Carcere, rischia di sparire la migliore riforma del Pd di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 gennaio 2018 Rita Bernardini riprende, dalla mezzanotte del 22 gennaio, lo sciopero della fame. La riforma dell’ordinamento penitenziario rischia di non vedere la luce e Rita Bernardini, ai microfoni di Radio Radicale, ha annunciato che riprenderà lo sciopero della fame per sollecitarne l’approvazione. Lo scorso 22 dicembre il Consiglio dei ministri ha approvato gran parte dei decreti attuativi, ma mancano quelli che riguardano il lavoro e l’affettività, ovvero due aspetti fondamentali della detenzione sul corretto mantenimento familiare come i permessi e colloqui, la sessualità, la rieducazione e il reinserimento dei detenuti una volta liberi. Si attendono i pareri, non vincolanti, delle commissioni giustizia di Camera e Senato e l’approvazione definitiva del Consiglio dei ministri. E i tempi diventano sempre più stretti. Rita Bernardini riprende lo sciopero della fame dalla mezzanotte del 22 gennaio per la riforma dell’ordinamento penitenziario. L’esponente del Partito Radicale lo ha annunciato ai microfoni di Radio radicale durante la diretta di martedì sera al programma Radio Carcere, condotto da Riccardo Arena. Sì, perché lo scorso 22 dicembre il Consiglio dei ministri ha approvato gran parte dei decreti attuativi del nuovo ordinamento penitenziario, ma, come già riportato da Il Dubbio, rimangono esclusi quelli che riguardano il lavoro e l’affettività, ovvero due aspetti fondamentali della detenzione che riguardano il corretto mantenimento familiare come i permessi e colloqui, la sessualità, la rieducazione e il reinserimento dei detenuti una volta liberi. Ma oltre a tutto ciò, l’altro problema riguarda la tempistica della conclusione dell’iter di approvazione definitiva. I decreti approvati in via preliminare dal Consiglio dei ministri devono ancora passare all’esame delle commissioni giustizia della Camera e Senato. Secondo la procedura hanno 45 giorni di tempo per esprimere eventuali pareri. In soldoni, la riforma dell’ordinamento penitenziario non solo è ancora incompleta, visto che mancano i decreti attuativi sull’affettività e lavoro, ma i tempi per la sua approvazione definitiva rimangono ancora incerti. Inoltre, Riccardo Polidoro, responsabile dell’osservatorio carceri dell’Unione camere penali e membro di una delle commissioni istituite dal guardasigilli per l’elaborazione dei decreti attuativi, ha spiegato ai microfoni di Radio carcere che le commissioni sono state prorogate fino al 31 marzo. Quindi i tempi si allungano e la proroga è servita perché una volta approvati tutti i decreti, le commissioni poi dovranno dare un parere non vincolante. Però, nel mezzo, ci sono le elezioni politiche e ciò potrebbe rallentare, o nelle peggiore ipotesi bloccare, l’intero iter di approvazione. L’approvazione della riforma quindi rimane incerta. Per questo Rita Bernardini ha deciso di riprendere l’iniziativa non violenta, soprattutto in un momento in cui le criticità del sistema penitenziario si accentuano sempre di più. “Per questo io voglio annunciare - spiega l’esponente radicale sempre ai microfoni di Radio Carcere - la ripresa dello sciopero della fame. Questa è la mia vita - prosegue Rita Bernardini, nel senso che non posso tollerare di essere presa in giro non su una cosa secondaria, ma sui diritti umani fondamentali che sono sistematicamente violati dentro le carceri”. La Bernardini ricorda che il Partito Radicale aveva chiesto, nel passato, un provvedimento di amnistia, unito all’indulto, per ridurre la popolazione detenuta e intanto far vivere meglio quelli che vi sono ristretti. “Ci avevano invece risposto - spiega l’esponente radicale - che avrebbero scelto un’altra via, ovvero quella delle riforme. Ma questa via come si è rivelata? Se noi non avessimo intrapreso le iniziative non violente assieme ai 30.000 detenuti, questa riforma sarebbe stata nascosta nei cassetti”. Dalla mezzanotte del 22 gennaio, quindi, intraprende nuovamente lo sciopero della fame per chiedere l’approvazione dei decreti in maniera veloce e completa, inserendo anche quelli sull’affettività e lavoro, chiedendo anche di togliere la segretezza riguardante i contenuti. L’invito è rivolto anche alla popolazione dei detenuti attraverso varie forme non violente come lo sciopero della fame, quello del carrello, della spesa o dell’ora d’aria. Sempre durante la trasmissione condotta da Riccardo Arena, viene ricordato lo sciopero della fame messo in atto dagli esponenti dell’associazione milanese “Opera Radicale” per il diritto alla salute dei detenuti. L’iniziativa non violenta, che dura oramai da 23 giorni, si articola in un digiuno a catena di un giorno per ogni partecipante. Nel comunicato dell’iniziativa che ha tra i promotori lo storico radicale Luca Bertè e Mauro Toffetti, presidente dell’associazione milanese, si legge che i detenuti sono sempre più vittime di abbandono sanitario “spesso a causa di irresponsabili decisioni dei giudici di sorveglianza, come testimonia la vicenda di Marcello dell’Utri, più che mai rappresentativa dei tantissimi casi di detenuti che in carcere non sono adeguatamente curati persino quando sono affetti da malattie gravissime”. Proprio l’altro ieri, Il Dubbio, ha riportato la notizia della morte di un 77enne, recluso nel reparto di infermeria del carcere romano di Rebibbia e gravemente malato. L’ex ministro Flick: il sistema carcerario va inserito nell’agenda politica, troppi i suicidi di Gigi Di Fiore Il Mattino, 11 gennaio 2018 Quale tema legato alla giustizia pensa dovrebbe essere inserito nel dibattito di questa campagna elettorale? “Sicuramente quello delle carceri”. “Il primo riguarda la pena dell’ergastolo. La Corte costituzionale nel 1972 la dichiarò illegittima perché non consente la rieducazione, ma l’ha considerata ammissibile se, dopo alcuni anni e un manifesto ravvedimento, il detenuto può ottenere la liberazione condizionale. Siamo di fronte ad una sorta di ipocrisia incostituzionale, accresciuta con le leggi su mafia e terrorismo”. “Ai condannati per mafia e terrorismo si applica l’ergastolo ostativo. A differenza dei condannati per altri reati, possono ottenere le misure alternative o la liberazione condizionale solo se collaborano con l’autorità giudiziaria”. Quali crede siano, in questo settore, i limiti del nostro ordinamento? “Consideriamo la detenzione come unica vera pena utilizzabile. C’è uno strabismo intellettuale del nostro legislatore che, da un lato guarda con attenzione al tentativo di umanizzare la pena per eliminare il sovraffollamento nelle carceri, da un altro ricorre a piene mani alla penalizzazione come unico rimedio per dare risposte al crescente allarme sociale provocato dalla criminalità”. Il nostro sistema carcerario rispetta la Costituzione? “L’articolo 27 della Costituzione parla di rieducazione dei condannati e di trattamenti non contrari al senso di umanità. Eppure, nell’ultimo anno, nelle carceri italiane ci sono stati 52 suicidi di detenuti”. Quali ne sono i principali elementi critici? “Il primo riguarda la pena dell’ergastolo. La Corte costituzionale nel 1972 la dichiarò illegittima perché non consente la rieducazione, ma l’ha considerata ammissibile se, dopo alcuni anni e un manifesto ravvedimento, il detenuto può ottenere la liberazione condizionale. Siamo di fronte ad una sorta di ipocrisia incostituzionale, accresciuta con le leggi su mafia e terrorismo”. Perché? “Ai condannati per mafia e terrorismo si applica l’ergastolo ostativo. A differenza dei condannati per altri reati, possono ottenere le misure alternative o la liberazione condizionale solo se collaborano con l’autorità giudiziaria”. Il rapporto tra economia e giustizia penale torna d’attualità. Crede che le aziende ricevano danni da inchieste penali che finiscono in assoluzioni? “Il decreto legislativo 231 del 2000 ha introdotto la responsabilità penale delle imprese giuridiche per aziende che non si dotano di regole interne per impedire la commissione di reati da parte di dipendenti, se non dimostra di aver fatto il possibile per evitarlo”. Una norma che non funziona? “No, al punto che è proliferato lo strumento del commissariamento giudiziale di parti delle imprese inquinate da corruzione”. La seconda possibilità per chi ha commesso reati: fuori cella (in prova) di Giusi Fasano Corriere della Sera, 11 gennaio 2018 Processo sospeso e via a un percorso di recupero che se portato a termine cancella il reato. Come funziona la seconda possibilità offerta nel 2017 a oltre 10 mila imputati. Il 2 maggio scorso, a Monopoli, un diciassettenne spinse giù da una scogliera un uomo di 77 anni che batté la testa e morì annegato. “Un atto scriteriato e senza movente” disse il suo avvocato. Ora la Giustizia ha messo alla prova quel ragazzo: se per i prossimi tre anni lavorerà di giorno in una struttura per anziani, se studierà la sera in una scuola alberghiera, se avrà buoni voti, se farà sport regolarmente e se seguirà corsi di legalità, estinguerà il reato che ha commesso. Niente più processo, quindi niente rischio di condanna e di carcere, nessuna traccia nel certificato penale. Avrà, dunque, la sua seconda chance. Si chiama, appunto, messa alla prova. Tecnicamente è un intervento che sospende un procedimento penale in corso. Fu voluto per i minorenni con un decreto del 1988 e per i maggiorenni da un provvedimento del 2014. Di fatto è un patto fra la persona sotto accusa e lo Stato. Funziona così: tu Stato sospendi il processo e concordi assieme a me un percorso di recupero e di consapevolezza che io mi impegno a seguire fino in fondo. Se riesco a superare ogni passaggio e arrivare alla fine con valutazioni positive tu, Stato, ti “dimentichi” del mio processo e del mio reato e lasci pulita la mia fedina penale. Le regole per i maggiorenni - Ovviamente ci sono paletti per stabilire chi ne ha diritto. Per esempio nel caso dei maggiorenni è possibile soltanto se il reato commesso non prevede una pena più alta di quattro anni ed è una strada percorribile una sola volta nella vita, mentre per i minori non c’è esclusione di reato, né un limite alle volte in cui si può chiedere. Pur essendo possibile da pochi anni, per i maggiorenni la messa alla prova si è affermata moltissimo. I numeri, del resto, parlano da soli. Prendendo a esempio la data del 30 novembre ed escludendo il primo anno perché è servito a mettere a punto la legge, si scopre che quel giorno, nel 2015, gli adulti che avevano in corso un periodo di messa alla prova erano 6.234 e che, in quella stessa data, c’erano 9.416 istanze in attesa. Il giorno 30 novembre dell’anno 2016, invece, i casi di messa alla prova erano 9.046, quelli pendenti 11.708. L’anno scorso, in quello stesso giorno, ce n’erano in corso 10.530 e 15.343 in lista d’attesa. Se tutto va come deve andare questo tipo di operazione alla fine crea riscatto personale e sicurezza sociale. Perché per dirla con Severina Panarello, responsabile per la Lombardia dell’Uepe - cioè l’Ufficio esecuzione pene esterne - “una persona recuperata rende più sicura la comunità intera” e “sicurezza non è soltanto: lo metto in galera. È anche: lo metto nelle condizioni di non fare più quel che ha fatto”. I dati dei minori - Se parliamo di minori, il dato più significativo di tutti arriva dall’incremento fra l’anno 2015, quando i provvedimenti di messa alla prova furono 3.340, e il 2016, con 3.757 casi (+12,5%). Ma che cosa prevede nella pratica un percorso di messa alla prova? Ciro Cascone, a capo della Procura dei minori di Milano, dice che “è la costruzione di un progetto di vita” e che come tale “deve essere personalizzato”. Sul fronte dei maggiorenni il giudice suo collega Fabio Roia ne