Maurizio Acerbo (Rc): “si possono battere i clan mafiosi anche senza 41bis” di Rocco Vazzana Il Dubbio, 10 gennaio 2018 “Vogliamo essere popolari ma non populisti-qualunquisti, per questo chiediamo l’abolizione dell’ergastolo e del carcere duro”. “Siamo convinti che si possano combattere le mafie sostenendo lo stato di diritto”. Maurizio Acerbo, segretario di Rifondazione comunista, spiega così la posizione di Potere al Popolo - la lista a cui il suo partito aderisce - sull’abolizione del carcere duro per i mafiosi. Potere al Popolo è l’unico soggetto politico che chiede esplicitamente l’abolizione del 41bis e dell’ergastolo. Come mai una scelta così radicale e in qualche modo impopolare? Non capisco la sorpresa. Rifondazione comunista, che fa parte di Potere al Popolo, fu l’unico partito a non votare nel 2002 la norma che rendeva definitivo il 41bis, un provvedimento nato come disposizione eccezionale e transitoria dopo le stragi mafiose del 1992. Questo non significa che escludiamo trattamenti differenziati per alcuni reati, ma mi sembra che la cultura giuridica più avvertita e le sedi internazionali di giustizia si siano espresse contro un trattamento carcerario disumano. Noi combattiamo una battaglia per la legalità, purché sia una legalità costituzionale. Per quanto mi riguarda, non ho mai avuto problemi a denunciare i problemi e le incongruenze delle condizioni carcerarie insieme a Marco Pannella e contemporaneamente battermi contro le leggi vergogna di Berlusconi. Per noi, dunque, non c’è nessuna novità, e i movimenti che insieme a noi animano Potere al Popolo si occupano da tempo di repressione subita, c’è stata di conseguenza una piena sintonia su questo punto. Quasi piena, visto che alcuni esponenti del Pci hanno duramente criticato il programma giustizia della lista... Chiunque non abbia approfondito il dibattito degli ultimi anni, e mi ci metto anch’io, tende a reagire con sorpresa. Qualcuno ritiene che sostenere certe posizioni equivalga a una lotta mafia più soft, ma non è affatto così. Centri sociali, cossuttiani, trotzkisti, c’è di tutto nella lista Potere al Popolo. Abbiamo scordato qualcuno? Cavolo, c’è gente che sta insieme a Verdini e noi possiamo provare a mettere insieme varie anime della sinistra. Ci dipingono come settari ma non è così. Sono anni che lavoriamo per costruire una soggettività unitaria della sinistra anticapitalista plurale. Come lo è Syriza in Grecia, che ha le stesse caratteristiche “variegate” di cui parla lei, come lo è Podemos in Spagna e come lo è France Insoumise in Francia. Il problema non è la pluralità ma la capacità di essere alternativi alle politiche dominanti. Per questo è normale che tra di noi ci sia un dibattito aperto su tanti temi, anche sul 41bis. Noi vogliamo essere popolari ma non populisti-qualunquisti e rivendichiamo anche la nostra battaglia contro l’ergastolo. Voglio ricordare che persino il Partito comunista italiano sosteneva l’abolizione dell’ergastolo. Però avanzate queste proposte in un contesto politico e culturale completamente mutato. Adesso tutti inseguono il messaggio legalitario dei 5 Stelle... Come dice Slavoj Žižek, l’unica cosa che ci può salvare da un ritorno dei fascismi è una sinistra radicale. La democrazia non è stata inventata dai padroni delle terre, è stata inventata dalla povera gente. E noi veniamo da quella tradizione. Consegnare le battaglie sociali ai populisti di destra e la questione dei diritti ai liberali è un errore imperdonabile. Anche per Antonio Ingroia il programma sulla giustizia di Potere al Popolo rischia di trasformarsi in un assist alla mafia… Ingroia ci conosce molto bene e conosce perfettamente la nostra intransigenza sui temi della lotta alla mafia. Capisco la necessità di polemizzare in campagna elettorale, ma noi siamo convinti che si possano combattere le mafie sostenendo lo stato di diritto. Siamo il Paese di Beccaria, bisogna evitare ogni regressione culturale. L’articolo 13 della Costituzione, la colonna vertebrale del garantismo nel nostro Paese, porta anche la firma di un tale Palmiro Togliatti. Bisogna avere il coraggio di discutere sui temi uscendo dalle posizioni ideologiche e concentrarsi sulle cose concrete. Perché un elettore di sinistra non renziano dovrebbe scegliere Potere al Popolo e non Liberi e Uguali? Perché Potere al Popolo è di sinistra, Liberi e Uguali è la ministra riscaldata del vecchio centrosinistra e dei suoi fallimenti. Basti pensare che LeU sul lavoro propone una versione più soft delle politiche renziane, d’altronde fu D’Alema a inventare lo slogan “scordatevi il posto fisso”. Per non parlare delle pensioni, la lista di Grasso è diretta da chi votò insieme a Berlusconi la riforma Fornero, e infatti nessuno di loro ne propone l’abrogazione. Lo propone la destra di Salvini, in compenso... È uno dei paradossi italiani: quella che i mezzi d’informazione definiscono sinistra riesce rendere popolare persino Salvini. La sinistra di Leu è composta da coloro che si vantano di aver liberalizzato più della Tacher, che hanno abolito l’articolo 18 e che hanno votato la legge Fornero. Qualora riusciste nell’impresa di superare lo sbarramento, sareste disponibili a un dialogo parlamentare? Può sembrare impossibile ma credo che superare lo sbarramento sia alla nostra portata. Il nostro compito non sarà di giocare ai posizionamenti, ma di imporre l’attenzione su alcuni temi affinché entrino nel dibattito nazionale. Siete praticamente l’unica forza a dover raccogliere le firme per presentare la lista. A che punto siete? È un ostacolo enorme, perché il problema non è solo quello delle firme, ma trovare gli autenticatori. Per noi la strada sarà in salita, ma confido nella cultura democratica dei consiglieri comunali di qualsiasi schieramento che si metteranno a disposizione per garantire l’accesso alle elezioni ai cittadini che firmeranno per Potere al Popolo. Riforma della giustizia, tante belle parole e pochissimi fatti di Bruno Ferraro* Libero, 10 gennaio 2018 Si era a fine giugno del 2014 ed il governo Renzi annunziò una radicale riforma della giustizia in dodici “linee guida”: riduzione dei tempi e dimezzamento dell’arretrato nella giustizia civile, con la prospettiva della durata di un anno dei giudizi di primo grado; corsia preferenziale per le imprese e le famiglie; riforma del Csm con la creazione di un Consiglio per i giudici e di un Consiglio per i pubblici ministeri (“chi giudica non nomina e chi nomina non giudica”); responsabilità civile dei magistrati; riforma del procedimento disciplinare per i magistrati amministrativi ed i magistrati contabili; falso in bilancio ed auto-riciclaggio contro la criminalità economica; accelerazione del processo penale e riforma della prescrizione; revisione delle intercettazioni bilanciando diritto all’informazione e tutela della privacy; informatizzazione integrale del sistema giudiziario; riqualificazione del personale amministrativo. Molte le speranze, diffuso lo scetticismo, essendo ben noto che il sistema giudiziario è uno dei più refrattari ai cambiamenti, in una società come la nostra in cui il potere politico si è progressivamente indebolito per demeriti propri mentre la magistratura, per ragioni sue e per i vuoti da colmare attraverso un’opera crescente di supplenza, ha finito per prendere il sopravvento. Comunque, i segnali di novità sono stati timidi e di scarso impatto. L’arretrato civile è stato contenuto non certo per i 15 giorni di ferie tolti ai giudici ma per i contraccolpi della crisi economica che ha distolto non pochi cittadini dalla tentazione di instaurare un nuovo contenzioso, oltretutto scoraggiato dai costi. La durata di un anno dei giudizi di primo grado è rimasta un miraggio. Il Tribunale della famiglia, atteso da decenni, è stato introdotto da tempo con il consenso di tutte le forze politiche ma è ben lungi dall’iniziare il suo cammino. La separazione delle carriere è rimasta un’espressione accademica e non è stata neppure tentata. La riforma della responsabilità civile in realtà non ha scalfito di un’unghia la posizione di privilegio di cui giudici e pubblici ministeri godono da sempre sulla base di principi costituzionali che furono pensati solo per i primi e che dopo 70 anni vanno assolutamente revisionati. La magistratura amministrativa sentenzia sempre più spesso in maniera contraddittoria (un esempio fra tutti Tar di Roma e Consiglio di Stato). Il codice degli appalti, pur opportuno in sé, rischia di trasformarsi in un disincentivo alla crescita economica ed industriale. La recente riforma del processo penale risente di un evidente equivoco quando allunga i termini di prescrizione e fissa al momento solo le timide linee di una nuova disciplina delle intercettazioni che valga a conciliare le esigenze della giustizia penale e quelle della privacy di persone sbattute in prima pagina senza ragioni, con una condannevole fuga di notizie. L’informatizzazione va avanti troppo lentamente e, comunque, ha aumentato e non ridotto i contrasti tra uffici giudiziari (spesso nell’ambito dello stesso ufficio) nella soluzione dello stesso problema interpretativo. Il personale di cancelleria è stato di recente aumentato facendo ricorso agli esuberi di altri settori, ma la formazione è al momento carente od incompleta. La conclusione? Mediazione e giustizia alternativa (conciliazione, arbitrato) vanno incentivati. Di pari passo occorre creare un tavolo di riforma, con la partecipazione di politici e tecnici, fissando tempi contenuti per la formulazione di bozze da portare in Parlamento: È l’auspicio che mi sento di formulare per il Parlamento che uscirà eletto nella primavera del 2018. Nel frattempo, i giudici applichino con maggiore severità la norma che prevede la condanna di ufficio del soccombente ai danni per lite temeraria. *Presidente aggiunto onorario della Corte di Cassazione Perché è sbagliato reintrodurre nel codice penale il reato di plagio di Giuseppe Loteta Il Dubbio, 10 gennaio 2018 Caro Giletti, ti racconto cosa fu il caso Braibanti. La sera di domenica, 7 gennaio, durante la trasmissione televisiva “Non è l’Arena”, il conduttore Massimo Giletti ha auspicato la reintroduzione nel codice penale del reato di plagio. Forse è bene ricordare come e perché l’8 giugno del 1981 la Corte Costituzionale dichiarò l’illegittimità di questo reato, cancellandolo dal nostro ordinamento legislativo. La sentenza della Corte è strettamente legata a due processi. Il primo si svolse nel 1968. Sul banco degli imputati siedeva un intellettuale, Aldo Braibanti, accusato, appunto, di plagio. Il secondo (1972), nel tribunale dell’Aquila, era rivolto contro Marco Pannella, Mario Signorino e il sottoscritto, accusati di calunnia e diffamazione per avere attaccato con i loro articoli l’andamento e la sentenza del processo Braibanti. Tutto ebbe inizio nella primavera del 1968, quando Marco Pannella si affacciò sulla soglia di un’aula del tribunale di Roma, il cosiddetto “palazzaccio”. Ed ebbe l’impressione di assistere a un processo della santa inquisizione. L’imputato