Telefono in carcere. Un passo fondamentale per il diritto all’affettività di Associazione Antigone overthedoors.it, 12 gennaio 2018 È notizia degli ultimi giorni il bando del Ministero della Giustizia francese grazie al quale verranno installati telefoni fissi in quasi tutte le celle (oltre 50.000) delle carceri d’oltralpe. È una buona notizia. Da un lato si garantisce il diritto alla comunicazione di persone isolate dagli altri, dall’altro c’è una ragione securitaria, e cioè il contrasto del traffico illecito di telefonini, pratica ben più diffusa in Francia che in Italia. Si potranno chiamare solo 4 numeri, e le chiamate saranno tutte registrate: ma è già qualcosa. E da noi? Come comunicano i detenuti? Male, e soprattutto poco. Il regolamento penitenziario autorizza una telefonata a settimana, di soli 10 minuti e in orari che coincidono con il lavoro dei coniugi e la scuola dei figli. I numeri devono essere preliminarmente identificati: si deve cioè verificare che dietro al numero ci sia quella persona e non un’altra. Sicché vengono facilmente autorizzati i numeri fissi ma non i cellulari, considerati meno affidabili. Senonché molte famiglie, soprattutto all’estero, non hanno il fisso (e gli stranieri in carcere sono circa il 35%). Perché un portatile venga autorizzato non si devono effettuare colloqui visivi o telefonici per 2 settimane. Quando si telefona - quando ci si riesce - si diceva, lo si fa per 10 minuti: perché? Perché si possono scrivere liberamente e riservatamente lettere a chicchessia (salvo provvedimenti particolari del giudice) ma non si può chiamare per più di 10 minuti? È un anacronismo che rende i detenuti più isolati e in ritardo rispetto al resto della società. Nel 1976, un anno dopo l’approvazione del regolamento penitenziario, si fissò la durata delle chiamate a 6 minuti, ma all’epoca non c’erano i telefonini e le chiamate erano care e rare. Nel 2000 il tempo lo si portò a10 minuti, ma anche all’epoca i telefonini erano molto poco diffusi. Non erano misure restrittive e punitive. Ma oggi? Oggi è una privazione inutile, che ha come conseguenza la valanga di lettere che giornalmente i detenuti scrivono per mantenere il rapporto con i famigliari che, fuori dal carcere, avranno poi un ruolo importante nel loro reinserimento. Potere al popolo: e se sulla giustizia avessero ragione? di Carmelo Musumeci imgpress.it, 12 gennaio 2018 La proposta elettorale del movimento politico “Potere al popolo” di combattere le mafie con l’abolizione dell’ergastolo e del 41bis ha fatto gridare allo scandalo, in malafede alcuni professionisti dell’antimafia e in buonafede una parte del popolo della sinistra. Ho passato oltre 35 anni dei miei 62 in carcere, 5 dei quali in regime di 41bis all’Asinara, e credo che le persone intelligenti abbiano poche certezze e molti dubbi e quindi forse conviene ragionarci un po’ sopra. A me sembra che finora le politiche, ultraventennali, del carcere duro e del fine pena anno 9.999 abbiano portato più vantaggi alle mafie (almeno a quelle politiche e finanziarie) che svantaggi, dato che anche gli addetti ai lavori affermano che l’élite mafiosa è più potente adesso di prima. A questo punto, io penso che se è solo una questione di sicurezza, e non di vendetta sociale, sia più sicura per la collettività la pena di morte che la pena dell’ergastolo o il regime di tortura del 41bis. Qualcuno sostiene che il carcere duro, almeno all’inizio, sia stato utile, ma questo a che prezzo? Io credo che alla lunga il regime di tortura del 41bis, e una pena realmente senza fine come l’ergastolo ostativo, abbiano rafforzato la cultura mafiosa, perché hanno innescato odio e rancore verso le Istituzioni anche nei familiari dei detenuti. Penso che sia davvero difficile cambiare quando sei murato vivo in una cella e non puoi più toccare le persone che ami, neppure in quell’unica ora al mese di colloquio che ti spetta. Con il passare degli anni i tuoi stessi familiari incominciano a vedere lo Stato come un nemico da odiare e c’è il rischio che i tuoi figli, che si potrebbero invece salvare, diventino loro stessi dei mafiosi. Credo che sia sbagliato cedere parte della nostra umanità per vivere in una società più sicura. Ricordo che ai miei tempi il carcere duro veniva applicato indistintamente, anche ai giovani, a ragazzi appena maggiorenni, che certo non potevano essere dei “boss”, per avere il consenso politico e sociale, più che per motivi di sicurezza. Posso dire che per me è molto più “doloroso” e rieducativo adesso fare il volontario in una struttura della Comunità Papa Giovanni XXIII (fondata da Don Oreste Benzi) che gli anni passati murato vivo in isolamento totale durante il regime di tortura del 41bis. Trattato in quel modo dalle Istituzioni, mi sentivo innocente del male fatto; ora, invece, che sono trattato con umanità, mi sento più colpevole delle scelte sbagliate che ho fatto nella mia vita. E penso che questo potrebbe accadere anche alla maggioranza dei prigionieri che sono ancora detenuti in quel girone infernale. Sono convinto che anche il peggiore criminale, mafioso o terrorista potrebbe cambiare con una pena più umana e con un fine pena certo. Ci sono persone che sono sottoposte al regime di tortura del 41bis da decenni, ergastolani che quando sono entrati in carcere avevano compiuto da poco diciott’anni e che ora hanno passato più anni della loro vita dentro che fuori. Persone che sono cambiate, o potrebbero cambiare, ma che non potranno mai dimostrarlo perché nel certificato di detenzione c’è scritto che la loro pena finirà nel 9.999. A fronte del luogo comune che in Italia l’ergastolo di fatto non esiste, è solo il caso di ricordare che in Italia ci sono oltre 1.600 ergastolani, di cui la maggior parte ostativi ad ogni beneficio penitenziario e che quindi sono realmente destinati a morire in galera, senza aver mai messo piede fuori, in decenni e decenni di carcere. In tutti i casi, il rischio zero non esiste per nessuna persona, perché siamo umani. In noi c’è il bene e il male e, a volte, spetta anche alla società rischiare, pur di trarre fuori il bene. Credetemi, il regime del 41bis e una pena senza fine riducono le persone a dei vegetali - quando va bene - o in esseri ancor più criminali di quando sono entrati in carcere. È vero che una società ha diritto di difendersi dai membri che non rispettano la legge, ma è altrettanto ragionevole che essa non lo debba fare dimostrando di essere peggiore di loro. Purtroppo, a volte, questo accade. Penso che il regime di tortura del 41bis, insieme alle pene che non finiscono mai, non diano risposte costruttive, né tanto meno rieducative. Non si può educare una persona tenendola all’inferno per decenni, senza dirle quando finirà la sua pena, soprattutto nel caso, non raro, che essa non avrà ulteriori probabilità di reiterare i reati. Lasciandola in quella situazione di sospensione e d’inerzia la si distrugge e, dopo un simile trattamento, anche il peggiore assassino si sentirà “innocente”, mentre le persone “perbene” rischieranno di essere “colpevoli”. Non voglio convincervi, desidero solo farvi venire qualche dubbio. Non posso fare altro. Una campagna elettorale senza diritto lindro.it, 12 gennaio 2018 Qualche giorno fa un grande vecchio della sinistra italiana, il senatore Emanuele Macaluso, osservava come in generale i partiti che chiederanno, il prossimo 4 marzo, fiducia e consenso al popolo italiano sembrano essere piuttosto “freddi” in tema di antimafia. “Raccontano”, osserva Macaluso, “che “Liberi e Uguali” vuole caratterizzarsi come partito dell’antimafia candidando non solo Piero Grasso, ex procuratore nazionale, ma anche Franco Roberti che da poco ha lasciato la stessa carica perché ha raggiunto l’età della pensione. Entrambi sono stati ottimi magistrati, impegnati nei processi con imputati mafiosi e camorristi di gran calibro. Questa è l’antimafia istituzionale, necessaria e rispettabile. Ho letto che come testimonianza del suo impegno su questo fronte, il Pd candiderà il fratello del giornalista Siani, assassinato dalla camorra per quel che coraggiosamente scriveva. E poi il Movimento 5 Stelle vuole proporre come ministro il Pm di Palermo, Di Matteo, altro livello, ma la logica è sempre la stessa”. Macaluso sottolinea che “nessuno si propone di candidare militanti che hanno lottato la mafia nello scontro sociale e politico nei paesi dove la mafia e la camorra sono intrecciati con il sistema sociale e politico. È vero: c’è qualche sindaco minacciato perché fa il suo dovere onestamente e non concede appalti a ditte che sono in mano ai mafiosi. Persone certamente da sostenere e lodare e qualcuno di questi sindaci è stato, in passato, anche eletto in parlamento. Quel che manca è un dirigente di partito che ha combattuto a viso aperto, sul terreno sociale, politico e culturale. Qualcuno che ha lottato nel territorio la mafia e la camorra e che si sia messo sulla scia di Pio La Torre e di altri”. Questo fatto per Macaluso rivela cosa sono i partiti: “Non li definisco tali proprio perché un partito di sinistra nel Sud e non solo nel Sud se non lotta, non con le chiacchiere ma con i fatti, su questo fronte è solo un movimento politico-elettorale. Non è forse questo un argomento su cui occorrerebbe discutere seriamente?”. Ha molte ragioni Macaluso; ma lo stesso discorso, le analoghe considerazioni e riflessioni si possono fare anche per quel che riguarda i temi della Giustizia e della carcerazione. Temi, questioni che i partiti, quelli che ambiscono di occupare palazzo Chigi, evitano con la massima cura. Cosa propongono e suggeriscono i vari leader degli schieramenti politici già in competizione elettorale? Quali programmi, quali obiettivi, quali possibili soluzioni pratiche per poter finalmente far fronte alla “madre” di tutti i problemi del Paese, quelli di una Giustizia che non funziona? In questi giorni vengono squadernate una quantità di proposte e di “soluzioni” su praticamente ogni cosa: ripresa per il lavoro che non c’è, mirabolanti riduzioni fiscali di ogni tipo accompagnate da integrazioni e aumenti di busta paga non meno fantasiosi… insomma, di tutto e di più, come s’usa fare alla vigilia di ogni elezione, in Italia e ovunque nel mondo. Sentite mai parlare di carcere e delle condizioni in cui sono costretti a vivere detenuti e personale penitenziario? Sentite mai parlare del farraginoso modo in cui celebrano i processi e si amministra la giustizia? Di come disboscare la giungla paralizzante di centinaia di leggi -vere e proprie grida manzoniane - che a nulla servono e sono servite se non per ingrassare le tasche di legulei e azzeccagarbugli? Vi dicono mai che questa disastrosa situazione procura enormi danni economici, perché investitori stranieri si guardano bene dall’investire in Italia, data l’incertezza e la paralisi del sistema giudiziario; e quelli italiani, se possono, “emigrano” in altri paesi dove la parola Diritto ha un senso che equivale a “certezza”? Le migliaia di persone in attesa da anni di sapere se sono innocenti o colpevoli di qualcosa, e molte di queste persone, nel frattempo, languiscono in carcere, e spesso finisce che gli si chiede scusa, e nessuno è responsabile per queste ingiuste detenzioni… Chiedete a Matteo Renzi o a Silvio Berlusconi, a Matteo Salvini o a Luigi Di Maio… Se ne ricaverà solo un desolante silenzio. Ecco: dall’agenda politica di chi si candida a governarci e chiede il nostro voto, questi temi sono assenti, queste “urgenze” sono espulse. Chiudiamo la nota con una notizia che strappa un sorriso. Ove mai vi capitasse di voler scrivere e affiggere manifesti dove sostenete che qualcuno è, nell’ordine, “falso, bugiardo, ipocrita, malvagio”, naturalmente aspettatevi una reazione. Se la reazione consiste in un chiamarvi a rispondere davanti a un tribunale di quello che avete scritto, sappiate che c’è una sentenza della Corte di Cassazione che vi può tornare utile. È la sentenza del 9 gennaio 2017 n. 317. I fatti. Un bel giorno, nei muri del comune siciliano di Furci Siculo sono appunto comparsi manifesti di questo tenore: “Falso! Bugiardo! Ipocrita! Malvagio!”