parla come di una “forma intelligente di recupero, un investimento per il futuro”. Così ecco il caso del ragazzo (minore) indagato per minacce che siccome sa giocare a pallone estingue il suo reato facendo l’aiuto-allenatore di una squadra di calcio per ragazzi down. “All’inizio era perplesso” racconta Elena Giudice, assistente sociale milanese che ne ha seguito i miglioramenti. “È finita che per quei ragazzi è diventato un punto di riferimento e che alla fine ci ha detto: mi sono sentito importante per la prima volta in vita mia”. Un programma di messa alla prova può essere di qualunque genere, con un solo obbligo comune a chiunque lo segua: rendersi utili alla collettività. Nel caso degli adulti i giudici chiedono una sorta di indagine sulla persona all’Uepe (tipo di reato commesso, personalità, famiglia, rete sociale...), il quale traccia assieme alla stessa persona un piano di recupero e vigila sull’andamento del progetto. Dai diversamente abili alle biblioteche - Gli esempi di percorsi personalizzati sono infiniti. C’è chi guida in stato di ebbrezza e segue le sedute per alcolisti anonimi, chi commette piccoli furti e aiuta gli operatori nelle mense dei poveri, chi è indagato per maltrattamenti e si occupa di disabili. Ci sono inquisiti per reati ambientali che si occupano di servizi comunali come spazzare le strade, pulire canili, tenere in ordine cimiteri, tenere aperti musei o biblioteche nelle ore serali. È capitato che un giudice abbia chiesto come ulteriore atto di giustizia riparativa che l’indagato scrivesse una lettera di scuse alla vittima o ai suoi familiari. Se può reggerlo psicologicamente, capita che gli si chieda invece di parlare in pubblico, soprattutto nelle scuole, della sua esperienza e del disvalore delle sue azioni. Ogni messa alla prova viene monitorata con relazioni periodiche: se funziona (ed è la stragrande maggioranza dei casi) si prosegue fino all’estinzione del reato, se non funziona si riprende il processo dal punto in cui si era interrotto. Il contraltare di un insuccesso non è un successo ma è di più: è un ragazzino o un adulto che, finito il suo periodo di messa alla prova, decide di trasformare quell’esperienza, quale che sia, nel suo percorso di vita. Il compito dei magistrati è quello di “applicare la legge”, non di “farla rispettare” di Iuri Maria Prado Il Dubbio, 11 gennaio 2018 Il rischio è che la vita quotidiana dei cittadini non è più esposta ai divieti uguali per tutti che stanno nella legge, ma allo sguardo inquirente del magistrato-poliziotto. Il fatto che tante inchieste giudiziarie, insieme con la vita civile e professionale, e a volte anche quella fisica, di chi vi è ingiustamente implicato, finiscano nel nulla, ha una spiegazione molto precisa. Si tratta di trascuratezze, di errori? No. Chiaramente ci sono anche questi, ma la spiegazione intima e per così dire sistematica è un’altra. Si tratta forse, allora, del deliberato intendimento di questo o quel magistrato di dare corso a inchieste infondate? Nemmeno. Anche questo, certamente, può essere accaduto, ma nemmeno questo spiega il fenomeno. Ciò che tante volte induce e muove le inchieste giudiziarie portandole sulla rotaia morta del nulla di fatto è la convinzione sbagliatissima quanto purtroppo diffusa che al magistrato stia il compito di rimettere in ordine la società corrotta, di riformarla e, in profundo, di migliorarla. E tutto questo come? Scambiando (e usando) il proprio potere di applicare la legge con quello diverso, e che al magistrato non compete per nulla - di farla rispettare. Non è un gioco di parole. Recentemente, durante non so più quale trasmissione televisiva, a un notissimo esponente della magistratura corporata, circondato da una lugubre fama di inflessibilità moralizzante, è scappato di bocca proprio questo: “Il mio lavoro è far rispettare la legge”. Il giornalista che gli stava davanti (giornalista per modo di dire, e più che davanti pareva che gli stesse sotto) non era nemmeno lievemente toccato dal dubbio che si trattasse in realtà di uno sproposito di cui chiedere conto al giustiziere che invece vi si abbandonava con compiacimento e tra gli applausi. Perché “far rispettare la legge” non è il compito del magistrato, ma delle forze di polizia e di sicurezza. Il magistrato deve applicarla, possibilmente bene: ma a farla rispettare sono deputati altri comparti dell’organizzazione statale e della società. Dice: vabbè, ma è lo stesso, il magistrato fa rispettare la legge applicandola. No, non è lo stesso. Perché se l’idea è che il magistrato è quello che “fa rispettare la legge”, allora vuol dire che a guardia dell’ordine e della legge sta lui, il magistrato, che a quel punto è legittimato a intervenire non (come dovrebbe) “quando” la legge è stata violata ma (come non dovrebbe) per controllare “se” è stata violata. E il passo successivo è che la vita quotidiana dei cittadini non è più esposta ai divieti uguali per tutti che stanno nella legge, ma allo sguardo inquirente del magistrato-poliziotto. Dice ancora: vabbè, ma quel conduttore televisivo mica era un giurista; che volete che sappia di certe distinzioni? Il guaio è che non si tratta di questioni giuridiche, di roba da specialisti del diritto. Si tratta di questioni civili e politiche, e non proprio di secondo piano. E se non sono considerate, se davanti al magistrato che in modo tanto leggiadro fa una tal rivendicazione di un potere che in realtà non gli compete e che dunque lui pretende di usurpare; se insomma non si reagisce in nessun modo all’idea che la magistratura, almeno nelle intenzioni di alcuni, possa costituirsi in una centrale di controllo sociale, ebbene non è per difetto di cognizioni giuridiche ma per una mancanza molto più grave e cioè per la completa assenza di qualsiasi sensibilità democratica. Che poi tra quelli che hanno quest’idea perversa dell’amministrazione della giustizia e dei fini in vista dei quali essa dovrebbe essere esercitata, alcuni, e magari anche molti, siano in buona fede, può essere senz’altro. Ma questo non consola e anzi è peggio. Perché quella buona fede assegna al posto della desuetudine, e forse dell’eresia, l’idea contraria e invece giusta secondo cui la società è buona innanzitutto se è libera: e si forma a scuola, nei posti di studio e di lavoro e nei luoghi delle relazioni civili: non nelle prigioni e sotto la minacciosa tutela di quell’apostolato giudiziario. Così il cittadino vede nelle toghe un nemico di Gerardo Villanacci* Panorama, 11 gennaio 2018 Meno tecnicismi nei processi e formazione più completa dei giudici: così si riavvicina la gente alla giustizia. Il ministro della Giustizia, con una dichiarazione resa alcuni giorni fa, non ha esitato a definire di straordinaria importanza la conclusione positiva per l’Italia della supervisione in materia di durata dei processi da parte del Comitato dei ministri del consiglio d’Europa. Non vi sono ragioni per dubitare che quello espresso dal Ministro sia un “pensiero positivo”, piuttosto che la sindrome di Pollyanna, cioè un ottimismo disancorato da dati oggettivi. Tuttavia la realtà è che la condizione del sistema giudiziario italiano è giunta ad un’inefficienza talmente grave che vi è una diffusa rassegnazione del cittadino a ritenere che se per caso si entra nel meccanismo per uscirne indenni o più semplicemente per conseguire la tutela dei diritti violati, non resta altro che affidarsi a qualche santo oppure, ove volessimo preservare il senso di laicità anche nella speranza, alla buona sorte. Per quanto tautologico possa apparire, il punto è che comunque vada non c’è giustizia se questa non funziona o funziona male, esattamente come accade da noi dove ai sette milioni di processi arretrati ogni anno se ne aggiungono oltre tre milioni di nuovi, sia nel settore civile che in quello penale. Le conseguenze economiche di tale disfunzione a carico della collettività sono enormi se si considera che corrispondono con buona approssimazione all’1% del Pil, ovvero oltre 16 miliardi di euro ai quali si sommano i circa 84 milioni di esborsi annui per il pagamento dei legittimi indennizzi richiesti dai cittadini vittime della durata irragionevole dei processi in forza della Legge Pinto che, dall’entrata in vigore nell’anno 2001, ha inciso negativamente sui conti pubblici per circa un miliardo. Numerosi studi consentono di ritenere che potrebbe essere possibile alleggerire le sofferenze strutturali dei nostri tribunali sottraendo al vaglio degli stessi molteplici questioni che potrebbero essere risolte in via amministrativa o anche in sede di autoregolamentazione da parte di organismi, pubblici o privati. Ma il primo punto determinante è recuperare la fiducia perduta verso la giustizia. Un obiettivo il cui conseguimento è possibile attraverso una inversione di rotta culturale piuttosto che con tentativi di riforme che in larga misura hanno contribuito a rendere ancora più illeggibili le regole del vivere in comune. L’ultima in ordine in tempo, il decreto sulle intercettazioni approvato in via definitiva dal Consiglio dei Ministri nella seduta del 29 dicembre scorso, ha il merito di non essere piaciuta a nessuno tra gli operatori del diritto. Ancora una volta la fragilità intrinseca del legislatore ha prodotto un provvedimento confuso che verosimilmente non consentirà il raggiungimento del pur condivisibile fine prefisso, ovvero quello “di escludere in tempi certi e prossimi alla conclusione delle indagini, ogni riferimento a persone solo occasionalmente coinvolte dall’attività di ascolto e di espungere il materiale documentale, ivi compreso quello registrato, non rilevante ai fini di giustizia”. L’insostenibile accentuazione del tecnicismo dei processi, la cui semplificazione non è ulteriormente differibile, fa sì che l’attività decisionale sia protesa al rispetto di formalismi procedurali, peraltro facilmente mutevoli, piuttosto che alla verità dei fatti il cui accertamento, in qualsiasi settore del diritto, non può essere contratto. È difficile per il cittadino comune, ma in realtà lo è anche per gli stessi professionisti del diritto, comprendere che la propria istanza di giustizia sia stata respinta non per il merito delle proprie pretese ragioni, bensì solo perché un documento, anche se non disconosciuto, sia stato prodotto senza attestazione di conformità. Nondimeno i fatti, quelli che emergono dal processo penale, come ad esempio una testimonianza, possono e devono essere valutati nell’alveo del “libero convincimento” del giudice su presupposti induttivi più che tecnico-giuridici: sulla esperienza, la maturità e quindi non soltanto sulla conoscenza delle regole di diritto. D’altra parte per scongiurare una valutazione arbitraria oppure soggettiva, anche nel nostro ordinamento le controversie più rilevanti vengono decise da giurati popolari, ai quali non è richiesta nessuna conoscenza delle leggi quanto piuttosto l’irreprensibilità morale e buona cultura generale. Le future riforme, quelle vere che si auspica possano effettivamente intervenire, certo devono elidere il deficit dell’organico degli uffici giudiziari, ma ancora più utile è l’implementazione del sistema sotto il profilo della formazione dei giudici che non può più essere contenuta nello studio delle sole materie tecniche dovendo essere estesa anche a quelle umanistiche, psicologiche, informatiche, antropologiche che possano consentirgli di valutare al meglio i fatti e, perché no, anche gli apprezzamenti dei consulenti tecnici che, in assenza di conoscenza delle materie da parte dei giudicanti, assumono sempre più frequentemente un peso determinante nelle decisioni. *Docente di Diritto all’Università Politecnica delle Marche Il segreto si piega al whistleblowing di Riccardo Borsari