sinistra di questo discettavano - cioè degli ultimi della terra e della loro condizione da reclusi - e non di come inondare le carceri di colletti bianchi. Come va di moda, invece, quantomeno dagli anni Novanta a oggi. A margine del convegno sull’amnistia e le varie forme di clemenza promosso da ostinati giuristi che non smettono di sperare nel ritorno dello Stato di diritto in Italia, magari per intercessione di Babbo Natale o della Befana, l’aspetto più preoccupante che si coglie è questo. La società che amministra la vendetta invece che la giustizia. Magari riparativa. E da parte dei politici, che lo vedono nei sondaggi e nei risultati elettorali, c’è disillusione sulla domanda dei cittadini per una giustizia e uno stato di diritto correlati. Il veleno dell’antipolitica ormai ha invaso tutto il corpo sociale. E questa cosa trova d’accordo gente culturalmente lontana e politicamente distante come l’ex presidente della consulta, Giovanni Maria Flick, e il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri, tanto per fare due nomi di partecipanti a detto convegno le cui parole potevano colpire chiunque dotato di una minima sensibilità. Soprattutto colpisce il “non detto” ma implicito. Il populismo penale di oggi si può paragonare a una sorta di nazifascismo del diritto. Una forzatura pratica dell’esecuzione della pena. Con un di più di un vero e proprio “dolo eventuale”. Ad esempio insito nella sciatteria con cui viene trattata la giustizia penale dagli addetti ai lavori. A cominciare dalle carceri. Nessuno crede al valore tendenzialmente rieducativo della pena. Nessuno - ed è persino peggio - ritiene che nel carcere ci debbano essere le stesse condizioni che in qualsiasi altro ufficio pubblico, al netto della privazione delle libertà. E nessuno crede neppure all’esistenza delle “pene”. Nel senso che la pena è una “in galera!”. Come nel leggendario urlo del comico Bracardi della banda di Renzo Arbore. Partendo da questo stato di cose come premessa implicita, Ferri ricorda con un velo di amarezza come il Governo abbia colpevolmente rinunciato all’esercizio della delega nel sistema delle pene. Cioè a legiferare in materia di giustizia riparativa e diritto penale minimo. E viene pronunciato da tanti anche il problema della criminalizzazione dell’uso, consumo e detenzione di droga. Il primo fattore di instabilità della giustizia italiana e della sua appendice carceraria, come direbbe Rita Bernardini, una delle massime autorità politiche di questi tragici problemi. Le leggi garantiste o semplicemente normali in materia di giustizia devono essere fatte passare alla chetichella quasi si trattasse di emendamenti per elargire mance elettorali o emolumenti a pioggia nella finanziaria. Sennò si scatenano quei media in malafede che guardano al loro piccolo mercato di lettori ormai ipnotizzati dal giustizialismo. E in realtà questo emergenzialismo serve ormai solo ai suoi sacerdoti: ampiamente ridimensionato il fenomeno mafioso in Italia, resta il problema di come continuare a foraggiare i professionisti dell’antimafia. Che sono nel giornalismo, nell’associazionismo, nella parte più rampante e manageriale delle forze dell’ordine e soprattutto in quella parte di magistratura che così ha trovato una scorciatoia efficace alle proprie malcelate ambizioni politiche. La giustizia riparativa invece è dura fargliela digerire. Siamo ancora lontani dal legiferare in materia conforme allo Stato di diritto. Lo hanno ammesso tutti i partecipanti al convegno di ieri. E trattandosi di giuristi, avvocati e costituzionalisti, invece che di casalinghe intervistate dai talk-show o di vittime delle banche o comunque di incazzati in servizio permanente effettivo, sarà dura che il loro grido di dolore riesca a varcare l’aula in cui si sono riuniti. Sabino Cassese: “corrotti uguale mafiosi? attenti, lo Stato di diritto non è un optional” di Francesco Lo Dico Il Dubbio, 13 gennaio 2018 Dalla destituzione di Bellomo, che “ha prodotto discredito per la giustizia”, all’altolà alle toghe che organizzano corsi per profitto (“no ai magistrati imprenditori”), dal nuovo Codice Antimafia che contiene gravi violazioni dello Stato di diritto alla riforma delle intercettazioni, che “va nella direzione giusta”. E poi anche la politica assente che è alle base delle facili promesse elettorali di questi giorni (“ridicola quella di Grasso di abolire le tasse universitarie”), e le capriole giuridiche dei grillini che calpestano la Costituzione a loro uso e consumo. Giudice emerito della Corte Costituzionale, professore della Scuola Normale Superiore di Pisa e già ministro della Funzione pubblica nel governo Ciampi, Sabino Cassese affronta insieme al Dubbio i maggiori nodi della politica e della giustizia emersi di recente in un Paese in fibrillazione che si appresta alle urne. Professore, è imminente la rimozione dai ranghi della magistratura amministrativa del consigliere Bellomo, che parla di “processo mediatico imbastito sulla stampa e sulla tv”. È davvero così, oppure la decisione del Consiglio di Stato è giustificata? A quel che si apprende dai quotidiani, i fatti parlano da sé. Il componente di un organo giudicante non può comportarsi in quel modo. Finisce per produrre discredito per la giustizia. La vicenda ha inoltre gettato luce sui corsi privati organizzati da magistrati per i concorsisti. I magistrati amministrativi possono legittimamente farlo, ma non sarebbe opportuno rivedere le norme anche per loro, onde prevenire sospetti e possibili conflitti di interesse? Sarebbe una perdita grave se i magistrati non potessero insegnare e trasmettere la propria esperienza ad altri. Quindi ben vengano magistrati- insegnanti. Altra cosa sono i magistrati organizzatori di corsi, altra cosa è fare corsi “for profit”. Per essere più concreto, se un magistrato insegna alla Scuola della magistratura o alla Scuola nazionale di amministrazione, anche prendendo un modesto gettone di presenza, non credo vi siano problemi. Questi sorgono se i magistrati organizzano privatamente imprese educative, perché in tal caso non sono educatori, ma imprenditori. La riforma sulle intercettazioni ha fatto molto discutere: la reputa efficace nel limitare la trascrizione di conversazioni irrilevanti e non pertinenti? Va nella direzione giusta. Suggerisco di accertare come funziona, prima di esprimere giudizi definitivi. E auspico che delle intercettazioni si faccia un uso discreto e limitato ai fini degli accertamenti. Non dimentichiamo che vi sono molti altri modi di raccolta delle prove. Principi di diritto suggeriscono di utilizzare i mezzi di raccolta delle prove meno invasivi e lesivi della privacy (un diritto che spetta a tutti, anche agli indagati), secondo un criterio di proporzionalità. A destare polemiche è stata peraltro anche la maggiore intrusività dei trojan. Potranno essere utilizzati anche nelle private dimore e anche per i reati contro la pubblica amministrazione, in ideale continuità con il nuovo codice Antimafia, che estende confische e sequestri a questo tipo di reati ed è stato criticato tra gli altri da Cantone e Flick. Nota in questi due fatti un progressivo scivolamento dell’azione politica nel populismo penale, a detrimento delle garanzie costituzionali? L’estensione delle norme antimafia ai reati di corruzione (tutti meno uno, se non ricordo male) mi pare una grave violazione dello Stato di diritto. Possibile colpire con la confisca, prima del processo, anche tali reati? Non dimentichiamo che i fondatori dello Stato italiano hanno sempre avvertito che la prevenzione è un’attività lesiva della libertà personale, perché opera senza un processo, sulla base del sospetto. Il M5s, quello dei tribunali del popolo e dei “vaffa” in piazza contro i politici, ora imbocca con il nuovo Codice etico la via del garantismo. Evoluzione filosofica o puro opportunismo ritagliato su misura dell’indagato Di Maio, e di Raggi rinviata a giudizio? Perché mi fa questa domanda? Pensa che da quelle parti alberghino desiderio di coerenza e attenzione per lo Stato di diritto? Le nuove regole pentastellate prevedono inoltre una sanzione economica per l’eletto che rompe il vincolo di fedeltà al Movimento in palese violazione della Costituzione. I big grillini sostengono però che il contratto privato pattuito, che prevede anche 300 euro al mese da destinare alla piattaforma privata Rousseau, consente di applicare la multa. È davvero così? Bisognerebbe chiederlo a loro. Va notato che queste nuove norme grilline sono dettate per l’associazione numero due, non per la prima. Ci si deve, quindi, chiedere se gli associati alla prima facciano parte della seconda. La prima è retta da un “non statuto”, la seconda da uno “statuto”. Seconda domanda: le norme per evitare “tradimenti”, che prevedono sanzioni sono quelle dei 300 euro mensili o le altre che dispongono sanzioni pecuniarie? Quello grillino è un ordinamento fluido, che cambia e lascia aperte molte questioni, come notato dal tribunale di Palermo nel noto caso delle “regionarie” siciliane. È chiaro