. Non c’è diffamazione in questi manifesti, è “legittima critica politica”. Nel caso specifico legittima critica dell’opposizione nei confronti del sindaco reo di non aver mantenuto le promesse fatte in campagna elettorale: rinunciare all’indennità di funzione. I consiglieri di opposizione di quel paese, dopo aver riconosciuto la paternità dei manifesti affissi lungo le vie del comune, chiamati a risponderne davanti al giudice si sono limitati a escludere “ogni intento denigratorio”. Piuttosto si trattava di una “decisione politica diretta ad attaccare il Sindaco e la Giunta da lui presieduta, che aveva deliberato l’erogazione dell’indennità di funzione, così tradendo le promesse elettorali”. Un’altalena di sentenze tra primo e secondo grado, e infine la Cassazione: ricorda che la punibilità va esclusa “purché le modalità espressive siano proporzionate” e i toni utilizzati “pur aspri e forti, non devono essere gravemente infamanti e gratuiti” ma “pertinenti al tema in discussione”. Per i giudici però “la critica, ancor più quella politica” ha per sua natura “carattere congetturale, che non può, per definizione, pretendersi rigorosamente obiettiva ed asettica”. Mentre l’esimente non scatta qualora le espressioni denigratorie “siano generiche e non collegabili a specifici episodi, risolvendosi in frasi gratuitamente espressive di sentimenti ostili”. Un panegirico da capogiro, infarcito di riferimenti tecnico-giuridico per arrivare alla conclusione che la questione “riguardava specificamente le scelte politiche ed amministrative” del sindaco e della sua maggioranza, per cui “del tutto correttamente, si è escluso che sia trasmodato in un attacco alla dignità morale ed intellettuale della persona offesa”. Ecco, ora sapete quello che potete dire e scrivere sui manifesti. Anche se non è detto. Perché capita anche che a distanza di poco tempo per la stessa Cassazione, quello che in un caso non è reato, nel caso analogo mesi dopo, lo diventi. Questo a proposito della certezza del diritto. Difesa dei diritti anche nel prossimo Parlamento: ecco perché sosteniamo Luigi Manconi Il Manifesto, 12 gennaio 2018 La legislatura appena terminata si è connotata per il riconoscimento di fondamentali diritti civili e di libertà: l’approvazione della legge sul testamento biologico, la regolamentazione delle unioni civili, la previsione del reato di tortura. Tappe essenziali, nel cammino dell’affermazione di quei diritti che riguardano tutti, persone e collettività. In ciascuna delle conquiste che la XVII legislatura ha lasciato alle donne e agli uomini di questo Paese ha avuto un ruolo importante, spesso decisivo, Luigi Manconi, sia come promotore di iniziative parlamentari, sia come presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato. Il suo impegno politico affonda le proprie ragioni in quelle battaglie capaci di muovere dal dolore e dalla forza dei singoli e di tradurli in mobilitazione collettiva, di trasformare la promozione della dignità delle storie individuali in garanzie e diritti generali. Il traguardo del pieno riconoscimento e di un’ampia tutela di quei diritti è però ben lontano dall’essere stato raggiunto. Così, quella stessa XVII legislatura non ha approvato la legge sullo ius soli e culturae per i tanti figli di genitori stranieri, cresciuti al fianco dei nostri; non ha affrontato la gestione dei flussi migratori con politiche di accoglienza capaci di garantire la convivenza pacifica tra residenti e nuovi arrivati; non ha sottratto i minori alla detenzione in cella con le proprie madri; non ha abolito la contenzione meccanica nelle residenze sanitarie assistenziali. Per rendere, insomma, la nostra democrazia più ricca e più compiuta, molto resta ancora da fare. Il voto popolare del prossimo 4 marzo sarà un’occasione decisiva per affrontare tutte le questioni legate ai nodi fondamentali del nostro vivere civile. Riteniamo importante, dunque, che Luigi Manconi possa proseguire nella prossima legislatura, all’interno del Parlamento, il suo lavoro istituzionale, sempre condotto con spirito pluralista, a tutela dei diritti umani e delle minoranze e nel rispetto del più rigoroso garantismo: per vigilare sulle conquiste ottenute, per conseguire nuovi traguardi. Sottoscrivono: Paola Deffendi e Claudio Regeni, Elisa e Rino Rocchelli, Ermanno Olmi, Agnese Moro, Gad Lerner, Gustavo Zagrebelsky, Massimo Recalcati, Ilvo Diamanti, Roberto Saviano, Valerio Onida, Luigi Ferrajoli, Pierluigi Battista, Massimo Cacciari, Elio De Capitani, Elena Stancanelli, Alessandro Bergonzoni, Maurizio Maggiani, Michela Murgia, Dacia Maraini, Gaetano Azzariti, Ilaria Cucchi, Roberto Zaccaria, Rita e Giovanni Cucchi, Nicola Lagioia, Elena Cattaneo, Daniel Cohn-Bendit, Don Luigi Ciotti, Giuliano Pisapia, Paolo Fresu, Simona Argentieri, Fiorella Mannoia, Chiara Saraceno, Carlo Feltrinelli, Fulvio Scaparro, Luca Formenton, Sandro Veronesi, Eugenio Finardi, Vittorio Emiliani, Manlio Milani, Milly e Massimo Moratti, Cecile Kyenge, Gianni Amelio, Paolo Virzì, Daniele Vicari, Moni Ovadia, Gherardo Colombo, Maddalena Crippa, Valerio Mastandrea, Padre Guido Bertagna sj, Alessandra Ballerini, Don Gino Rigoldi, Giacomo Marramao, Goffredo Fofi, Monica Guerritore, Ginevra Bompiani, Oliviero Toscani, Eligio Resta, Don Virginio Colmegna, Christian Raimo, Igiaba Scego, Ascanio Celestini, Lucia Uva, Patrizia Moretti Aldrovandi, Guido e Andrea Magherini, Franco Lorenzoni, Costanza Quatriglio, Sandro Bonvissuto, Alessandro Portelli, Paolo Nori, Guido Vitiello, Ricky Gianco, Giuseppe Cederna, Laura Balbo, Bianca Pitzorno, Giuliano Battiston, Nadia Terranova, Gloria Ghetti, Eraldo Affinati, Fabio Anselmo, Christopher Hein, Fabrizio Gifuni, Peppino Di Lello, Annarita Bartolomei, Flavio Insinna, Annalisa Camilli, Luca Zevi. Toghe, le nuove regole nella sfida elettorale di Jacopo Rosatelli Il Manifesto, 12 gennaio 2018 Il rinnovo del Csm. I consiglieri togati a fine mandato potranno ottenere incarichi direttivi o fuori ruolo. Nelle pieghe della legge di stabilità approvata dal Parlamento prima di Natale qualcuno ha voluto inserire un regalo per i consiglieri togati del Consiglio superiore della magistratura (Csm): la possibilità di ottenere, alla fine del mandato a Palazzo dei Marescialli, incarichi direttivi o fuori ruolo. In precedenza, giudici e pm che terminavano i quattro anni nell’organo di autogoverno delle toghe dovevano “tornare nei ranghi”, non potendo, per almeno un anno, né diventare capi di procure o tribunali, né assumere funzioni di nomina politica, ad esempio nei ministeri. Il motivo: evitare impropri scambi di favore fra partiti e toghe in cambio di progressioni di carriera. La nuova norma, però, ai magistrati italiani non piace. Tutte le correnti, tranne una, si sono schierate contro, denunciando una scelta unilaterale del parlamento avvenuta senza consultarli. Il gruppo che non ha protestato è Magistratura indipendente (Mi), la destra da cui proviene il sottosegretario alla giustizia Cosimo Ferri, voluto in via Arenula da Silvio Berlusconi e rimasto al suo posto anche dopo la fine delle larghe intese con il Pd. Dal centro di Unicost alla sinistra di Magistratura democratica (Md) il coro di critiche è stato forte. Ieri Md ha diffuso un comunicato in cui punta il dito contro le nuove regole senza giri di parole: “È sin troppo facile sospettare - si legge - che una modifica con effetto immediato, scivolata negli interstizi della legge finanziaria, sia collegata ad aspettative di vantaggio per singoli consiglieri uscenti, alimentando così l’immagine di una magistratura con il ‘cappello in mano’ di fronte alla politica”. Per i magistrati progressisti “è un tipo di norma che contribuisce ad aumentare la deriva carrieristica”, dichiara il presidente di Md Riccardo De Vito al manifesto. “Sul piano simbolico è una svalutazione del rientro alle proprie funzioni ordinarie, una spinta ulteriore a quella fuga dalla toga di ‘magistrato semplicè che registriamo da tempo con preoccupazione”, sostiene De Vito. Il tema agita gli animi di giudici e pm anche perché si avvicinano le elezioni per il rinnovo del Csm: si voterà in estate, ma la campagna elettorale è di fatto già iniziata. Le correnti stanno selezionando attraverso primarie i loro candidati, che poi si sfideranno in un sistema che non prevede il voto a liste, ma direttamente alle persone. La “disintermediazione” fra i magistrati c’è già, e fu voluta dal governo Berlusconi per combattere le “degenerazioni correntizie”. Md si presenterà sotto le insegne di Area, di cui è parte anche l’altro gruppo progressista, il Movimento per la giustizia: tra il 7 e il 9 febbraio le primarie fra gli aderenti. In campo, fra gli altri, l’ex segretaria di Md Rita Sanlorenzo, per anni giudice del lavoro a Torino e ora alla procura della Cassazione, e il pm romano Giuseppe Cascini, già ai vertici dell’Anm. Ancora non si sa, invece, se sarà della partita l’ex pm di Mani pulite Piercamillo Davigo, leader dell’ultima nata fra le correnti, Autonomia e indipendenza: un gruppo di orientamento conservatore ma “anti-berlusconiano”, nato da una scissione di Mi in polemica contro la linea ispirata dal sottosegretario Ferri. Quattro anni fa Area ottenne ben 7 consiglieri su 16, un risultato che sarà difficile ripetere, soprattutto dopo l’ingresso in scena del gruppo di Davigo. Le toghe di sinistra cercheranno il consenso dei loro colleghi insistendo soprattutto nel denunciare il ritorno alla gerarchizzazione. “Il nostro progetto - argomenta De Vito - è di riaffermare una magistratura veramente egualitaria”. Il senso e l’etica del mestiere di magistrato di Mariarosaria Guglielmi* Il Dubbio, 12 gennaio 2018 “Io l’anima ce la metto in tutti i lavori. Per me, ogni lavoro che incammino è come un primo amore”, diceva Libertino Faussone, protagonista de "La chiave a stella", di Primo Levi. Il prototipo dell’operaio che ritrova nel “lavoro ben fatto” il piacere e il senso dell’esistenza: “Il termine “libertà” ha notoriamente molti sensi, ma forse il tipo di libertà più accessibile, più goduto soggettivamente e più utile al consorzio umano, coincide con l’essere competenti nel proprio lavoro, e quindi nel provare piacere a svolgerlo”. Naturalmente il lavoro del magistrato è differente da quello dell’indimenticabile personaggio di Primo Levi. Ma in tutti i lavori si deve, o dovrebbe, condividere l’etica dell’amore per ciò che si fa. E, per i magistrati, la consapevolezza che la professione deve basarsi sul rispetto delle regole deontologiche, e che di tale etica fa parte la dimensione “individuale” dell’indipendenza di ciascuno: l’essere e il sentirsi - prima di apparire - magistrato indipendente. È il valore dell’indipendenza interna che richiama il codice deontologico dell’Associazione nazionale magistrati fra i criteri ispiratori della condotta dei magistrati “nello svolgimento delle funzioni” e “nell’esercizio di attività di autogoverno”. Un valore che si acquisisce