Il Sole 24 Ore, 11 gennaio 2018 La nuova legge 179/17 sul cosiddetto whistleblowing, in vigore dal 29 dicembre, pone gli operatori di fronte ai primi quesiti interpretativi. L’articolo 3 introduce un’opportuna disciplina di coordinamento con la materia penale, mettendo al riparo il segnalatore da eventuali responsabilità. Il comma 1 della disposizione prevede, infatti, che nelle segnalazioni o denunce effettuate nelle forme e nei limiti previsti dal provvedimento (e quindi, con riferimento ai testi aggiornati degli articoli 54-bis del Dlgs 165/01 per il settore pubblico e dell’articolo 6 del Dlgs 231/01 per il settore privato), il perseguimento dell’interesse all’integrità delle amministrazioni pubbliche o private, nonché alla prevenzione e alla repressione delle malversazioni, costituisca giusta causa di rivelazione di notizie coperte dall’obbligo del segreto, con riferimento alle fattispecie di reato di cui agli articoli 326 del Codice penale (Rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio), 622 del Codice penale (Rivelazione di segreto professionale) e 623 del Codice penale (Rivelazione di segreti scientifici o industriali), oltreché in relazione all’obbligo di fedeltà del dipendente di cui all’articolo 2105 del Codice civile. Sul concetto di “giusta causa” in ambito penale, la giurisprudenza (su tutte, Corte costituzionale 5/2004) ha osservato come tale clausola svolga la funzione di “valvola di sicurezza” del sistema penalistico, “evitando che la sanzione penale scatti allorché - anche al di fuori della presenza di vere e proprie cause di giustificazione - l’osservanza del precetto appaia concretamente “inesigibile” in ragione, a seconda dei casi, di situazioni ostative a carattere soggettivo od oggettivo, di obblighi di segno contrario, ovvero della necessità di tutelare interessi confliggenti, con rango pari o superiore rispetto a quello protetto dalla norma incriminatrice, in un ragionevole bilanciamento di valori”. Si osserva, dunque, come il Legislatore abbia voluto inserire una norma di bilanciamento per permettere il rispetto del principio di non contraddizione dell’ordinamento. Operando quale “selezionatore” degli interessi meritevoli di tutela, ha infatti ritenuto di privilegiare la necessità di prevenire i comportamenti illeciti e/o irregolari rispetto alle (legittime) aspettative di tutela del segreto d’ufficio, professionale o aziendale. La “giusta causa” prevista dalla disposizione in commento opererà quale norma di liceità affiancata alle cause di giustificazione eventualmente applicabili nelle ipotesi di cui agli articoli 326 e 623 del Codice penale, mentre svolgerà un ruolo definitorio nel tipizzare la portata dell’inciso presente nell’articolo 622 del Codice penale. Va infatti precisato che tra le ipotesi di reato oggetto di interesse da parte della norma, il solo articolo 622 del Codice penale prevede nel proprio corpo un riferimento relativo all’assenza di una giusta causa, mentre gli articoli 326 e 623 del Codice penale vedono la propria operatività limitata dalla sola applicazione delle cause di giustificazione cosiddette ordinarie, quali, ad esempio, l’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere (articolo 51 del Codice penale). La norma di nuovo conio prosegue precisando che tale “clausola di salvezza” delle condotte rivelatorie non si applica se l’obbligo di segreto professionale sia riferibile ad un rapporto di consulenza professionale o di assistenza (comma 2), e che costituisce violazione dell’obbligo di segreto (aziendale, professionale o d’ufficio) la rivelazione effettuata con modalità eccedenti rispetto alle finalità di eliminazione dell’illecito, con particolare riferimento al rispetto del canale di comunicazione a tal fine specificamente predisposto (comma 3), che nel settore privato dovrà essere efficacemente adottato e attuato tramite un adeguato protocollo nel modello organizzativo. La norma stessa, quindi, precisa i limiti e le forme entro cui dovrà muoversi il “rivelatore” per evitare di incorrere in responsabilità. Fermo il riferimento del primo comma al “perseguimento dell’interesse all’integrità delle amministrazioni, pubbliche e private, nonché alla prevenzione e alla repressione delle malversazioni” circa la finalità da perseguire con la segnalazione, pare peraltro ragionevole ritenere che essa dovrà rispettare il canone della veridicità (o, quantomeno, della plausibile verosimiglianza, per non comprimere eccessivamente la libertà valutativa del possibile whistleblower), ed eventualmente coordinarsi con l’elaborazione che dottrina e giurisprudenza hanno svolto sul requisito di “coscienza dell’innocenza” previsto nella fattispecie di calunnia (articolo 368 del Codice penale). L’evasione provoca il reato di fallimento di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 11 gennaio 2018 Corte di cassazione - Sentenza 633/2018. Reato di fallimento determinato da operazioni dolose per il presidente del Cda e il consigliere di amministrazione della società che viene autofinanziata attraverso una sistematica evasione fiscale. La Cassazione, con la sentenza 633 conferma la sentenza della Corte di merito che aveva escluso la bancarotta fraudolenta documentale, confermando la condanna per bancarotta impropria (articolo 223 comma 2 della legge fallimentare) per aver cagionato con dolo il fallimento. Secondo i ricorrenti per far scattare il reato era necessario verificare l’esistenza di un nesso causale tra le condotte contestate e il fallimento, che andava considerato invece come il “naturale” epilogo di una società già in dissesto. Ma dalle sentenze precedenti risulta una realtà diversa da quella descritta dalla difesa. La Srl fallita, era una società molto piccola e priva di debiti che, essendo in liquidazione volontaria, era stata acquisita dai ricorrenti, padre e figlia, e utilizzata per proseguire la loro attività, con un nuovo nome visto che la società di famiglia era in crisi e destinata al fallimento. La nuova compagine era stata dunque “rilevata” in modo strumentale per proseguire, sin dall’inizio e con premeditazione “la strategia di autofinanziamento mediante sistematica omissione di pagamenti di tributi e oneri previdenziali”. Per la Suprema corte non è il caso di discutere di aggravamento di un dissesto o di prosecuzione di attività in una situazione di insolvenza. Nel caso esaminato è stata, infatti, messa in atto la scelta “strategica” di operare sottraendosi agli obblighi di legge, utilizzando un veicolo societario acquisito ad hoc. I giudici della quinta sezione chiariscono che il fallimento come risultato di operazioni dolose è “un’eccezionale ipotesi di fattispecie a sfondo preterintenzionale”. L’accusa può limitarsi a dimostrare la consapevolezza e la volontà della natura dolosa dell’operazione alla quale segue il dissesto, oltre all’astratta prevedibilità dell’evento come effetto delle azioni “antidoverose”. Per la sussistenza dell’elemento soggettivo non serve però la “prova” della rappresentazione e della volontà del fallimento. E per i giudici non c’è dubbio che gli estesi e protratti inadempimenti fiscali e previdenziali, rendessero, almeno in astratto, prevedibile quanto poi avvenuto. Il decreto di espulsione per l’immigrato costringe anche il figlio a lasciare il Paese di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 11 gennaio 2018 Corte di cassazione - Sezione VI civile - Ordinanza 10 gennaio 2018 n. 403. Il decreto di espulsione emesso nei confronti dell’immigrato (a cui sia scaduto e non rinnovato il permesso di soggiorno) non può essere superato dal presunto diritto della figlia a ricevere le cure in Italia. A maggior ragione se sul caso è già intervenuto il tribunale per i minorenni. Nessun ricorso contro il tribunale - La Cassazione, con la sentenza n. 403/2018, ha chiarito che il ricorrente straniero non aveva proposto ricorso contro la sentenza emessa dal tribunale dei minorenni. Provvedimento quest’ultimo che di fatto aveva negato l’autorizzazione ex articolo 31 del Dlgs 286/1998 a permanere nel territorio nazionale per gravi motivi connessi alla salute del figlio minore. Il ricorso proposto in Cassazione di fatto ha riproposto gli stessi motivi sui quali già il tribunale si era pronunciato. E, quindi, i Supremi giudici hanno ritenuto l’appello inammissibile perché riproponeva gli stessi profili di tutela pertinenti alla domanda ex articolo 31 del testo unico in materia di immigrazione (Dlgs 286/1998). Il riferimento al divieto di espulsione dei minori risulta improprio perché al minore è riconosciuto il diritto di seguire il proprio genitore in caso di rientro nel paese di provenienza conseguente l’espulsione. Il testo unico sull’immigrazione - In particolare l’articolo 19 del Dlgs 286/1998 chiarisce che nell’ipotesi di genitori stranieri raggiunti da provvedimento di espulsione il minore ha il diritto di seguire il genitore o l’affidatario espulso, e quindi il genitore, nell’esercizio di quel diritto per conto del figlio, ha il diritto di portarlo con sé nel luogo di destinazione. Parma: il boss Stefano Ganci stroncato da un infarto in carcere, aveva 55 anni di Salvo Palazzolo La Repubblica, 11 gennaio 2018 Un’improvvisa crisi cardiaca è stata fatale per Stefano Ganci, uno dei fedelissimi di Totò Riina, che stava scontando l’ergastolo nel carcere di Parma. La procura ha disposto l’autopsia, per fugare ogni dubbio, anche perché il boss aveva 55 anni ed era uno dei super-killer di Cosa nostra che conservava molti segreti sulla stagione delle stragi mafiose. Era stato condannato a vita per aver partecipato agli eccidi che portarono all’uccisione del consigliere istruttore Rocco Chinnici (1983) e del vicequestore Ninni Cassarà (1985). Ganci era stato anche condannato, a 26 anni, per aver fatto parte del commando che pedinò Paolo Borsellino la mattina della strage del 19 luglio 1992. Stefano Ganci era il figlio di Raffaele, autorevole capo del mandamento della Noce, purei suoi fratelli Mimmo e Calogero erano dei killer, poi però Calogero aveva scelto una strada diversa dopo l’arresto, collaborando con la giustizia. Ed è stato lui a svelare tanti dei segreti di famiglia. “Riina aveva la Noce nel cuore”, si diceva in Cosa nostra. I Ganci, ufficialmente titolari di alcune macellerie, fra via Lancia di Brolo e via Francesco Lo Jacono, custodivano la latitanza del capo dei capi, ed erano anche il suo gruppo operativo, come hanno raccontato i pentiti. “Verso la fine del 1991 - ha rivelato Antonino Galliano, anche lui fidato componente del clan della Noce - Mimmo Ganci mi disse che lui e suo fratello avevano partecipato a un incontro in cui si discusse di un progetto di seccessione della Sicilia, un progetto per destabilizzare lo Stato”. È un altro dei misteri che Stefano Ganci si è portato nella tomba. Il questore di Palermo Renato Cortese ha disposto che dopo il ritorno della salma in Sicilia venga vietato il funerale pubblico del boss. Napoli: il Garante Ciambriello a Nisida “Regione Campania investa di più su formazione” Agenparl, 11 gennaio 2018 Stamani, unitamente al Garante dei detenuti della regione Campania, Samuele Ciambriello, sono stato al penitenziario minorile di Nisida, potendo visitare, grazie al direttore Gianluca Guida, al vicedirettore Ignazio Gasperini ed al comandante, sia la struttura maschile che quella femminile, compresi i laboratori che consentono ai giovani detenuti di svolgere le loro attività. Attualmente, sono presenti nel penitenziario 55 ragazzi e 5 ragazze appartenenti, per quasi l’80%, ad una fascia d’età compresa tra i 18 ed i 25 anni, un dato che non ha avuto difficoltà a sorprendermi, considerando che stiamo parlando di una struttura penitenziaria minorile. Tutto ciò è dovuto