era un uomo piccolo di circa quarant’anni, con la barbetta nera e lo sguardo penetrante. Sembrava rassegnato, o meglio estraneo all’ambiente che lo circondava. Sul suo capo pendeva un’accusa scovata tra le pagine meno esplorate del codice penale, nell’articolo 603, che veniva dopo quello dedicato al commercio degli schiavi. Un articolo che era transitato tranquillamente dal codice Rocco, di fascista memoria, a quello repubblicano, e che colpiva duramente il reato di plagio. Non ci sono precedenti, tranne il processo che era stato intentato mesi prima contro l’attore Maurizio Arena per la sua storia d’amore con Maria Beatrice di Savoia, ma si era concluso con un’assoluzione. Braibanti, invece, sarà il primo imputato (e per fortuna anche l’ultimo) ad essere condannato in un tribunale della Repubblica italiana per il reato di plagio. Neanche il fascismo, per la verità, l’aveva utilizzato troppo. Negli anni Trenta gli unici condannati per gli articoli 602 e 603 del codice penale erano stati i “mercanti” che imbarcavano gli schiavi a Massaua e li sbarca- vano sulla costa araba. Ma chi era Aldo Braibanti? Era un intellettuale “disorganico”, di tendenza anarchica e dagli interessi più disparati, dalla poesia alla saggistica, dalla pittura al teatro, dalla lavorazione delle ceramiche allo studio della vita e dell’organizzazione sociale delle formiche. E, soprattutto, era un omosessuale. Ed era proprio questa propensione sessuale che gran parte della società di allora, pienamente rappresentata dal tribunale romano, gli rimproverava. Inutilmente, il professor Leopoldo Piccardi, che difendeva l’imputato insieme con l’avvocato Ivo Reina, ricordò alla corte che l’ultimo processo celebrato in Europa per omosessualità era stato quello ad Oscar Wilde, nell’Inghilterra vittoriana. Il “piccolo e stortignaccolo Braibanti”, come lo definì l’avvocato Taddei, di parte civile, fu condannato a nove anni di reclusione. Naturalmente, l’omosessualità, la “diversità”, non potevano essere contestate come reati. Braibanti fu accusato di avere plagiato uno dei due giovani con cui viveva e con cui aveva un rapporto omosessuale. Sono i familiari di questo giovane a dar vita al processo. Sequestrano il ragazzo con la forza, lo rinchiudono in manicomio e denunciano il presunto plagiatore. Malgrado i quaranta elettroshock ai quali fu sottoposto, il presunto plagiato dichiarò sempre, tutte le volte che fu interrogato durante il processo, di avere scelto liberamente il suo rapporto con Braibanti. Non fu creduto. Il vero artefice del processo, soprattutto nella sua fase istruttoria, fu il pubblico ministero, Antonino Loiacono. Per tre anni e mezzo raccolse pazientemente fatti e testimonianze, inseguendo una sua ricostruzione della personalità di Braibanti, da calzare poi sul reato di plagio. Mantenne sempre l’istruttoria sommaria, senza mai formalizzarla per tutto quel periodo. La sua arringa fu memorabile, un atto d’accusa contro la diversità e l’omosessualità. L’imputato era in preda a “pervertimento demoniaco”. “I negri, sono una razza che te la raccomando”. “Chiedo una pena esemplare, affinché nessun professoruncolo possa venire a togliere domani la libertà a un innocente”. Ma a questo punto la mobilitazione degli intellettuali e dei giornali più progressisti divenne imponente. Pannella aveva aperto la strada, facendo fuoco e fiamme su “Notizie radicali”. Io avevo scritto diversi articoli su “l’Astrolabio”. E alla fine entrarono in lizza Umberto Eco, Alberto Moravia, Elsa Morante, Pier Paolo Pisolini, Piergiorgio Belloccio, Cesare Zavattini, Vittorio Gassman. Dacia Maraini descrisse in un racconto un pubblico ministero che si eccitava sessualmente mentre lanciava le sue accuse e che al culmine della requisitoria raggiungeva l’orgasmo. Servì a qualcosa tutto questo? No. Si sperava nel presidente della Corte d’assise giudicante, Orlando Falco, che si sapeva più moderato di Loiacono. Ma le speranze erano mal riposte. Braibanti è condannato a ben nove anni di reclusione. E quando, dopo cinque mesi, sono rese pubbliche le motivazioni della sentenza, c’è da trasecolare. Arrivarono 340 roboanti cartelle nelle quali si scomodavano Freud, Bernheim, Musatti, Janet, Morgue, Marcuse, Vasilev, Cesare, don Giovanni, Napoleone, Socrate, Alcibiade e perfino il diavolo, nel tentativo di dimostrare che Braibanti aveva sottoposto al proprio potere i due giovani discepoli. Per Falco, Braibanti era “un diabolico, raffinato seduttore di spiriti, affetto da omosessualità intellettuale”. In Corte d’Appello non cambia molto. Qualche aggiustamento, certo, anche significativo, perché era difficile che i giudici del secondo grado non tenessero in considerazione l’eco che la vicenda Braibanti aveva suscitato nel paese. La pena è ridotta a quattro anni per “meriti resistenziali”, perché il “diabolico professore” era stato anche partigiano nelle formazioni di “Giustizia e libertà”, arrestato e torturato dai seviziatori della famosa “banda Carità”. Ma l’impianto accusatorio è pienamente confermato. L’avvocato Sotgiu, che aveva sostituito il professor Piccardi nel collegio di difesa, concluse così la sua arringa, rivolto all’imputato: “Questa”, gli disse, “è per te un’ora buia, come era quella in cui subivi le torture degli aguzzini fascisti. Ma, ora come allora, devi dar vita alla fiducia e alla speranza. Verranno anche adesso giustizia e libertà”. Non vennero, né l’una, né l’altra. Tra il primo e il secondo grado del processo, Pannella ed io veniamo denunciati dal dottor Loiacono per diffamazione a mezzo stampa e calunnia. Gli articoli di “Notizie radicali” e dell’” Astrolabio” non gli erano andati giù. Il presidente Falco no, non denuncia, non querela. Proprio in quei giorni è stato incaricato di dirigere la Corte che giudicherà Pietro Valpreda, un altro anarchico, per la strage di piazza Fontana. E pensa che per il momento stare zitto sia la cosa migliore. Il processo contro di noi, e contro Mario Signorino, che era in quel tempo responsabile de “l’Astrolabio”, si svolse all’Aquila nei primi mesi del 1972. E fu come riaprire il caso Braibanti. I giornali ne parlarono. Riemerse tutta la vicenda del “diabolico professore”. Si sostenne da più parti con decisione la necessità di eliminare dal codice penale il reato di plagio. Non mancarono un’udienza Dacia Maraini e Vittorio Gassman, quest’ultimo ambita preda dei fotografi. E Ferruccio Parri venne a testimoniare in mio favore, malgrado i suoi 82 anni. “Sono venuto qui”, disse, “per assumermi la mia responsabilità morale di direttore de “l’Astrolabio” e rivendicare la mia piena solidarietà col giudizio che Loteta ha dato sul processo Braibanti. E quindi la mia piena punibilità a pari titolo”. Naturalmente, non fu incriminato. A noi, invece, caduto il reato di calunnia che non c’entrava proprio per niente, diedero nove mesi di reclusione, confermati in appello e poi annullati in Cassazione. Conclusione: l’8 giugno del 1981 la Corte Costituzionale cancellò dal diritto penale il reato di plagio. Nel codice Rocco, e, altrettanto, in quello della Repubblica italiana, erano previsti da 5 a 15 anni di reclusione per chiunque sottoponesse “una persona al proprio potere in modo da ridurla in totale stato di soggezione”. I magistrati della Consulta rilevarono “l’imprecisione e l’indeterminatezza della norma, l’impossibilità di attribuire ad essa in contenuto oggettivo, coerente e razionale”. “Giustamente”, conclusero, “essa è stata paragonata ad una mina vagante nel nostro ordinamento”. Una mina che non esploderà più. Primi paletti per il whistleblowing. Punibile la denuncia calunniosa o diffamatoria di Riccardo Borsari Il Sole 24 Ore, 10 gennaio 2018 La nuova legge 179/17 sul cosiddetto whistleblowing, in vigore dallo scorso 29 dicembre, pone gli operatori di fronte ai primi quesiti interpretativi. L’articolo 3 introduce un’opportuna disciplina di coordinamento con la materia penale, mettendo al riparo il segnalatore da eventuali responsabilità. Il primo comma della disposizione prevede, infatti, che nelle segnalazioni o denunce effettuate nelle forme e nei limiti previsti dal provvedimento (e quindi, con riferimento ai testi aggiornati degli articoli 54-bis del Dlgs 165/01 per il settore pubblico e dell’articolo 6 del Dlgs 231/01 per il settore privato), il perseguimento dell’interesse all’integrità delle amministrazioni pubbliche o private, nonché alla prevenzione e alla repressione delle malversazioni, costituisca giusta causa di rivelazione di notizie coperte dall’obbligo del segreto, con riferimento alle fattispecie di reato di cui agli articoli 326 del Codice penale (Rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio), 622 del Codice penale (Rivelazione di segreto professionale) e 623 del Codice penale (Rivelazione di segreti scientifici o industriali), oltreché in relazione all’obbligo di fedeltà del dipendente di cui all’articolo 2105 del Codice civile. Sul concetto di “giusta causa” in ambito penale, la giurisprudenza (su tutte, Corte costituzionale n. 5/2004) ha osservato come tale clausola svolga la funzione di “valvola di sicurezza” del sistema penalistico, “evitando che la sanzione penale scatti allorché - anche al di fuori della presenza di vere e proprie cause di giustificazione - l’osservanza del precetto appaia concretamente “inesigibile” in ragione, a seconda dei casi, di situazioni ostative a carattere soggettivo od oggettivo, di obblighi di segno contrario, ovvero della necessità di tutelare interessi confliggenti, con rango pari o superiore rispetto a quello protetto dalla norma incriminatrice, in un ragionevole bilanciamento di valori”. Si osserva, dunque, come il Legislatore abbia voluto inserire una norma di bilanciamento per permettere il rispetto del principio di non contraddizione dell’ordinamento. Operando quale “selezionatore” degli interessi meritevoli di tutela, ha infatti ritenuto di privilegiare la necessità di prevenire i comportamenti illeciti e/o irregolari rispetto alle (legittime) aspettative di tutela del segreto d’ufficio, professionale o aziendale. La “giusta causa” prevista dalla disposizione in commento opererà quale norma di liceità affiancata alle cause di giustificazione eventualmente applicabili nelle ipotesi di cui agli articoli 326 e 623 del Codice penale, mentre svolgerà un ruolo definitorio nel tipizzare la portata dell’inciso presente nell’articolo 622 del Codice penale. Va infatti precisato che tra le ipotesi di reato oggetto di interesse da parte della norma, il solo articolo 622 del Codice penale prevede nel proprio corpo un riferimento relativo all’assenza di una giusta causa, mentre gli articoli 326 e 623 del Codice penale vedono la propria operatività limitata dalla sola applicazione delle cause di giustificazione cosiddette ordinarie, quali, ad esempio, l’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere (articolo 51 del Codice penale). La norma di nuovo conio prosegue precisando che tale “clausola di salvezza” delle condotte rivelatorie non si applica se l’obbligo di segreto professionale