e che cresce con la consapevolezza del senso e dei limiti della funzione, e che si mantiene vivo con la pratica dei comportamenti quotidiani, nei quali i magistrati dimostrano cura per il lavoro e rispetto per la funzione indipendente rappresentata. La vicenda di cronaca riguardante una scuola di preparazione al concorso deve indurre tutti a riflettere sui limiti e sui rischi dell’attuale sistema di accesso alla professione. Un sistema di accesso finalizzato alla mera preparazione tecnica e che non investe sulla crescita collettiva dei valori dell’etica che devono sempre sostenere le aspettative individuali degli aspiranti magistrati. Un sistema nel quale, facendo leva proprio sulle aspirazioni ed aspettative individuali, si possono proporre modelli di comportamento che minano alla radice la formazione di un’etica comune e l’equilibrio e la consapevolezza della complessità della funzione a cui si aspira. Grave è la vicenda relativa all’abrogazione della norma che poneva limiti temporali all’assunzione di incarichi dirigenziali e di fuori ruolo agli ex consiglieri, effettuata con l’inserimento nella recente legge finanziaria approvata alla Camera, secondo quanto riportato della stampa dopo una prima bocciatura al Senato. Una vicenda che provoca un danno oggettivo all’immagine della magistratura, a prescindere dall’opinione che si può avere in merito all’opportunità di tali limiti. È difficile infatti per un cittadino intravedere una ragione di interesse generale - che siano esigenze di funzionalità della giurisdizione o di qualità del servizio che rendiamo alla collettività - sufficiente a motivare una modifica intervenuta al di fuori di ogni riflessione sull’opportunità o l’adeguatezza di disposizioni volte ad evitare il sospetto che le decisioni dei consiglieri prossimi alla fine del mandato siano influenzate da aspettative di carriera. È invece sin troppo facile sospettare che una modifica con effetto immediato, scivolata negli interstizi della legge finanziaria, sia collegata ad aspettative di vantaggio per singoli consiglieri uscenti, alimentando così l’immagine di una magistratura con il “cappello in mano” di fronte alla politica. Una magistratura che non interloquisce come soggetto collettivo per rivendicare, in un confronto aperto con la politica, gli interventi necessari ad assicurare alla giustizia le necessarie risorse e ai magistrati migliori condizioni di lavoro ma nella quale “ognuno” si preoccupa di raccogliere vantaggi per sé e per la sua “categoria” di appartenenza. Ed è per questo disponibile ad acquisire una “contiguità” con il potere politico, incompatibile con l’etica della nostra professione e con quell’ indipendenza soggettiva che ne è parte essenziale. È compito della magistratura associata rivendicare per la collettività, per i giovani che aspirano a diventare magistrati, e per coloro che da poco hanno realizzato quest’aspirazione, un modello diverso e positivo di magistrato, che sappia ritrovare nel “lavoro ben fatto” il senso e l’etica del proprio “mestiere”. La voce di Magistratura democratica opererà in questa direzione. *Segretaria di Magistratura Democratica Intercettazioni, nuove norme in vigore dal 26 luglio di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 12 gennaio 2018 Rafforzato il diritto di difesa e allargato il diritto di accesso agli atti da parte dei giornalisti, in particolare alle ordinanze cautelari. Sono questi i punti chiave della riforma delle intercettazioni pubblicata ieri sulla Gazzetta ufficiale n. 8. La normativa consente ai giornalisti di accedere ai provvedimenti depositati durante l’indagine e non più segreti, in particolare a quelli in materia cautelare. Si chiarisce cioè che non esiste motivo per sottrarre l’ordinanza cautelare elaborata secondo i nuovi criteri, che impongono cautela nell’inserimento nella relativa motivazione dei contenuti delle intercettazioni, alla possibilità di pubblicazione, in vista proprio del rafforzamento del diritto all’informazione. Con la sua esecuzione o notificazione viene infatti meno il segreto, e conservare il divieto di pubblicazione fino alla conclusione delle indagini preliminari, o fino al termine dell’udienza preliminare, appare irragionevole. La riforma sarà operativa 6 mesi dopo l’entrata in vigore, quindi il 26 luglio 2018, per quanto riguarda invece questa specifica misura sulla stampa, l’entrata in vigore avverrà 12 mesi dopo la pubblicazione, quindi il 26 gennaio 2018. Il termine temporale attribuito ai difensori per l’esame del materiale intercettato, una volta che questo sia stato depositato, è di dieci giorni, con possibile proroga se il materiale è molto ampio e complesso. Gli avvocati potranno avere copia anticipata dei verbali di trascrizione sommaria effettuati dalla polizia giudiziaria e giudicati rilevanti. Chiarito poi che l’avvocato difensore potrà accedere in ogni stato e grado del procedimento all’archivio riservato nel quale andranno a confluire tutte le comunicazioni intercettate. Trattativa Stato-mafia, il pm Di Matteo: "Scalfaro ha detto il falso" di Salvo Palazzolo La Repubblica, 12 gennaio 2018 Prosegue la requisitoria del processo in corte d’assise. "Nel papello non ci sono manomissioni. E Riina non sospettava di essere intercettato". I testimoni che hanno parlato con anni di ritardo. “Sulla fotocopia del papello consegnata da Massimo Ciancimino non è stata rilevata alcuna manomissione dalla polizia scientifica", dice il pubblico ministero Nino Di Matteo, proseguendo la requisitoria nel processo "Trattativa Stato-mafia". È rimasto senza nome l’autore del documento, "ma le analisi tecniche - prosegue il magistrato - hanno appurato che la carta risale a un periodo databile fra il 1986 e il 1990, mentre la tecnica della fotocopiatura è quella della fusione a caldo, che riporta al periodo fine anni Ottanta-metà anni Novanta”. Dunque a un’epoca compatibile con il 1992, in quell’anno, hanno sostenuto Ciancimino ma anche altri pentiti, Riina avrebbe scritto "un papello di richieste per fermare le stragi" consegnandolo a uomini delle istituzioni, gli ufficiali dei carabinieri Mori e De Donno, imputati nel processo in corso. Nella ricostruzione di Nino Di Matteo, che tiene la requisitoria con i colleghi Roberta Tartaglia, Francesco Del Bene e Vittorio Teresi, "ci sono anche elementi di riscontro al contenuto del papello". Il documento parla di "annullamento del decreto legge sul 41 bis". "E tale, dopo le stragi, era", commenta Di Matteo. Il papello parla anche della possibilità di ampliare ai mafiosi i benefici previsti per i dissociati delle Brigate Rosse. "Proprio nel 1992 si discuteva di dissociazione dei mafiosi e dell’eventualità di creare all’interno di alcune carceri delle apposite aree di detenzione, ce l’ha detto l’allora capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Edoardo Fazioli - ricorda il pubblico ministero - Il pentito Gaspare Mutolo ci ha invece riferito del disappunto di Paolo Borsellino per quella eventualità". Sulla fotocopia del "papello" consegnata da Ciancimino c’era un post-it. "Consegnato spontaneamente al colonnello Mori". Dice Di Matteo: "La grafia è quella di Vito Ciancimino. Per la Scientifica, la carta risale a un periodo fra il 1986 e il 1990". Per la procura, un elemento importante di accusa è nelle stesse parole del capo dei capi di Cosa nostra, captate in carcere. Dice Di Matteo: "Il boss mafioso Totò Riina non era consapevole di essere intercettato nello spazio esterno del penitenziario in cui era detenuto". "Se Riina fosse stato consapevole o avesse avuto un sospetto serio, non avrebbe parlato così a lungo e approfonditamente di quasi tutti gli omicidi di cui si è reso protagonista e non si sarebbe vantato, con profili di autoesaltazione che stridono con la durezza del racconto delle stragi e di omicidi eccellenti. Inoltre, non avrebbe parlato tante volte dei suoi congiunti, della moglie e dei figli". Le intercettazioni di Riina furono fatte dagli investigatori della Dia nel carcere milanese di Opera, nel 2013. "Se avesse saputo di essere intercettato - prosegue il pm Di Matteo - Riina non avrebbe parlato così approfonditamente di suo nipote Giovanni Grizzafi e delle aspettative che nutriva rispetto alla prossima scarcerazione di Grizzafi, che gli avrebbe permesso di tessere le fila di tante situazioni. Se avesse avuto un serio sospetto di essere intercettato nello spazio esterno del carcere non avrebbe mai parlato di beni patrimoniali riconducibili alla sua famiglia. In alcuni momenti delle conversazioni con Lorusso parla di beni che ha nella disponibilità di cui nessuno aveva sospettato". "Inoltre - dice ancora il pm Di Matteo - se sospettava di essere intercettato, Riina non avrebbe sollecitato l’eliminazione di uno dei pm del processo". Era proprio Di Matteo il magistrato di cui parlava Riina. Diceva così: "Ti farei diventare il primo tonno, il tonno buono... Ancora ci insisti? Perché, me lo sono tolto il vizio? Inizierei domani mattina... Minchia ho una rabbia... Sono un uomo e so quello che devo fare, pure che ho cento anni". Nelle intercettazioni, Riina parlava anche della strage di Capaci in cui morirono Giovanni Falcone, sua moglie Francesca e tre agenti di scorta. Per Riina fu "una mangiata di pasta". Il capo dei capi parlava anche dei boss Graviano: "Avevamo Berlusconi". “Per quanto riguarda l’accusa di calunnia nei confronti di Gianni De Gennaro - è la tesi della procura - Massimo Ciancimino è colpevole e secondo noi non merita le attenuanti generiche. Perché non è plausibile che, rispetto alla consegna di un documento così importante, non abbia la contezza delle precisa identità di chi glielo ha fornito dandogli anche le indicazioni su cosa riferire ai magistrati". Di Matteo non fa sconti a Ciancimino a proposito di quel biglietto in cui il nome De Gennaro era addirittura cerchiato. Questa "correzione" sarebbe stata aggiunta da Vito Ciancimino, era stata la versione data dal figlio ai magistrati di Palermo. Che, però, hanno successivamente accertato la non veridicità del documento, arrestando il figlio dell’ex sindaco per calunnia. "Massimo Ciancimino ha fornito piena confessione del fatto in questo processo - dice ancora Di Matteo - ma così come è colpevole di calunnia e non merita le attenuanti generiche, allo stesso modo è per noi credibile su altri fronti della trattativa e ha il merito di avere sollecitato i ricordi e risvegliato la memoria di tanti che fino ad allora avevano taciuto. Come ad esempio la dottoressa Ferraro, Luciano Violante ed altri". Pesanti le considerazioni di Nino Di Matteo sul testimone Liliana Ferraro, magistrato che prese il posto di Falcone all’Ufficio Affari penali del ministero della Giustizia. "Ha riferito ai magistrati dati di estrema importanza solo dopo un’intervista dell’ex ministro Claudio Martelli". Liliana Ferraro ha parlato con anni di ritardo della visita dell’allora capitano De Donno, che chiedeva una "copertura politica" per l’operazione Ciancimino (il dialogo segreto con l’ex sindaco). Era un mese dopo la strage di Capaci, la Ferraro rimandò l’ufficiale ai magistrati di Palermo. Poi, il 28 giugno, parlò del Ros e di Ciancimino a Borsellino, che le disse: “Ci penso io”. Ne parlò anche con Martelli. Dopo la strage Borsellino, Liliana Ferraro incontrò gli ufficiali del Ros a casa sua, durante una cena. "Ma non si parlò di Ciancimino", ha sempre sostenuto. Il pm Di Matteo insorge: "Com’è possibile che dopo tutto quello che era accaduto ai suoi amici, Falcone e Borsellino, non abbia