che questo espone il movimento a interventi giudiziari che non possono non tener conto di quanto dispongono il codice civile e la Costituzione (in particolare, il divieto di mandato imperativo). Intanto la campagna elettorale ha preso l’abbrivio, segnata dall’insostenibile leggerezza di promesse impossibili. A che cosa si deve tanta “flessibilità”, sfoggiata a dispetto di un debito pubblico salito di altri 210 miliardi negli ultimi 5 anni? Quando la politica è assente, ne fanno le veci le promesse. Ridicola, in particolare, quella dell’abolizione delle tasse universitarie. Chi l’ha fatta non sa che l’argomento è discusso da quasi un secolo e implica problemi di giustizia sociale. Ma la giustizia dei tribunali è diversa dalla giustizia sociale. La legge elettorale non consentirà con ogni probabilità di incoronare un vero vincitore. Dobbiamo attenderci un governo di larghe intese dopo il voto? Le possibilità sono tre. Un accordo tra forze politiche (come in Germania). Un governo di minoranza, con tolleranza delle altre forze politiche (come in Irlanda e Spagna). Un “governo del presidente” (come in precedenti esperienze italiane). Il caso Dell’Utri e la necessità improrogabile di eliminare il “concorso esterno” di Piero Tony Il Foglio, 13 gennaio 2018 A scanso di pericolosi equivoci - tutto vorrei tranne che ritrovarmi indagato come atto dovuto, per carità, per un reato tipo “empatia esterna” in associazione mafiosa o che so altro - premetto e preciso che non conosco né Dell’Utri né i suoi amici. Ma ciononostante mi inuggisce da qualche giorno una sorta di fastidiosissimo rovello, esattamente da quando ho riletto di lui sui media per via delle ultime vicissitudini processuali. Nessuna uggia, ci mancherebbe altro, se parlassimo di condanna per appartenenza organica a una associazione mafiosa o per qualsiasi altro delitto canonico; ma invece no, non è stato così, è in carcere perché, pur non essendo legato alla realtà mafiosa né da rapporto associativo né dalla sottesa affectio societatis, avrebbe però “contribuito causalmente al rafforzamento delle capacità operative dell’associazione ed alla realizzazione anche parziale del programma criminoso” operando (o tentando) una mediazione tra chi era o poteva divenire vittima e alcuni suoi conoscenti, corregionali compagni di gioventù divenuti fior di mafiosi (il primo e tra i più pericolosi quello conosciuto in una società calcistica da lui stesso fondata). Avrebbe svolto, insomma, “funzione di garanzia” su richiesta di noto imprenditore e così avrebbe favorito un di lui “assoggettamento al pizzo”. Tento di essere più chiaro. Uggia anche perché mi domando - e non so rispondermi - nella situazione in cui si trova (che purtroppo tanti altri hanno vissuto e continuano a vivere) cosa possa pensare Dell’Utri tutte le sere prima di addormentarsi e tutte le mattine quando apre gli occhi; e quali possano essere le sue considerazioni dietro le sbarre, visto che con la massacrante carcerazione gli è stato tolto l’ultimo scampolo di vita. E non per aver fatto parte di un’associazione di tipo mafioso (lo esclude la stessa sentenza), non per aver disinvoltamente assecondato le sue passioni culturali ricettando o addirittura commissionando antichità di provenienza illegale (il che non sarebbe apparso incredibile), non per aver attentato all’incolumità di qualcuno o aver concorso moralmente istigando a delinquere o comunque favorendo o rafforzando propositi criminosi. No, no, no. Ma per imprevidenza circa le conseguenze di un comportamento di contesto stupidamente disinvolto. E forse anche per eccessiva fiducia nei principi di offensività e di legalità che, come è noto, presuppongono “sufficiente determinatezza” delle fattispecie normative nel descrivere/precisare sia la condotta vietata sia la relativa pena edittale in relazione al grado dell’offesa - quando c’è - a un bene giuridico. Mi domando insomma cosa possa provare uno che, evidentemente, non è nel mezzo del cammino di vita ma un po’ più in là, e dunque non ha tempo da perdere. E ha buone ragioni - alla faccia di chi sprovvedutamente crede che il concorso esterno in associazione mafiosa esista da quando la legge Rognoni-La Torre ebbe a introdurre l’art. 416 bis c.p. - per considerarsi vittima più o meno sacrificale del pensiero dominante. Ed è in carcere per quel reato di concorso esterno in associazione mafiosa che secondo i più non è reato ma connivenza - atteggiamento grave ma per legge non punibile - oppure ossimoro, oppure aria che qualche Savonarola ebbe a friggere anni fa (chi per primo? Quando, esattamente?) per dare una lezione a quei prepotenti che mafiosi non erano ma razzolavano male e pensavano di essere chissà chi. Cosa possa provare uno che si ritrovi severamente condannato ma sia ben consapevole (è motivazione di ogni impugnazione a tal riguardo) che l’ipotizzare giurisprudenzialmente concorso esterno (art. 110 c.p.) in un concorso associativo necessariamente interno (art. 416 bis c.p.) non è soltanto temerario, ma anche logicamente impraticabile. È un’ipotesi che precipita e si smarrisce nel vuoto del non senso e dell’elisione, per il lapalissiano principio che nell’associazione o ci sei o non ci sei, che chi non è complice non può concorrere con i complici, infine che le norme speciali (artt. 416, 416 bis c.p.) derogano per assorbimento a quelle generali (art. 110 c.p.) perché così statuiscono gli artt. 15 c.p. e 9 legge n. 689/1981. Mi domando, in conclusione, che cosa Dell’Utri possa pensare del nostro paese, chiuso nella sua cella, quando accade tutto questo e nonostante le esperienze. Che sono quelle dei calvari di Mannino, Carnevale e tanti altri che - e non appaia retorica - hanno messo a repentaglio la dignità non solo loro ma di tutti; nonostante che la Cedu, in relazione a Contrada, abbia ritenuto incomprensibile -quantomeno per i primi anni dalla sua creazione/invenzione e dunque in violazione di quell’art. 7 della Convenzione europea che pretende la chiarezza delle ragioni della condanna - la contestazione di siffatto concorso esterno. E nonostante l’ondivago orientamento giurisprudenziale circa ipotizzabilità e perimetri, perfino di Sezioni unite della Cassazione; nonostante poco più di un anno fa la prima sezione della Cassazione abbia sentito di nuovo la necessità di chiedere alle Sezioni Unite (ordinanza 5.10.2016, n. 42043) di valutare se e come sia ipotizzabile il predetto concorso esterno; nonostante che il gip di Catania, Bernabò Distefano, nel febbraio 2016 abbia emesso un importante proscioglimento, affermando e spiegando, in sintonia con molti altri tecnici del diritto, che il concorso esterno non è previsto dalla legge ma rappresenta solo un’incondivisibile interpretazione giurisprudenziale; nonostante gli stessi procuratori emeriti della Repubblica, Caselli e Roberti, abbiano recentemente proposto - in occasioni diverse - la codificazione di tale concorso esterno per via delle accennate incertezze e giurisprudenziali e dottrinarie. Incerto il reato ma certa la detenzione, e nel frattempo Dell’Utri non può che riflettere. Ci si augura che il suo ricorso alla Cedu venga accolto, e così gli sia fatta giustizia. Si può anche sperare che ancor prima la Corte d’appello di Caltanissetta accolga, nel corso del processo di revisione attivato da Dell’Utri, la coraggiosa richiesta di sospensione della pena avanzata dalla procura generale. Ci si augura infine che, per un qualche miracolo, la si smetta con la sempre più imperante ipocrisia. E che di conseguenza non si esageri nel fingere di non capire che il concorso esterno, molto spesso, è come la fata turchina, pronta a intervenire con la sua bacchetta per dare severe lezioni quando si ha “certezza morale” ma mancano prove di concorso interno all’organigramma dell’associazione. Fata ideata per non lasciare impuniti i manfani delle fasce grigie, quei furbetti-che razzolano male senza lasciarci lo zampino. E che non si parli più fino alla nausea dell’articolo 27 della Costituzione e della funzione tendenzialmente rieducativa della pena quando, soprattutto per riguardo a mainstream e sdegno pubblico e spiriti vendicativi, non si esita a trattenere i condannati in carcere fino all’ultimo respiro. E che si dica chiaramente e ad alta voce che l’opinabile e l’incerto devono restare sempre e comunque fuori dalle aule di giustizia, perché la Giustizia non è cosa da “guaglioni”, è cosa seria. Auguri a tutti i concorrenti esterni del mondo. Assicurazione Inail per i condannati impegnati in attività di pubblica utilità Il Sole 24 Ore, 13 gennaio 2018 Rifinanziata con tre milioni anche per il biennio 2018-2018 la copertura assicurativa Inail per gli imputati ammessi alla prova nel processo penale, i condannati per guida in stato di ebbrezza o sotto effetto di stupefacenti e i tossicodipendenti condannati per un reato di “lieve entità” in materia di stupefacenti, i quali siano impegnati in attività gratuite di pubblica utilità. Il provvedimento, previsto dai commi 180-181, legge 207/17 (bilancio 2018), è stato