sia riferibile ad un rapporto di consulenza professionale o di assistenza (comma 2), e che costituisce violazione dell’obbligo di segreto (aziendale, professionale o d’ufficio) la rivelazione effettuata con modalità eccedenti rispetto alle finalità di eliminazione dell’illecito, con particolare riferimento al rispetto del canale di comunicazione a tal fine specificamente predisposto (comma 3), che nel settore privato dovrà essere efficacemente adottato e attuato tramite un adeguato protocollo nel modello organizzativo. La norma stessa, quindi, precisa i limiti e le forme entro cui dovrà muoversi il “rivelatore” per evitare di incorrere in responsabilità. Fermo il riferimento del primo comma al “perseguimento dell’interesse all’integrità delle amministrazioni, pubbliche e private, nonché alla prevenzione e alla repressione delle malversazioni” circa la finalità da perseguire con la segnalazione, pare peraltro ragionevole ritenere che essa dovrà rispettare il canone della veridicità (o, quantomeno, della plausibile verosimiglianza, per non comprimere eccessivamente la libertà valutativa del possibile whistleblower), ed eventualmente coordinarsi con l’elaborazione che dottrina e giurisprudenza hanno svolto sul requisito di “coscienza dell’innocenza” previsto nella fattispecie di calunnia (articolo 368 del Codice penale). Prevenzione, misure senza dubbi di genericità di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 10 gennaio 2018 Corte di cassazione - Sentenza 349/2018. Il sistema italiano di prevenzione regge. Anche all’impatto delle osservazioni della Corte europea dei diritti dell’uomo. Per questo va respinta la richiesta di rinvio alla Consulta avanzata dopo la recente sentenza De Tomaso. Sono queste le conclusioni cui approda la Corte di cassazione con una densa, quanto a motivazioni, pronuncia della Prima sezione penale, la n. 349, depositata ieri. A corroborare la richiesta di incidente di legittimità costituzionale, il ricorso avanzato dalla difesa di una persona i cui beni erano stati sottoposti a confisca di prevenzione aveva valorizzato la sentenza del febbraio 2017 della Corte dei diritti dell’uomo nella quale si metteva in evidenza un deficit di chiarezza e precisione della disciplina italiana, con un eccesso di discrezionalità del giudice nella definizione della categoria della pericolosità generica. In altre parole, all’autorità giudiziaria verrebbe affidato un meccanismo basato su sospetti nel cui contesto la valutazione di pericolosità sociale finirebbe per essere l’esito di un giudizio avulso da fatti. Tuttavia, la Cassazione mette nero su bianco di non condividere le conclusioni negative della Corte europea sulle fattispecie di “dedizione abituale a traffici delittuosi” e di “vivere abitualmente, anche in parte, con il provento di attività delittuose”. Si tratta, invece, di casi che presentano comunque elementi di determinazione. Infatti, osserva la sentenza, parlare di traffici criminali o dei guadagni di attività illegali significa che, “pur senza indicare le fattispecie incriminatrici specifiche (...), il legislatore ha inteso prendere in esame la condizione di un soggetto che, seppure con valutazione incidentale operata dal giudice della prevenzione, ha in precedenza commesso dei “delitti” consistenti in attività di intermediazione in vendita di beni vietati (traffici delittuosi) o genericamente produttivi di reddito (provento di attività delittuose)”. Nella lettura della Cassazione cioè è l’autorità giudiziaria deputata all’applicazione della misura di prevenzione a dovere attribuire al soggetto interessato una pluralità di condotte passate (perché è necessario il requisito dell’abitualità) che siano comunque aderenti a una previsione normativa penalmente rilevante. È necessario argomentare allora sulla realizzazione di attività criminali non episodiche ma relative almeno a un significativo periodo di vita della persona interessata, su attività in grado di produrre proventi o caratterizzate da un particolare modo di operare (il traffico criminale), sulla destinazione almeno parziale dei guadagni a soddisfare i bisogni di sostentamento della persona interessata e della sua famiglia. E per la Corte, questo approccio non rende più esile il confine tra misure di prevenzione e misure di sicurezza adottate dopo il reato: infatti la misura di prevenzione rimane comunque ancorata non tanto a un pregresso giudizio di colpevolezza, quanto piuttosto a un valutazione complessiva della condotta in un arco di tempo determinato, in particolare per la confisca disgiunta. Voluntary disclosure, non punibilità esclusa per i reati “presupposto” di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 10 gennaio 2018 Corte di cassazione -?Sentenza 9 gennaio 2017 n. 272. L’adesione alla “Voluntary disclosure” non incide sulla misura cautelare conseguente all’appropriazione indebita, quale reato presupposto del riciclaggio. La Cassazione, con la sentenza 272 del 9 gennaio, ha così rigettato il ricorso di due fratelli che chiedevano la revoca del sequestro preventivo finalizzato alla confisca sulla quote societarie di loro proprietà. L’adesione alla “collaborazione volontaria” (estera) - introdotta dalla legge n. 186/2014 n. (in vigore dal 1° gennaio 2015), ricorda la Corte, “determina l’esclusione della punibilità per i seguenti reati tributari ex Dlgs 74/2000: a) dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti; b) dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici; c) dichiarazione infedele; d) dichiarazione omessa; e) omesso versamento di ritenute certificate; f) omesso versamento Iva”. E, prosegue, se commesse in relazione ai delitti tributari “coperti”, “è altresì esclusa la punibilità delle condotte previste dagli articoli: a) 648-bis c.p.(riciclaggio); b) 648-ter c.p. (impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita)”. Per i ricorrenti dalla definizione della Voluntary “discenderebbe la decadenza del sequestro disposto sulle quote della s.r.l., sotto il profilo dell’estensione oggettiva”, essendo stato il predetto sequestro disposto sul presupposto cautelare, ritenuto non più attuale, che la società sia servita quale veicolo per le reintroduzione dei capitali dall’estero, poi rientranti nella piena disponibilità dei fratelli “con modalità idonee a reciderne o, comunque, ad ottunderne la riferibilità alle condotte illecite”. Per la Cassazione, invece, gli indagati, per un verso, chiedono una valutazione di merito che esula dall’ambito del giudizio di legittimità. Per l’altro, prosegue il Collegio, “la tesi dell’estensione oggettiva indiretta della causa di non punibilità sulla misura cautelare disposta per il delitto appropriativo, sembrerebbe contrastare con la stessa previsione normativa atteso che la legge prevede che l’esclusione della punibilità si estende anche ai soggetti - esterni alla procedura di collaborazione volontaria - che abbiano commesso o concorso a commettere i reati “coperti”. Il legislatore, dunque, conclude la Cassazione, ha risolto il problema della natura delle coperture penali legate alla procedura di voluntary disclosure, “attribuendo alle stesse una valenza oggettiva, ma limitandone gli effetti ai soli reati “coperti”, escludendo dunque che l’estensione della causa di non punibilità per reati diversi, come nel caso in esame, posti in essere da soggetti resisi responsabili del delitto presupposto del riciclaggio (quest’ultimo ascrivibile ad un terzo, come nel caso di specie), ossia il delitto di appropriazione indebita”. Legittimo dare del “bugiardo” al Sindaco che non mantiene le promesse di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 10 gennaio 2018 Corte di cassazione - Sentenza 9 gennaio 2017 n. 317. “Falso! Bugiardo! Ipocrita! Malvagio!”. Insulti pesanti, scritti nero su bianco sui manifesti di un comune siciliano, che però non integrano il reato di diffamazione ma soltanto legittima critica politica. Almeno se ad usarli è l’opposizione nei confronti del sindaco reo di non aver mantenuto le promesse fatte in campagna elettorale: rinunciare all’indennità di funzione. Parola della Cassazione (sentenza 317) che oggi ha respinto il ricorso del primo cittadino del comune di Furci Siculo, contro la sentenza della Corte di appello di Messina, che ribaltando la decisione di primo grado, aveva assolto sei rappresentanti dell’opposizione ritenendo la loro condotta scriminata dal diritto di critica politica. I consiglieri dopo aver riconosciuto la paternità dei manifesti affissi lungo le vie del comune, ne hanno però recisamente escluso “ogni intento denigratorio”. Per i consiglieri si trattava di una “decisione politica diretta ad attaccare il Sindaco e la Giunta da lui presieduta, che aveva deliberato l’erogazione dell’indennità di funzione, così tradendo le promesse elettorali”. Per la Corte d’Appello che pure ha ravvisato la natura “offensiva” degli epiteti, dalla lettura integrale del manifesto risulta chiaro che si tratta di critiche “pertinenti, sebbene espressione di un costume politico deteriore ma ampiamente diffuso”. Per il sindaco ricorrente, invece, il diritto di critica si deve arrestare di fronte al “rispetto della dignità altrui e non può costituire l’occasione di gratuiti attacchi alla persona ed alla sua reputazione”. La Cassazione ricorda che la punibilità va esclusa “purché le modalità espressive siano proporzionate” e i toni utilizzati “pur aspri e forti, non devono essere gravemente infamanti e gratuiti” ma “pertinenti al tema in discussione”. Per i giudici però “la critica, ancor più quella politica” ha per sua natura “carattere congetturale, che non può, per definizione, pretendersi rigorosamente obiettiva ed asettica”. Mentre l’esimente non scatta qualora le espressioni denigratorie “siano generiche e non collegabili a specifici episodi, risolvendosi in frasi gratuitamente espressive di sentimenti ostili”. Così ricostruito il quadro, per la Suprema corte “gli epiteti rivolti alla parte offesa presentavano una stretta attinenza alle vicende che avevano visto l’opposizione contrapporsi al Sindaco in merito alla erogazione dell’indennità di funzione, a cui il primo cittadino aveva dichiarato di voler rinunciare in campagna elettorale”. L’attacco dunque “riguardava specificamente le scelte politiche ed amministrative” del sindaco e della sua maggioranza, per cui “del tutto correttamente, si è escluso che sia trasmodato in un attacco alla dignità morale ed intellettuale della persona offesa”. Viterbo: detenuto magrebino 26enne trovato morto in cella tusciaweb.eu, 10 gennaio 2018 Nei giorni scorsi, un detenuto 26enne di origine magrebina è stato trovato senza vita nel letto della sua cella nel carcere di Mammagialla. Il corpo dovrebbe essere sottoposto ad autopsia. Da accertare, infatti, le cause della morte. L’Aquila: la Casa circondariale è abusiva e “rischia” lo smantellamento di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 gennaio 2018 La struttura ospita la sezione del 41bis con 131 reclusi, tra i quali la brigatista Nadia Lioce. Potrebbero