chiesto nulla su una questione così importante?". Con ritardo è arrivata anche la deposizione di Luciano Violante. Solo dopo le dichiarazioni di Massimo Ciancimino, nel 2008, l’ex presidente della commissione antimafia si è presentato alla procura di Palermo per riferire di un incontro con il generale Mori. L’ufficiale chiedeva un’audizione in Antimafia per Vito Ciancimino. "Violante chiese se di quegli incontri con l’ex sindaco aveva parlato con l’autorità giudiziaria. Lui rispose in maniera netta: no, è stata tenuta all’oscuro, perché si tratta di un discorso politico". E, all’epoca, neanche Violante ritenne di dovere informare l’autorità giudiziaria. Le sue dichiarazioni sono adesso un caposaldo dell’atto d’accusa della procura: "Mori chiedeva un incontro riservato per Ciancimino", dice Di Matteo. "Dopo la strage di Capaci, anche sull’onda emotiva di questo evento, viene eletto presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro che con il suo attivismo e le sue decisioni non si è limitato al suo ruolo di arbitro. Anzi, è stato il principale attore delle decisioni che in questo processo abbiamo dimostrato: la nomina di Mancino al posto di Scotti, quella del nuovo direttore del Dap e di Conso al ministero della Giustizia al posto di Claudio Martelli. Il ruolo di Scalfaro nell’avvicendamento tra Scotti e Mancino ha fatto emergere evidenti reticenze e falsità delle dichiarazioni del presidente Scalfaro, sentito da questa Procura nel 2010". Il pubblico ministero Di Matteo affronta uno dei capitoli più delicati dell’atto d’accusa. "Scalfaro addirittura dichiarò di non sapere nulla dell’avvicendamento al Dap tra Amato e Capriotti. Ci disse anche che non aveva mai saputo nulla della connessione tra il 41 bis e gli episodi stragisti". Secondo Di Matteo "la falsità delle dichiarazioni di Scalfaro" viene dimostrata anche da ciò che ha dichiarato un altro ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, il 28 ottobre 2014: "Dopo gli attentati del 1993 i discorsi tra le più alte cariche istituzionali dello Stato - ha ricordato Di Matteo le parole di Napolitano a verbale - era chiaro che quelle bombe corrispondevano a un ricatto dell’ala corleonese di Cosa nostra". L’accusa sostiene che la strategia per addivenire ad un accordo era quella di spostare l’asse politico verso un’altra corrente - quella della sinistra democristiana- a cui apparteneva il ministro Mannino che era stato tra i fautori della linea del dialogo. "Per fare questo era necessario - ha aggiunto Di Matteo - spezzare l’asse della fermezza portato avanti dall’azione congiunta dei ministri dell’Interno e della Giustizia, Scotti e Martelli. Di fronte all’intrapresa linea del dialogo - ha sostenuto - non poteva sopportare la presenza di Vincenzo Scotti, principale fautore della linea di fermezza nel contrasto a Cosa nostra, al vertice dell’Ordine pubblico". Maxi-sconto di pena per l’abbreviato anche sui giudizi in corso di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 12 gennaio 2018 Retroattivo il maxi-sconto di pena per chi sceglie il rito abbreviato. Il taglio della metà e non di un terzo della sanzione, in caso di contravvenzione, è stato deciso nell’ambito della legge di riforma del processo penale in vigore dallo scorso agosto e, per la Cassazione, che si è pronunciata ieri sul punto con la sentenza n. 832 della Quarta sezione, si deve applicare anche ai procedimenti in corso. Per queste ragioni è stata annullata senza rinvio (perché è la Cassazione stessa a procedere alla rideterminazione della pena) la condanna inflitta a un uomo sanzionato per guida sotto assunzione di stupefacenti. La Cassazione sottolinea come la norma in questione, l’articolo 442 del Codice di procedura penale che disciplina la decisione, compresa l’entità dello sconto di pena, nel giudizio abbreviato, pur essendo di natura processuale ha tuttavia effetti sostanziali regolando di fatto la severità della misura da infliggere in caso di giudizio con rito alternativo. Sul punto la sentenza argomenta che “sebbene l’articolo 442 del Codice di procedura penale si inserisca nell’ambito della disciplina processuale e non di quella sostanziale, e preveda, in modo peculiare, un più favorevole trattamento penale in considerazione di una condotta dell’imputato successiva al reato, da un lato la diminuzione o sostituzione della pena è senz’altro un aspetto sostanziale”. Deve così essere affermato come acquisito del nostro ordinamento giuridico il principio secondo il quale il trattamento sanzionatorio, anche se collegato alla scelta del rito (in questo caso alla disponibilità dell’imputato alla decisione sulla fondatezza dell’imputazione nel corso dell’udienza preliminare allo stato degli atti), finisce sempre per avere ricadute sostanziali, ed è soggetto quindi alla regola fondamentale che presiede alla successione di leggi penali nel tempo, il favor rei, con l’applicazione quindi della norma più favorevole. In questa prospettiva, allora, deve essere immediatamente applicata la nuova versione dell’articolo 442, quella modificata da pochi mesi dalla legge n. 103 del 2017, nella parte in cui prevede che, in caso di condanna, la pena che il giudice determina, tenuto conto di tutte le circostanze, è diminuita della metà quando si procede per una contravvenzione (lo sconto resta di un terzo quando si procede per un delitto). La natura sostanziale della disposizione, che permette l’applicazione dello sconto ai giudizi che ancora non si sono chiusi con sentenza irrevocabile, non cambia nonostante sia legata non tanto alla natura dell’illecito quanto all’esercizio di una facoltà processuale. La Cassazione poi ha potuto procedere direttamente alla riduzione della pena, partendo dalla determinazione già raggiunta dal giudice di merito: il calcolo non comporta cioè l’esercizio di margini di discrezionalità, ma semplicemente l’applicazione del nuovo e più vantaggioso, per l’imputato, criterio di determinazione della pena. Parma: morto in carcere il killer di Chinnici. Curato male? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 gennaio 2018 Un detenuto muore il 5 gennaio per crisi respiratoria a causa di un grave tumore ai polmoni in stato avanzato. Non è uno qualsiasi, ma parliamo dell’ex mafioso Stefano Ganci mentre era ricoverato all’ospedale di Parma. “La notizia è trapelata ieri, ma il decesso è avvenuto - ha spiegato il suo avvocato difensore Girolamo D’Azzò a Il Dubbio - il 5 gennaio scorso”. Parliamo di un uomo, 55 anni, recluso fin dal 1994 e condannato all’ergastolo per aver partecipato a diversi omicidi, fra cui quello del consigliere istruttore Rocco Chinnici nel 1983. Era stato anche condannato, a 26 anni, per aver fatto il palo al commando autore della strage di via D’Amelio del 1992, dove morirono il giudice Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta. Stefano Ganci stava scontando l’ergastolo nel carcere sardo di Oristano, ma non in regime di 41 bis, perché declassificato da tempo. La scorsa estate, durante la sua detenzione, subì un intervento all’addome per i diverticoli. “Dopodiché - spiega sempre l’avvocato D’Azzò - viene trasferito a fine ottobre al carcere di Parma nella sezione di alta sorveglianza per degli accertamenti clinici, perché avrebbe avuto un problema respiratorio e un problema allo stomaco che necessitava di controlli. A metà dicembre, durante l’immatricolazione, cade accidentalmente, si rompe una vertebra e viene trasferito urgentemente all’ospedale di Parma”. Arriviamo al 20 dicembre, l’avvocato D’Azzò va a trovare il detenuto, perché i medici vogliono parlagli. Apprende, solo in quel momento, che a Ganci è stato diagnosticato un tumore polmonare in stato avanzato, con tanto di metastasi. Per i medici al Ganci restano pochi mesi di vita. Dopo qualche giorno, nel pomeriggio del 5 di gennaio, ha avuto una crisi respiratoria ed è morto. Sarà l’autopsia disposta dalla procura ad accertare le cause della morte. L’avvocato ha richiesto i referti medici, compresi quelli di Oristano, per capire come sia possibile che non gli abbiano diagnosticato il tumore quando venne operato in Sardegna. Con questa ennesima morte, si apre nuovamente il problema del diritto alla salute dei detenuti. In particolare, è proprio il carcere di Parma ad essere al centro dell’attenzione. Diversi detenuti sono malati, compresi alcuni anziani rinchiusi al 41 bis. Se prendiamo ad esempio la sezione speciale del 41 bis, più che a un carcere assomiglia sempre di più a un ospizio per anziani con problemi di salute e acciacchi dovuti dall’età. L’età media continua ad alzarsi. Lo aveva confermato a Il Dubbio il garante locale dei detenuti Roberto Cavalieri. Spiegò che alla sezione del 41 bis vi sono reclusi 65 detenuti, con l’età media che raggiunge quasi i 65 anni. A questo va aggiunto, appunto, il discorso sanitario. Sì, perché al carcere duro, oltre ai novantenni, ci sono anche diversi ultra 80enni che necessitano di cure. Tra loro c’è anche Raffaele Cutolo che oramai ha superato i 75 anni e soffre di varie patologie legate all’età. Appena si liberano i pochi posti della sezione terapeutica alla quale l’amministrazione penitenziaria assegna i detenuti per il trattamento di patologie in fase acuta o cronica in fase di scompenso, subito vengono rimpiazzati da coloro che stanno male. Il reparto - allestito per un massimo di 30 posti - è diventato un punto di riferimento anche per gli altri penitenziari. Così il sovraffollamento aumenta e aumentano anche le persone malate. Poi accade che, a causa delle loro gravi patologie, i detenuti si sentono male e vengono ricoverati d’urgenza in ospedale. Ma non solo. Per quanto riguarda i malati al 41 bis, nell’ospedale parmense c’è il “repartino” adibito per i detenuti che necessitano di cure urgenti. Non a caso viene definito con un diminutivo: è composto solo da tre stanze e appena ne muore uno (come il caso di Totò Riina) o viene rispedito in carcere, subito il posto viene rimpiazzato. Un ping pong tra il carcere e l’ospedale. L’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini vuole vederci chiaro e ha deciso di visitare il carcere di Parma il 18 gennaio. In particolare proprio la sezione riservata al 41 bis. Sulmona (Aq): 77 anni, con un cancro deve ritornare in cella per un residuo di pena di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 gennaio 2018 Ha 77 anni, ha un carcinoma, ma gli è stata negata la detenzione domiciliare prevista dall’articolo 47 ter dell’ordinamento penitenziario. Prosegue la denuncia de Il Dubbio sugli anziani reclusi nei penitenziari nonostante esista una legge proprio per rilevare che il superamento di una certa soglia di età è considerata intrinsecamente incompatibile con la detenzione carceraria, indipendentemente dalle reali condizioni di salute della persona. Si chiama Giuseppe Speranza, classe 1941, detenuto a Sulmona, da oltre un anno ha espiato il cosiddetto reato ostativo (quello che vieta qualsiasi beneficio) per 416 bis, per il quale era stato condannato a 9 anni, e sta finendo di scontare la pena per reati di modesta gravità, se non addirittura bagatellari, come la ricettazione di un mezzo agricolo, il commercio di sostanze alimentari adulterate, reati risalenti alla metà degli anni 90, e infine violazioni delle prescrizioni di sorveglianza speciale commesse fino al 2007. L’avvocato difensore Giuseppe Milicia spiega a Il Dubbio che al suo assistito è stata negata la detenzione domiciliare dal tribunale di sorveglianza dell’Aquila, non per il dato formale della ritenuta