al DL 92/2014, che ha prolungato dai 21 ai 25 anni la detenzione in un penitenziario minorile per coloro che hanno commesso un reato prima dei 18 anni. Questo crea non pochi problemi per i reclusi di età compresa tra i 14 ed i 18 anni, e credo perciò che questa norma dovrebbe essere rivista, o che almeno debbano venire organizzati degli spazi separati per agevolare il recupero dei minori, consentendogli un più efficace reinserimento nella società, nonché maggiori possibilità di uscita dalla cultura criminale. La Regione deve investire di più in merito alla creazione di nuovi percorsi formativi per i detenuti del carcere minorile, fornendo così delle opportunità sia all’interno dell’istituto penitenziario che al di fuori da esso, aumentando così le loro possibilità di inserimento nella vita sociale e lavorativa. Durante la visita, i giovani detenuti hanno chiesto, sia a me che al garante Ciambriello, l’organizzazione di un torneo di calcio con persone esterne al penitenziario, ed a tal proposito ci siamo impegnati a chiedere la disponibilità alla squadra di calcio dei giornalisti. Allo stesso modo, mi sono impegnato con il direttore del penitenziario a ritornare a Nisida con l’assessore alla formazione, Chiara Marciano, conoscendo la sua sensibilità sull’argomento. È necessario che la Regione assuma un impegno maggiore nel recupero dei giovani, creando tutte quelle condizioni che consentano a questi ultimi di intraprendere una strada diversa, esattamente come tanti loro coetanei. Così in una nota del consigliere regionale e commissario campano di Idv, Francesco Moxedano. Biella: le nuove divise della Polizia penitenziaria nascono in carcere di Paola Guabello La Stampa, 11 gennaio 2018 La sartoria industriale produrrà 7 mila uniformi per uomo e donna con la consulenza di Zegna. In via dei Tigli, si sta lavorando alacremente perché il progetto diventi una realtà e ormai il traguardo è vicino: i detenuti hanno seguito corsi di sartoria per imparare a realizzare le divise per il corpo della polizia penitenziaria. Non divise qualunque, ma abiti all’altezza della riconosciuta eccellenza tessile biellese. Perché la consulenza e il know how nell’impostazione del progetto sono griffati Ermenegildo Zegna. “A seguito di avvisi pubblici sono stati selezionati un responsabile di stabilimento produttivo e un responsabile tecnico per la confezione dei capi di abbigliamento - spiega la direttrice del carcere Antonella Giordano -. Sono state anche attivate le procedure di gara per le forniture e l’acquisto di macchinari. Infine è stata espletata la gara per la realizzazione del capannone industriale. Entro il mese di febbraio avranno inizio i lavori per la costruzione del reparto produttivo che diventerà operativo a tutti gli effetti entro il 2018”. La sartoria industriale, a regime, occuperà una settantina di persone. Il progetto ha infatti lo scopo di reinserire, attraverso una formazione qualificata, i detenuti nella società. “Il Gruppo Ermenegildo Zegna ha sottoscritto il protocollo d’intesa con il Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria nel dicembre 2016 in cui si impegnava a fornire a titolo completamente gratuito la consulenza necessaria per la realizzazione di uno stabilimento per la esclusiva produzione delle divise del personale dell’amministrazione carceraria - spiegano da Trivero -. A regime è prevista la produzione annuale di circa 7.000 uniformi composte da 2 kit (1 per l’estate e 1 per l’inverno) di 1 giacca e 2 pantaloni per gli uomini, e di una giacca, un pantalone ed una gonna per il personale femminile”. Ma il Gruppo non si è limitato a operare come consulente, mettendo a punto un dettagliato business plan e progettando il layout della fabbrica. In comodato gratuito ha anche fornito i macchinari per la formazione delle persone selezionate e individuato i formatori, mettendo a disposizione il responsabile dell’addestramento per insegnare come si disegnano, tagliano e cuciono giacche, pantaloni e gonne. Il tutto sotto la costante e puntuale supervisione dell’avanzamento del progetto, da parte del responsabile della catena di distribuzione e dei suoi più stretti collaboratori. Tutti i detenuti saranno regolarmente assunti dall’amministrazione carceraria e verrà loro riconosciuto un diploma spendibile quando saranno rilasciati. Padova: colloqui e “regali”, lo scandalo dei boss in carcere di Andrea Priante Corriere del Veneto, 11 gennaio 2018 Arresti in Veneto, le carte dell’inchiesta Il giudice: incontri allarmanti al penitenziario. C’era qualcosa che non funzionava nel sistema detentivo della città del Santo. Anzi, di “allarmante”, come scrive il giudice nelle carte dell’inchiesta “Stige”, l’indagine che ha scoperchiato la rete della ‘Ndrangheta in Veneto e ha portato all’arresto di cinque persone, tra le quali il presidente del Mogliano calcio. A finire nel mirino dei magistrati anche il ruolo dei boss nel carcere di Padova. In particolare i loro colloqui “disinvolti” con gli affiliati e gli “ordini” che impartivano dal carcere. “I colloqui presso il carcere di Padova avvenivano in modo per cosi dire “disinvolto”, si legge nell’ordinanza con la quale il gip di Catanzaro, Giulio De Gregorio, martedì ha disposto l’arresto di 169 persone collegate alla ‘ndrangheta, cinque residenti in Veneto, tra le quali il presidente del Mogliano Calcio, Marco Gaiba. Che qualcosa non funzionasse nel sistema detentivo della città del Santo, lo si era capito già a partire dal 2014, quando al Due Palazzi furono arrestate diverse guardie accusate di aver lasciato entrare droga e telefonini destinati ai detenuti. Ora si scopre che, dall’interno del carcere, i boss erano nelle condizioni di continuare a gestire i traffici illeciti, impartire ordini all’esterno, perfino di incontrare affiliati. A dimostrarlo ci sono ore di intercettazioni e di filmati ripresi dalle telecamere di sorveglianza installate all’interno della struttura. Ad attirare l’interesse della procura calabrese, erano in particolare due detenuti: Giuseppe Farao, il capoclan 71enne dei Farao-Marincola, e Salvatore Giglio, il boss di Strongoli. Il pm di Catanzaro, nella sua richiesta di arresto, spiega che molte intercettazioni sono avvenute nel corso degli incontri tra i due mafiosi e i loro congiunti e sottolinea “l’allarmante coincidenza temporale in cui tali colloqui sono stati registrati, nel senso che, spesse volte, i colloqui sono stati svolti dai capicosca all’interno della medesima sala, in contemporanea con i familiari di entrambi”. In pratica i due boss si accordavano per ricevere le visite alla stessa ora, trasformandole quindi in una sorta di “summit” tra esponenti delle cosche. Una situazione “allarmante in sé - scrive il magistrato - rispetto alle potenzialità nocive dello scambio di informazioni, realmente avvenuto, tra detenuti e familiari”. Addirittura, mogli e figli viaggiavano assieme dalla Calabria e il loro soggiorno padovano veniva curato (e offerto) dagli uomini del clan. Per chiarire la portata del problema, è durante quei colloqui con i parenti - in buona parte avvenuti tra il 2011 e il 2014 - che Salvatore Giglio ha ordinato di “iniziare a inserirsi nel mercato della panificazione a Padova”, sulla falsa riga di quanto già avviene in Calabria. Ed è parlando tra loro, che uno dei due capiclan dice che in Veneto “c’è il ben di dio” e che quindi è in questo territorio che occorre investire il denaro dei traffici illeciti. Gli esponenti delle due famiglie, si ritrovano quindi nel carcere padovano a discutere di affari: dalle riprese video - osserva ancora il pm - si intuisce “come la sala colloqui d Padova sia composta da tavoli e banchi del tutto adiacenti”, consentendo quindi ai familiari del Giglio e a quelli del Farao di sedere gli uni accanto agli altri innescando situazioni paradossali, come quando “Giglio, girandosi di spalle, interviene nel colloquio dei familiari del capocosca cirotano” e subito dopo Farao “gesticolando fa notare che ci sono le microspie”. Ancora più evidente: “Il 31 gennaio 2013, Farao riceveva la moglie e nello stesso tempo, da una postazione vicina, Giglio incontrava i suoi. Farao affrontava, come sempre, temi di interesse della cosca fino a soffermarsi su una questione che vedeva coinvolto Giglio”. E quest’ultimo interveniva lamentando il fatto che affiliati ai Cirò “intendevano ingerirsi nell’estorsione perpetrata dalla ‘ndrina strongolese in danno di una impresa che eseguiva un appalto (…) Farao consegnava allora alla moglie un messaggio da veicolare ai reggenti della cosca: “Tu gli dici: si devono fare gli affari loro”“. Insomma, i colloqui che avvenivano nel carcere di Padova si trasformavano nell’occasione per scambiare consigli, favori, ordini. E l’obiettivo è evidente: il gip sottolinea che “ogni colloquio è permeato dalla rivendicazione, da parte di Farao di continuare a comandare seppure dalla prigione”. Le stranezze non si fermano qui. Ai boss veniva consentito “inspiegabilmente” di incontrare anche persone sotto inchiesta. “Particolare rilevanza - scrive il pm - assume la figura di Barucca (Antonio, che viveva a Vigonza e che per l’accusa sarebbe un uomo di fiducia della cosca nel Padovano, ndr) - perché inspiegabilmente allo stato, diverse sono state le occasioni in cui si è recato a colloquio in carcere da Giglio”. E poi ci sono alcune frasi pronunciate dal boss, dalle quali si intuisce che “il direttore del carcere gli regala un colloquio (oltre a quelli già previsti, ndr) da eseguirsi in palestra, luogo in cui i detenuti giocano a calcio”. Infine, se anche quegli incontri “allargati” non fossero bastati a chiarire i rapporti tra clan, i due boss avevano tutto il tempo di parlarne a quattrocchi: “Si ricordi - annota il pm - che Giuseppe Farao è detenuto presso il carcere di Padova nella stessa cella del Giglio”. Padova: il provveditore delle carceri venete “qui si denuncia, altrove c’è omertà” di Nicola Munaro Il Gazzettino, 11 gennaio 2018 È un problema antico che, quasi fosse un fiume carsico, torna a galla ogni qualvolta le inchieste della magistratura svelano come un carcere sia permeabile: dall’interno quanto dall’esterno. E anche oggi, con la retata nei confronti di 169 boss e affiliati della Ndrangheta a descrivere il passaggio facile e continuo delle informazioni dentro e fuori le celle del penitenziario di via Due Palazzi, la sicurezza dell’istituto di Padova si riprende la scena. “Non è da pensare che quanto succede a Padova non capiti da altre parti - ammette il provveditore alle carceri del Triveneto Enrico Sbriglia. Anzi io rovescerei l’ottica. Se a Padova abbiamo questi scandali è perché c’è chi denuncia e c’è una magistratura che indaga a fondo con l’unico obiettivo di portare la giustizia sopra tutto. Cosa dobbiamo pensare allora? Che dove non esistono scandali c’è il Paradiso terrestre e siano regioni o paesi ameni? No, piuttosto c’è omertà e copertura”. Ben venga, quindi, a sentire il responsabile degli istituti penitenziari di Veneto, Trentino e del Friuli Venezia Giulia, che nelle inchieste si sottolineino simili episodi, colpa di “cittadini che vivono per frodare le istituzioni e uomini delle istituzioni che non rispettano il loro ruolo tradendo la fiducia di tutti e della divisa che indossano”. La mente, senza che Sbriglia lo dica, corre veloce all’inchiesta esplosa nel luglio 2014 quando l’indagine del pm Sergio Dini aveva svelato un giro di compravendite di schede telefoniche e di droga all’interno del quinto piano della Casa di reclusione, trasformato in un bazar da detenuti potenti e guardie carcerarie conniventi. “Quell’indagine è da ringraziare - continua il provveditore, è l’esempio che il sistema funziona e che se si ha coraggio di andare a fondo si può