ricordato dall’Inail con la circolare 5/17, pubblicata ieri, che riporta le modalità attraverso cui soggetti promotori di progetti di pubblica utilità potranno accedere alle risorse messe a disposizione; il premio speciale unitario è di 258 euro all’anno. Gratuiti patrocini pagati subito. L’ufficio non può frenare chiedendo il 730 dell’assistito di Gabriele Ventura Italia Oggi, 13 gennaio 2018 Una nota del ministero della giustizia punta a porre un freno alla prassi dei tribunali. Decreto di pagamento dell’avvocato che assiste il cliente in gratuito patrocinio contestuale all’esito del procedimento. Non è corretta, invece, la prassi degli uffici giudiziari che, a fronte dell’istanza di liquidazione del compenso del legale, richiedono accertamenti all’ufficio finanziario sulla effettiva situazione reddituale della parte assistita, rimandando all’esito degli stessi l’adozione del decreto di pagamento. Allungando di parecchio la tempistica. Il magistrato deve quindi chiedere all’avvocato di presentare tutta la documentazione reddituale dell’assistito contestualmente alla parcella, in modo da poter verificare subito la sussistenza dei presupposti per procedere alla liquidazione. Lo chiarisce il ministero della giustizia, con una nota del 10 gennaio scorso, con cui vengono date indicazioni operative su tre quesiti in particolare: entro quale termine l’avvocato deve depositare l’istanza di liquidazione del compenso spettante per l’attività difensiva prestata in favore della parte ammessa la patrocinio a spese dello stato; entro quale termine il magistrato deve provvedere a liquidare il compenso dell’avvocato; se sia corretta la prassi adottata da alcuni uffici giudiziari di provvedere sull’istanza di liquidazione degli onorari solo dopo aver ricevuto riscontro da parte degli uffici finanziari circa le condizioni reddituali della parte ammessa al gratuito patrocinio. Per quanto riguarda il primo quesito, il ministero della giustizia richiama il dpr n. 115/2002 (art. 83, comma 3-bis), che non ha introdotto alcun termine di decadenza per la presentazione dell’istanza di liquidazione dei compensi dell’avvocato, con la conseguenza però che, in caso di istanza presentata dopo la definizione del procedimento, gli eventuali effetti negativi connessi alla ritardata liquidazione del compenso graveranno sull’avvocato stesso. Ugualmente, passando al secondo quesito, non è stato introdotto alcun termine a provvedere per il magistrato, essendo possibile che quest’ultimo ritenga necessario subordinare l’emanazione del provvedimento di liquidazione al deposito di documentazione ulteriore da parte dell’ammesso al patrocinio a spese dello stato. Il dpr 115/2002 chiarisce però, sottolinea via Arenula, che il decreto di pagamento deve essere emesso con atto distinto e separato rispetto al provvedimento che definisce il giudizio. Infine, riguardo il terzo quesito, secondo il ministero la normativa delinea un modo di procedere poco compatibile con quelle prassi in virtù delle quali vengono richiesti accertamenti all’ufficio finanziario a fronte dell’istanza di liquidazione, rimandando l’adozione del decreto di pagamento all’esito delle verifiche. Livorno: nominato il nuovo Garante dei detenuti gonews.it, 13 gennaio 2018 È Giovanni De Peppo il nuovo garante dei detenuti. Lo ha deciso il sindaco Filippo Nogarin che oggi ha sciolto le riserve sull’incarico, nominando ufficialmente De Peppo “Garante delle persone private della libertà personale”. 69 anni, originario di Imperia (è nato a Ventimiglia) ma livornese di adozione, con una laurea in Servizio Sociale alla Facoltà di Scienze della Formazione all’Università di Trieste, Giovanni De Peppo, ha iniziato a lavorare come assistente sociale subito dopo il diploma di conseguito alla Scuola Superiore di Servizio Sociale “O.N.A.R.M.O.” di Napoli, trattando poi negli anni vari problemi di welfare legati soprattutto all’ambito psichiatrico. È stato impegnato su questioni legate ai detenuti collaborando a lungo in progetti di reclusione e reinserimento sociale a Napoli, lavorando a progetti di rieducazione anche all’Istituto del Ministero di Grazia e Giustizia di Nisida. Tra le numerose esperienze professionali figurano molteplici incarichi come assistente sociale, anche con ruolo di coordinatore, sia a Livorno che a Collesalvetti, e docenze in numerosi corsi e seminari legati a tematiche relative ai servizi sociali. Nell’ambito delle funzioni della Ufsma ha attuato tra l’altro programmi d’inclusione sociale nei riguardi di persone degenti presso l’OPG di Montelupo del Ministero della Giustizia in collaborazione con gli operatori ed il personale medico, nonché predisposto alcuni programmi di integrazione per disabili psichici. Dal 2012 fino al pensionamento, nel 2014, è stato Responsabile dell’Unità Funzionale Assistenza Sociale Zona Livorno coordinando tutti i settori di competenza del Servizio di Assistenza Sociale della ASL 6 in sinergia con i Servizi territoriali del Comune di Livorno. Inoltre, gli è stata attribuita la presidenza della Commissione Multidisciplinare di controllo sulle strutture prevista dalla legge RT 41/2005 per la verifica e il controllo del buon funzionamento e dell’adeguatezza delle strutture pubbliche e private di accoglienza per anziani, disabili e minori. Con l’avvio delle procedure del Codice Rosa nei Pronto Soccorso in contrasto alla violenza di genere, infine, gli è stato attribuito il compito di voce responsabile per la Zona Livornese. Giovanni De Peppo subentra così a Marco Solimano che lo ha preceduto fino a oggi in questo incarico che ricopriva dall’agosto del 2010. Si ricorda che il Garante è una figura di raccordo tra il Consiglio Comunale, la Giunta e il mondo carcerario e, come previsto dall’apposito Regolamento, rimarrà in carica cinque anni e comunque non oltre la durata del mandato del Sindaco che lo ha nominato. Tra i numerosi compiti assegnati al Garante, ci sono quelli di promozione dell’esercizio dei diritti fondamentali dei detenuti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile e di fruizione dei servizi. Belluno: sos dal carcere “chiudere la sezione Salute mentale” Corriere delle Alpi, 13 gennaio 2018 La Cisl Fns denuncia aggressioni, tentativi di incendio e distruzioni “La casa circondariale di Baldenich è inadeguata a ospitare queste persone”. “Aggressioni, tentativi di incendi e distruzione dei mobili: gli agenti di polizia penitenziaria a rischio”. L’allarme è lanciato da Robert Da Re della segreteria territoriale Cisl Fns, preoccupato della situazione in cui versa la “Sezione Articolazione Salute Mentale” del carcere di Belluno. “Nella casa penitenziale di Baldenich”, sottolinea, “è a rischio l’incolumità di poliziotti e operatori penitenziari, costretti a operare in una struttura non idonea a ospitare i detenuti affetti da patologie psichiatriche e a colmare le lacune lasciate dal Servizio Sanitario Nazionale. Per questo motivo chiediamo la chiusura immediata della sezione”. Una situazione critica quella dei poliziotti e degli operatori che lavorano nella sezione del carcere di Belluno, che ospita quattro detenuti con problemi psichiatrici, provenienti dall’ex ospedale psichiatrico giudiziario, chiuso per legge due anni fa. “Nel 2016”, spiega da Re, “con l’apertura della sezione Articolazione per la tutela della salute mentale nell’ex sezione femminile del carcere bellunese, è iniziato un calvario per poliziotti e operatori penitenziari, ma anche per gli stessi detenuti. L’inadeguatezza della struttura e le poche risorse messe a disposizione dall’Usl locale hanno generato un susseguirsi di eventi critici, anche molto gravi, dove talvolta l’incolumità dei poliziotti penitenziari è stata lesa, costringendoli a cure mediche, anche di lunga durata”. Sotto accusa la struttura carceraria: “I locali in cui sono ospitati sono fatiscenti, piccoli e inadeguati e i detenuti soffrono di gravi patologie psichiatriche che necessitano di assistenza h24, cosa che la struttura non riesce assolutamente a garantire”. Dopo diverse richieste da parte delle organizzazioni sindacali, a ottobre c’è stato un incontro con il provveditore dell’Amministrazione penitenziaria di Padova, durante il quale i dati esposti hanno legittimato quanto denunciato dal sindacato e il provveditore ha preso coscienza dell’insostenibile situazione creatasi a causa di un’affrettata scelta: “Nonostante tutto”, sottolinea Da Re, “nulla da quel giorno è cambiato, la struttura non ha avuto modifiche e l’Usl non si è adoperata per recuperare il gap riscontrato. Il personale in questi giorni sta facendo fronte a una nuova ondata di gravi episodi: aggressioni, tentativi di incendi, distruzione dei mobili. Se non si è fatto male nessuno è solo grazie alla professionalità dei poliziotti e degli operatori penitenziari e a una grossa dose buona sorte: la struttura, così com’è, va chiusa”. Belluno: la replica dell’Usl “i detenuti psichiatrici? noi li assistiamo ogni giorno” Il Gazzettino, 13 gennaio 2018 Risposta alla Cisl Fns che ha sollevato il