recidiva (come per l’ottantenne Gino Baccani, altro caso denunciato su queste stesse pagine), ma sulla base di una presunta pericolosità sociale derivata dal circuito relazionale familiare - mafioso da cui era originata la condotta associativa per la quale, come già detto, già da tempo è stata scontata la detenzione. Contro il provvedimento, l’avvocato ha fatto ricorso in Cassazione, evidenziando “l’esercizio del potere discrezionale in violazione dei principi di umanità della pena di rilievo prevalente rispetto a stantie presunzioni di pericolosità”. Per Giuseppe Speranza esistono dei problemi di salute. L’avvocato Milicia spiega che gli è stato recentemente diagnosticato un carcinoma del colon, con prescrizione di intervento chirurgico urgente per scongiurare il rischio imminente d occlusione intestinale. In tutto questo c’è almeno una buona notizia. Il magistrato di sorveglianza ha accolto il sollecito per quanto riguarda il differimento della pena, per consentire le pratiche urgenti sanitarie. Si tratta di 4 mesi, trascorsi i quali il signor Giuseppe Speranza dovrà ritornare in carcere. Vige un luogo comune secondo il quale si pensa che dopo una certa età non si vada più in carcere. In realtà non è così. Le patrie galere creano disagi, malattie e turbe psichiche ai detenuti giovani, figuriamoci nei confronti di persone che superano i 70 anni. Eppure non sono pochi coloro che vi sono ristretti. Secondo gli ultimi dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, al 31 dicembre del 2017 risultano reclusi 776 ultrasettantenni. Se confrontiamo questo dato con l’anno 2016, gli anziani in carcere risultano anche in aumento. Al 31 dicembre del 2016, infatti, risultavano 715 anziani. Negli anni precedenti ancora di meno: nel 2006 ne risultavano 291. La composizione della popolazione carceraria è il riflesso della crisi sociale che stiamo vivendo. Sempre più anziani si danno al crimine, perché la necessità di superare le ristrettezze economiche può spingere a commettere reati. Secondo i dati recenti dell’Istat, la parte maggioritaria degli anziani che vengono arrestati, sono coloro che hanno commesso reati minori come la detenzione degli stupefacenti o piccoli furti. E questo perché, per via dell’età, è un reato più accessibile, non richiedendo un’elevata prestanza fisica. Ecco perché si arriva così a casi drammatici ai limiti del grottesco, come quello del pensionato genovese che, per arrotondare il suo reddito, si era ridotto a custodire un chilo di cocaina per conto di una gang di spacciatori albanesi. Oppure, nel 2016, il caso di un ottantaduenne arrestato per il furto di un film in dvd da 8 euro commesso nel lontano 2008. Fu emessa una condanna per “rapina aggravata” a causa del fatto che aveva contestualmente strattonato una commessa, arrecandole lesioni guaribili in quattro giorni. Avrebbe potuto chiedere la sospensione della pena perché la condanna è al di sotto dei tre anni. Però aveva dimenticato di richiederla. Altri sono i casi dove vede come protagonisti degli ottantenni incarcerati a distanza di anni per reati non gravi. Stessa sorte era toccata, a febbraio dell’anno scorso, all’ 81enne Emanuele Rubino di Genova, in dialisi e già vittima di un infarto. Nel 2011 era stato condannato a 34 giorni di libertà vigilata per aver “insultato un vigile urbano” che lo aveva multato. Ma Rubino avrebbe violato la misura ed è stato perciò portato in carcere, dove però - grazie al tam tam sul web dove è diventato simbolo di una ingiustizia - non ha trascorso tutti i 17 giorni mancanti e i primi di marzo dello stesso anno, per fortuna, è stato liberato. Altro caso, del quale Il Dubbio ne era più volte occupato, riguarda Stefanina Malu, un’anziana di 83 anni che era reclusa nel carcere sardo di Uta per detenzione di droga. Aveva problemi fisici, non riusciva a deambulare e più volte era stata portata all’ospedale. Dopo anni, finalmente, le era stata data la detenzione domiciliare. Aveva fatto appena in tempo ad essere accudita dalla figlia, che si sentì male tanto da essere condotta, d’urgenza, con un’ambulanza in ospedale. Nonostante l’impegno del personale sanitario, l’anziana donna non ce l’ha fatta ed era morta. Come non dimenticare poi l’ottantenne soprannominato il “ladro di biciclette” perché nel corso della sua vita ne aveva rubate migliaia. Era recluso al carcere di Regina Coeli quando, nell’aprile dell’anno scorso, cadde accidentalmente nel reparto medicina dell’istituto penitenziario: trasportato in ospedale, le sue condizioni sono peggiorate ed è morto. Salerno: lite tra detenuti in carcere, diverbio con lancio di olio bollente Il Mattino, 12 gennaio 2018 Lite tra detenuti nella Casa circondariale di Salerno, utilizzato anche olio bollente. È quanto denuncia il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe attraverso il segretario nazionale per la Campania, Emilio Fattorello. “Anche nella giornata di ieri, nella Prima Sezione, ormai una vera e propria casbah terra di nessuno, si è registrata l’ennesima violenta colluttazione tra detenuti di origini napoletane. I detenuti coinvolti, tre o quattro, sono venuti a diverbio tra loro e poi passati alle vie di fatto nella prima mattinata al momento della apertura delle celle. Un detenuto, da poco rientrato dal Reparto Isolamento per motivi disciplinari, è stato aggredito senza esclusione di colpi proibiti mentre un altro, forse intervenuto in difesa del compagno, è stato fatto oggetto dal lancio di olio bollente - dice Fattorello in una nota. I due malcapitati hanno subìto gravi lesioni che hanno determinato il loro urgente ricovero al Pronto Soccorso dell’Ospedale Civile di Salerno. I reali motivi della contesa, come al solito, non sono chiari ma tutto lascia pensare, in considerazione degli eventi critici che si susseguono, che nella struttura penitenziaria salernitana vi sia un tentativo di imporre la legge del più forte per acquisire una leadership interna ed esterna”. Ma il Sappe denuncia altri eventi critici accaduti: “La sera precedente del 9 si è provveduto ad ulteriore ricovero urgente di un detenuto che presentava una vasta e profonda ferita da taglio ad un braccio. Sembra inoltre che lo stesso giorno sia stato rinvenuto alla Sesta Sezione isolamento-separazione un altro apparecchio telefonico micro - cellulare mentre al Reparto colloqui è stata rinvenuta una pennetta Usb che i detenuti utilizzano clandestinamente perché a Salerno nelle celle sono in uso apparecchi televisivi a cui possono essere liberamente installate e utilizzate le penne Usb che riescono a giungere nella disponibilità dei reclusi dall’esterno in maniera maldestra”. Como: "Classici dentro e fuori”, letture condivise con i detenuti Corriere di Como, 12 gennaio 2018 Molti ricorderanno, per averlo letto a scuola o magari per averlo scoperto molto più avanti con l’età, Il visconte dimezzato di Italo Calvino, uno dei classici più amati della letteratura italiana. Prima parte della trilogia “I nostri antenati” è un racconto che è metafora suggestiva e penetrante del bene e del male, ironica parodia della ricerca di autenticità dell’uomo contemporaneo. Il visconte dimezzato è stato scelto per tenere a battesimo, venerdì 12 gennaio alle ore 18, alla Libreria Feltrinelli di Como, il primo appuntamento dell’iniziativa "Classici dentro e fuori” organizzato dall’associazione Bottega Volante e dalla Casa Circondariale di Como. Un appuntamento al mese per ricordare e commentare i classici insieme a un gruppo di detenuti del Bassone di Como che lo leggeranno in contemporanea e faranno avere, attraverso i volontari, impressioni e pensieri ai lettori in libreria. I quali, a loro volta, potranno esprimere una propria impressione. “La letteratura può essere il mezzo per caricare di senso una cosa di per sé insensata come l’esistenza” ha scritto Antonio Tabucchi. Per chi vive una condizione di reclusione, la lettura può essere un’àncora di salvezza, un nutrimento per lo spirito, uno spunto per riflettere sulla propria vita, a volte un impagabile guadagno di consapevolezza e di senso dell’esistenza. “È un’iniziativa che saluto con grande favore - commenta la direttrice della Casa Circondariale di Como, dottoressa Carla Santandrea - e ringrazio sia i volontari sia la Feltrinelli per l’impegno e la disponibilità”. Le fandonie demagogiche e la democrazia possibile di Michele Salvati Corriere della Sera, 12 gennaio 2018 Di fronte a quello che ascoltiamo nei talk show c’è da sperare che almeno una parte dei cittadini-elettori sia diventata un poco più colta e interessata al bene comune. A chi segue la campagna elettorale in corso, a chi ascolta le promesse con le quali i concorrenti a cariche di governo cercano di conquistare il voto dei potenziali elettori, è probabile torni alla mente un vecchio sogno, quello di una “epistemocrazia”, di un governo dei saggi e dei competenti: insomma, una versione aggiornata di aristocrazia, del governo dei “migliori”. È un sogno regressivo, che fa a pugni con l’idea stessa di democrazia: come identificare oggi i saggi e competenti, se si escludono le inaccettabili ragioni di preminenza economica e sociale che identificavano gli aristocratici di ieri? E come assicurarsi che prenderebbero le decisioni di governo più favorevoli alla comunità nel suo insieme? In una democrazia a suffragio universale tutti sono corresponsabili delle scelte elettorali che hanno fatto e non possono che incolpare se stessi qualora la scelta risulti sbagliata. In altre parole: il criterio che rende legittimo un sistema liberal-democratico è insuperabile. Se di fronte alle fandonie demagogiche che ascoltiamo nei talk show è concesso di sognare, è meglio accontentarsi di un sogno più modesto: quello in cui almeno una buona parte dei cittadini-elettori sia diventata un poco più colta, interessata al bene comune, discriminante, e non beva le fandonie demagogiche dei politici con la facilità con cui sembra berle oggi. Sempre di un sogno si tratta, ma coerente con l’ideale democratico e non impossibile da realizzare in un lontano futuro: in un contesto di maggior benessere e minori tensioni, con il miglioramento dell’istruzione e qualche correttivo epistemocratico, la democrazia potrebbe funzionare meglio e ridurre un poco i rischi demagogici cui è inevitabilmente soggetta. Per ora le cose sembrano piuttosto lontane anche da questo sogno più modesto. E ciò ha una conseguenza inevitabile. I politici che vediamo nei talk show non sono tutti incapaci o incompetenti, inconsapevoli dei gravi problemi che il nostro paese deve affrontare. Molti non lo sono. Ma tutti desiderano vincere le elezioni. E se sono convinti che per vincerle una buona dose di demagogia è indispensabile, che un ottimismo esagerato è un dovere e la verità è un optional, che parlare di sacrifici necessari è un tabù, anche i politici migliori si adatteranno all’andazzo dei talk show: illustrare agli elettori lo stato effettivo del nostro Paese, le misure che devono essere prese per migliorarlo, non è cosa semplice e per essere compresa richiede conoscenze che una gran parte dei nostri concittadini non possiede. Insomma, la moneta cattiva della demagogia, di una eccessiva semplificazione dei problemi, del ricorso a espedienti retorici che si rivolgono alla pancia più che alla testa, tende a scacciare la moneta buona della verità e della riflessione. Ed è per questo che chi si sforza in un tentativo pedagogico e cerca di dire la verità è normalmente visto come un non-politico, incapace di assolvere al primo compito che