arrivare a risultati. I problemi di Padova - spiega ancora - sono i problemi di sempre: la nostra è una continua lotta contro il male, non possiamo mai deporre l’attenzione e nemmeno possiamo pensare che nel futuro nascano solo persone leali verso tutto e tutti. La sicurezza non è una pianta che esplode ma dev’essere ogni giorno curata”. Al centro della discussione quindi il sistema di reclusione, che il provveditore del Triveneto difende a spada tratta. “Il nostro ordinamento penitenziario è ancora basato su principi che parrebbero antichi ma in realtà sono sempre più attuali e moderni. Per come la vedo io è meglio un sospettato di reato libero che un innocente imprigionato”. Rimane però la troppa facilità con cui i malavitosi fanno filtrare i propri messaggi all’esterno continuando - di fatto - reggere le cosche di cui sono i boss. “Il sistema non sarà mai perfetto ma perfettibile: se dovessimo ragionare in termini opposti, blindando tutto, per qualche tempo ci sentiremmo più sicuri e affrancati ma l’effetto durerebbe poco - conclude Sbriglia. La soluzione è di perseguire ricostruendo la filiera di responsabilità e inganno di quanti, tradendo la fiducia, abbiano consentito di fare strame e dileggio di principi che devono rimanere irrinunciabili. Se scegliessimo una sicurezza che prevede la blindatura a tutti i livelli, sarebbe una sicurezza a caro prezzo”. Roma: il Papa riceve in dono l’olio prodotto dai detenuti del carcere di Andria di Carlo Ottaviano Il Messaggero, 11 gennaio 2018 “Senza sbarre”. È la più recente etichetta - in questo caso di olio extravergine d’oliva - che nasce nelle carceri italiane. Arriva dopo i tanti vini dai nomi evocativi come La fuga, Doppia Mandata, Ora d’Aria che negli ultimi anni sono stati prodotti da cooperative di carcerati. Un ergastolano - Vincenzo Sgarra e il suo compagno di cella Mauro Lamorte - hanno donato a Papa Francesco questa mattina la prima bottiglia prodotta dai detenuti del carcere di Andria, in Puglia. “Per noi - ha detto Sgarra - è un simbolo di riscatto dedicato a tutti coloro che stanno vivendo l’esperienza del carcere”. Come riferisce l’Osservatore Romano di questa sera, “Sgarra stenta quasi a credere di aver davvero consegnato quella bottiglia nelle mani del Papa”. Condannato all’ergastolo, per la prima volta è “libero di muoversi dopo trentacinque anni di detenzione”. Vincenzo ha personalmente regalato a Francesco l’olio della prima annata delle olive raccolte nei terreni della masseria San Vittore, “che noi stessi - ha precisato - abbiamo coltivato nel progetto che mira al nostro reinserimento e anche a un carcere alternativo per chi deve ancora scontare una parte della pena”. Il quotidiano della santa Sede informa che ad accompagnare i detenuti nel loro viaggio a Roma sono stati due parroci letteralmente di frontiera: don Riccardo Agresti e don Vincenzo Giannelli. Sono stati loro a dar vita al progetto “Senza sbarre”, sostenuti dal vescovo Luigi Mansi di Andria e dalla Caritas italiana. “In un territorio complesso come la Puglia, dove non c’è nulla di costruttivo per i nostri fratelli carcerati - spiegano - chiediamo ormai da oltre dieci anni ai magistrati di affidarci i detenuti perché si faccia davvero rieducazione e reinserimento, dando loro anche un’opportunità di lavoro”. E “l’olio - aggiungono i parroci - è un prodotto concreto che testimonia ciò che si può ottenere dando a tutti una vera possibilità di occupazione e riconoscendone la dignità”. Lecce: “Le Spose di BB”, dal carcere la lezione contro la violenza di genere Quotidiano di Puglia, 11 gennaio 2018 Per vedere lo spettacolo finale bisognerà aspettare dopodomani sera. Ma di fatto per l’intera settimana lo spettacolo vero è stato e continua ad essere l’interazione tra la compagnia Io ci provo, nata dall’esperienza di teatro in carcere, e i partecipanti - tutti uomini - al laboratorio teatrale “Le Spose di BB”, in corso alle Officine Ex Fadda di San Vito dei Normanni, l’ex opificio industriale convertito in centro culturale e di interazione sociale del territorio. BB altri non è che Barbablù, archetipo del partner manipolatore e potenzialmente omicida che in questo caso viene messo a tacere facendo in modo che siano le vittime a parlare attraverso il maschile. Il nuovo lavoro della regista Paola Leone e della Compagnia Io ci Provo diventa così una sfida culturale su un tema del contemporaneo come la violenza di genere. Il laboratorio mette a frutto l’attività di formazione e produzione teatrale condotta per 10 anni presso le sezioni maschili degli istituti penitenziari di Taranto e Lecce, una metodologia di intervento diretto sui partecipanti al laboratorio rivolto al ripensamento del sé in relazione alle tematiche trattate. Le Spose di BB è il racconto intimo di una donna, un quadro in movimento che vede protagonisti solo uomini che prestano il corpo e la voce alla vittima e ne raccontano la storia. “La lettura, lo studio dei testi e la loro narrazione attraverso il prestare il proprio corpo scenico e la propria voce - spiega Paola Leone, creano condizioni favorevoli di riflessione e di cambiamento nei partecipanti. Nelle performance risultato di questa ricerca teatrale, lo spostamento tra il corpo e la voce narrante e l’alterità del testo, diventa una narrazione anche solo visiva di grande impatto sul pubblico”. Dopo la prima all’ExFadda il laboratorio teatrale itinerante sarà realizzato sull’intero territorio nazionale in collaborazione con istituzioni, scuole, associazioni e collettivi culturali affrontando con nuovi strumenti e metodi il tema della violenza sulle donne. Performance finale il 13 gennaio alle 20.30. Ingresso libero, informazioni al numero 345/7005858. Milano: l’allenatore dei ragazzi dell’Ipm Massimo Achini “la mia tattica è dare fiducia” di Laura Bellomi Famiglia Cristiana, 11 gennaio 2018 Fatiche e sogni del “mister” della squadra del carcere minorile di Milano: “Credo nello sport, palestra di vita. Tanti ragazzi sono disillusi, il calcio aiuta a rimettersi in gioco”. Alza la voce, incita, chiede di più e, soprattutto, non fa sconti: se c’è contropiede bisogna correre, se scappa il fallo la prima cosa da fare è chiedere scusa. Che i giocatori in campo siano i detenuti del carcere minorile Beccaria di Milano, a lui non importa. O meglio, importa moltissimo visto che, pur allenandoli da pochi mesi per solo due ore alla settimana, li conosce uno a uno, doti calcistiche e umane comprese. Massimo Achini, 50 anni, è un uomo che ama mettersi in gioco e lo fa con grande umiltà. Dopo 8 anni alla direzione del Centro sportivo italiano, dal 2016 è presidente del Csi Milano nonché allenatore della squadra di calcio dell’Istituto penale per minorenni del capoluogo lombardo. Achini, come è iniziata la sua avventura di mister del Beccaria? “Dopo gli anni dell’impegno a Roma avevo deciso di “ricominciare da capo” e tornare sul campo, con le mani e i piedi nelle società sportive. Qualcuno potrebbe leggere questo passaggio come un declassamento, per me invece è stata una scelta di “valore”: stare nelle piccole squadre è una delle esperienze più belle. Ho guidato formazioni che militavano nei tornei Csi come in quelli della Federazione, allenare è la mia passione: per questo ho dato la disponibilità al Progetto carcere”. Basta questa motivazione per entrare in un Istituto penale tutte le settimane? “Effettivamente non è solo una questione di passione... Dal Beccaria mi avevano hanno fatto capire che il mio apporto sarebbe stato importante. Sapevo che non sarebbe stato facile, altri tentativi erano falliti, ma mi sono sentito chiamato, così ho messo assieme passione e competenza e ho raccolto la sfida”. Al Csi lei è approdato 25 anni fa. Ci racconta il suo esordio nel mondo della pastorale dello sport? “Da ragazzo frequentavo la parrocchia di Santa Marcellina e San Giuseppe a Milano. Facevo l’obiettore di coscienza, allenavo e giocavo con la Fom, la Fondazione oratori milanesi. È così che ho iniziato a collaborare con il Csi. Poi a 28 anni sono diventato il presidente della sezione milanese”. Una carriera fulminante... “Credo molto nei valori del Csi e nell’idea che lo sport possa essere uno strumento educativo, una palestra di vita. Vale per i bambini dell’oratorio come per i ragazzi detenuti”. Al Beccaria come sceglie la formazione? “Ho una rosa di 15 giocatori individuati dalla direttrice dell’Istituto fra coloro che, alla presentazione del progetto, si erano detti interessati. Prima di finire in carcere alcuni ragazzi giocavano quasi da professionisti, ma la tecnica non basta, convoco chi si è allenato bene. Devo dire che ho trovato in loro una disponibilità totale: si allenano con cura, ci tengono a essere una squadra. Se uno si comporta male - ad esempio se salta la scuola - riceve un provvedimento disciplinare che gli impedisce di allenarsi. Quando è successo, mi sono arrabbiato. Privare la squadra del proprio apporto è una grave mancanza. Vorrei trasmettere ai ragazzi l’importanza di prendere gli impegni con responsabilità”. Come si svolgono solitamente i vostri allenamenti? “Esattamente come quelli di qualunque altra squadra, con sedute impegnative. La nostra non è un’iniziativa di solidarietà ma una formazione vera. Mi comporto come con giocatori qualsiasi, riconoscendo ai ragazzi quanto di buono stanno facendo. Sostenere il positivo è essenziale: tanti ragazzi arrivano da situazioni familiari e sociali degradate, in cui gli adulti non sono stati in grado di essere riferimento né sostegno. Questi ragazzi, abbandonati a stessi, costruiscono muri e barriere relazionali per difendersi. Sa cosa c’è scritto in una cella? Ho il berretto davanti agli occhi e non me lo levo perché se me lo tolgo rischio di fidarmi di te. Fiducia e austostima, lavoriamo anche su questo”. Lo sport riesce a superare queste distanze? “Sì, a volte basta un pallone per far crollare i muri. Guardarsi negli occhi o dare una pacca sulla spalla sono gesti semplici ma significativi, che in carcere assumono un valore ancora più importante. Quando ci siamo conosciuti abbiamo fatto un patto: siamo qui per allenarci e giocare bene. Come mister punto molto sulla relazione; alcuni si sono aperti e anche gli agenti penitenziari si stupiscono dell’alchimia che si è creata. Il bello dell’allenare è anche questo: si costruiscono relazioni di fiducia in poco tempo”. Che cosa significa, per un minore detenuto, poter far parte della squadra? “È una scommessa, una grande occasione di riscatto”. Che cosa sta imparando da questa esperienza? “Innanzitutto, parafrasando don Claudio Burgio (cappellano del Beccaria e autore del libro Non esistono ragazzi cattivi, edizioni Paoline, ndr), ho capito che non ci sono “persone sbagliate” ma solo giovani provati dalla vita che si riparano sotto una scorza dura. Mi fa sempre piacere notare come siano capaci anche di attenzione reciproca. C’è chi è venuto ad allenarsi anche se non era in forma e chi, in occasione di un allenanemento indisciplinato, ha avuto il coraggio di dire a tutti “il mister viene qui per noi, dobbiamo impegnarci di più”. Infine mi ha colpito l’umiltà: i ragazzi non hanno chiesto nulla, né maglie né scarpe, solo di giocare”. Quali sono le regole del calcio che possono essere utili anche nella vita? “Per i miei giocatori non è facilissimo accettare le regole. Io sto provando a spiegarle, a motivare tutte le scelte. Faccio un esempio: il compito di scegliere chi sarà capitano spetta a me in quanto allenatore. Spiego loro che individuo il giocatore a partire da chi si mette più a servizio della squadra, condividendo la decisione con tutta la formazione. Una piccola abitudine che ci siamo dati è poi la valutazione a fine allenamento: terminata la seduta loro stessi verificano