chiudere il carcere de L’Aquila, non per svuotamento ma per abusivismo. Il Tar potrebbe sentenziare il ripristino della situazione inziale del terreno occupato abusivamente dal 1 luglio 1982. Un terreno dove sorge, appunto, il carcere de L’Aquila (ospita anche la sezione del 41bis) e quindi potrebbe, per sentenza, essere chiuso. A paventare questo scenario è il presidente del Comitato per l’Amministrazione separata dei beni di uso civico (Asbuc) di Preturo (frazione del comune dell’Aquila) e consigliere comunale del Partito democratico Antonio Nardantonio. “Parliamo di quello di 4 ettari dove si trova il carcere le Costarelle di Preturo. A dirlo - denuncia il consigliere - è una sentenza del 2014 che ha accertato la natura demaniale civica universale dei terreni. Ora, a breve, il Tar dopo il ricorso dell’Amministrazione beni separati di Preturo, dovrà fissare la data dell’udienza e, se si arriverà a sentenza, nello scenario peggiore potrebbe accadere che venga imposto in quell’area il ripristino della situazione iniziale, quindi addio carcere”. Come mai? Nel 2014 la Corte d’Appello di Roma sezione speciale usi civici accertò però la natura dei terreni annullando di fatto tutto ciò che era stato realizzato fino ad allora, espropri compresi. La sentenza condannò l’Agenzia del Demanio Abruzzo e Molise al rilascio dei fondi interessati da uso civico e cioè i 4 ettari di terreno rimandando per l’esecuzione alla Regione Abruzzo che intraprese tutti i passaggi necessari con una determina del marzo 2015 per reintegrare i terreni. L’Amministrazione separata, successivamente, fece reintegra e voltura. L’Agenzia del demanio, che era stata condannata al rilascio dei fondi, non fece nulla. Qui si inserisce il ricorso al Tar dei beni separati per ottemperanza. Il Tar ora si dovrà pronunciare sul rilascio dei suoli. “Ma è ovvio che - riassicura il consigliere Nardantonio, così come accadde per l’aeroporto di Preturo, è intenzione dell’Asbuc trovare un accordo anche a tutela del carcere e dei suoi lavoratori”. Però non è detto che l’accordo si faccia senza problemi. “Gli scenari, se non dovesse trovarsi un accordo - conclude il consigliere - diventerebbero molto complicati. Una questione che dovrebbe vedere in prima linea Regione e Comune, a sollecitare soprattutto il Demanio affinché il ruolo del penitenziario e la sua popolazione lavorativa non venga messa in discussione”. La struttura del carcere de L’Aquila è stata ultimata nel 1986, ma l’istituto è entrato in funzione nel 1993. L’istituto è nato originariamente con una capienza regolamentare di 150 detenuti comuni. La capienza tollerabile è stata fissata a 300 detenuti comuni. Intorno al 1996, la struttura è adibita quasi interamente alla custodia di detenuti sottoposti a particolari regimi di sicurezza che alloggiano in celle singole. In particolar modo celle del 41bis nel quale su 131 detenuti sottoposti al regime duro, sette sono donne. Le loro celle si trovano alla fine di un lungo tunnel sotterraneo, sono grandi due metri per due e si affacciano sul nulla. Tra di loro, ricordiamo, c’è l’unica detenuta al 41bis non appartenente alla criminalità organizzata. Parliamo di Nadia Desdemona Lioce, la leader delle ex nuove Brigate Rosse - Partito Comunista Combattente, condannata a tre ergastoli per gli omicidi, commessi con finalità di terrorismo, dei giuslavoristi Massimo D’Antona e Marco Biagi e del sovrintendente di Polizia Emanuele Petri. Una organizzazione brigatista che è stata completamente smantellata nel 2003 con gli arresti. Ed è dal 2005 che il 41bis venne applicato ai prigionieri politici arrestati nel 2003 e successivamente condannati per appartenenza alle Nuove Brigate Rosse. Nadia Lioce detenuta a L’Aquila, Marco Mezzasalma detenuto a Parma, Roberto Morandi detenuto a Terni. Il 29 novembre 2014, il personale di Polizia penitenziaria della casa circondariale dell’Aquila, sottrasse alla disponibilità di Nadia Lioce materiale di cancelleria, libri e quaderni, condannandola al silenzio, a una condizione d’isolamento totale e perenne, all’inaccettabile limitazione della naturale estrinsecazione della personalità umana, con conseguente cancellazione dei più basilari e inviolabili diritti umani. La Lioce, di proroga in proroga, è condannata a rimanere al regime duro. Se ufficialmente la finalità del 41bis sarebbe quella di recidere i rapporti con le organizzazioni di appartenenza, non si capisce che senso abbia la carcerazione dura nei suoi confronti visto che le cosiddette Nuove Brigate Rosse sono state smantellate nel 2003. Il ministero di Giustizia, che aveva rinnovato il regime del 41bis sulla base di vecchie sentenze, giustificò la sua decisione spiegando che “non ha mutato posizioni ideologiche, mantiene la leadership dell’organizzazione terroristica e c’è il pericolo concreto che riprenda contatti con altri militanti che potrebbero avere la disponibilità dell’arsenale dell’organizzazione, non ancora localizzato”. Parma: mistero sulla salute di Raffaele Cutolo, si muove il Partito Radicale di Andrea Aversa vocedinapoli.it, 10 gennaio 2018 Rita Bernardini: “chiederemo di far visita a tutti i detenuti al 41bis di Parma”. È mistero sulle condizioni di salute dell’ex boss della Nuova Camorra Organizzata (Nco) Raffaele Cutolo. Secondo quanto riferito dal sito Stylo24, infatti, o Professore soffrirebbe di una grave forma di diabete e sarebbe inoltre peggiorata l’artrite alle mani di cui soffre da decenni. Abbiamo cercato di avere maggiori informazioni sulla salute del boss di Ottaviano, che da oltre mezzo secolo è in carcere, ma non abbiamo avuto conferme ne smentite. Insomma sul professore vesuviano nessuno si sbilancia. Abbiamo avuto una corrispondenza via mail con la coordinatrice del Partito Radicale Rita Bernardini che ha affermato di non essere a conoscenza delle condizioni di salute di o Professore. Tuttavia, ha dichiarato la Bernardini, “il partito chiederà di fare visita a Cutolo e a tutti i detenuti del carcere di Parma che sono al 41bis. Di sicuro ce ne saranno di meno ‘famosi’ sottoposti al regime di massima sicurezza e sarà nostro dovere sincerarci del loro diritto alla salute e ad una detenzione che rispetti i dettati costituzionali”. In seguito abbiamo telefonato all’avvocato Gaetano Aufiero, legale difensore di Cutolo, che non ha potuto sbilanciarsi più di tanto in quanto da un po’ di tempo non ha rapporti diretti con il suo assistito e i familiari. “Sono il suo avvocato, ma visto che al momento non ci sono più procedimenti legali a suo carico, non ci sentiamo da diversi mesi. Per questo motivo non posso dirvi di più in merito alle condizioni di salute di Cutolo”. Nell’articolo sopra citato, tra l’altro, si diceva che Cutolo “è povero, al punto da dover ricorrere a un avvocato d’ufficio”. All’avvocato Aufiero abbiamo chiesto anche questa cosa e ha smentito tutto “No, non ha difensore d’ufficio. Sono io il difensore di fiducia”. Mistero nel mistero. A quel punto abbiamo sentito gli uffici del Garante dei detenuti per l’Emilia Romagna. Ci ha risposto la signora Carla Brezzo responsabile dell’ufficio Servizio Politiche per l’accoglienza e l’integrazione sociale che ci ha confermato di non aver mai ricevuto alcuna segnalazione in merito. Nessuna risposta, invece, è pervenuta dai responsabili del Garante dei detenuti del comune di Parma. Non contenti abbiamo contattato Emilio Fattorello segretario del Sindacato Autonomo della Polizia Penitenziaria (Sappe). Anche lui ha dichiarato che a Parma la situazione è regolare e che non ci sono state segnalazioni particolari, gravi o allarmanti che riguardassero il detenuto Raffaele Cutolo. Insomma anche in questo caso non abbiamo trovato conferme sulle condizioni di Cutolo. Parma: il Sindaco Pizzarotti dal ministro Orlando per parlare dei problemi del carcere parmareport.it, 10 gennaio 2018 “Carcere con 65 persone sottoposte al regime del 41bis, occorrono più risorse economiche e più personale”. È avvenuto ieri, dopo la lettera inviata nei giorni scorsi dal sindaco Federico Pizzarotti al ministro della Giustizia Andrea Orlando, l’incontro di approfondimento sulla difficile situazione dell’Istituto penitenziario di Parma: il Ministro ha ricevuto il Sindaco, accompagnato dal garante dei detenuti del Comune di Parma del Roberto Cavalieri. L’incontro, che si è svolto presso il Ministero di Grazia e Giustizia, è risultato cordiale e fruttuoso: il ministro Orlando ha accolto con interesse le istanze del sindaco Pizzarotti, che, insieme al garante dei detenuti Cavalieri, ha sottoposto le problematiche relative agli Istituti penitenziari di Parma. Le tematiche affrontate hanno riguardato il sovraffollamento della struttura carceraria (i detenuti sono 594 rispetto ai 468 posti regolamentari) e la carenza di organico della Polizia Penitenziaria (sono 308 gli agenti di polizia effettivi che operano nella struttura, a fronte dei 461 previsti): una situazione che diventerà sicuramente più difficile a breve, vista l’imminente apertura del nuovo padiglione, prevista per quest’anno, che ospiterà 200 detenuti per i quali non è ancora stato definita e comunicata la tipologia di circuito penitenziario. Il Sindaco ha poi sottoposto al Ministro la necessità di rivedere la governance del carcere di Parma e la sua classificazione: il complesso penitenziario cittadino infatti non trova giusto collocamento nel Decreto 22 settembre 2016, che lo classifica come governabile da dirigente nominato tramite interpello ordinario e non tramite incarico superiore. Visti il numero di detenuti presenti e la loro tipologia (ne sono presenti 65 sottoposti al regime del cosiddetto “41bis”) sarebbe fondamentale che l’Istituto venisse “promosso” a “carcere con dirigenza a incarico superiore”: un aggiornamento che porterebbe ad un aumento di uomini della penitenziaria assegnati oltre che a un incremento del budget per la gestione finanziaria e al potenziamento e alla stabilizzazione del ruolo del direttore; tutti aspetti molto significativi soprattutto in vista della presenza del nuovo padiglione. Infine, il sindaco Pizzarotti ha sottolineato le criticità sanitarie della struttura penitenziaria, sia in termini di cure erogate che in difficoltà nei trasporti dei detenuti bisognosi di terapie, ponendo l’accento sulla necessità di allargare e rendere fruibile da un maggior numero di pazienti il reparto penitenziario presente nell’Ospedale. Alessandria: “chiudete l’ex Don Soria”, il dossier regionale boccia il carcere alessandrianews.it, 10 gennaio 2018 Per gli osservatori va accorpato al San Michele: troppo vecchio e non a norma, usato poco e male. Nei giorni scorsi un altro episodio “movimentato” ha fatto riaffiorare le croniche carenze di personale, in tutti i reparti. Notte movimentata al Cantiello e Gaeta, il carcere più comunemente conosciuto come Don Soria. Nella notte dell’8 gennaio un detenuto - già noto per le sue intemperanze - avrebbe dato in escandescenza in infermeria, fino ad arrivare a minacciare il medico con una siringa. Il motivo non è chiaro, probabilmente chiedeva