un vero politico deve affrontare, quello di raccogliere consenso. Che poi il “vero politico” si dimostri - se cerca di realizzare le sue promesse - un cattivo governante è un problema che verrà affrontato una volta vinte le elezioni: le scuse per non avere realizzato quanto ha promesso sono infinite e verranno spesso bevute da chi gli ha dato fiducia. Dobbiamo rassegnarci a questo stato di cose? Forse sono stato troppo pessimista a rappresentare gli elettori come ho fatto: è vero che molti, presi dalle preoccupazioni della loro vita quotidiana, irritati dai comportamenti dei politici e degli amministratori pubblici, e in possesso di strumenti inadeguati a valutare la complessità del governo, possono accedere a proposte di cambiamenti radicali e illusori, al “tutti a casa” dell’antipolitica. Ma anche in queste condizioni non sono pochi coloro che sono in grado di valutare l’onestà, la competenza, la sincerità del politico che chiede il loro voto. Qualche giorno fa ho visto in azione Paolo Gentiloni a “Che tempo che fa”, il programma di Fabio Fazio: non ha nascosto di essere di parte, ma ha esposto le sue ragioni con una grazia, precisione e ironia che raccomanderei a chiunque, di qualsiasi parte politica. E che non richiedeva grandi conoscenze economiche e politologiche per risultare convincente. A questi elettori, e ai politici che sanno interpretare la loro domanda di verità, sono affidate le mie speranze di un risultato non troppo negativo nelle prossime elezioni. Il coraggio e le regole per i migranti di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 12 gennaio 2018 Il prossimo 14 gennaio sarà celebrata la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato istituita dalla Chiesa cattolica. Dopo la analoga promossa dalle Nazioni Unite, essa sarà occasione per nuovamente affrontare il tema, sperabilmente non in chiave di contrapposizione e propaganda elettorale. Le dimensioni e le cause del fenomeno mondiale odierno delle migrazioni e, in particolare, di quello verso l’Italia e l’Europa rendono insufficiente, anche se stringente, il richiamo al dovere individuale e nazionale di assicurare sempre umanità nel rapporto con gli stranieri che giungono in Italia. E con l’umanità, l’osservanza rigorosa delle prescrizioni costituzionali e delle Convenzioni internazionali in materia. Esse riguardano essenzialmente il rapporto con l’individuo che arriva nel territorio dello Stato. Ma quando si tratta di un fenomeno di massa, grandioso, diversificato e di lunga durata come quello che affronta ora l’Europa, la quantità modifica la qualità del problema. Alla realtà del problema, poi, si aggiunge una dimensione altra, anch’essa da non ignorare. Si tratta della percezione del fenomeno, non importa quanto distorta da disinformazione o propaganda politica e da difficili esperienze personali o di intere fasce sociali più di altre a contatto con l’arrivo di migranti. La paura e l’adesione a proposte sempliciste e assurde richiedono un forte impegno per diffondere un’informazione corretta. È infatti reale il rischio che prevalgano posizioni potenzialmente antidemocratiche e xenofobe. A questo si riferiva la preoccupazione manifestata dal ministro Minniti, sui rischi che correrebbe la democrazia se la questione migranti non venisse affrontata e venisse lasciato campo libero a forze estremiste. Una paura esagerata e creata ad arte è certo sbagliata, ma resta un oggettivo dato politico e sociale di cui occorre responsabilmente tener conto. Alle regole del trattamento individuale del migrante deve dunque aggiungersi una chiara e realistica linea politica di gestione e governo del fenomeno. L’Europa e l’Italia hanno già conosciuto e non dovrebbe dimenticare gli effetti delle guerre su individui e su intere popolazioni. Per regolare il problema dei milioni di civili e militari dispersi in Europa alla fine della guerra nacque la Convenzione delle Nazioni Unite sui rifugiati. Ora un’analoga situazione, altrove nel mondo, è all’origine di molte fughe da zone di guerra; anche, ma non solo, verso l’Europa. Fughe di persone che cercano e, secondo la Convenzione, hanno diritto di ricevere asilo. Vi è però una tendenza a svalutare la differenza che esiste tra chi lascia il proprio Paese per cercare condizioni economiche migliori e coloro che fuggono dal pericolo cui sono esposti di persecuzioni e trattamenti inumani: tra migranti economici cioè e rifugiati. Tutti questi ultimi, ma non i primi hanno il diritto assoluto di essere accolti, protetti come rifugiati e non respinti. Certo è spesso difficile distinguere gli uni dagli altri, ma è necessario farlo poiché la confusione porta necessariamente ad attenuare o a rendere impraticabile la piena tutela delle vittime di guerre e persecuzioni. Coloro che arrivano non sono necessariamente quelli che più avrebbero bisogno di accoglienza e rifugio. In grande misura arrivano uomini giovani e sani. E gli altri? Quelli che, magari in condizioni peggiori, non riescono a partire e ad arrivare? Ora le dure e illegali modalità della fuga verso l’Europa hanno un grave effetto discriminatorio e le alternative sono del tutto insufficienti. Anche per questo motivo e non solo per prevenire le drammatiche traversate del mare, è necessaria una politica di immigrazione regolata; l’unica che possa dare risultati liberando l’Italia e l’Europa dalla rassegnata e sola gestione d’emergenza di vicende ineluttabili e da altri determinate. L’attivazione di regolari canali di immigrazione è anche il modo concreto di disincentivare il ricorso agli attuali pericolosi percorsi di migrazione verso l’Italia. I quali percorsi non si esauriranno se non si apriranno stabili e non solo simboliche vie alternative, legittime e controllate. Ai governi spetta affrontare un problema che è ineludibile. Le azioni praticabili sono difficili e rischiose. I piani su cui intervenire sono necessariamente numerosi, di politica interna e di controlli e accordi internazionali. La sensazione di dover affrontare un problema troppo grande può spingere governi e forze politiche all’inerzia o ad atteggiamenti puramente propagandistici oppure, in Italia, vittimistici. Altri Paesi in Europa hanno ricevuto un maggior numero di migranti, senza parlare di ciò che avviene in altre parti del mondo. Occorre invece coraggio, concretezza e riconoscimento della necessità di distinguere all’interno del grande fenomeno delle migrazioni. È quel che sembra fare ora il governo anche con politiche di accordi con paesi africani la cui inevitabilità si accompagna però ad aspetti di pericolosità rispetto ai diritti umani delle persone dei migranti. La vigilanza deve essere massima, ma gli interlocutori necessari sono quelli che sono e non quelli che si preferirebbe fossero. Migranti. Sudanesi espulsi, la Cedu ammette i ricorsi contro l’Italia di Leo Lancari Il Manifesto, 12 gennaio 2018 Il governo italiano ha tempo fino al 30 marzo per spiegare le motivazioni che il 24 agosto del 2016 portarono all’espulsione forzata di 43 cittadini sudanesi dopo che questi erano stati fermati a Ventimiglia. A deciderlo è stata la Corte europea per i diritti dell’uomo (Cedu) che nei giorni scorsi ha dichiarato ammissibili i ricorsi presentati da cinque dei migranti rimpatriati. “I sudanesi furono vittime di un vero e proprio rimpatrio collettivo, del tutto illegittimo anche perché verso un Paese nel quale non è garantito il rispetto dei diritti umani fondamentali”, ha spiegato ieri l’avvocato Salvatore Fachile dell’Asgi, l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione che insieme all’Arci segue l’azione giudiziaria. La vicenda risale al periodo in cui la frontiera di Ventimiglia era affollata da diverse decine di migranti che speravano di entrare in Francia, e segue di poco la firma di un accordo per i rimpatri tra la polizia italiana e quella sudanese. Dopo il fermo i migranti furono sottoposti a un lungo ed estenuante viaggio in giro per l’Italia che li portò prima a Taranto e poi all’aeroporto di Torino per essere imbarcati su un aereo diretto a Khartoum. Sette di loro fecero però resistenza e per motivi di sicurezza vennero fatti scendere a terra dove riuscirono a presentare domanda di asilo e a vedersi riconosciuto lo status di rifugiato. Possibilità che invece, denuncia l’Asgi, “non venne offerta ai loro compagni”. Il capo della polizia Franco Gabrielli - che firmò l’accordo con i corrispettivo sudanese - ha sempre sostenuto come le procedure adottate rispettino quanto previsto dal diritto internazionale, affermazione che però non trova d’accordo gli avvocati che assistono i ricorrenti, convinti invece che oltre a essere stato violato l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che vieta trattamenti inumani e degradanti, ai migranti sia stato negato anche il diritto alla difesa e la possibilità di presentare domanda di asilo. Secondo Sara Prestianni dell’Arci, l’accordo italiano è servito da modello per altri simili in Europa. Dopo l’Italia, infatti, anche Francia e Belgio hanno siglato intese analoghe con il Sudan. Proprio in questi giorni un caso come quello italiano rischia di provocare una crisi di governo in Belgio. Il ministro per l’Asilo e l’Immigrazione Theo Francken, appartenente ai nazionalisti fiamminghi del N-Va e autore di un accordo per i rimpatri con il Sudan, è finito nella bufera da quando un’organizzazione ha raccolto le testimonianze di alcuni dei sudanesi espulsi che hanno denunciato di aver subito torture una volta rientrati nel Paese. Per il vicepresidente dell’Arci Filippo Miraglia a preoccupare è soprattutto la politica di esternalizzazione delle frontiere messa in atto dall’Italia e dall’Unione europea. “Si delega a Paesi spesso riconosciuti come non rispettosi dei diritti umani il compito di fermare i migranti”, ha spiegato Miraglia. “Questa scelta rappresenta l’opposto di quanto dice il ministro degli Interni Marco Minniti e sta producendo solo più morti”. Un altro esempio di questa politica riguarda l’uso fatto dei finanziamenti inseriti nel Fondo Africa. Su questo l’Asgi ha presento un ricorso al Tar riguardante 2,5 milioni di euro impiegati per ammodernare alcune motovedette fornite alla Guardia costiera libica. “Ai giudici amministrativi abbiamo chiesto se i finanziamenti del Fondo, 200 milioni di euro destinati alla cooperazione, possono essere usati per il controllo delle frontiere”, ha spiegato l’avvocato Giulia Crescini. Droghe. “Legalizzare l’uso della cannabis”: la proposta di +Europa Corriere della Sera, 12 gennaio 2018 Tra le proposte del movimento anche la legalizzazione della cannabis, annunciata su Facebook: sì all’auto-coltivazione fino a 5 piante e a quella terapeutica. “Un’Italia più europea, non abbiamo dubbi, è un paese dove l’uso della cannabis è legalizzato”. La proposta arriva, tramite un post su Facebook, dalla lista +Europa con Emma Bonino. In particolare, il movimento ha annunciato di voler “autorizzare l’auto-coltivazione fino a 5 piante, una regolamentazione della produzione e della vendita con regole precise, con chiare indicazioni sul livello di THC e con un efficiente sistema di sanzioni” ma anche che “la cannabis terapeutica sia garantita alle persone che soffrono di determinare patologie, e che vi sia un monitoraggio da parte del Ministero della Salute”. Le ragioni della proposta - L’obiettivo infatti non è promuovere l’uso della cannabis ma “all’opposto, regolamentarlo. Perché? Per sottrarre profitti alle mafie e alla criminalità collegata alla produzione e allo spaccio. Per liberare