l’andamento della preparazione. La squadra è loro, questa regola aiuta a responsabilizzarsi”. Qual è la raccomandazione che fa più spesso ai suoi giocatori? “Nello sport si dice “vinca il migliore”. Io ai ragazzi dico: migliorate e dimostrate a voi stessi che siete vincenti. Sappiamo bene che nessuno punterebbe su ragazzi che hanno già perso la fiducia della società; invece dalle cadute ci si può sempre rialzare”. E le gioie dell’allenatore? “Dopo aver passato metà della vita a servizio dello sport e dell’educazione, mi sento un privilegiato. Dal campetto dell’oratorio ai contesti particolari come il Beccaria, Haiti o altri Paesi del mondo, dove organizziamo campus estivi con i volontari italiani che vanno a condividere la gioia dello sport con ragazzi meno fortunati, per me la sfida è dare forza alle potenzialità educative dello sport. Come mister sono felice di quella che chiamo la “dinamica del marciapiede”: sa cosa succede quando incontri per strada un trentenne che hai allenato da ragazzino? Attraversa la strada e ti viene incontro per abbracciare il mister. Slanci di questo genere ti fanno capire che il tempo passa ma tu allenatore hai lasciato nel cuore dei ragazzi qualcosa di grande”. Tornando all’ambito agonistico, qual è il vostro obiettivo stagionale? “Partecipare al campionato del Csi al via a marzo. Le partite le giocheremo tutte in casa, ospitando gli avversari al Beccaria. Sarà una bella occasione sportiva e di socialità. Una volta al mese inviteremo poi alcuni campioni dello sport a parlare della loro esperienza. Oggi i ragazzi non conoscono il valore della fatica. Incontrare chi vive valori come dedizione, passione e impegno è un grande assist per fare gol”. Il corto circuito europeo tra politica e diritti umani di Franco Venturini Corriere della Sera, 11 gennaio 2018 L’Ue, o gran parte di essa, ha scoperto di saper dire “no” alla Casa Bianca. Ma difendere i propri interessi significa saper affrontare le situazioni più spinose e rifiutare i compromessi al ribasso. Non è vero che in Iran sia tornata la piena normalità, come assicurano i capi dei Pasdaràn. Le organizzazioni umanitarie segnalano centinaia di arresti basati su sospetti e delazioni, qualche coraggioso scende ancora in piazza, e i conservatori, superato il timore di andarci di mezzo, sono ripartiti all’assalto del governo riformatore di Hassan Rouhani. Fuori dai confini della Repubblica islamica, poi, la questione iraniana è al centro dell’attenzione in Europa come a Washington. La Ue è sul banco degli imputati come troppo spesso le accade, perché ha reagito tardi e con misura alla repressione poliziesca che ha schiacciato le proteste facendo almeno 23 morti. Sarebbe andata molto peggio, risponde Bruxelles, se nelle ore più gravi l’Europa non avesse discretamente raccomandato moderazione alle autorità di Teheran. Può darsi, ma la tesi difensiva non coglie il punto centrale dell’accusa. L’Europa è lenta quando serve essere tempestivi, vuole avere il consenso di ventotto diverse capitali prima di esprimersi, e i governi nazionali restano spesso alla finestra in attesa che Bruxelles dica la sua. L’intreccio tra burocrazia ed eccessiva prudenza finisce così per diffondere sulla scena internazionale un messaggio di indecisione, di debolezza, persino di pavidità. Errore grave, che nel caso della repressione iraniana è diventato strategico. Perché se vuole essere credibile e rispettata nella sua politica di forte sostegno all’accordo nucleare con Teheran (che Trump vuole invece affondare), l’Europa deve dimostrare che altrettanta energia viene dedicata alla difesa dei propri valori. A ciò serviva l’immediata, pubblica e dura scomunica dell’uso della forza contro i dimostranti. Il troppo silenzio (anche da parte dei singoli governi europei) ha invece offerto il fianco alle critiche di Washington, e questo proprio nel momento in cui Donald Trump deve decidere se reintrodurre o meno le sanzioni economiche contro Teheran. L’Europa distratta rischia di essersi sparata sui piedi, dopo aver lungamente tentato di convincere Trump a non decretare nuove misure punitive che di fatto silurerebbero l’accordo nucleare e potrebbero spingere l’Iran a riprendere i suoi programmi atomici. Questa volta di nascosto da tutti. Il cortocircuito tra politica e diritti umani non è peraltro una novità, per l’Europa e per l’intero Occidente. Si pensi ai rapporti con la Cina, preziosi per tutti, addirittura necessari per la crescita globale, ma oscurati da ben note violazioni dei diritti civili da parte delle autorità di Pechino. Quando la posta è troppo alta il pragmatismo politico impone il silenzio, o almeno una impenetrabile discrezione, e così le polemiche con Xi Jinping, semmai, riguardano i commerci, la gestione monetaria o la Corea del Nord. La denuncia non è obbligatoria, e si può anche sceglierla seguendo le proprie convenienze: il Trump che si è indignato per gli iraniani repressi e uccisi ha forse detto una sola parola contro le stragi di civili compiute dai suoi clienti sauditi nello Yemen (senza dimenticare che le bombe, secondo il New York Times, venivano anche dalla Sardegna) ? Sul fronte europeo si è visto un lungo tira e molla con la Turchia, Paese alleato nel quale si viene facilmente arrestati per le proprie opinioni. La verità la conosciamo tutti: la prudenza è necessaria perché la Turchia, in cambio di molti soldi, fa da argine ai migranti siriani che vorrebbero andare in Germania. E ben venga la franchezza di Emmanuel Macron, che ricevendo Erdogan a Parigi nei giorni scorsi ha finalmente rifiutato l’ipocrisia regnante comunicando all’uomo forte di Ankara che non esistono le condizioni per un ingresso turco nella Ue. In Libia, invece, non si è ancora parlato chiaro. Lo scandaloso contrabbando umano che quando va bene scarica moltitudini di diseredati sulle coste italiane è diminuito di un terzo nel 2017, un dato positivo soprattutto in tempi di campagna elettorale. Ed è anche vero che il clamore sollevato dalla Cnn con un servizio sull’atroce trattamento inflitto ai migranti dalle milizie libiche (quelle presunte amiche, in Tripolitania) si riferiva in realtà a circostanze da tempo note, anche all’Onu. Ma questo non assolve l’Italia, l’Europa, l’intera comunità internazionale. Mentre fatica a prendere forma una diversa politica europea sui rifugiati e si predispongono investimenti in Africa che richiederanno molto tempo per funzionare, resta inevasa la necessità di riportare la Libia e i suoi molteplici centri di potere tra i Paesi civili che non riducono gli uomini in schiavitù e non ne fanno commercio. Ora le Ong italiane potranno ispezionare i centri di detenzione “ufficiali”, ma non è lì che vengono commessi autentici crimini contro l’umanità. Il passo più costruttivo, in attesa di vedere se nel 2018 si potrà votare e con quali risultati, è stato compiuto dal governo Gentiloni quando ha deciso di trasferire cinquecento militari dall’Iraq al Niger. Per dissuadere i migranti dall’attraversare il Sahel e dall’entrare in Libia rincorrendo il miraggio Italia, e per diminuire la pressione nel tuttora minaccioso “serbatoio umano” che ci guarda e ci desidera dall’altra parte del Mediterraneo. Eppure una buona fetta della politica italiana, nella foga preelettorale, non ha capito che andare in Niger era un cruciale interesse nazionale dell’Italia. La politica estera europea, come abbiamo già rilevato su queste colonne, sta crescendo anche grazie alla Brexit e a Trump. Ora si può costruire la difesa comune. E la Ue, o gran parte di essa, ha scoperto di saper dire “no” alla Casa Bianca su molte cose, dall’ambiente a Gerusalemme, passando appunto per l’Iran. Ma difendere i propri interessi significa saper affrontare le situazioni più spinose, Libia in testa. E significa rifiutare i compromessi al ribasso nella difesa dei diritti civili. Altrimenti una stagione internazionale difficile ma piena di occasioni passerà senza lasciare traccia. L’intelligence italiana recluta hacker tra diplomati e laureati di Arturo Di Corinto La Repubblica, 11 gennaio 2018 Difenderanno le infrastrutture da attacchi in rete. Internet of things, cloud storage, auto connesse e intelligenze artificiali ci renderanno la vita più semplice, ma porteranno anche nuove minacce: l’Italia si prepara a fronteggiare i richi di un cyberspace sempre più affollato. L’era delle barbe finte e degli occhiali scuri è finita da tempo. Da quando i criminali informatici non vestono più i panni dell’hacker solitario con felpa e cappuccio, i nuovi James Bond vanno cercati tra giovani nerd con la faccia pulita del tuo compagno di banco. Dopo i casi Meltdown e Spectre, dopo i numerosi furti di dati bancari come quello di Equifax, il blocco di Internet causato dalla botnet Mirai, l’epidemia di Wannacry, è infatti diventato impossibile dormire sonni tranquilli per aziende e istituzioni di fronte ai rischi generati dal cyberspazio. Per questo l’intelligence italiana è alla ricerca di diplomati e laureati nelle professioni ICT. L’obiettivo è di reclutarli nella difesa degli asset strategici nazionali e delle infrastrutture critiche che permettono alla società di funzionare: strade, dighe, ospedali, aereoporti. Da oggi il bando per il reclutamento dei giovani talenti informatici campeggia sul sito del DIS, il Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza della Presidenza del Consiglio e mira a selezionare quelli in possesso di competenze ed esperienze nei settori della ricerca, monitoraggio, analisi e contrasto della minaccia cibernetica. Il comunicato ufficiale precisa che “particolarmente apprezzate, sono le capacità di analisi nel settore cyber con riferimento ai contesti geopolitici, ma anche conoscenze degli strumenti e delle tecniche relative al data mining, all’analisi del web, dei social media e competenze nell’analisi strutturata di ingenti quantità di dati su database complessi”. I curricula, inviati attraverso lo stesso sito, “saranno sottoposti a procedure selettive, per verificare i profili di professionalità, affidabilità e sicurezza dei candidati”. Superate le selezioni, i migliori, si stima un centinaio, saranno progressivamente destinati alle varie branche dei servizi segreti per l’impiego in attività di protezione cibernetica e sicurezza informatica e potranno essere impiegati nelle struttura di supporto all’architettura nazionale cyber prevista dal decreto Gentiloni del 17 febbraio 2017, anche per il Computer Emergency Response Team (Cert). È il secondo annuncio di questo tipo nell’arco di poco più di un anno ed in contemporanea con la campagna di comunicazione “Be aware, be digital”, che lo stesso DIS ha lanciato per aumentare la consapevolezza di giovani e meno giovani ai rischi connessi a un uso improprio di app e siti, ma anche per invitare le aziende a meglio difendere i propri asset strategici. Perché, si sa, l’anello debole della difesa cyber è il fattore umano. Preparare una nuova leva di difensori digitali e rendere sempre più costoso per i criminali attaccare beni e servizi digitali è da sempre il pallino di Roberto Baldoni, direttore del Laboratorio Nazionale di Cybersecurity da poco chiamato ad assistere il prefetto Alessandro Pansa nella guida del DIS con la qualifica di vicedirettore generale e il compito di occuparsi proprio di cybersecurity. Una strada obbligata, visto lo skill shortage nazionale che rischia di penalizzare il nostro paese rispetto a chi questa strada la percorre da tempo, soprattutto perché il livello delle minacce è in continuo aumento. Tanto per averne una misura, il numero di nuovi file dannosi identificati da Kaspersky Lab ha raggiunto 360 mila casi al giorno nel 2017, ovvero l’11,5% in più rispetto all’anno precedente con una preponderanza