di essere accompagnato al pronto soccorso per i forti dolori che lamentava. Il momento di agitazione è stato per fortuna superato grazie all’intervento di qualche collega esperto in situazioni critiche: il detenuto è stato quindi convinto a cestinare la siringa e a farsi somministrare la terapia decisa dal dottore, per poi far rientro in cella alle prime luci dell’alba. Il trambusto serale è confermato anche dal rappresentante del Sappe (Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria), che parla comunque di una situazione rientrata senza particolari conseguenze o difficoltà. Ma che ancora una volta evidenziano i problemi in cui versa la Casa circondariale e il sistema carcerario alessandrino, tra strutture inadeguate e personale scarso. A fine 2017 la relazione regionale dei garanti dei detenuti nei vari penitenziari del Piemonte parla chiaro: sebbene non ci sia un sovraffollamento (256 presenze per una capienza di 237, gli stranieri sono il 57,10 %) la struttura è inadeguata. Le criticità erano già state segnalate l’anno precedente, ma evidentemente nulla è cambiato. “Vetustà dell’edificio e croniche carenze strutturali, in quanto le stesse, ad un anno di distanza, seppur riconosciute dalla stessa Amministrazione penitenziaria, permangono: il “Cantiello e Gaeta presenta gravi criticità strutturali non sanabili, dovute all’edificio originario ottocentesco e alle successive ristrutturazioni che hanno acuito i problemi strutturali (come la mancanza di luce). La struttura risulta essere utilizzata per meno di metà dello spazio detentivo originario, ma a causa del tetto e degli impianti non a norma, paradossalmente mancano gli spazi agibili per le attività e per la detenzione”. Manca una sezione per i semiliberi. Stranieri ed indigenti, si legge nel dossier, sono molti. Mentre rari sono i benefici di legge che si possono ottenere. La proposta è drastica: chiusura nel medio periodo e spostamento dei detenuti in un nuovo padiglione del San Michele, da costruire. L’accorpamento comunque non risolve nell’immediato il problema della grave carenza di personale e dell’area educativa: un educatore ogni 92 detenuti al Cantiello e Gaeta e uno ogni 75 al San Michele, carenza che si accompagna ed aggrava dalla concomitante mancanza di personale non medico, di psicologi e di educatori in primis. L’unica nota positiva è il “progetto Arena” dedicato alle attività formative, lavorative e di socialità con laboratori e spazi per la permanenza diurna dei detenuti in modo da rendere le celle davvero solo “stanze di pernottamento”. Ivrea (To): il Garante Michelizza “consentire ai detenuti il collegamento via skype” giornalelavoce.it, 10 gennaio 2018 La situazione delle carceri piemontesi sta migliorando grazie anche alla dinamicità legata all’arrivo del nuovo provveditore e all’attesa legge di riforma del sistema penitenziario, ma le criticità sono tantissime, gli edifici sono obsoleti e in certi casi fatiscenti. Mancano spazi per socializzazione, lavoro, sport e mamme con i figli, come richiedono le nuove politiche adottate nel mondo per rendere più giusto e “utile” il sistema penitenziario. Lo dice il Dossier sui carceri piemontesi presentato poco prima di Natale a Torino, nella sede del Consiglio regionale, dal Garante regionale Bruno Mellano e che verrà inviato al capo del Dap Santi Consolo. A fronte di esperienze positive come lo spazio Icam (già sovraffollato) per mamme con bambini, nel carceri di Torino, ci sono istituti con cucine e stanze in pessime condizioni. “Il sistema penitenziario italiano è ancora sordo, le toppe alle emergenze non bastano più, occorre un progetto politico”, dice l’architetto Cesare Burdese, esperto di costruzioni penitenziarie. Per mettere a punto il dossier il Garante ha visitato più volte i 13 istituti penitenziari piemontesi e contattato tutti i rispettivi Garanti oltre alla Garante del Comune di Torino. Tra i problemi segnalati da Armando Michelizza, garante a Ivrea, c’è la mancanza di spazi idonei per accogliere i famigliari. Sono così angusti che molti decidono di rinunciare ai colloqui, per non preoccupare e rattristare ulteriormente i propri figli Si pensa alla risistemazione di un’area verde attrezzata con giochi, che però d’inverno non si può utilizzare… “Ogni tanto entrando in carcere mi chiedo se sto entrando in un ambiente educativo come dice la costituzione o se sto entrando in una gabbia”, confessa Michelizza. S’aggiunge il problema dei soldi e ci sono detenuti talmente poveri da non avere neanche gli spiccioli per telefonare a casa. “C’è a Ivrea un’associazione di volontariato che a chi ne ha bisogno - ricorda Michelizza - versa 10 euro al mese”. Il Garante propone un collegamento a Skype, gratis per tutti. Infine, sul tappeto, resta ancora il problema della videosorveglianza richiesta da guardie e detenuti, già ai tempi degli scontri finiti alla ribalta sui giornali e pure in alcuni fascicoli in Procura. Continua a non funzionare e non si capisce il perché. Santa Maria Capua Vetere (Ce): il Garante regionale “carcere militare a misura d’uomo” Il Mattino, 10 gennaio 2018 “Carcere Militare di Santa Maria Capua Vetere: un Istituto a misura d’uomo con esperimenti educativi innovativi”. Il Garante dei Detenuti, Samuele Ciambriello, ha visitato il carcere San Tammaro in cui sono ristrette 65 persone ex appartenenti alle forze armate che scontano pene detentive a seguito di condanne per reati propri e comuni. La struttura, diretta dal colonnello Gerardo Baiano (comandante della Opm) che ha accompagnato assieme al tenente colonnello Antonio Pelligrino, il Garante durante la visita, è composta da celle singole e triple e una mensa collettiva, che oltre a favorire la socialità consente il rispetto delle norme di igiene troppo spesso derogate negli istituti penitenziari. L’offerta formativa è notevole e si compone di diversi laboratori tra cui quello di bricolage, ceramica, teatro e musica. Uno spazio esterno attrezzato come area verde consente ai detenuti di svolgere attività di giardinaggio, di pet-therapy e di incontrare i parenti in un ambiente familiare e confortevole. Vi è inoltre la possibilità per i detenuti di frequentare percorsi scolastici professionalizzanti tra i quali quello presso l’istituto alberghiero. Ciambriello dopo la visita ha dichiarato: “Esprimo il mio stupore ho trovato una struttura a misura d’uomo, in cui la detenzione è vissuta nel rispetto delle dignità delle persone, seguendo il principio dell’art 27 della Costituzione volta alla rieducazione, con la garanzia della socializzazione, resa possibile da spazi comuni funzionali, ben tenuti e nel rispetto delle norme di sicurezza. Sono anche colpito dalla presenza di ben 5 detenuti che beneficiano della disciplina prevista dall’art 21 O.P. che consente agli stessi di recarsi presso il museo diocesano di Capua e presso il centro di prima accoglienza della divina misericordia per immigrati, per prestare attività lavorativa sebbene volontaria”. Sala Consilina (Sa): c’è ancora una flebile speranza di poter riaprire il carcere di Erminio Cioffi La Città di Salerno, 10 gennaio 2018 La sentenza del Consiglio di Stato chiede un nuovo procedimento amministrativo I giudici di Palazzo Spada: si ascoltino contestualmente Comune e classe forense. Una flebile speranza sulla carta, ma una forte illusione nella realtà. È questa la sensazione che si ha leggendo il testo della comunicazione fatta dal ministero della giustizia al Comune di Sala Consilina sulla vicenda della casa circondariale di via Gioberti a Sala Consilina, chiusa nel 2015 con un decreto del ministro della giustizia. Comunicazione che arriva dopo la sentenza del Consiglio di Stato che a novembre dello scorso anno aveva dato in parte ragione al ministero ritenendo legittimo il provvedimento ma stabilendo nello stesso tempo che la procedura adottata era viziata dal fatto che nella fase che ha preceduto la firma del decreto non erano stati coinvolti il Comune e l’Ordine degli avvocati di Lagonegro. Nella comunicazione del 28 dicembre, il direttore generale del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria comunica di aver avviato un nuovo procedimento amministrativo per arrivare a un nuovo provvedimento, ma questa volta dopo aver coinvolto anche il Comune e la classe forense e contestualmente chiede ai due enti di far pervenire il loro parere. Nella lettera viene inoltre evidenziato che il provvedimento di chiusura è stato ritenuto legittimo dal Consiglio di Stato e che è stato annullato solo per vizio formale. Sembra chiaro che se la questione non sarà affrontata politicamente, è difficile che si arriverà a un passo indietro del dicastero di via Arenula e a tal proposito sembrerebbe che proprio a Sala Consilina si stia tentando di organizzare un incontro con la presenza dei parlamentari salernitani per cercare di salvare il carcere prima della firma di un nuovo decreto di soppressione. In primo grado il Tar aveva annullato il decreto del ministero ritenendo che lo stesso avesse violato il principio fondamentale della territorialità dell’esecuzione penale e inoltre che non era stata tenuta in considerazione la circostanza dell’unicità del carcere di Sala, anche nel circondario del Tribunale di Lagonegro. Per il Consiglio di Stato invece “la Casa circondariale - si legge nella sentenza - né soddisfa esigenze di sicurezza, né ha dimensioni tali da sistemarvi numero cospicuo di detenuti; la spesa per rimetterla in funzione sarebbe abnorme, e l’ordinario esercizio imporrebbe risorse e personale tali da renderne non solo antieconomico, ma addirittura nocivo per gli interessi generali il funzionamento”. Napoli: proteste e rivolta nel Centro per minori “così crescono violenti e senza freni” di Conchita Sannino La Repubblica, 10 gennaio 2018 Allarme minori. Non solo in strada. Non solo durante le ore pericolose della cosiddetta movida. Non solo per i coltelli. Un nuovo episodio - dopo la gravissima “rivolta” da parte dei giovanissimi detenuti di Nisida - si è consumato in una comunità per il recupero dei ragazzini finiti nel circuito penale. Un nuovo caso è sul tavolo del procuratore capo dei minori Maria de Luzenberger, del presidente di quel Tribunale Patrizia Esposito, e del vertice del Centro giustizia minorile, Maria Gemmabella. Due ragazzi che si ribellano alle “ sanzioni” previste per chi viola le regole di chi sta in comunità. Due appena diciottenni che sbraitano, insultano, minacciano la direzione. Uno dei due è armato di un oggetto appuntito e sibila: “Questo te lo “appizzo” in testa”. L’identità della struttura è tenuta sotto riserbo, ma sono già scattate indagini e “aggravamenti” delle misure per i ragazzi coinvolti. L’assalto risale a giovedì scorso. Nei locali della comunità, poche ore prima, un ragazzo di diciotto anni, D., indagato per furto e in stato di custodia, viene trovato in possesso di un cellulare: è tassativamente vietato, gli operatori provano a sequestrarglielo, lui si oppone e si ribella. Anzi, attacca l’operatore: “Tu non puoi mettermi le mani addosso. È la parola tua contro la mia. Che mi fai?”