la ricerca scientifica applicata allo sviluppo di nuove terapie per decine di malattie. Per ridurre il sovraffollamento delle carceri (quasi il 30% del totale della popolazione carceraria)”. I buoni esempi - Nel post viene citata l’esperienza positiva di altri Paesi: “L’evidenza delle realtà internazionali (come la California o il Colorado) dove la cannabis è già legalizzata dimostra che non si è registrato alcun aumento del suo consumo. Semplicemente, ora è più sicuro e più consapevole”. Tunisia. Tra i giovani disoccupati e ribelli: “noi in piazza sognando l’Italia” di Francesca Paci La Stampa, 12 gennaio 2018 A Tebourba, il paese del primo morto della protesta: “Finiti i soldi per mangiare”. L’obiettivo dei ragazzi resta la fuga: “Appena ho duemila euro mi imbarco”. Non ci sono foto del martire di lunedì qui a Tebourba, 25 mila anime a nord-ovest di Tunisi dove molti non conoscono neppure il suo nome. Khomsi Yafrni aveva 45 anni, era disoccupato, è morto durante le proteste per il carovita. Ma, nonostante il quinto giorno di scontri con oltre 600 persone arrestate e l’esercito in campo, non sembra candidato alla fama di Mohammed Bouazizi, l’icona della rivoluzione del 2011. “Mercoledì il premier Chahed sarebbe venuto a trovarci se non fosse stato fermato dalla polizia all’ingresso della città per problemi di sicurezza, i ragazzi urlavano “degage” (vattene)” ci dice il fratello maggiore Nourredine, pochi denti, mani callose, gilet imbottito sulla felpa con gli orsetti. La casa dei Yafrni è un misero cubo bianco a 500 metri dalla strada dove l’uomo è stato ucciso durante l’assalto al palazzo del governo locale. In terra vedi i vetri delle molotov, ogni giorno nuovi. Sul marciapiede opposto al governo locale c’è un caffè senza insegne, resti di antiche maioliche alle pareti, tavoli sgangherati e una manciata di avventori, tutti sui vent’anni, tutti pronti a emigrare, tutti favorevoli alle proteste perché il presente è una prigione da far saltare. “Sono stato a Perugia 10 anni finché la primavera scorsa mi hanno espulso perché ero irregolare, ma appena rimetto insieme 2 mila euro m’imbarco da Kelibia, qui vicino, e ci riprovo” racconta Fauzi, 36 anni. In attesa del sogno europeo, concorda la platea, abbasso la finanziaria e viva l’era Ben Ali, quando almeno “10 dinari significavano mangiare, mentre adesso bastano appena per le sigarette e un caffè”. Tebourba, che agli storici della II guerra mondiale evoca l’omonima battaglia tra le forze alleate e quelle dell’Asse, ha visto centinaia di suoi figli prendere la via del Mediterraneo. Anche Khomsi Yafrni era venuto in Italia per tornare più povero di prima tra i concittadini che campano di agricoltura, carote, olive, carciofi berberi. “Il mio Wael va ogni mattina a Tunisi per qualche lavoretto da muratore ma i trasporti sono scarsi, deve prendere il pulmino che gli costa 5 dinari, un quarto della paga giornaliera” spiega mamma Aziza, velata come quasi tutte le donne. Si aggira con una sola busta tra i banchi del suq, prezzi più alti di due anni fa ma non altissimi a parte il pesce, sardine comprese, che costa ormai il doppio. Il contadino Mostafa le ripete che non ne ha colpa: “Sono aumentati i fertilizzanti, i macchinari, se lo Stato non investe qui industrializzando la raccolta dobbiamo fare da soli e questi sono i risultati”. I risultati sono l’apatia e la frustrazione dei più giovani, di cui oltre uno su tre è disoccupato, che da una settimana si concretizzano in rabbia sanculotta. Se la politica fa il suo gioco a Tunisi qui resta sullo sfondo, non ci sono manifesti anti-governativi dell’opposizione né la polemica tra la maggioranza e la sinistra del Fronte Popolare che pure ha votato il budget 2018 e nemmeno gli slogan contro i tagli dovuti al Fondo Monetario in cambio del prestito quadriennale di 2,9 miliardi di dollari: c’è una massa grigia che raccoglie il disagio nazionale, ma preme per andarsene dal Paese con buona pace della transizione democratica. “I giovani non sono contenti della situazione e hanno il diritto di protestare contro la legge di bilancio ma in modo civile e senza bruciare auto o bancomat, questa volta diversamente dal 2011 la soluzione al legittimo malcontento popolare sarà politica ed economica” ci dice Wided Bouchamaoui, presidente degli imprenditori e pilastro del quartetto per il dialogo nazionale tunisino premiato nel 2015 con il Nobel per la pace. A Tebourba però, l’aria è grave come prima della pioggia. “È la controrivoluzione” sentenzia il maestro Rashid davanti alla stazione risalente al 1878. Discute con un gruppo di amici pendolari come lui, cappotti lisi, sui cinquanta, i padri delle piazze incandescenti. Yasser fa il guardiano in un garage, 300 euro al mese se va bene: “Succede sempre di sera, appena fa buio vanno in strada a tirare sassi, molti sono ragazzini di 14 anni, non sanno neppure che sotto Ben Ali si veniva torturati per molto meno”. Il gruppo non fa mistero di simpatizzare per Ennahda, i Fratelli musulmani tunisini che governano in coalizione con i liberali di Nidaa Tounes. Ironia della sorte vuole che alcuni di loro siano tornati dopo il 2011 a Tebourba, antica roccaforte islamista tanto da essere abbandonata da Bourghiba al suo destino di sottosviluppo rurale, mentre i diciottenni bramino la fuga proprio ora. “Degage, degage”: il coro si leva dalla piccola piazza dei martiri, tra la chiesa e l’incrocio per Tunisi sovrastato da una gigantografia che non appartiene a Bouazizi né tantomeno a Yafrni, ma all’oriundo militare Akrounben Salah ucciso in un attacco terrorista nel 2015. È il momento: un uomo adulto s’inginocchia mimando con una bottiglia il gesto di darsi fuoco, una quindicina di ragazzi inveiscono, un secondo cerchio di spettatori segue la scena. In tutto saranno meno di 60 persone ma altrettanti poliziotti sono appostati nei blindati. È un déjà-vu, ragiona un impiegato nel bar La Cabana: “A un certo punto i manifestanti si allontano da queste strade grandi alla francese e vanno verso la medina araba, dove in caso di scontri è più facile scappare tra i vicoli labirintici”. Tunisi sembra assai più lontana dei 40 chilometri reali costeggiati da venditori di finocchi, banchi di scarpe, ulivi soffocati dalla spazzatura. È qui in provincia e nelle banlieues che, come nota il ricercatore Hamza Meddeb, l’assenza della classe media dalle piazze si nota davvero. Anche per questo il nome Khomsi Yafrni sembra sospeso, vittima del presente, morto al buio com’era vissuto. Stati Uniti. I repubblicani faranno arrestare i minori clandestini di Valerio Sofia Il Dubbio, 12 gennaio 2018 L’iniziativa del Gop: indurire le leggi contro gli irregolari. Immigrazione ancora terreno di scontro durissimo negli Stati Uniti. Nuove proposte restrittive arrivano dai Repubblicani dopo che era stato annunciato un accordo bipartisan per trattare nel bilancio le varie questioni legate al tema migranti (controllo dei confini, ricongiungimenti familiari, lotteria dei visti e giovani “dreamers”), e dopo che un giudice di San Francisco ha sospeso il provvedimento di Trump che bloccava il programma che proteggeva dalla deportazione i giovani che sono entrati illegalmente negli Stati Uniti quando erano bambini, magari al seguito della famiglia. In direzione totalmente opposta vanno le proposte repubblicane che se davvero venissero presentate alla Camera metterebbero a rischio il fragile accordo bipartisan. Tra le iniziative dell’ala destra del partito, la richiesta di estendere il provvedimento di arresto anche per i minori sorpresi con i genitori a tentare di entrare illegalmente, una nuova riduzione degli ingressi, la stretta sui controlli verso chi assume clandestini, la revoca dei fondi alle città santuario, vale a dire a quelle città che negli Stati Uniti praticano la massima tolleranza verso i migranti in aperto ed esplicito contrasto con le politiche avviate da Trump da quando è presidente. A firmare la proposta i presidenti delle commissioni Sicurezza Interna e Giustizia, Robert W. Goodlatte e Michael McCaul, appena 24 ore dopo la riunione che lo stesso Trump alla Casa Bianca proprio allo scopo di trovare un’intesa tra i due partiti riguardo il tema dell’immigrazione. L’irrigidimento rischia di complicare ulteriormente i rapporti all’interno del Congresso quando manca poco più di una settimana al giorno in cui, il 19 gennaio, rischiano di chiudere per mancanza di fondi le attività del governo federale. Se dovessero passare le ultime proposte, i datori di lavoro sarebbero costretti a ricorrere, per le assunzioni, esclusivamente e E- Verify, piattaforma Internet cui può aderire esclusivamente chi è immigrato legalmente. Proprio ieri i negozi della catena di supermercati 7- Eleven sono stati presi di mira dagli agenti federali a caccia di lavoratori clandestini con l’obiettivo di punire i datori di lavoro che li impiegano. I raid sono stati compiuti in 98 7- Eleven di 17 stati Usa, dalla California alla Florida, e si sono conclusi con 21 arresti e 11 titolari di 7- Eleven sono stati incriminati per aver impiegato lavoratori clandestini (la catena di franchising si è detta estranea e ha disdetto i contratti con gli incriminati). Con l’amministrazione-Trump gli agenti Ice hanno intensificato la caccia ai clandestini ovunque, perfino nelle scuole sorprendendoli mentre accompagnano i figli. Intanto resta massiccia la mobilitazione in difesa dei dreamers e degli altri immigrati finora “protetti”. Gli amministratori delegati di oltre 100 grandi aziende fanno pressing sul Congresso affinché approvi entro la fine della settimana una legislazione che protegga le persone che vivono in Usa senza permesso di soggiorno. I numeri uno di gruppi come Apple, Amazon, Ibm, General Motors, Facebook, Dropbox e Blackstone hanno inviato una lettera al Parlamento nella quale calcolano un impatto negativo di 215 miliardi di dollari sul Pil se verrà permessa la scadenza del Daca in vigore dal 2012. Intanto i vescovi Usa hanno definito “straziante” l’annuncio del Dipartimento per la sicurezza nazionale di chiudere il programma di protezione temporanea (Tps) destinato ai cittadini salvadoregni presenti negli Usa. Stati Uniti. 