caso: “Seguiti ogni giorno”. “Nel carcere di Baldenich, per i detenuti psichiatrici, la migliore assistenza sanitaria possibile”. L’Usl 1 Dolomiti ci tiene a precisarlo. L’azienda sanitaria risponde alle accuse rivoltele da Cisl Fns in merito alla gestione della sezione Articolazione salute mentale del penitenziario cittadino. “I rilievi sulle presunte poche risorse messe a disposizione dell’Usl, come ha dichiarato il sindacato - fa sapere la direzione generale - non sono assolutamente corrispondenti alla realtà dei fatti. L’azienda Usl 1 Dolomiti è quotidianamente impegnata a fornire la migliore assistenza sanitaria e psichiatrica ai quattro detenuti ospitati. Oltre all’assistenza garantita a tutti gli ospiti del carcere, vengono settimanalmente erogate 7 ore da parte dello psichiatra, 5 ore da parte dello psicologo e 35 ore da parte di infermieri che sono stati formati nell’assistenza di tale tipologia di pazienti. Quindi l’assistenza fornita è superiore a quella che viene erogata ai pazienti psichiatrici che vengono gestiti in strutture protette e in linea con gli standard sanitari regionali”. A sollevare il velo su una realtà pesante era stato Robert Da Re della segreteria Cisl Fns, denunciando come tra le mura della sezione si consumino atti di violenza, episodi che sfuggono al controllo degli operatori e degli agenti come incendi delle celle e danni alla mobilia e come non sia raro che i lavoratori restino feriti nel tentativo di arginare i danni e mantenere l’ordine. Nella denuncia il sindacato chiedeva la chiusura della sezione e lo spostamento dei suoi ospiti in un’altra struttura dichiarando quella di Baldenich inadeguata, sia negli spazi sia nell’assistenza sanitaria erogata. Accuse prontamente respinte al mittente, dalla direzione generale dell’Usl 1 Dolomiti. “Nella sezione Asm possono essere collocati solamente detenuti con infermità psichica sopravvenuta nel corso della detenzione - la spiegazione dell’azienda - e detenuti a pena diminuita per vizio parziale di mente. I pazienti psichiatrici provenienti degli ospedali psichiatrici giudiziari considerati più gravi non vengono curati in carcere ma nelle residenze sanitarie protette”. Napoli: quel silenzio assordante sui carnefici di Arturo di Vittorio Del Tufo Il Mattino, 13 gennaio 2018 il comportamento di chi continua a proteggere i carnefici di Arturo. Con ogni probabilità le loro stesse madri. Dalla parte opposta della barricata c’è un’altra mamma, quella del diciassettenne, la quale continua a chiedere che non si allenti la tensione sul caso. Una sovraesposizione, una fermezza e una tenacia che possono apparire quasi irrituali, per quanto sono stridenti con l’ostinato silenzio di altre madri di quello stesso quartiere. E invece dobbiamo essere grati alla mamma di Arturo e fare nostro il suo sentimento di sconfitta. E la sua rabbia. Per questo riteniamo che abbia fatto bene, ieri, il Garante per l’Infanzia a richiamare il ruolo delle famiglie invitando i genitori dei ragazzi coinvolti negli ultimi fatti di sangue a denunciare i propri figli: “Mi rivolgo in particolare alle mamme affinché, denunciando, affidino i propri figli al sistema della giustizia”. Possono sembrare parole ingenue, di fronte al muro di gomma che impedisce alle forze dell’ordine di assicurare alla giustizia gli accoltellatori del diciassettenne. Ma non lo sono. Come non è un pannicello caldo la richiesta del Garante di un tavolo inter-istituzionale per individuare gli interventi contro le devianze minorili. Finora, su questo fronte, le battaglie hanno prodotto risultati modesti. E un magrissimo bottino è venuto anche dalle politiche messe in campo per arginare il fenomeno della dispersione scolastica. Questi fallimenti ci interrogano e ci impongono di puntare i riflettori, ancora una volta, sull’implosione dei sistemi educativi e sul disfacimento di tante famiglie, un disfacimento diventato ormai - piaccia o non piaccia ammetterlo - fattore eversivo. Ma basta chiacchiere, per carità. Finora gli unici ad aver portato a casa qualche risultato, su questo fronte, sono stati i carabinieri, con le loro denunce nei confronti dei genitori inadempienti. Devianza e dispersione scolastica si combattono con progetti concreti, non con il festival della teoria: a farsene carico devono essere le istituzioni scolastiche (più di quanto non abbiano fatto finora) e gli enti locali, il tribunale dei minorenni e le forze dell’ordine, le famiglie e il mondo delle associazioni. E deve occuparsene la politica, sempre più latitante o piegata sui propri interessi, che ama discutere di questi argomenti solo quando c’è da fare polemica con Saviano - vedi la trita e stanca disputa sugli emuli di Gomorra magari per finire sui giornali o alimentare polemiche vacue. Vacue come le commissioni per la legalità che hanno prodotto finora solo parole, mentre il brodo di omertà nel quale siamo immersi continua a impedire finanche l’arresto di un gruppo di piccole belve. Milano: le bici rotte le riparano gli ex detenuti di Francesco Gironi Gente, 13 gennaio 2018 I ragazzi dell’associazione Area 51, alla periferia di Milano, hanno scelto di abbandonare una vita sbagliata. Si sono inventati un mestiere utile a tutti. Passano le giornate alla ricerca delle biciclette del servizio bike sharing di Milano vandalizzate e abbandonate, le riparano e le riconsegnano alla città. È la missione dei ragazzi dell’associazione Area 51. Un doppio riscatto, per le biciclette e per i giovani. Spiega Gennaro “Genny” Speria, 45 anni, con alle spalle un periodo in carcere dove ha scontato una pena per furto: “Prendo dalla strada ex detenuti per piccoli reati e cerco di far capire loro che le alternative all’illegalità ci sono e possono essere soddisfacenti”. Così, le prime 40 Ofo-bici sono tornate a disposizione dei milanesi. Le biciclette in condivisione di Ofo da settembre dipingono di giallo le strade del capoluogo lombardo e sono state utilizzate da oltre 500 mila milanesi. Qualcuno, però, ha preso alla lettera il “prendi e lascia dove vuoi”, traduzione del termine free floating, con cui è indicato questo sistema di noleggio, e abbandona le biciclette nei posti più impensabili, spesso dopo averle danneggiate. Palermo: intitolata a don Puglisi sala del Centro per la giustizia minorile Malaspina di Antonella Lombardi meridionews.it, 13 gennaio 2018 “Per alcuni preti sarà sempre una spina nel fianco”. Così Francesco Puglisi, fratello del parroco ucciso dalla mafia a Brancaccio il 15 settembre del 1993, padre 3P, ha ricordato il Beato, a margine della manifestazione. “Questa iniziativa ci ricorda - ha detto Lorefice - che ciascuno di noi porta dentro un bene che bisogna tirare fuori”. È stata intitolata a padre Pino Puglisi, il sacerdote ucciso a Brancaccio dalla mafia il 15 settembre del 1993, la sala Gialla del centro per la giustizia minorile Malaspina di Palermo. A 25 anni da quell’omicidio il suo esempio di educatore è stato ricordato da Rosanna Gallo, direttore centro giustizia minorile per la Sicilia, a una cerimonia dove sono intervenuti anche il procuratore della Repubblica per i minorenni di Palermo, Maria Vittoria Randazzo, e il presidente del tribunale per i minorenni di Palermo, Francesco Micela. “Per me i sacerdoti si dividono in due categorie: quelli che lo fanno per vocazione e quelli che lo fanno per mestiere. I primi saranno sempre un punto di riferimento e un esempio da seguire, per i secondi mio fratello sarà sempre una spina nel fianco”. Così Francesco Puglisi, fratello del parroco ucciso dalla mafia a Brancaccio, padre 3P, ha ricordato il Beato, a margine della manifestazione. “Questa iniziativa ci ricorda l’atto di fiducia quotidiano di don Pino nei confronti di tutti noi - ha detto l’arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice - don Pino ci ricorda che ciascuno di noi, al di là della propria provenienza o collocazione territoriale, e penso in particolare ad alcuni quartieri, porta dentro un bene che bisogna tirare fuori. Intitolargli una sala qui è anche un atto di speranza e responsabilità per noi tutti, un invito a ripartire dai più piccoli se vogliamo che ci siano giustizia e legalità”. All’ingresso dell’aula è stata scoperta una targa donata dalla sezione di Palermo dell’Associazione Italiana dei Magistrati per i minorenni e per la famiglia. All’iniziativa sono presenti anche gli studenti del liceo classico Vittorio Emanuele, dell’istituto Regina Margherita di Palermo e i giovani dell’istituto alberghiero che hanno preparato il buffet. I giovani hanno interpretato una riduzione del musical Tu da che parte stai? di Roberto Lopes, mentre alcuni ragazzi del Malaspina hanno cantato una canzone da loro scritta su padre Puglisi. Con loro Cristian Picciotto, il rapper che ha fatto un laboratorio insieme ai ragazzi di Libera. “Lo ricordo da ragazzo, non posso dire di averlo conosciuto, ma la sua presenza era discreta ma riconoscibile - ha detto Micela - padre Puglisi era una persona semplice, riservata, era attento all’essenziale, concreto, con una forte