di ransomware che adesso vengono utilizzati per creare criptovalute. Come dice Morten Lehn di Kaspersky Italia: “L’aumento esponenziale degli attacchi ransomware negli ultimi due anni è destinato a continuare, in quanto esiste un enorme sistema criminale dietro questo tipo di minaccia, che produce centinaia di nuovi campioni ogni giorno. Quest’anno abbiamo visto anche un picco nei miners - una categoria di malware, che a fronte del continuo aumento delle criptovalute, i criminali informatici hanno iniziato a utilizzare attivamente”. L’allarme del manager di Kaspersky fa il paio con le previsioni di Akamai, secondo cui l’evoluzione dell’Internet of Things - 50 miliardi dispositivi connessi entro il 2020 - sta dando vita a un’armata di bot dormienti che nel 2018 potrebbero venire sfruttati dai cyber criminali con effetti devastanti. Una situazione che, secondo Alessandro Livrea, Country Manager di Akamai Italia, è determinata proprio “Dall’inarrestabile evoluzione delle intelligenze artificiali e del machine learning che porterà con sé esperienze sempre più coinvolgenti e personalizzate per gli utenti, ma anche nuove minacce informatiche”. Migranti. “Noi in Libia ci andiamo”. Ecco per fare cosa di Daniele Biella Vita, 11 gennaio 2018 Parlano i rappresentanti delle sei organizzazioni non governative che si sono aggiudicate il bando dell’Agenzia per la cooperazione allo sviluppo con progetti che avranno inizio a metà gennaio e dureranno quattro mesi in tre centri di detenzione per migranti. Nel frattempo in mare l’ultima strage conta almeno cento dispersi Nel mar Mediterraneo si continua a morire: almeno cento le persone disperse nella giornata di martedì 9 gennaio 2018 (16 i superstiti recuperati dalle autorità libiche) in seguito a due naufragi avvenuti in acque internazionali, dopo i 64 tra morti e dispersi della tragedia avvenuta il giorno dell’Epifania. Tutti partiti dalla Libia, luogo in cui persone migranti di decine di provenienze diverse, in gran parte Africa Subsahariana, sono “intrappolate” in carceri ufficiali o illegali. Proprio nel delicato contesto libico, il governo italiano tramite Aics, Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (ente del Mae, Ministero affari esteri) ha fatto nell’autunno 2017 una richiesta al mondo delle ong italiane: chi vuole operare in tre centri (di detenzione) per migranti gestiti dalle autorità libiche? Si tratta di tre centri regolari - Tarek al Matar, Tarek al Sika e Tajoura - ritenuti i meno peggio e in grado di ospitare in tutto qualche decina di migliaia di persone a fronte degli 800mila stimati (dati Unhcr, Alto commissariato Onu per i rifugiati) nelle strutture irregolari in mano alle milizie. Stiamo parlando di un’azione da quasi 2milioni di euro che nel contesto appena descritto ha tracciato una riga netta: “andare o non andare?”, si sono chieste le 25 ong italiane partecipanti ai tavoli di preparazione a Roma e Tunisi. Alla fine, sette hanno aderito al bando, e sei l’hanno vinto (escluso il progetto del Gus): sono Cefa, Cir e Fondazione Albero della vita che si sono riunite in una Ats (finanziata con 666mila euro, in gran parte a Cir), Ccs e l’ong svizzera Fsd (662mila, soprattutto a Ccs), Emergenza sorrisi (329mila) e Cesvi (296mila). Da metà gennaio, una volta risolti i problemi burocratico-bancari, si parte per quattro mesi di attività. Per fare cosa? “Con Cir e l’ong libica Iocs che si occupano della distribuzione di coperte, cibo e medicinali e Albero della vita focalizzata su donne e minori, coordineremo in modo congiunto delle formazioni a medici libici che poi entreranno nei centri e di tutela dei diritti umani ai 70 funzionari del centro di Tarek Al Matar”, spiega Andrea Tolomelli, responsabile area Med per l’ong Cefa. “ Nel centro sono presenti 2900 persone in condizioni critiche con assistenza medica quasi nulla e un piatto di riso al giorno, sottoposti a duri trattamenti che speriamo cambino con il nostro intervento”. Cefa opera in Libia dal 2017 anche con un altro bando governativo, mentre Cir fin dal 2011 sia dentro che fuori alcuni centri. “Vogliamo migliorare le condizioni dei migranti ma anche avvicinare la società civile libica al tema, perché finora non ne è coinvolta, anche per le dure condizioni in cui si trova”. A Sebha, per esempio, le poche strutture sanitarie erano escluse ai migranti. “Fuori da Tarek Al Matar prevediamo un presidio dedicato sia ai migranti che ai cittadini, con medici che vadano all’interno almeno ogni 10 giorni”. Si parte da zero, e ogni passo è lento “ma necessario, in un luogo in cui bisogna innanzitutto sradicare la violenza e trovare il modo per chiuderlo garantendo valide alternative ai presenti, con l’aiuto di Unhcr e Oim, quindi dell’Onu”. Cefa sfrutterà le competenze acquisite nei dieci anni di presenza nelle carceri del Kenya, affiancata da azioni di child protection di Fondazione Albero della vita: “l’obiettivo è creare spazi sicuri per donne e bimbi, con un pronto soccorso psicologico, dopo avere formato personale di ong locali e guardie del centro”, spiega Ivano Abbruzzi, presidente della Fondazione. La formazione “avviene a Tunisi, in collaborazione con il Rires, unità di ricerca sulla resilienza dell’Università Cattolica di Milano”. Per tutti i progetti del bando i corsi saranno nella capitale tunisina “per problemi di sicurezza in Libia”. A differenza del primo intervento, gli altri riguardano tutti e tre i centri coinvolti: oltre a Tarek al Matar, anche Tarek al Sika e Tajoura. L’ong Ccs, già operativa in collaborazione con Aics da ottobre 2017 nel sud libico (regione di Fazar) con l’attivazione di centri di salute, interverrà con operatori locali nei tre centri nel ristrutturare bagni e condutture per l’evacuazione delle acque nere e nel distribuire kit igienici per donne, vestiti adeguati alle temperature del periodo invernale e generi di prima necessità non alimentari. Con Ccs collabora l’ente svizzero Fsd, che inserirà microchip nei beni poi distribuiti per una tracciabilità sia via terra che satellitare. Emergenza sorrisi si occuperà invece di salute: “il nostro target è sanitario, a stretto contatto con 15 medici libici che formeremo e andranno a operare dentro e fuori i campi”, spiega il presidente Fabio Abenavoli. “A loro forniremo poi tablet e una piattaforma online per un continuo scambio di informazioni”. L’ong punta anche a un altro traguardo: “collocare strutture mediche mobili nei tre centri per visite e assistenza diretta per tutelare al massimo chi è dentro”. Un concetto, quello della tutela, ribadito anche da Daniela Bernacchi, direttore generale di Cesvi, che mette nero su bianco la decisione di operare in questo contesto a dir poco drammatico: “Non scendiamo a compromessi, se vediamo che non riusciamo a incidere non proseguiremo oltre”. Cesvi sarà supporto psicologico e di recupero dai traumi, nello specifico con sei operatori psicosociali, sei addetti allo screening medico, uno psicologo e un coordinatore. Persone locali, come lo sono gli altri cooperanti di Cesvi, presente in Libia dal 2011: “da allora siamo a Bengasi, Sirte e Tripoli con progetti per trovare case protette e di cash for work per migranti. Stanno funzionando, per questo riteniamo coerente esserci anche in questa nuova azione. Ma siamo operatori umanitari, e denunceremo ai nostri donor ogni eventuale violazione”. Egitto. Caso Regeni, i silenzi della prof: sequestrati i suoi pc a Cambridge di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 11 gennaio 2018 La perquisizione a casa e nello studio è scattata dopo l’audizione della docente. Sono quasi due anni che la Procura di Roma, in collaborazione con gli inquirenti al Cairo, cerca di trovare i colpevoli dell’omicidio del ricercatore. Alla fine, dopo un tira e molla durato un anno e mezzo, la professoressa Maha Mahfouz Abdel Rahman ha accettato di sedersi davanti al pubblico ministero Sergio Colaiocco, che indaga sul sequestro e l’omicidio di Giulio Regeni. E di rispondere a tutte le domande. È accaduto l’altra sera a Cambridge, dove la docente ha conosciuto Giulio diventandone tutor nelle sue ricerche in Egitto e continua a svolgere la propria attività accademica. Erano presenti il suo avvocato - garanzia prevista dalla procedura britannica, nonostante la docente sia solo una testimone - e il giudice inglese che ha dato esecuzione all’ordine investigativo internazionale chiesto e ottenuto dalla Procura di Roma. Ma dopo le generiche conferme di altrettanto generiche affermazioni rese in passato direttamente o per posta elettronica, di fronte a specifiche domande che avevano il tono di precise contestazioni la professoressa ha cominciato a snocciolare molti “non so” e “non ricordo”. Compresa la circostanza del regalo del libro Gomorra da parte di Giulio. Le reticenze - Troppe amnesie, secondo il pm romano, a conferma delle precedenti “reticenze”. Così ieri mattina Colaiocco s’è ripresentato, insieme a un carabiniere del Ros e a un poliziotto del Servizio centrale operativo, con un decreto di perquisizione già controfirmato dai colleghi britannici; era l’autorizzazione a setacciare la casa e l’ufficio della Abdel Rahman, alla ricerca di “cose pertinenti al reato necessarie per l’accertamento dei fatti, ossia computer, telefono cellulare o pen drive che dovessero essere nella sua disponibilità”. La sorpresa della professoressa - La sorpresa e il turbamento mostrati dalla professoressa non hanno fermato l’operazione, eseguita nel tentativo di “sanare le contraddizioni” rilevate dagli inquirenti tra le reiterate dichiarazioni e alcuni indizi emersi dal computer di Regeni. In particolare: una conversazione via skype tra Giulio e la madre del 26 ottobre 2015; una chat tra il ricercatore friulano e un suo collega del 15 luglio precedente; e una e-mail inviata da Giulio il 7 gennaio 2016. Data cruciale: il giorno prima c’era stato l’incontro tra Regeni e il sindacalista degli ambulanti Mohammed Abdallah (che registrò il colloquio su richiesta dei poliziotti egiziani, ai quali subito dopo consegnò l’intercettazione), e proprio il 7 l’appuntamento tra Giulio e la professoressa. Secondo gli inquirenti italiani, “vi è fondato motivo di ritenere” che nella riunione del 7 gennaio “Regeni abbia consegnato alla sua tutor i dieci report relativi alla “ricerca partecipata”, effettuata al Cairo tra l’ottobre e il dicembre 2015”. Ma la docente nega. Le risposte - Diciotto giorni dopo, il 25 gennaio 2016, Giulio che era seguito dagli uomini della National security egiziana è stato rapito, per essere abbandonato cadavere, sul ciglio di una strada, il 2 febbraio. Perché? Le risposte vanno cercate al Cairo, ma i rapporti tra il ricercatore e la sua tutor, l’individuazione dell’oggetto della ricerca e della supervisor in Egitto restano passaggi intermedi che possono trovare spiegazioni a Cambridge. La denuncia di Abdallah, ad esempio, avvenne dopo il contrasto creatosi fra i due sul finanziamento da 10.000 euro che la fondazione britannica Antipode poteva far avere al sindacato degli ambulanti, e sempre dal computer di Regeni sarebbe saltata fuori una traccia secondo cui l’idea di quel finanziamento sarebbe stata proprio della professoressa Abdel Rahman. Le contraddizioni - Pure su questo punto la docente avrebbe detto di non ricordare: un’altra dichiarazione che non è servita a “sanare le contraddizioni” rilevate dagli investigatori italiani in quasi due anni di lavoro, e per questo è scattata la perquisizione. Una nota diffusa dall’ufficio guidato dal procuratore Giuseppe Pignatone spiega che i supporti informatici e i documenti acquisito ieri “saranno utili a fare definitiva chiarezza, in modo inequivoco e oggettivo, sul ruolo della professoressa nei fatti d’indagine”. Tra il