. Scatta la relazione, gli operatori chiedono un aggravamento della sua posizione. Poi, giovedì 4 gennaio scorso, quando è ormai chiaro che per quella ed altre violazioni D. sarà prelevato dai carabinieri e nuovamente condotto nell’istituto penale minorile - non solo per il gesto d’aver nascosto il cellulare, ma anche per altri atteggiamenti - la reazione si fa violenta. A sostenerlo e a caricarlo, “secondo le logiche proprie del branco che mai avevamo visto ripetersi qui dentro” - sottolineano gli operatori - ecco un altro “ospite” della comunità, G. È anch’egli diciottenne, precedenti per rapina e spaccio. È quest’ultimo che afferra un punteruolo di ferro, lo brandisce contro i responsabili, scava solchi nel muro, di fatto tenendo in ostaggio la struttura, fino all’arrivo dei carabinieri. Che torneranno, appunto, dopo numerosi Sos inviati agli uffici giudiziari minorili che agiscono con tempestività: solo per riprendersi anche G. I due ragazzi vengono condotti nuovamente in carcere: uno a Nisida, l’altro ad Airola. Resta la sequenza inquietante di violenza. Il segno di “una guerra continua”, un conflitto “in cui gli operatori delle comunità non sono tutelati”, e “vivono provocati da ragazzi che ormai hanno chiarissimi i loro diritti ma non capiscono minimamente quali siano i loro doveri”. Sono giovanissimi, raccontano ancora i responsabili della comunità, “che ormai non accettano un freno, non vogliono divieti. Ma quel che è peggio, è che sentono di poter contare su una larga, diffusa sostanziale impunità. E i fatti, purtroppo, spesso danno loro ragione”. Non a caso, la lettera dal tono allarmato inviata, giorni dopo, dalla comunità a tutti i vertici degli uffici ha un titolo eloquente: “Cronaca di un giorno di ordinaria follia”. “Senza voler fare sociologismi facili, la violenza di questa generazione di ragazzi - scrivono i vertici della struttura, stimata e da tempo operante nel settore - per la totale assenza di regole e legami con la “ tradizione” deviante della delinquenza comune e organizzata, può essere comparata solo a quella raccontata da film come Arancia meccanica”. Parole pesantissime. Su cui riflettere. Lecce: festa della Befana nel carcere di Borgo san Nicola salentoflash.it, 10 gennaio 2018 Anche quest’anno nel Carcere di Borgo San Nicola, a Lecce, torna il tradizionale appuntamento per festeggiare la Befana con tutta la famiglia. Giunta alla sua ventesima edizione, la Festa della Befana per i figli dei detenuti e delle detenute è un’iniziativa nata dall’associazione di volontariato carcerario Comunità Speranza e fortemente sostenuta dalla direzione penitenziaria come occasione per celebrare un momento di festa che riunisce e coinvolge tutta la famiglia. Quest’anno la festa si terrà nei giorni di mercoledì 10, giovedì 11 e lunedì 15 gennaio, come di consueto i pomeriggi saranno animati da attività, giochi e spettacoli e si concluderanno con la consegna della calza della Befana ai bambini presenti. Nel corso degli anni Comunità Speranza ha sensibilizzato scuole, associazioni, parrocchie, uffici e altre realtà locali che hanno pienamente contribuito alla raccolta dei dolciumi destinati a riempire le oltre 250 calze che ogni anno sono distribuite ai bambini. Tra le realtà che prendono parte all’iniziativa ci sono l’associazione Fermenti Lattici - che proprio nel carcere di Lecce sta realizzando il progetto di accoglienza per minori “Giallo Rosso e Blu” e che da diversi anni prende attivamente parte alla festa della befana con laboratori e attività ludiche e ricreative, il gruppo di animatori dell’Oratorio Don Bosco di Campi Salentina e la compagnia Teatro Dantès - Art Factory con lo spettacolo Il Raccontastorie per la regia di Antonio Duma, in scena Maria Margherita Manco che leggerà racconti tradizionali e adattamenti di brani di Calvino, Rodari, Pirandello, accompagnata da brani musicali eseguiti da Davide Manzone (chitarra e voce) e Marco Russo (batteria) della band i RoseClöd. Niger. La Camera voterà la missione italiana, prima prova dell’intesa Pd-Forza Italia di Carlo Lania Il Manifesto, 10 gennaio 2018 L’Italia in Africa. 5 Stelle, Mdp e Si ottengono di discutere in aula l’intervento. Imbarazzo dem. Lunedì l’avvio della discussione nelle commissioni riunite Esteri e Difesa di Camera e Senato. Un confronto tra i partiti che si annuncia però più che veloce visto che è già stato fissato per due giorni dopo, mercoledì 17 alle 16, il voto dell’aula di Montecitorio. L’iter che porta al rinnovo delle missioni italiane all’estero, e in particolare al via libera per il nuovo impegno militare in Niger, è al nastro di partenza. Con una novità però che, per quanto prevedibile, non deve essere piaciuta al Pd che avrebbe preferito chiudere la partita direttamente nelle commissioni. Nella capigruppo che si è tenuta ieri a Montecitorio, invece, Sinistra italiana, Mdp e M5S hanno chiesto e ottenuto di discutere in aula la delibera varata dal governo nell’ultimo consiglio dei ministri del 2017, nonostante il capogruppo dem Ettore Rosato abbia provato a convincerli a saltare il passaggio assembleare. Una decisione che crea imbarazzo tra i dem, che in piena campagna elettorale si troveranno così a votare a favore della missione insieme a Forza Italia. In attesa di riconferma ci sono 49 missioni già in atto più sei nuove. Oltre al Niger, nuovi impegni riguardano la Tunisia, dove i soldati italiani prenderanno parte a una missione Nato, e l’invio di ulteriori 100 uomini in Libia che andranno ad aggiungersi ai 300 già presenti. Il nuovo contingente avrà il compito di ripristinare l’efficienza dei mezzi terrestri, navali e aerei del governo Serraj. Né a Montecitorio, né a Palazzo Madama sono previste sorprese. Forza Italia ha infatti già dato il suo assenso anche all’intervento nel Sahel garantendo così il passaggio parlamentare insieme a Pd e Ap. Contrari, invece, M5S, Si e Mdp, anche se il senatore Federico Fornaro ribadisce di voler prima conoscere la natura della missione e il contesto in cui dovrà operare. “Cosa andiamo a fare in Niger?”, chiedeva ieri il senatore Mdp. “Rispetto alle dichiarazioni fatte inizialmente dal premier Gentiloni le parole del ministro Pinotti hanno ridimensionato l’aspetto ‘combat’ della missione. Se non ci saranno chiarimenti in merito voteremo sicuramente no”. Intanto al ministero della Difesa proseguono i preparativi, con venti militari presenti dal 20 dicembre scorso a Niamey per discutere con le autorità nigerine i particolari dell’intervento italiano e che tipo di addestramento fornire alle forze militari e di sicurezza del Paese. Dei 470 uomini previsti una volta regime (120 nel primo semestre), più della metà sono infatti addestratori che avranno il compito di insegnare ai nigerini come pianificare le missioni di contrasto al terrorismo e come comportarsi in caso di imprevisti. Ma anche, come è scritto nella relazione che accompagna la delibera del governo, come fronteggiare l’attuale situazione globale caratterizzata da “epocali flussi migratori”. Un addestramento che si potrebbe definire di livello “superiore” visto che, come fanno presente al ministero della Difesa, quelle nigerine sono forze già adeguatamente equipaggiate e armate. I soldati italiani potranno contare anche su 130 mezzi terrestri, tra i quali gli ultimi modelli di blindati Lince adatti a viaggiare nel deserto, oltre a due aerei trasporto merci e truppe (potrebbero essere due C-130 o, in alternativa, due C-27J). Costo della missione nigerina per il primo anno: 30.050.995 euro. Morire a vent’anni in un carcere iraniano: “non è stato suicidio” di Viviana Mazza Corriere della Sera, 10 gennaio 2018 Dubbi sulla sorte di due manifestanti arrestati. La repressione iniziata nelle strade dell’Iran, con almeno 21 morti nelle proteste dei giorni scorsi, ora continua nelle prigioni. Sono almeno due i manifestanti trovati misteriosamente morti mentre si trovavano in detenzione: Vahid Heidari ad Arak e Sina Ghanbari a Teheran. Le autorità sostengono che si siano suicidati, ma gli attivisti non ci credono. “Vahid faceva il venditore al bazar di Arak. È stato arrestato per aver partecipato alle proteste contro il carovita”, ha raccontato lo zio del ragazzo a Iran Human Rights, un’organizzazione per i diritti umani con sede ad Oslo e ottime fonti all’interno del Paese. All’inizio, la polizia ha detto che il giovane era un trafficante di droga. “Mentono”, secondo la famiglia, che sabato scorso ha ricevuto una telefonata dalla prigione: “Si è suicidato, venite a prendere il corpo”. Poi però non sono stati consegnati ai cari né il cadavere né il referto del medico legale; e sono stati costretti a seppellirlo in una fossa già preparata ad Arak. “Chi ha visto il corpo ha notato una frattura sul lato sinistro del cranio e un rigonfiamento alla testa, che potrebbe essere stato causato da un colpo di bastone”, ha detto l’avvocato Mohammad Najafi agli attivisti. L’altro giovane trovato morto sabato si chiama Sina Ghanbari: aveva 23 anni e si sa solo che si trovava in quarantena nel famigerato carcere di Evin. Un terzo nome, Mohsen Adeli, e altri ancora non sono per ora confermati. Mahmood Amiry-Moghaddam, portavoce di Iran Human Rights consiglia cautela, perché “nel 2009 ci furono molte fake news sui morti, probabilmente diffuse dalle stesse autorità, e più tardi venivano fatti riapparire per screditare gli attivisti”, dice al Corriere. La sua organizzazione chiede l’istituzione di una commissione delle Nazioni Unite per indagare sui manifestanti uccisi nelle strade e sulle loro condizioni di detenzione; e spera che l’Alto Rappresentante per la politica estera dell’Ue Federica Mogherini ne parli l’11 gennaio, quando i negoziatori per il nucleare iraniano incontreranno a Bruxelles il ministro degli Esteri Mohammad Jawad Zarif. Le notizie di queste due morti in prigione e dell’arresto di almeno 3.700 manifestanti (questo il numero confermato dalle autorità), spesso giovanissimi (l’età media 25 anni) hanno suscitato le reazioni anche di alcuni deputati riformisti, che erano rimasti in silenzio durante le proteste. Ritorna l’incubo del 2009, quando migliaia di giovani furono imprigionati dopo le manifestazioni del Movimento verde, rinchiusi in centri di detenzione non ufficiali come Kahrizak e sottoposti a torture e violenze sessuali: tre furono uccisi. Lo scandalo fu tale che la Guida Suprema Ali Khamenei ordinò un’inchiesta e alcuni funzionari furono condannati al carcere, ma non tutti hanno davvero scontato la pena. “Siamo molto preoccupati per le condizioni inumane di cui riceviamo notizie dalle prigioni di tutto l’Iran, con celle da 50 dove vengono ammassati 300 detenuti. Dalle esperienze passate sappiamo che verranno sottoposti a torture negli interrogatori e processati a porte chiuse in Tribunali rivoluzionari, per fare di loro un esempio per tutti”, continua Amiry-Moghaddam. Alcune delle famiglie si sono sentite dire dai figli che se non li rilasciano si uccideranno. “Parole molto strane da prendere con cautela, perché