formazione culturale, i suoi valori che sono entrati in questo edificio saranno ricordati anche dalla citazione sulla targa del suo famoso detto ‘Se ognuno fa qualcosa, allora si può fare molto”. All’iniziativa sono presenti anche i Responsabili delle strutture di altre province siciliane. Da ex allievi e oggi insegnanti, Rosaria Cascio e Gregorio Porcaro hanno ricordato l’esempio di “3P”. Un esempio militante, in “anni in cui era l’unico a pronunciare la parola mafia - ha detto Cascio - don Pino ha salvato tanti bambini, quegli anaffettivi che per le famiglie mafiose dovevano abituarsi subito all’odore del sangue, per imparare poi ad ammazzare i cristiani”. “Don Puglisi aveva un’empatia particolare con i giovani, un ascolto capace di scavare - ha detto padre Stabile che si è commosso nel ricordarlo - L’impegno sociale nasce dal nostro essere preti, la dignità non viene solo dalla legge, c’è un valore di giustizia e dignità che vuol dire compiere la volontà di Dio e questo aspetto era un tutt’uno per don Puglisi. Negli anni 70 padre Puglisi accompagna in questa bidonville vicina al fiume Oreto dei giovani volontari. Da Godrano a Settecannoli a Brancaccio, quartieri dove gli odi erano inveterati, dove i ragazzi non volevano stare insieme a scuola perché appartenevano a gruppi diversi, hanno testimoniato la dedizione di Padre Puglisi. Ancora oggi la povertà più grande è quella culturale”. Lecce: i doni di Nuova Rudiae ai bimbi dei detenuti Quotidiano di Puglia, 13 gennaio 2018 L’associazione Comitato Popolare Nuova Rudiae durante le festività natalizie si è impegnata a raccogliere giocattoli nuovi e poco usati, donati dagli abitanti del quartiere e della città. Il fine ultimo era quello di poter consegnare ai ragazzi dei detenuti/e della Casa Circondariale di Lecce (a Borgo San Nicola) dei doni, in modo che si potessero ricreare dei momenti felici di unità famigliare. La direttrice Rita Russo ha accolto favorevolmente l’dea e si è resa subito dispo- nibile. Così nella mattinata di martedì scorso una delegazione dell’associazione - composta dal presidente Leo Ciccardi, l’avvocato Ivan Feola, Elisabetta Ciccardi e Roberto Giordano Anguilla -, è stata accolta da una rappresentanza di detenute e dai funzionari preposti della Casa Circondariale di Lecce. “L’incontro è stato emozionante - dice Ciccardi, si è parlato dei problemi della vita in carcere, sia di coloro che devono scontare la pena e sia di chi lavora al suo interno. Ci è stato raccontato come alcuni momenti di unità familiare, che ai più possono sembrare scontati e naturali, non sono così frequenti e tale gioia sia ancora più amplificata nel poter scartare un dono, un regalo assieme ai propri cari”. Milano: presentazione progetto del Coe per ridare dignità ai detenuti del Camerun agensir.it, 13 gennaio 2018 Saranno presentati martedì 16 gennaio nell’ambito di un incontro all’Università Cattolica di Milano dal titolo “Impegno per la giustizia e rispetto della dignità della persona”, i risultati del progetto “Scateniamoci!” promosso dall’associazione Centro orientamento educativo (Coe) in Camerun. Il programma triennale - finanziato dal ministero degli Affari esteri e dalla Conferenza episcopale italiana - puntava alla promozione dei diritti e al miglioramento delle condizioni di vita e delle opportunità di reinserimento socio-professionale dei detenuti nelle carceri di Garoua, Mbalmayo e Douala. “La sinergia di tutti gli attori sociali che intervengono nelle carceri ha dato vita ad un’azione di forte impatto sociale che ha avuto una delle sue massime espressioni nella creazione di imprese sociali che, con le loro attività produttive, offrono opportunità di reinserimento sociale e lavorativo per i detenuti ed ex-detenuti”, spiega Georges Alex Mbarga, giurista e coordinatore del progetto. “Scateniamoci!” ha portato anche al risanamento degli ambienti carcerari, al potenziando dei servizi di infermeria e al migliorando delle razioni alimentari dei detenuti, con particolare attenzione alle donne, ai minori, e ai malati. “Il progetto - conclude Clara Carluzzo, responsabile dell’Ufficio Progetti Coe - ha portato, tra i suoi maggiori cambiamenti, la consapevolezza della persona detenuta in quanto essere umano che merita di essere considerato con dignità, permettendo cosi di fare breccia in una cultura dominante che concepisce il carcere in un’ottica punitiva. Ed effettivamente comprendere che ci sono adesso direttori di carceri che hanno a cuore la “riabilitazione”, il “reinserimento nella vita” dei detenuti è tra le maggiori soddisfazioni che come Coe oggi possiamo avere”. Livorno: il Sottosegretario Ferri visita la Casa di Reclusione della Gorgona notizieinunclick.it, 13 gennaio 2018 Il Sottosegretario ha visitato l’azienda agricola gestita dalle persone detenute sull’isola, che sono impegnate nella produzione di olio e formaggi e nell’attività di itticoltura. Si è inoltre recato presso l’azienda vinicola Frescobaldi dove alcuni detenuti sono impiegati nei vitigni. Nel corso della visita Ferri ha incontrato i detenuti, soffermandosi ad ascoltare le loro esigenze e problematiche, e ha avuto un incontro anche con il personale di polizia penitenziaria in servizio sull’isola. Infine, Ferri si è recato dalla signora Luisa, novantunenne e unica residente sull’isola, che non ha mai voluto abbandonare e che è diventata una sorta di “nonna” per tutti i detenuti e per il personale, un vero punto di riferimento, di serenità. Il Sottosegretario ha sottolineato l’importanza del lavoro nelle carceri come strumento del percorso rieducativo e come valore aggiunto nell’ottica del reinserimento del detenuto nella società. Ferri ha dichiarato: “Gorgona è un’eccellenza nel nostro sistema penitenziario, un modello detentivo che punta su lavoro e formazione. È intenzione del Ministero valorizzare Gorgona con nuove progettualità, con più risorse e più attenzione alle tante questioni che sono state illustrate sia dai detenuti che dal personale della polizia. Gorgona ha tante potenzialità che abbiano il dovere di valorizzare e rafforzare, a cominciare da investimenti su risorse e personale che soffre pesanti carenze in organico. Altro tema sentito è quello dei collegamenti con la terraferma, nel quale ci impegneremo chiedendo alla compagnia Toremar di istituire un viaggio navale giornaliero; il Ministero ha inoltre già stanziato 250 mila euro per rendere di nuovo funzionante la motonave Urgon, che è di proprietà della nostra amministrazione e che garantirà collegamenti anche per trasporto di materiali. Ringrazio il personale sia della polizia penitenziaria che quello dell’area trattamentale, educatori, volontari, tutti coloro che hanno consentito in questi anni di realizzare progetti, di garantire sicurezza, di migliorare la struttura. Ringrazio il vescovo di Livorno Mons. Simone Giusti per la fattiva collaborazione su tante iniziative, per la grande disponibilità riservata sia al personale che ai famigliari dei detenuti, per le idee e per le proposte concrete che ha rivolto alla nostra amministrazione per garantire un’effettiva tutela dei diritti ed una seria ed efficace rieducazione. Per aver sollecitato tutti a fare squadra, sinergia per rafforzare Gorgona. Rivolgo un ultimo pensiero alla signora Luisa, cui tutti sono legati e grati e la cui presenza sull’isola è sempre significativa”. Cinema. “La convocazione” di Enrico Maisto. Il racconto della giustizia di Cristina Piccino Il Manifesto, 13 gennaio 2018 “La convocazione” di Enrico Maisto, è il film che apre a Roma, lunedì 15 gennaio, la rassegna “Il mese del documentario”. Poi in tour di diverse città italiane. All’inizio è quasi un sussurro, frammenti di frasi, conversazioni banali, parole solitarie che fluttuano qua e là mischiate a esitazione, a qualche punto interrogativo, l’atmosfera che accompagna ogni attesa. Chi sono quelle persone, giovani e meno giovani sui cui volti, e tra quelle parole, si sofferma lo sguardo dell’autore delle immagini? La convocazione è il secondo film di Enrico Maisto, giovane regista milanese rivelato dal bell’esordio di Comandante, una storia familiare - al centro c’era il padre giudice del regista - e legata al tempo stesso al passato del nostro Paese, la lotta armata, gli anni che nel nostro cinema non riescono a trovare una rappresentazione libera da letture “postume”, interrogati da chi non c’era, con la libertà di voler scoprire qualcosa che si rivela al tempo stesso intimo e politico. Stavolta siamo in un tribunale, quello di Milano, Maisto però non ci rivela, non subito almeno, il processo in questione. Nelle note di regia leggiamo: “Se si guarda con attenzione alle tante immagini di cronaca giudiziaria che negli anni si sono accumulate, anche soltanto nei telegiornali, a margine del fotogramma si scorgeranno loro, i giudici popolari, questi sconosciuti che per volontà del caso hanno contribuito in forma anonima alla storia di tanti processi, per poi ritornare alle proprie vite. Un flusso costante che continua a coinvolgere molti, ma che rimane tutt’ora pressoché ignoto: chi sono? Che peso hanno? Cosa porteranno delle loro opinioni e convinzioni personali al momento di decidere la sentenza?”