materiale da analizzare ci sono anche le risposte ai questionari distribuiti a 66 tra studenti e ricercatori di Cambridge che hanno lavorato in Egitto tra il 2010 e il 2015, ottenute grazie alla collaborazione fornita dall’università. Iran. Pena di morte, 5.000 detenuti per droga potrebbero scamparla Ansa, 11 gennaio 2018 Lo scorso agosto, il parlamento iraniano ha alzato la soglia sulla quantità di droga il cui possesso è considerato un reato capitale. Migliaia di iraniani condannati a morte per reati di droga potrebbero essere risparmiati a seguito di un ammorbidimento della legge. Lo riferisce la Bbc. Il capo della magistratura, ayatollah Sadegh Larijani, ha dichiarato ai media locali che tutti i casi di detenuti nel braccio della morte potranno essere esaminati e la maggior parte delle condanne saranno ridotte a pene detentive prolungate. E visto che il provvedimento sarà applicato in modo retroattivo, circa 5000 prigionieri potrebbero sfuggire all’esecuzione. Lo scorso agosto, il parlamento iraniano ha alzato la soglia sulla quantità di droga il cui possesso è considerato un reato capitale: due chili per la cocaina, 50 per oppio e marijuana. Le organizzazioni in difesa dei diritti umani, tra cui Amnesty International, hanno accolto con favore l’apertura delle autorità iraniane, auspicando ora che aboliscano la pena di morte per tutti i reati legati alla droga. Ogni anno, in Iran, vengono eseguite centinaia di esecuzioni, soprattutto per droga. Iran. Almeno 5 manifestanti sarebbero morti in carcere: Amnesty sollecita indagini La Repubblica, 11 gennaio 2018 È stata chiesta l’adozione di tutte le misure necessarie per proteggere i detenuti dalla tortura ed evitare ulteriori morti. “L’estrema segretezza e la mancanza di trasparenza su cosa sia accaduto a questi detenuti è preoccupante”, si legge in una nota diffusa da Amnesty. L’organizzazione umanitaria per la difesa dei diritti umani, Amnesty International ha sollecitato le autorità iraniane ad avviare immediate indagini sulle notizie secondo cui almeno cinque manifestanti sarebbero morti in carcere dopo l’arresto. È stata chiesta l’adozione di tutte le misure necessarie per proteggere i detenuti dalla tortura ed evitare ulteriori morti. “L’estrema segretezza e la mancanza di trasparenza su cosa sia accaduto a questi detenuti è preoccupante. Invece di affrettarsi a dichiarare che si è trattato di suicidi, le autorità iraniane dovrebbero lanciare immediatamente un’indagine indipendente, imparziale e trasparente ed eseguire autopsie indipendenti sui corpi”, ha dichiarato Magdalena Mughrabi, vicedirettrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord. “Da tempo denunciamo le condizioni da incubo delle strutture detentive in Iran e l’uso della tortura”, ha aggiunto Mughrabi. Una delle vittime aveva 23 anni. Sina Ghanbari, 23 anni, è morto nella sezione di quarantena della prigione di Evin, nella capitale Teheran, dove i detenuti vengono portati immediatamente dopo l’arresto. Gli attivisti per i diritti umani contestano la versione ufficiale secondo cui Ghanbari si sarebbe suicidato. Secondo la nota avvocata per i diritti umani Nasrin Sotoudeh, a Evin sono morti altri due detenuti la cui identità non è attualmente nota. Altre due persone arrestate durante le proteste, Vahid Heydari e Mohsen Adeli, sono morte rispettivamente ad Arak (nella provincia di Markazi) e Dezfoul (nella provincia del Khuzestan). Anche in questo caso gli attivisti e i familiari non credono alla versione ufficiale che parla di suicidio. Le denunce dei parenti. Molti parenti delle centinaia di persone arrestate negli ultimi giorni hanno denunciato di non essere stati in grado di ottenere informazioni sui loro cari e di aver subito intimidazioni e minacce da parte delle autorità per il solo fatto di aver chiesto notizie. “Le autorità non solo devono fornire informazioni sui detenuti ai parenti di questi ultimi, ma devono anche consentire che questi possano incontrare le loro famiglie ed essere rappresentati da un avvocato. Nessuno dovrebbe subire rappresaglie per aver chiesto notizie su un familiare o aver cercato di sapere la verità sulla sua sorte”, ha concluso Mughrabi. Stati Uniti. I dreamers esultano: un giudice blocca la diaspora di Trump di Valerio Sofia Il Dubbio, 11 gennaio 2018 I figli degli immigrati nati negli usa potranno restare. Non c’è pace sul tema dell’immigrazione negli Stati Uniti. Dopo che era stato annunciato un possibile accordo bibartisan in materia, un giudice degli Stati Uniti ha bloccato la decisione dell’amministrazione di Donald Trump di porre fine al programma che tutela dalla deportazione i “Dreamers”, le circa 800mila persone arrivate negli Stati Uniti da bambini come figli di immigrati privi dei documenti necessari. Il magistrato, William Alsup, della città californiana di San Francisco, ha accolto la richiesta di fermare l’ordine di Trump sulla fine del Deferred Action for Childhood Arrivals (Daca, l’ordine esecutivo emesso da Obama nel 2012 che concede temporaneamente il lavoro e i privilegi di residenzaa i dreamers) almeno fino a quando le numerose cause avviate non saranno risolte. Il programma, vo- luto dall’ex presidente Obama che ha permesso a 690mila giovani immigrati in situazione illegale di lavorare e studiare legalmente negli Stati Uniti, rischia di chiudersi il 5 marzo. La Casa Bianca ha subito definito “oltraggiosa” la decisione della magistratura. “È chiaro che il nostro sistema giudiziario è ingiusto e non equanime se, tutte le volte che si vuole fare opposizione ad un provvedimento, ci si rivolge alla corte del nono circuito distrettuale” di San Francisco, tuona il presidente Trump su twitter, “e allora si vince sempre, prima che la sentenza non sia rovesciata da istanze superiori”. Il 5 settembre Trump aveva annunciato la cessazione del Daca, ma la decisione è stata posticipata di sei mesi per consentire alle autorità statunitensi di chiudere le domande e i rinnovi in sospeso, oltre a dare al Congresso degli Stati Uniti l’opportunità di approvare una legge per sostituirlo. A partire da marzo, le persone protette da Daca non avrebbero potuto rinnovare i permessi. L’ingiunzione del giudice ha stabilito invece che chiunque avesse lo status di Daca a settembre potrebbe rinnovarlo mentre la causa è ancora pendente. Il giudice ha ritenuto che l’opinione del ministero della Giustizia - secondo il quale il programma Daca è illegale - si basa “su un fondamento giuridico difettoso”. E pensare che proprio martedì notte Trump aveva annunciato trionfante che sul pacchetto immigrazione era stato raggiunto un accordo bipartisan al Congresso. Un accordo che include quattro priorità: sicurezza delle frontiere (compreso il muro di confine), ricongiungimenti familiari, il programma di lotteria per il visto, e appunto il Deferred Action on Childhood Arrivals (Daca) per i Dreamers. Il Congresso dovrà lavorare ora ad una legislazione che affronti questi nodi critici sulla base di linee guida che non sono ancora state divulgate. Ciascuno dovrà dare e ricevere qualcosa. Lo stesso Trump si è mostrato disponibile a trovare un accordo che potrebbe garantire a milioni di immigrati irregolari un percorso verso la cittadinanza. Ma in cambio chiede il finanziamento della costruzione del muro al confine con il Messico e limiti ai ricongiungimenti familiari anche per il futuro. Muro e dreamers sono anche un tema centrale della legge di bilancio. Per il muro servono 18 miliardi di dollari per i prossimi dieci anni. E anche per i temi sociali, come appunto i dreamers, il rifinanziamento del programma sanitario per i bambini di famiglie in difficoltà economiche e gli aiuti per le aree colpite da disastri naturali servono almeno 80 miliardi di dollari. Stati Uniti. Guantánamo, il buco nero dei diritti umani di Riccardo Noury Corriere della Sera, 11 gennaio 2018 L’11 gennaio 2002 venne trasferito il primo detenuto nel centro di detenzione di Guantánamo Bay. Ne seguirono, fino al 14 marzo 2008, altri 779. Sotto la presidenza di Bush, convinto assertore dell’abbattimento del sistema internazionale dei diritti umani e orgoglioso reo confesso di aver approvato metodi di tortura, furono scarcerati oltre 500 detenuti. Durante quella di Obama, che si era impegnato a chiudere il centro di detenzione entro un anno dalla sua prima elezione, ossia entro il 2010, ne sono usciti altri 197. L’ultimo rilascio risale al 19 gennaio 2017. Dopo, con Trump alla presidenza, si è bloccato tutto. Dei 41 detenuti che ancora si trovano lì (tutti da oltre 10 anni), 23 sono considerati talmente pericolosi da meritare la detenzione a tempo indeterminato anche senza processo. Per altri cinque è stato disposto il rilascio da anni ma non si sa dove mandarli, posto che è stato escluso che siano rilasciati in territorio statunitense. Le commissioni militari incaricate di processare i sospetti terroristi detenuti a Guantánamo hanno prodotto la miseria di otto condanne, tre delle quali vengono attualmente scontate all’interno del centro di detenzione. Altri 10 sono sotto processo. Oltre a non aver dato alcuna risposta alla legittima richiesta di giustizia da parte dei sopravvissuti e dei familiari delle vittime degli attentati dell’11 settembre 2001 (si pensi che, a fronte delle otto condanne emesse dalle commissioni militari, i tribunali federali ordinari hanno nel frattempo ne hanno emesse per terrorismo oltre 620), Guantánamo è stato un disastro economico: ogni anno il suo funzionamento è costato circa 445 milioni di dollari. Ma soprattutto, ed è questo il lascito amaro delle presidenze Bush, Obama e Trump, Guantánamo è stato ed è tuttora il simbolo dell’illusoria equazione “meno diritti umani, più sicurezza”. A Guantánamo, soprattutto nei primi anni, è stata portata a compimento una strategia di de-umanizzazione dei detenuti. Grazie alla complicità di medici, psicologi e avvocati, è stato il laboratorio dove sono state sperimentate e perfezionate tecniche di tortura psicologica basate sui “punti deboli del nemico”. Guantánamo rappresenta dunque un fallimento totale e uno scempio dei diritti umani. Ma di chiuderlo, non se ne parla più. Egitto. “Il giovane egiziano Afroto è morto dissanguato in cella” di Chiara Cruciati Il Manifesto, 11 gennaio 2018 Prima picchiato, poi lasciato morire di emorragia interna sul pavimento di una cella: è la ricostruzione dei fatti proposta dall’agenzia indipendente egiziana Mada Masr delle ultime ore di vita del 22enne Mohamed Abdel Hakim Mahmoud, conosciuto da tutti come Afroto. Dalle testimonianze dei compagni di cella e dai risultati dell’autopsia emerge una versione molto distante da quella fornita in prima battuta dalla polizia della stazione di al-Muqatam, quartiere operaio a sud est del Cairo: Afroto non è morto di overdose. È stato picchiato subito dopo l’arresto, poi sbattuto in una cella. Gli altri detenuti hanno chiesto aiuto perché Afroto lamentava forti dolori all’addome: la risposta è stata il calcio di un poliziotto, che lo ha ucciso. L’autopsia nega la presenza di droghe nel corpo del giovane ma rivela lacerazione della milza e emorragia addominale. Subito la morte del giovane aveva provocato la rabbia del quartiere: venerdì notte, dopo l’annuncio del decesso, centinaia di persone hanno provato ad assaltare la stazione di polizia, che ha reagito arrestando 43 persone e ferendone nove. Ieri una svolta: la procura del Cairo-Sud ha ordinato la custodia per quattro giorni di due poliziotti, accusati di aver torturato e ucciso Afroto. Era stato arrestato poche ore prima, con l’accusa di spaccio di droghe. Lo hanno preso a calci e caricato a forza su un cellulare, raccontano testimoni a Mada Masr, nonostante non avessero trovato nulla perquisendolo in strada.