il suicidio è la tipica giustificazione delle autorità. Ma può essere visto anche come un altro segno del terrore di questi giovani che non erano mai stati prima in prigione”. Il vicecapo della magistratura Hamid Shahriari minaccia “la massima punizione”, la pena di morte. La vita in carcere nel continente africano di Sara Moscogiuri ilcaffegeopolitico.org, 10 gennaio 2018 Il carcere, da sempre simboleggia il posto di raccolta dei cosiddetti “rifiuti della società” e spesso rappresenta in diverse realtà del mondo il luogo in cui i diritti umani fondamentali subiscono quotidiane e reiterate violazioni. Quando viene pronunciata la parola “carcere”, inevitabilmente, la mente ci rimanda ad un luogo blindato, difficilmente permeabile, con notizie poco chiare o totalmente assenti, il posto peggiore in cui nessuno vorrebbe ritrovarsi. Un luogo spesso posto alla periferia delle città, al cui interno vengono raccolti coloro i quali, a vario titolo, si sono macchiati di reati più o meno gravi e che, per un periodo variabile, devono sostarvi in vista dell’espiazione della pena. Un luogo fisicamente e mentalmente troppo lontano dalla nostra quotidianità, cui nessuno di noi sente di appartenere, perché lì si trovano solo i delinquenti, i derelitti, i “rifiuti” della società. La prigione è a tutti gli effetti un’istituzione totale, cioè un luogo al cui interno si svolgono attività dettate da regole rigide, scandite dagli stessi orari, con gli stessi ritmi, negli stessi spazi. Impostazione ferrea che ripetuta per giorni, settimane, mesi o anni, comporta una standardizzazione delle singole vite e una perdita della propria soggettività: corpi disciplinati e istituzionalizzati, assuefatti alle regole della vita carceraria, perdono la capacità di assumersi delle responsabilità e sviluppare una nuova progettualità per il futuro, proprio e della propria famiglia. Narrare e raccontare ciò che accade in realtà come le prigioni non è sempre semplice, ma anzi richiede un notevole sforzo di tipo descrittivo che possa aiutare chi legge a comprendere senza restarne turbato. La situazione in cui versano le prigioni africane e le conseguenti condizioni di detenzione sono a dir poco scandalose. Nonostante la presenza di importanti strumenti come la dichiarazione di Kampala sulle condizioni di detenzione in Africa o gli Standard minimi per il trattamento penitenziario dei detenuti, sono ormai innumerevoli i rapporti stilati dalle varie organizzazioni ed agenzie internazionali, come ICRC e Amnesty International, che spesso denunciano i trattamenti disumani e degradanti cui vengono sottoposti i detenuti, con reiterate violazioni dei diritti umani fondamentali. Torture di vario genere, abusi, malnutrizione, condizioni igienico-sanitarie estremamente precarie, mancanza di spazi adeguati alla permanenza in cella, carenza (se non assenza) di attività formative per il futuro reinserimento socio-professionale e di attività ricreative per adulti e minori, lentezza dei processi e di conseguenza tassi altissimi di sovraffollamento che superano anche il 300% rispetto alla capienza regolamentare degli istituti di pena. Il World Prison Brief riporta i dati concernenti le prigioni di tutto il mondo suddivisi per paesi: ad esempio, i detenuti presenti nelle prigioni camerunesi nel 2016 risultano essere 27.997 a fronte di una capienza degli istituti di 17.815 unità. Aspetto drammatico è che spesso i minori condividono gli stessi spazi detentivi con gli adulti, andando a compromettere quelle esigenze educative tanto declamate nelle Regole Minime per l’amministrazione della giustizia minorile (meglio note come Regole di Pechino). Sia per gli adulti, sia per i minori in carcere sussiste una palese contraddizione, cioè proclamare l’intento di voler risocializzare e reinserire i detenuti isolandoli o permettendo che le loro giornate vengano spese in totale inutilità. Non possiamo pretendere che essi vengano sottoposti a torture, abusi, maltrattamenti, e non uscirne ancora più incattiviti. Dovrebbero quindi essere realizzati interventi a più livelli, provenienti cioè innanzitutto dall’amministrazione penitenziaria, la quale potrebbe e dovrebbe promuovere buone pratiche in termini di rispetto per i diritti umani fondamentali, intendendo con ciò la pulizia delle celle, materassi per dormire, acqua e cibo, assistenza sanitaria, divieto di tortura; formazione socio-professionale, soprattutto per i detenuti in uscita, poiché il ritorno in libertà rappresenta il momento con più alta probabilità di recidiva, in particolare per tutte quelle persone che non sono supportate da una rete sociale e che non possiedono conoscenze spendibili nel mondo del lavoro; accelerazione dei processi in modo da decongestionare gli istituti afflitti da sovraffollamento cronico; optare per approcci di mediazione penale che prevede il coinvolgimento della vittima e dell’ autore che si confrontano sul reato e sulle reciproche reazioni. Lo strumento della giustizia riparativa risulta particolarmente adatto proprio nella gran parte dei casi che si ritrovano nelle prigioni in Africa, trattandosi di “reati bagatellari”, cioè di minima rilevanza e gravità (furto di polli, saponette, pane ecc.). Nel caso dei minori, prioritaria è l’applicazione del principio della separazione dagli adulti: tale principio è infatti di capitale importanza, poiché i minori dovrebbero essere sottoposti a misure e trattamenti speciali, che ledano il meno possibile il loro percorso di crescita. Fondamentale è la promozione di percorsi alternativi alla detenzione pensati e studiati per la loro condizione di soggetti vulnerabili, alternative che prendono il nome di messa alla prova, detenzione domiciliare, liberazione anticipata. Accanto agli interventi di tipo statale altrettanto rilevante è certamente il contributo che proviene dalla comunità esterna e dall’associazionismo: la presenza di esterni permette ai detenuti di mantenere i contatti con la realtà e non perdere definitivamente i riferimenti attinenti al rispetto delle norme sociali. Il reinserimento di un prigioniero, così come il trattamento che egli riceve in carcere dovrebbe essere un impegno di tutti, proprio perché tutti possono trarre beneficio dal ritorno nella comunità di un individuo pienamente risocializzato, invece di uno che ne esce incattivito. Se è certo che il reato non possa restare impunito e che a riparare al danno dovrebbe essere il medesimo autore, il reo, egli non dovrebbe essere lasciato a trascorrere le sue giornate nella totalità inutilità, ma posto nelle condizioni di apportare un concreto contributo per tutta la comunità. Carovita e povertà, la Tunisia ha di nuovo voglia di rivoluzione di Gina Musso Il Manifesto, 10 gennaio 2018 Sette anni dopo. È rivolta contro la legge finanziaria, con scontri, saccheggi e un morto. La società civile sfida le leggi di emergenza, governo in difficoltà. Il collettivo #Cosa aspettiamo? e la sinistra radicale cavalcano la protesta sociale. A pochi giorni dal settimo anniversario della Rivoluzione dei Gelsomini, le proteste di piazza che tornano ad agitare la Tunisia con un morto, barricate di pneumatici in fiamme, saccheggi, scontri diffusi tra manifestanti e polizia in almeno una dozzina di città, raccontano di un paese in cui poco è cambiato dalla caduta del regime di Ben Ali a oggi, almeno sotto il profilo sociale. Alle “solite” richieste di lavoro e giustizia sociale si somma ora l’indignazione per l’aumento dei prezzi - benzina, telefonia e quindi internet alcuni dei generi di “prima necessità” colpiti - determinato dal varo dell’ultima legge finanziaria. Ad alimentare l’esasperazione nei confronti del governo di Youssef Chahed c’è anche il fatto che dopo gli attentati jihadisti del 2015 si è assistito non solo al crollo delle entrate del turismo, ma anche a una stretta sui diritti fondamentali - in Tunisia da allora vige lo stato d’emergenza -, compreso quello di manifestare. Assume così un significato ancora maggiore il modo in cui la protesta di questi giorni è dilagata dalla capitale a Gafsa, passando per Thala, Feriana, Sbeitla, per Kasserine e altri centri dell’omonimo governatorato, zona sempre calda del malcontento sociale. Una marcia c’è stata anche a Sidi Bouzid, dove divampò la rivolta che nel 2011 finì per travolgere Ben Ali, dando la stura alle cosiddette “primavere arabe”. Decine i feriti e gli arresti. A Sousse, Bizerte e Tunisi la polizia avrebbe fermato diversi membri del collettivo #Fech Nestanou (“Cosa aspettiamo?” in arabo), che alimenta la protesta con volantini, campagne social e tag murali. Ieri è tornato a riunire centinaia di persone davanti al Teatro municipale di Tunisi e per i prossimi giorni annuncia un evento nazionale a cui aderisce anche il movimento Menich Msamah (“Non perdono”), che lotta contro la legge per il rientro agevolato dei patrimoni portati all’estero dopo il 2011. Molto attivo anche il leader della sinistra “radicale” e del Fronte popolare Hamma Hammami, che lancia l’idea di una manifestazione il 14 gennaio - anniversario dei “gelsomini” - contro le “misure che distruggono il potere d’acquisto dei cittadini”. Riguardo all’anarchia in cui sono degenerate alcune proteste, Hammami ha invitato a non generalizzare: “Bloccheremo chiunque voglia screditare questo movimento sociale”, ha detto. Negli scontri, che in alcuni casi sono proseguiti la notte, non sono mancati gli assalti a negozi e banche. Ad esempio nella cité di Hay Ettadhamene, sobborgo della Grand Tunis nato in modo informale negli anni ‘70; e a Tébourba, dove un uomo di 43 anni è stato ucciso - informano fonti della sicurezza - dai gas lacrimogeni inalati. Oltre alle piazze bollenti e ai partiti di opposizione che alzano la voce, il governo si trova a dover gestire almeno un paio di grane politiche potenzialmente esplosive: da un lato le critiche della principale confederazione sindacale, l’Union générale tunisienne du travail (Ugtt), che fin qui aveva sostenuto Chahed; dall’altro il divorzio consumatosi tra i due principali partiti della maggioranza, Nidaa Tounes e gli islamisti di Ennahdha. Stati Uniti. Cannabis, Trump all’assalto della California di Marco Perduca Il Manifesto, 10 gennaio 2018 Il 4 gennaio, Jeff Sessions, Attorney General del Governo Trump, ha annullato il cosiddetto “Memorandum Cole” (pdf) con cui, nell’agosto del 2013, il sottosegretario alla giustizia del Presidente Obama aveva tolto dalle priorità federali la lotta alla cannabis per non ostacolare la legalizzazione della marijuana avvenuta a livello statale per via referendaria. Negli ultimi venti anni negli Usa le leggi sulla cannabis sono molto cambiate: quella terapeutica è legale in vari modi in 29 stati, quella “ricreativa” in otto stati oltre che nella capitale. Malgrado queste riforme radicali, la pianta resta totalmente proibita a livello del governo federale che la tratta alla stregua dell’eroina. L’effetto annuncio della decisione di Sessions ha fatto crollare buona parte dei titoli delle imprese che investono nel settore della cannabis e dei