. Sono loro, dunque, i giudici popolari, i protagonisti del film - che da lunedì 15 gennaio inizia un tour con la rassegna “Il mese del documentario”, prima tappa Roma, casa del Cinema (ilmesedocumentaristi.com) - prima e dopo, quando cioè vengono convocati, nel tempo che li separa dal colloquio per la selezione ultima e col giuramento dei sei giudici popolari scelti insieme a supplenti e a sostituti addizionali. Una sessantina di persone che per una giornata sospendono il proprio quotidiano per essere messi di fronte a una responsabilità al di là dei problemi personali: c’è chi ha dovuto assentarsi dal lavoro, chi ha delle preoccupazioni familiari, chi non sa nulla del processo per cui è stato chiamato e prova a cercare una memoria storica italiana “evaporata” digitando sullo schermo del telefonino. Maisto nell’unità di luogo mantiene sempre (con l’uso di multi-camere) la dimensione corale: non ci sono interviste, nessuno dichiara al microfono qualcosa, le ore scorrono e con essere prende forma una relazione che interroga il rapporto tra l’individuo (il cittadino) e la giustizia e che e apre anche alcuni squarci sulla consapevolezza del nostro passato recente dentro e fuori quell’aula di tribunale. Il punto di vista dell’autore sin dichiara in questa narrazione polifonica affidata però alle immagini in primo piano (il montaggio è di Valentina Cicogna e Veronica Scotti) e a un suono (magnificamente composto da Massimo Mariani) che cresce progressivamente fino a essere anch’esso protagonista, espressione centrale di delle esitazioni e delle ansie tra chi vi prende parte. È una scelta forte, che diventa poetica e nel confronto con una materia complessa, senza imporvi letture univoche, riesce a rendere la dialettica di partenza, pubblico/privato e le domande che provoca cinema. Social network. La rivoluzione Facebook contro le “notizie false” di Caterina Soffici La Stampa, 13 gennaio 2018 Il web là fuori è pieno di notizie false create ad arte da profittatori telematici e spioni internazionali? Di brutta gente che odia, insulta e minaccia chi la pensa diversamente? Di maniaci porcelloni che divulgano video hard rubati e bullizzano le persone spingendole al suicidio? Passate troppo tempo a compulsare maniacalmente lo schermo del vostro smart-phone? Niente paura, ci pensa Mark Zuckerberg a proteggervi dai veleni del mondo, cambiando l’algoritmo che governa il flusso delle notizie nella vostra bacheca così da renderla confortevole e sicura come il tinello di casa. In un lungo post il creatore e amministratore delegato di Facebook ha annunciato il suo buon proposito per il 2018: prendersi cura del “benessere” dei due miliardi di utenti del sito social network. Come? Grazie al nuovo algoritmo saranno visualizzati meno articoli provenienti dalle pagine pubbliche che seguiamo, meno video o meme virali. E sarà dato spazio invece ai contenuti personali pubblicati dai nostri amici: fotografie, consigli, ma anche opinioni e sfoghi. “Vogliamo che il tempo che trascorriamo su Fb sia tempo ben speso” scrive il fondatore. Quindi basta stare lì a cliccare sui gattini. Basta diffondere notizie false e spargere odio online. Cercate la ex fidanzatina delle medie, che è meglio. “Abbiamo creato Facebook per aiutare le persone a rimanere in contatto e a essere vicini a chi ci interessa. Ecco perché abbiamo sempre messo gli amici e la famiglia al centro della nostra esperienza”. In verità Facebook è nato per beccare le ragazze più carine all’Università. Ma non perdiamoci in sottigliezze. Il vero punto è la valanga di critiche che hanno sommerso il social network per la strumentalizzazione che ne viene fatta durante le campagne elettorali, per il fatto che le bacheche diventano strumento di propalazione incontrollata di fake news e terreno di scorribanda per hacker e governi stranieri. E diciamo che l’elezione di Donald Trump e la polemica sulle ingerenze russe hanno avuto il loro peso. Cosa ha fatto quindi, il buon Zuckerberg? Ha commissionato una ricerca ai migliori cervelli universitari in circolazione - e in California ne hanno di ottimi - e ha scoperto che “il rafforzamento delle nostre relazioni migliora il nostro benessere e la nostra felicità”. Mentre “leggere passivamente articoli o guardare video - anche se sono divertenti o informativi - potrebbe non essere altrettanto valido”. Lo facciamo per il bene della comunità, dice il fondatore. Sappiamo che il traffico calerà, ma preferiamo la qualità. In verità, secondo gli esperti di marketing su Internet, la mossa servirebbe a Facebook solo ad aumentare ulteriormente la raccolta di informazioni sui suoi iscritti, da utilizzare per ottimizzare la targhettizzazione pubblicitaria. Per noi che invece non siamo esperti di marketing su Internet, è tutto molto angosciante. Il fatto stesso che cambiando un algoritmo tu possa cambiare il flusso delle notizie ha qualcosa di inquietante. Il web doveva essere la nuova prateria della conoscenza, il luogo della scorribanda del pensiero e dell’incontro dei nuovi saperi, liberi di viaggiare facendosi beffa delle frontiere nazionali. Sta invece diventando un recinto ristretto, dove incontrare gli sconosciuti è pericoloso, dove gli altri e le loro opinioni diverse dalla nostra fanno paura. Pieno di trabocchetti, bugie e bufale. Google ci mostra solo le ricerche in base alle nostre preferenze. E Facebook ci rinchiude in algoritmi da tinello. Già aveva modificato il sistema nel 2016, dichiarando: “Il nostro obiettivo è mostrarvi le notizie di cui vi importa di più”. Si è visto quali sono stati i risultati e come è aumentato il rischio che uno si rafforzi sempre più nelle proprie convinzioni, casomai false o non accurate. Il nuovo algoritmo non farà che peggiorare la situazione. Il mio buon proposito per il 2018 è proprio l’opposto della strategia del tinello: vorrei leggere solo cose che non condivido. In nome del famoso motto liberale: “Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo”. E non l’ha scritto Voltaire, per restare in tema di fake news, ma la saggista Evelyn Beatrice Hall, sua biografa. Migranti. Dal barcone in Libia al dottorato, la favola del professore Alagie di Filippo Femia La Stampa, 13 gennaio 2018 Fuggito dal Gambia e perseguitato dal dittatore Jammeh. Poi le torture. “Dopo due master sogno di diventare il presidente del mio Paese”. A Valencia Alagie ha iniziato un dottorato di ricerca sui diritti dei migranti. In Gambia insegnava inglese, faceva il giornalista freelance e l’attivista politico. Le onde gelide che schiaffeggiano il gommone. Le urla di terrore dei compagni di viaggio ammassati uno sull’altro. La brutalità degli scafisti. Quando prende sonno, poche ore a notte, Alagie Jinkang ha ancora gli incubi. E la sua mente torna al novembre 2013, quando ha attraversato il Mediterraneo su una carretta del mare. “Ero certo che sarei morto, ma siamo sopravvissuti tutti”, racconta oggi. Della traversata non parla volentieri. Non perché sia una ferita aperta. “Adesso sono un’altra persona, ho voltato pagina. Non sono più il ragazzo fuggito dalla Libia su un barcone. Per fortuna sono diventato altro”, dice sorridendo poco prima di imbarcarsi su un volo per Valencia. In Spagna continuerà il dottorato di ricerca in giurisprudenza (specializzazione in diritti umani) iniziato all’università di Palermo. La nuova vita di questo ragazzo gambiano di 28 anni inizia quando sbarca a Pozzallo. “Il mio primo pensiero era imparare l’italiano. Ho subito cercato una libreria, anche se non avevo un soldo”. Il commesso, poi diventato suo grande amico, gli regala un vocabolario. E gli dà il soprannome con cui lo conoscono ancora tutti: il professore. Ma la vera salvezza di Alagie ha i volti sorridenti di Enzo Bozza e Rosaria Palumbo, una coppia di torinesi in vacanza a Pozzallo. Lo conoscono al Caffé Letterario e lo “adottano”, offrendogli l’opportunità di seguirli sotto la Mole. “Ci ha stupito perché chiedeva solo di poter studiare. Era il suo più grande desiderio”, racconta Enzo Bozza, che ora Alagie chiama papà. L’occasione della svolta arriva da una borsa di studio vinta all’International university college (Iuc) di Torino, dove nel 2016 ottiene il master in diritto, economia e finanza comparati, e di cui oggi è ricercatore. Come è evidente, Alagie non è partito per disperazione. Ma ha vissuto lo stesso inferno di migliaia di persone fuggite dall’Africa. In Gambia non ha mai fatto la fame: era professore di inglese e giornalista. E anche attivista politico: la sua condanna. Durante le lezioni racconta agli studenti di avere un pensiero critico, denunciando la corruzione e i soprusi di Yayha Jammeh, dittatore che ha insanguinato il Gambia dal ‘94 fino al 2016. “Gli altri insegnanti mi guardavano storto. “Ti metterai nei guai”, mi ripetevano”. Ed è stato così. Arrivano le prime minacce e Alagie è costretto ad abbandonare la scuola. Torna al suo villaggio, che