11 detenuti di Guantánamo fanno causa a Trump perché anti-musulmano La Repubblica, 12 gennaio 2018 I reclusi hanno citato i tweet del presidente per dimostrare che è contro chi professa la religione islamica. Undici prigionieri del carcere di Guantánamo hanno fatto causa al presidente Donald Trump denunciando di essere detenuti illegalmente perché lui è anti-musulmano. Così come nei ricorsi contro il bando all’immigrazione in Usa da 6 Paesi a maggioranza islamica, i detenuti di Guantánamo hanno citato i tweet di Trump e altre sue affermazioni per dimostrare che il presidente è contro chi professa la religione islamica. In particolare, nel ricorso si citano i commenti del presidente sul fatto che i prigionieri di Guantánamo non dovrebbero mai venire rilasciati. "L’opposizione del presidente al rilascio dei prigionieri da Guantánamo segue altre iniziative politiche indiscriminate, bocciate dai tribunali, come il bando sui viaggi in Usa di cittadini da certi Paesi a maggioranza musulmana o il bando per i transgender nelle forze armate", si legge nel ricorso. Trump recentemente "ha chiesto che un uomo musulmano che ha ucciso diverse persone a New York venisse mandato a Guantánamo senza processo mentre non ha mai chiesto che venisse negato il processo ai killer bianchi delle stragi di massa", si osserva nella vertenza dei detenuti di Guantánamo. Il ricorso è stato presentato presso il tribunale federale di Washington in occasione del 16esimo anniversario dell’istituzione di Guantánamo, diventata operativa nel 2002 Iran. L’assordante silenzio dell’Europa sulla repressione degli ayatollah di Valentina Stella Il Dubbio, 12 gennaio 2018 Nessuno Tocchi Caino: “50 morti e tremila prigionieri per reprimere le proteste”. Al quattordicesimo giorno di manifestazioni in Iran, si contano 50 morti ed oltre tremila arresti, tra cui 90 studenti dell’Università di Teheran, 4 dei quali sono in sciopero della fame dal 29 dicembre, mentre sono centinaia i feriti. Sono i dati allarmanti emersi durante la conferenza stampa di Nessuno Tocchi Caino per appellarsi “al Governo italiano affinché - sottolinea la Tesoriera dell’associazione costituente il Partito Radicale - ci sia più attenzione e soste- gno per chi sta ancora lottando per far cadere il regime, espressione di un potere assoluto e teocratico, la cui fine è inesorabile”. Presente l’ambasciatore Giulio Maria Terzi di Sant’Agata: “La narrativa che ci viene propinata da molto tempo è che l’Iran è un Paese stabile, che guarda con fiducia al futuro e che vede nell’Italia la porta serena verso il mercato europeo. Questo dogma è stato diffuso senza vergogna fino a qualche settimana fa. Invece ciò che dimostrano queste manifestazioni è che l’Iran è fortemente instabile e che il regime viene contestato anche al proprio interno. Inoltre l’economia continua ad andare a picco perché i soldi vengono usati per folli spese militari che destabilizzano tutto il Medio Oriente. E in tutto questo l’Europa si fa dettare la politica estera verso l’Iran da Teheran stesso”.. Per Laura Harth, rappresentante del Partito Radicale alle Nazioni Unite, “molti Stati membri europei si stanno infatti inchinando apertamente a vari regimi, quali la Cina, la Russia, l’Iran”. Mariano Rabino, deputato di Scelta Civica, condanna “l’atteggiamento di pavidità dell’Europa” che, anche con l’atteggiamento inetto - come più volte sottolineato dai relatori - di Federica Mogherini, Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri, “finisce per legittimare il regime sul piano interno”. Proprio ieri, rende noto alla conferenza il senatore di Forza Italia Lucio Malan, è stato firmato un accordo dal valore di cinque miliardi di euro tra Invitalia - Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa, di proprietà del Ministero dell’Economia - e l’amministrazione pubblica di Teheran per sponsorizzare gli investimenti delle nostre aziende nel Paese degli ayatollah: è scandaloso, sostiene Malan “che nella legge di bilancio, all’articolo 32, siano stati previsti 120 miliardi sul versante del sostegno all’internazionalizzazione del sistema produttivo nazionale in Paesi qualificati ad alto rischio, ossia l’Iran. Ho presentato emendamenti per destinare quei fondi altrove, a Stati ad esempio la cui emigrazione è forte, ma è stato inutile perché ci hanno fatto capire che quei soldi sono solo l’inizio di un fondo”. Intanto sottolinea il Segretario di Nessuno Tocchi Caino, Sergio D’Elia “nel corso dei due mandati di Rohani sono stati almeno 3294 i prigionieri giustiziati, tra cui 10 donne, 4 oppositori politici e 4 minorenni, violando tutti i trattati internazionali, senza dimenticare che in Iran gli omosessuali rischiano la pena di morte”. A sostegno di ciò arriva la testimonianza di uno dei leader dei giovani iraniani, ora fuggito e in clandestinità per il timore di essere arrestato, raccolta con difficoltà tramite whatsapp da Antonio Stango, presidente della Federazione Italiana Diritti Umani (Fidu): “stiamo vivendo in un regime totalitario e di apartheid, dato che a causa della sua interpretazione della religione impone separazione fra uomini e donne, oltre che discriminazioni fra nazionalità ed etnie; e non lascia nessuna via legale per ottenere il rispetto dei diritti”. Myanmar. L’esercito ammette per la prima volta l’uccisione di dieci rohingya di Raimondo Bultrini La Stampa, 12 gennaio 2018 Lo ha dichiarato via social il capo delle forze armate birmane, ammettendo anche per la prima volta l’esistenza di una fossa comune nello stato di Rakhine, abitato dalla minoranza Rohingya. L’ammissione di responsabilità morale di tale brutalità è però accompagnata dalla giustificazione che le vittime erano dei guerriglieri. Per la prima volta l’esercito birmano ha ammesso una delle numerose atrocità attribuite ai suoi soldati (tadmadaw) e ai civili che vogliono cacciare i rohingya dallo Stato buddhista dell’Arakan. Nel settembre dello scorso anno in un villaggio costiero a etnia mista di nome Inn Din a 50 km dalla capitale Sittwe, dieci abitanti musulmani vennero linciati a coltellate da un gruppo di induisti locali, aiutati - per stessa ammissione dei loro comandanti - dai soldati buddisti che gli hanno sparato il colpo di grazia dopo averli gettati in una fossa comune nel cimitero. L’ammissione - Amnesty International ha definito questa vicenda appena “la punta di un iceberg”, ed è l’unica che per qualche motivo ancora ignoto - forse le forti pressioni internazionali - le autorità militari hanno deciso di rendere pubblica. Finora sia i generali che la Consigliera di Stato de facto presidente Aung San Suu Kyi avevano sempre negato ogni accusa internazionale - sostenuti all’Onu solo da Cina e Russia - di un attacco indiscriminato alla popolazione rohingya del nordovest. Ora nel rapporto disponibile su Facebook è scritto invece che “i civili e gli ufficiali hanno confessato il loro delitto e saranno prese contro di loro misure adeguate”. La giustificazione - Per attenuare le responsabilità morali, la fonte dell’esercito ha aggiunto che le vittime non erano civili innocenti bensì guerriglieri del gruppo terroristico Esercito di salvezza Rohingya o Arsa, cresciuto di fama dopo gli attacchi contro postazioni militari birmane nell’agosto e ottobre del 2016, seguite da feroci rappresaglie indiscriminate contro la popolazione civile. Fu questa l’origine della fuga in massa verso il Bangladesh, con oltre 650mila profughi giunti oltreconfine in poche settimane senza viveri né assistenza, e ora in un limbo diplomatico con poche speranze di rapida soluzione. A giustificare l’esecuzione dei dieci uomini ci sarebbe stata - nelle parole del comunicato ufficiale diffuso via social dall’esercito - un’esigenza esclusivamente pratica: "Si è scoperto - è spiegato - che non c’erano le condizioni per trasferire i 10 terroristi bengalesi (ufficialmente la parola rohingya in Myanmar non esiste, ndr) alla stazione di polizia e così è stato deciso di ucciderli". La stessa fonte attribuisce però la prima mossa ai locali “che avevano perso dei familiari per gli attacchi dei militanti”. “La gente voleva uccidere i prigionieri - dice il risultato dell’inchiesta - e li ha pugnalati dopo averli costretti a fuggire verso il cimitero alla periferia del villaggio. Poi i membri delle forze di sicurezza li hanno uccisi”. Fine del comunicato. I provvedimenti per i responsabili delle atrocità - Oltre a promettere punizioni “secondo le regole di legge”, i militari annunciano provvedimenti anche “contro coloro che non hanno segnalato l’incidente ai loro superiori e supervisori dell’operazione”. A rendere dubbie molte parti dell’indagine è il fatto che a condurle è stato il generale Aye Win, lo stesso che nel suo rapporto del novembre scorso - due mesi dopo la strage di Inn Din - disse che in Arakan “non si erano verificate atrocità”. Ma è stato difficile negare gli incendi di interi centri abitati in tutte le province di confine tra Maungdaw e il fiume Naf trasformato per settimane in un girone dantesco. L’uccisione di uomini, donne e bambini, gli stupri sistematici delle donne da parte di soldati e civili soprattutto buddisti sono in tutti i racconti dei profughi senza differenze di versione, in qualche caso provati da fonti indipendenti, compresi alcuni giornalisti che hanno dovuto servirsi di fonti locali. Giornalisti Reuters arrestati - Proprio durante il passaggio di carte tra un paio di poliziotti e i cronisti, due giornalisti dell’agenzia internazionale Reuters sono stati arrestati per l’accusa di divulgazione di segreti di Stato. Forse si trattava di prove delle fosse comuni o di episodi ancora oscuri come i tanti di questa guerra, non la sola combattuta nel Myanmar. Atrocità simili sono state più volte denunciate nello Stato a prevalenza cristiana dei Kachin, e nello Shan ai confini con la Cina. I conflitti in atto - A far capire la complessità dei conflitti in atto, basterebbe la presenza dell’Esercito di liberazione dell’Arakan (che combatte da decenni contro i birmani del sud per uno Stato indipendente) in difesa delle popolazioni civili Shan del sudest. Dietro questo marasma di sigle e ideali, il tentativo della maggioranza bamar della quale fa parte Suu Kyi di mantenere il controllo dell’Unione costi quel che costi. Le fosse comuni - Delle fosse comuni decine di testimoni avevano parlato nelle settimane scorse e questa prima inedita ammissione di responsabilità potrebbe essere anche l’ultima, a meno che il governo civile di Aung San Suu Kyi non stia giocando una battaglia dietro le quinte per spingere i militari ad ammettere le loro colpe passate. Tra queste il fatto di non aver messo nel conto la conseguenza dell’ingresso nel Paese di centinaia di migliaia di rohingya prima del 2012, in gran parte non censiti. Quando le stime ufficiali ne calcolarono un milione compresi i nuovi nati, gli abitanti buddisti e delle minoranze dell’Arakan erano 3 milioni, compresi musulmani autoctoni. Così fecero estremamente presa gli appelli di molti religiosi nazionalisti come Wiratu secondo i quali era in ballo la sopravvivenza stessa del dharma, la fede, di fronte all’incalzare dei “bengalesi” e del loro Islam. Il video della Cnn sul leader dell’Arsa - Ad aggiungere nuovi timori per il futuro di intere popolazioni di ogni fede ed etnia è stato un video diffuso tra gli altri attraverso la Cnn dove si vede Ata Ullah, leader o portavoce dell’Arsa, rivendicare un attacco contro delle postazioni militari a nord di Maungdaw del 5 gennaio scorso. Anche il suo annuncio - circolato sui social per aggirare la censura - è un fatto inedito nella ridda di rivelazioni che piano piano emergono dall’orrore di un periodo ancora in atto di violenze che iniziarono nel lontano 2012 con lo stupro e l’uccisione di una studentessa buddista birmana. Molti interpretarono le immediate carneficine di musulmani e le contro-reazioni violente come il frutto di una precisa strategia dei militari per imporsi, al momento opportuno, come arbitri unici della sicurezza nazionale. Infatti il governo civile di Aung San Suu Kyi ha solo ex generali transfughi, o “teste di ponte” tra lei e il comando dei generali che guidano ancora i ministeri chiave come la Difesa, Interni e Frontiere. Il video del capo militante rohingya affiancato da due giovani armati sembra confermare che il pericolo denunciato dal Myanmar in tutte le sedi è reale e tale da richiedere misure estreme. Ma a dispetto delle cifre fornite dai generali di almeno 10mila guerriglieri islamici già pronti o in sonno, l’Arsa potrebbe avere ancora un numero piuttosto limitato di adepti. Per questo la propaganda social cerca di enfatizzare, ma allo stesso tempo convincere i fedeli più ortodossi ad unirsi in armi per interrompere le ingiustizie contro i rohingya. “Se non se ne occupa l’Occidente con la sua diplomazia - ha detto con sguardo esaltato Ata Ullah - ricorreremo al sangue”.