suoi derivati, in alcuni casi fino al 35%. Gli operatori più scafati hanno mantenuto la calma ritenendola una decisione grave ma non con conseguenze catastrofiche certe e inevitabili. Infatti, qualora il Congresso non dovesse attenuarla nelle prossime settimane, il nuovo quadro affida ai pubblici ministeri statali la decisione di come e quando applicare le leggi federali sulla marijuana. Il fatto che le riforme siano avvenute per via popolare segnala un consenso favorevole distribuito in tutti i livelli sociali e istituzionali. Jeff Sessions è notoriamente uno tra i politici più conservatori di Washington e da sempre è contrario alla marijuana. Fin dalla campagna elettorale aveva lasciato capire che per la cannabis i tempi sarebbero stati molto cupi senza però chiarire cosa avrebbe fatto ma con la cancellazione del “Memorandum Cole” è venuto allo scoperto. L’attacco dell’amministrazione Trump arriva a poche ore dall’entrata in vigore della nuova normativa che in California consente la libera produzione e il commercio della cannabis e dei suoi derivati. I californiani, che provano a modificare le leggi dai primi anni 70, hanno subito risposto per le rime: “Non c’è dubbio che alla fine la California prevarrà”, ha detto al New York Times il vice-governatore Gavin Newsom, sottolineando che “I cittadini hanno accettato l’inevitabilità della legalizzazione. Sarà molto difficile per Sessions riportarci indietro a una mentalità che esisteva solo cinque anni fa”. A Washington, Adam Schiff alla Camera e Elizabeth Warren in Senato, entrambi democratici provenienti da Stati che hanno legalizzato, annunciano ostruzionismo: “Tornare indietro nel tempo sulle decisioni federali è uno spreco di risorse” ha detto il primo; “la decisione mette a rischio la salute pubblica e la sicurezza” ha denunciato la seconda. Il Congresso presto sarà chiamato ad affrontare il conflitto tra le diverse giurisdizioni. La California è la sesta economia mondiale, e il business della cannabis medica vale 2 miliardi di dollari. Le stime per quella “ricreativa”, quando il sistema sarà a regime, prevedono un giro d’affari di circa cinque miliardi. Tra le peculiarità del modello californiano c’è l’emersione del sommerso, con una sorta di diritto di prelazione per chi ha venduto marijuana illegalmente, e una specie d’indulto per chi l’avesse comprata e usata illegalmente. Insomma il perfetto contrario dello schema della guerra alla droga made in Usa. La California ha recentemente deciso di non seguire l’Amministrazione Trump nella sua uscita dall’accordo sul clima e adotta politiche sull’immigrazione meno severe di quelle di Washington. L’attacco di Sessions potrebbe essere solo il primo passo in vista della guerra totale contro i liberal e i progressisti nelle elezioni di mid-term del prossimo novembre. Stati Uniti. Riaperto caso di un condannato a morte. Corte Suprema: “ci fu razzismo” La Repubblica, 10 gennaio 2018 La Corte Suprema della Georgia ha deciso di accogliere l’appello di un condannato a morte dopo aver verificato che uno dei giurati, si era espresso a favore della sedia elettrica per questioni razziali. “Per esperienza ho constatato che ci sono due tipi di neri: i neri e i negri. Siccome conosco la vittima e la famiglia di suo marito, posso confermare che loro sono dei bravi neri. Mentre Tharpe (l’assassino, ndr), non fa parte di questa categoria e quindi si merita la sedia elettrica. Inoltre, dopo aver studiato a lungo la Bibbia, mi domando se anche i neri hanno un’anima”. Grazie a questa “candida” dichiarazione scritta da un giurato di nome Barney Gattie, che faceva parte della giuria di un processo per omicidio, il caso del detenuto Keith Tharpe, condannato a morte nel 1991 per aver ucciso la sorella di sua moglie, è stato riaperto per razzismo. Così ha sentenziato la Corte Suprema dello stato della Georgia. Keith Tharpe avrebbe dovuto morire il 26 settembre del 2017 per iniezione letale, nonostante fosse stato dichiarato incapace di intendere. Non è stato quindi il suo quoziente di intelligenza inferiore alla media, a salvarlo, ma la dichiarazione razzista scritta sotto giuramento, di Gattie, uno dei giurati, bianco. Le sue affermazioni hanno costretto la Corte Suprema a chiedere il riesame del caso Tharpe. In Georgia i giurati devono pronunciarsi all’unanimità sulla pena di morte. E così fu per Keith. Solo che sette anni dopo, Gattie, totalmente inconsapevole della portata di quanto stava per affermare con tanto di prove, intervistato da uno dei procuratori che lavorava sull’appello, ha declamato con grande orgoglio quanto scritto sopra. Il caso verrà ora riesaminato sotto la supervisione della Corte Suprema che è ricorsa al Sesto Emendamento per cui si richiede il processo da parte di una giuria (di pari), e garantisce il diritto alla difesa per l’accusato. Solo nel 2017 in Georgia, sono stati condannati a morte 58 persone, tutti uomini. Nessuna donna. Le esecuzione sono state 9 e 5 le revoche e le sospensioni della sentenza. Messico. Si cerca un modello alternativo alla detenzione per i bambini e adolescenti di Virginia Negro La Repubblica, 10 gennaio 2018 Una possibile via d’uscita dalla violenza. Esther ha 39 anni e viene dal Salvador, e racconta perché ha deciso di attraversare la frontiera: “Vengo con mia figlia, che ha 13 anni. È già considerata una donna, e se la disputano varie gang criminali. Ho paura di farla uscire, anche di mandarla a scuola”. Il numero dei centroamericani diretti verso il vicino nordamericano continua a crescere anno dopo anno. Per le migliaia di messicani che attraversano il confine settentrionale, sono altrettanti i migranti che attraversano su imbarcazioni improvvisate il fiume Suchiate, che separa il Messico dal Guatemala, provenienti dal Salvador, Guatemala, Nicaragua e Honduras che decidono di lasciare la loro terra, attraversare il Messico e raggiungere gli Stati Uniti. Esther ha 39 anni e viene dal Salvador, e racconta perché ha deciso di attraversare la frontiera: “Vengo con mia figlia, che ha 13 anni. È già considerata una donna, e se la disputano varie gang criminali. Ho paura di farla uscire, anche di mandarla a scuola”. La violenza delle pandillas. Secondo dati di Human Rights Watch (2016), nel 2014 solo in Honduras sono stati registrati più di 400 omicidi di minori dovuti a scontri tra bande criminali, le pandillas. Nell’ottobre del 2015 il governo messicano ha calcolato l’ingresso di almeno 27.000 minori non accompagnati durante i dieci mesi precedenti (Dati, DIF, Sistema Nacional para el Desarrollo Integral de la Familia). Giovani che fuggono da situazioni che mettono a rischio la loro integrità fisica e che, dunque li candidano a richiedere lo status di rifugiato o richiedente asilo già in Messico. “Non tutti vengono informati sufficientemente sui loro diritti, quindi il rimpatrio, a meno che non ci sia la sollecitazione d’asilo, è la norma”, dice Vincenzo Castelli, dottore in etica sociale, profondo conoscitore della realtà messicana, lavorando da anni come consultore in questo lato del mondo. I numeri parlano chiaro, nel 2016 davanti a 40.000 minori non accompagnati che entrarono in Messico solo 246 hanno fatto richiesta d’asilo, e sono stati 123 casi quelli risolti positivamente (Dati Comar, Comision Mexicana de Ayuda a Refugiados). Una nuova legge poco applicata. Purtroppo, anche dopo la riforma legislativa del 2014, continua la pratica della detenzione nei centri migratori del governo, dove le condizioni sono analoghe alle carcerarie. Infatti, anche se questa nuova legge generale sui diritti dei bambini, bambine e adolescenti stabilisce che in nessun momento i minori migranti verranno privati della libertà in stazioni o centri di detenzione migratoria, la mentalità dei centri di accoglienza continua ad essere quella della detenzione e della privazione della libertà. Oltretutto, il Messico lo scorso luglio è stato tra i paesi firmatari della Declaracion de San Josè dove si impegna proprio a creare alternative viabili alla detenzione amministrativa ai richiedenti asilo. Il contrasto tra il de iure e il de facto continua ad essere oceanico, e la prassi resta la reclusione. Dall’Italia al Messico: un modello di accoglienza alternativo. Anche nella nostra Italia il numero dei minori non accompagnati è in crescita. Solo nel 2016, 25.850 bambini e adolescenti non accompagnati sono sbarcati in Italia: più del doppio rispetto al 2015. Un aumento che ha impulsato l’approvazione della cosiddetta “Legge Zampa”. Quest’ultima prevede varie misure, tra le principali ci sono il divieto di respingimento alla frontiera per i minorenni non accompagnati, la riduzione dei tempi di trattenimento dei minori nelle strutture di prima accoglienza da 60 a 30 giorni, oltre a stabilire un sistema organico e diversificato d’ accoglienza e, aggiunge Vincenzo Castelli, “istituisce la figura professionale del tutor, che accompagna il minore verso l’autonomia”. La prima struttura che sta cercando di applicare questo nuovo ed alternativo modello è “El Colibrì”, a Villahermosa, Tabasco. Qui, i giovani possono continuare un percorso educativo tanto formale quanto informale, e l’integrazione, ma soprattutto la costruzione di un progetto di vita autonoma sono i grandi scopi di questa innovativa realtà. Arabia Saudita. Tre anni fa le 50 frustate al blogger Raif Badawi di Riccardo Noury Corriere della Sera, 10 gennaio 2018 Il 9 gennaio 2015, mentre una delegazione dell’Arabia Saudita partecipava a Parigi alla manifestazione di solidarietà per la redazione di Charlie Hebdo, in quello stesso paese la libertà d’espressione veniva punita nel modo più barbaro: con la frusta. Quella mattina, infatti, il blogger Raif Badawi veniva portato sulla pubblica piazza di Gedda e sottoposto a 50 frustate. Il suo “reato”? Aver creato un portale per discutere di questioni sociali e politiche. Per questo, Badawi era stato arrestato nel giugno 2012 e condannato nel 2014 a 10 anni di carcere e a 1000 frustate, da somministrare 50 alla settimana per 20 settimane. Le 50 frustate del 9 gennaio 2015, per fortuna, sono rimaste le ultime. Il mondo ha reagito, ovunque attiviste e attivisti hanno svolto manifestazioni di fronte alle ambasciate (nella foto, una delle tante di fronte alla rappresentanza diplomatica saudita di Roma), a Badawi sono stati numerosi dedicati riconoscimenti (come il premio Sakharov del Parlamento europeo). Tre anni dopo Badawi rimane in carcere, teoricamente sempre a rischio di subire le rimanenti 950 frustate. Per questo gli appelli per il suo rilascio avanti. Nel frattempo, però, il mondo si è dimenticato di lui e degli altri prigionieri di coscienza, tra cui lo stesso avvocato di Badawi, Waleed Abu al-Khair, delle centinaia di condanne a morte eseguite ogni anno e dei crimini di guerra compiuti da quasi tre anni nello Yemen (grazie anche alle forniture di bombe da parte dell’Italia). Alcuni dei testi di Badawi sono stati pubblicati da Chiarelettere nella raccolta “1.000 frustate per la libertà”. Altri scritti sono stati pubblicati qui dal Guardian.