trova dilaniato dall’estrazione clandestina di diamanti e minerali destinati al presidente-dittatore. Denuncia la sua scoperta con un’inchiesta su un giornale locale e poco dopo viene arrestato e portato in un campo di lavoro. “Più che prigionieri politici eravamo schiavi. E ci torturavano”, racconta. Dopo due tentativi falliti riesce a scappare, “altrimenti sarei morto lì”. Prima raggiunge il Senegal, poi continua la fuga in Mali. L’odissea è solo all’inizio: attraversa il Burkina Faso e il Niger. Poi arriva in Libia, dove conosce di nuovo la schiavitù. “Ma nella disgrazia sono stato fortunato. Uno dei trafficanti di esseri umani ha scoperto che ero musulmano e mi ha preso a casa sua per fare le pulizie”, racconta. Ma dopo alcuni mesi viene cacciato e consegnato a uno scafista. “Io non volevo andare in Italia, ero terrorizzato”. Dalle spiagge di Tripoli parte nel viaggio da incubo che ancora oggi lo tormenta di notte. A Torino ha ricominciato da zero grazie al visto umanitario, l’affetto della famiglia adottiva e il master allo Iuc. “Ho girato tutta l’Europa, in nessun posto ho trovato lo stesso calore dei fratelli italiani”, sorride. Ma il suo futuro è lontano da qui. “Finito il dottorato tornerò in Gambia, voglio cambiare il mio Paese”. Prima dalle cattedre universitarie. “Vorrei modificare la mentalità della scuola. Gli atenei tradizionali sono destinate alle élite che creano dittatori”. In questi anni ha continuato a scrivere sui giornali del Gambia: “Spiego ai miei connazionali che l’Europa non è il paradiso. Voglio evitare che altri vivano le tragedie che ho vissuto io”. Ma la sua missione è sconfiggere la corruzione che crea povertà. “Dopo la scuola voglio entrare in politica. Per migliorare il Paese, non per fare soldi”. La politica, d’altronde, è nel suo Dna. Prima di essere arrestato si era candidato come parlamentare con il partito Gambia Moral Congress. Ma il presidente decise di cancellare le elezioni. “Il mio sogno? Diventare il presidente del Gambia”. “Ci siamo fatti promettere che ci ospiterà nel palazzo presidenziale”, scherza il padre adottivo Enzo Bozza. Egitto. Omicidio Regeni: gli inquirenti battono la pista inglese di Cristofaro Sola L’Opinione, 13 gennaio 2018 È un gran peccato che il circuito mediatico italiano sia preso totalmente dai “sussurri e grida” di bergmaniana memoria dell’incipiente campagna elettorale, al punto da confinare ai margini della comunicazione notizie altrettanto se non più importanti. Non dovrebbe funzionare così. Ma ciò che sfugge, in modo più o meno colpevole, agli altri non è detto che sfugga a noi. Dunque, la notizia del giorno non è l’ultima uscita polemica di Matteo Renzi sul milione di posti di lavoro che avrebbe creato ma dei quali sono stati in pochi ad accorgersene ma quella dell’interrogatorio a Cambridge della professoressa Maha Abdel-Rahman, sentita dagli inquirenti italiani come persona informata sui fatti nell’ambito dell’indagine sull’assassinio, in Egitto, del ricercatore italiano Giulio Regeni. La cattedratica della prestigiosa università britannica è stata la tutor del povero Regeni. Secondo le regole, avrebbe dovuto seguirlo e consigliarlo nella realizzazione del lavoro di ricerca sul campo. Soprattutto, Maha Abdel-Rahman è colei che avrebbe dovuto tenere al riparo il giovane italiano dai rischi che quella specifica attività di studio comportava. Lei, studiosa di origini egiziane con manifeste simpatie per l’organizzazione politica dei “Fratelli musulmani” nemica giurata dell’attuale presidente egiziano Abd al-Fattah al-Sisi, avrebbe dovuto monitorare costantemente le mosse del suo allievo impedendogli di andare allo sbaraglio in un contesto politico-istituzionale maledettamente scivoloso. Evidentemente tutto ciò non è accaduto visti gli esiti tragici della missione. Giulio Regeni è stato barbaramente ucciso, dopo essere stato torturato presumibilmente da agenti dell’apparato di sicurezza dello Stato egiziano, il 25 gennaio 2016. E solo adesso, trascorsi due anni dai drammatici eventi, il pubblico ministero italiano ha potuto sentire la versione di una protagonista, finora reticente, di quello scenario nel quale è maturata e portata a compimento l’uccisione di Regeni. Due anni ci sono voluti perché cadesse il muro di accademica omertà che, nella patria della giustizia e dell’habeas corpus, ha coperto la docente Maha Abdel-Rahman. Che sia stata soltanto solidarietà corporativa o c’è qualcos’altro d’inconfessabile? Alla fine del tira-e-molla con le autorità inglesi, a porre le domande alla docente si è recato il pm Sergio Colaiocco, accompagnato da funzionari del Ros e dello Sco. Si è trattato di un momento importante, anche se tardivo, per il corso delle indagini, non tanto per ciò che la docente ha dichiarato rovesciando interamente sul povero Giulio la responsabilità della scelta di recarsi in Egitto a fare, sua sponte, la delicatissima ricerca sui sindacati degli ambulanti, quanto per quello che gli inquirenti hanno potuto acquisire durante la perquisizione effettuata nell’abitazione e nello studio della professoressa. L’auspicio è che pc, hard disk, cellulare e pendrive sequestrati forniscano elementi cognitivi sostanziali per il prosieguo dell’inchiesta, anche se non c’è d’attendersi miracoli visto che nei due anni trascorsi la docente avrebbe avuto tutto il tempo per “ripulire” gli archivi distruggendo documenti o corrispondenza che potessero coinvolgerla direttamente nella vicenda. Ma, come si dice dalle nostre parti, piuttosto che niente meglio piuttosto. Tocca agli inquirenti italiani di spremere come un limone gli strumenti di lavoro acquisiti per cavarne quante più informazioni è possibile. Per quanto ci riguarda, non smettiamo di pensare che l’autorevole professoressa sappia più di quanto ammetta. L’esistenza dalla pista inglese nell’affaire Regeni è stata una battaglia del nostro giornale che vi ha dedicato particolare attenzione. A cominciare dall’autorevole intervento del generale Leonardo Tricarico, presidente della Fondazione Icsa (Intelligence Culture and Strategic Analysis) il quale, nei suoi articoli, ha insistito perché le autorità italiane s’impegnassero maggiormente nell’incalzare gli interlocutori d’Oltremanica. Oggi che, dopo un lungo silenzio, la signora Maha Abdel-Rahman è stata costretta a dire qualcosa, alziamo il tiro delle richieste perché siamo convinti che non ci si debba fermare a Cambridge, ma l’indagine debba approdare sulle rive del Tamigi. Chi erano i veri utilizzatori finali delle informazioni raccolte sul campo a scopo di studio da Giulio Regeni? Si è trattato soltanto, da parte britannica, di stimolare l’anelito del giovane alla conoscenza o c’è sotto dell’altro di cui lo stesso Regeni non aveva contezza? Qualcuno all’epoca del ritrovamento del cadavere ipotizzò un ruolo dei Servizi segreti inglesi. Erano forse loro i destinatari ultimi del lavoro? Qui non servono illazioni o ricostruzioni di fantasia. Tuttavia, se alcuni elementi indiziari conducono al MI6 (Military Intelligence, Sezione 6), è bene che si faccia chiarezza fino in fondo. La storia italiana del secondo Novecento è stata intorbidita da troppi misteri irrisolti. Non facciamo che anche la tragica sorte di Giulio Regeni diventi uno di quelli. Tunisia. La protesta è sempre per la giustizia sociale di Giuliana Sgrena Il Manifesto, 13 gennaio 2018 “La crisi consiste nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”. Alcuni intellettuali tunisini fanno ricorso alle parole di Antonio Gramsci per spiegare la fase che sta attraversando la Tunisia. A sette anni dalla Rivoluzione dei Gelsomini con la destituzione del dittatore Ben Ali, i nodi della transizione alla democrazia sono duri da sciogliere. Ma la rivoluzione continua, lo si vede nelle piazze e lo si rivedrà il 14 gennaio con le manifestazioni indette da partiti, associazioni e dall’Unione generale dei lavoratori tunisini. La rivolta di questi giorni in varie città della Tunisa, contro la Legge finanziaria 2018 - che impone l’aumento della Tva (Iva) e dei prezzi dei beni di prima necessità - è l’espressione del forte malessere sociale e di una crisi economica profonda alle quali un governo debole e incompetente non ha saputo porre rimedio. Ma è anche il segno che i tunisini, soprattutto i giovani, vogliono continuare a battersi. Non è vero che la rivoluzione è fallita, ma se certamente il vecchio sta morendo il nuovo fa fatica a nascere: la dittatura è caduta ma la democrazia è un percorso a ostacoli. Non si può parlare di democrazia senza giustizia sociale: il bilancio economico è catastrofico, l’inflazione galoppante, i salari sono troppo bassi, la disoccupazione supera il 16% (il 30% per i giovani laureati), il fossato che divide la Tunisia dell’interno da quella del litorale - tra le ragioni della rivolta del 2011 - resta profondo, gli abitanti delle periferie sono emarginati. La Tunisia è diventata un paradiso fiscale - anche per molti italiani, gran parte dell’economia è gestista dal settore informale al quale vanno anche parte delle entrate del turismo, in ripresa nel 2017 ma con molte disdette negli ultimi giorni per le proteste. Soprattutto, a beneficiare del rovesciamento del vecchio regime sono stati gruppi di affaristi e mafiosi. Il premier Youssef Chahed aveva ottenuto grande sostegno dalla popolazione quando nel maggio del 2017 aveva lanciato l’operazione “mani pulite” contro la corruzione: sembrava che volesse porre fine al controllo d’ingenti risorse economiche da parte dei cosiddetti “uomini d’affari” spesso implicati nel contrabbando, ma evidentemente non ha potuto o voluto portare a termine l’impegno. Proprio ieri in un incontro tra il presidente della repubblica Beji Caid Essebsi e il premier Youssef Chahed per valutare la situazione è stata annunciata l’intenzione di rafforzare le misure contro la corruzione, oltre a quella di migliorare il potere d’acquisto per le fasce più deboli e controllare i circuiti di distribuzione dei beni, spesso fuori controllo. Forse i governanti si sono accorti che la repressione non potrà sedare la rivolta se non si affrontano i nodi reali del paese. Ma la situazione potrebbe peggiorare. Le proteste di Fech Nestanew? (Che cosa aspettiamo?), un movimento spontaneo all’interno del quale sono impegnati anche i militanti del Fronte popolare e che ha manifestato anche ieri nel centro di Tunisi, sono pacifiche, nonostante le accuse del governo. Più difficile è capire chi c’è dietro i saccheggi e i vandalismi che avvengono di notte, senza slogan, sigle e rivendicazioni. Sono stati arrestati alcuni militanti islamisti, un jihadista ricercato, mentre a Sidi Bouzid, la città dove era scoppiata la rivolta nel 2011, è stato individuato un uomo che distribuiva soldi ai manifestanti. Non c’è da meravigliarsi: gli interessi a far degenerare o a cavalcare le proteste sono molti e lo si è già visto nelle rivolte arabe del 2011. La Tunisia è alla vigilia delle elezioni amministrative che, dopo rinvii, si terranno il 6 maggio. E dopo i nefasti effetti dell’accordo tra il presidente laico Essebsi e il leader islamista Ghannouchi, entrambi cercheranno un’affermazione per i rispettivi partiti nelle municipali. Inoltre, soprattutto, la Tunisia si trova in una posizione geografica estremamente delicata: dopo le sconfitte subite da Daech in Iraq e Siria, la Libia è diventata rifugio di molti jihadisti in fuga, che sconfinano nei paesi vicini. Questi “mostri” rischiano di far arretrare il paese anche sulle conquiste ottenute sul piano dei diritti - in particolare per le donne - e delle libertà. Per “difendere il paese, la costituzione e le libertà” è stato lanciato un appello da migliaia d’intellettuali e personalità di vari settori. Una sorta di “terza via” per tentare dal basso quell’esperimento che il Quartetto, che ha vinto il premio Nobel, aveva realizzato con i partiti politici. Russia. “Aiutatemi a sopravvivere, per favore”: l’appello del giornalista uzbeco Ali Feruz di Rosalba Castelletti La Repubblica, 13 gennaio 2018 La sentenza di rimpatrio in Uzbekistan sarebbe una condanna a morte certa, per lui gay, attivista per i diritti umani e collaboratore della testata indipendente russa “Novaja Gazeta”: “una combinazione pressoché letale nel suo Paese, dove tortura è endemica”, dice Amnesty International. “Aiutatemi a sopravvivere, per favore”, è il disperato appello dal carcere del giornalista uzbeko Ali Feruz. Quando lo scorso primo agosto un giudice moscovita ne aveva sentenziato il rimpatrio in Uzbekistan, Ali Feruz, pseudonimo di Hudoberdi Nurmatov, aveva afferrato una penna a biro e aveva tentato di tagliarsi le vene. “Preferisco morire piuttosto che tornare lì”, aveva detto. Per Ali Feruz l’espulsione equivarrebbe alla morte. È gay, attivista per i diritti umani e collaboratore della testata indipendente russa “Novaja Gazeta”: “una combinazione pressoché letale in Uzbekistan dove la sodomia è considerata un crimine e la tortura è endemica”, ha denunciato Amnesty International. La sua vicenda raccontata in un diario. L’intervento della Corte Europea per i diritti umani ne ha scongiurato il rimpatrio, ma Ali Feruz continua a essere rinchiuso in un centro di detenzione temporanea per cittadini stranieri. Ci vive da cinque mesi oramai. “È uguale a una prigione. Vi è un recinto sormontato da filo spinato. Vi sono le torri di guardia... Le celle sono piccole. Nella mia viviamo in due. Ci sono due finestre coperte da sbarre, un tavolo di metallo con una panca, un armadietto di metallo, una scopa, un lavandino, un secchio, un water e due telecamere a circuito chiuso che ci sorvegliano 24 ore su 24”, ha raccontato in un diario che vorrebbe pubblicare grazie a una raccolta fondi lanciata su Facebook. Il sito web “Mediazona”, dedicato ai diritti dei detenuti russi, ne ha pubblicato ampi frammenti. Ali Feruz scrive. “La disperazione non cresce di giorno in giorno, di ora in ora, ma di minuto in minuto. Quando leggo un libro o gioco a domino, me ne dimentico. Quando smetto, mi sembra di sognare. Come se tutto questo non stesse succedendo a me, non qui. Voglio che finisca il prima possibile. Sembra che il tempo si fermi. Non succede nulla. Non sono lontano dal perdere la testa”. E ancora: “Ho paura di essere rimandato in Uzbekistan. Quando penso alle torture che potrei subire lì, un sudore freddo mi copre e il mondo inizia a scomparire di fronte ai miei occhi”. La presunta violazione alla legge sugli immigrati. Ali Feruz era stato fermato durante un controllo dei documenti d’identità con l’accusa di avere violato la legge russa sull’immigrazione e si era dichiarato innocente. È nato e si è diplomato in Russia e sua madre, sua sorella e suo fratello sono cittadini russi. Terminati gli studi, all’età di 17 anni, si era trasferito in Uzbekistan dove aveva ottenuto la cittadinanza. Dopo essere stato torturato in carcere nel 2008 perché si era rifiutato di diventare un informatore dei servizi segreti, era infine riuscito a tornare in Russia. Nel 2014 aveva presentato domanda di asilo sostenendo che in Uzbekistan avrebbe rischiato il carcere e la tortura, ma gli era stata negata e aveva presentato ricorso. Fermato già lo scorso marzo, era stato infine rilasciato, ma era stato ricoverato a causa dello “stress” subito. La vita in carcere, giorno dopo giorno. Nel suo diario, Ali Feruz racconta la routine giornaliera nel centro di detenzione: sveglia, ispezioni, un’ora d’aria, pranzo, cena. “Dopo pranzo dentro ho un senso di vuoto, solitudine. A causa della mancanza di movimento. Quando succede, spesso ho un attacco di panico. È come se le mura della cella mi venissero addosso da tutti i lati. Il mio cuore inizia a battere all’impazzata. È difficile respirare”. Feruz racconta le storie dei suoi compagni di prigionia: i tre Mustafa, due curdi e un afgano; Mikdad, un programmatore di computer iracheno quarantacinquenne dal visto scaduto, etc.. Li divide in due categorie: “quelli che si sono rassegnati e aspettano di tornare a casa e quelli che protestano contro l’ingiustizia”. Il racconto interrotto il 14 settembre. Il suo diario si ferma il 14 settembre. Da allora Ali Feruz non ha più scritto e ha smesso di leggere. Siede nella sua cella accanto alla finestra e guarda il cielo tra le sbarre. A fine ottobre le sue parole sono state lette durante una performance teatrale a Mosca. Solo allora Ali Feruz ha scritto una lettera: “Sono stanco. Spaventato e triste. Mi sembra di sentire la pace solo quando il mio cuore smette di battere. Ma cerco, come tutte le altre persone qui, di aggrapparmi a qualcosa in questa vita. Mi sono convinto del tutto che non sono forte come molti pensano. Quando qualcuno ha bisogno di aiuto, non deve vergognarsi di chiederlo. Aiutatemi a sopravvivere, per favore”. Azerbaigian. Giornalista sequestrato in Georgia e condannato a sei anni di carcere di Riccardo Noury Corriere della Sera, 13 gennaio 2018 Sei anni di carcere per accuse fasulle. Nelle prigioni dell’Azerbaigian entra il primo prigioniero di coscienza del 2018, Afgan Mukhtarli, un giornalista che ha avuto l’ardire di criticare il governo. La vergognosa sentenza emessa ieri chiama in causa anche la Georgia, le cui autorità nella migliore delle ipotesi non sono riuscite a impedire il trasferimento illegale di Mukhtarli. Nel 2014, infatti, stanco di subire persecuzioni a causa del suo lavoro giornalistico, Mukhtarli aveva lasciato l’Azerbaigian per la Georgia. Da lì aveva continuato a svolgere le sue inchieste sulla corruzione all’interno del governo azero. Il 29 maggio 2017 Mukhtarli è scomparso nel nulla nella capitale georgiana Tbilisi. Il giorno dopo era in carcere in Azerbaigian con la ridicola accusa di ingresso illegale, contrabbando e resistenza a pubblico ufficiale. Al suo avvocato, Mukhtarli ha denunciato di essere stato sequestrato da uomini che parlavano georgiano e indossavano uniformi delle forze speciali della Georgia. Le autorità di Tbilisi hanno negato ogni coinvolgimento ma non hanno saputo spiegare perché un giorno Mukhtarli sia scomparso in Georgia per riapparire 24 ore dopo in Azerbaigian.