Il governo si è riunito ieri, ma della riforma penitenziaria non c’è traccia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 febbraio 2018 Su Radio Radicale due giorni di trasmissione non stop con gli interventi di giuristi, politici e giornalisti. Donatella Ferranti, Presidente della Commissione Giustizia della Camera, ha spiegato ai microfoni dell’emittente radicale che l’iter è ancora lungo. La riforma dell’ordinamento penitenziario non va avanti: ieri si è riunito il Consiglio dei ministri, ma all’ordine del giorno non c’era l’esame definitivo dei decreti attuativi della riforma dell’ordinamento penitenziario. Il Partito Radicale continua la sua azione nonviolenta e da ieri, compresa tutta la giornata di oggi, è in corso una mobilitazione con una trasmissione no-stop di Radio Radicale, condotta da Massimiliano Coccia, Lorena D’Urso, Alessio Falconio e Giovanna Reanda, con gli interventi di giuristi, politici, giornalisti e tutti gli addetti ai lavori dell’ambito penitenziario e giudiziario. Si è persa quindi un’occasione per la certezza dell’approvazione della riforma. Ora rimane in bilico la certezza del diritto, quello che prevede la completa attuazione dell’articolo 27 della nostra Costituzione nell’ordinamento penitenziario. Nella giornata di ieri, per un secondo, si erano accese le speranze. La notizia della convocazione del Consiglio dei ministri, era stata lanciata un’agenzia stampa con la notizia dell’approvazione dei decreti attuativi. A smorzare le speranze, le attese di migliaia di detenuti e familiari, è stata proprio l’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini, giunta oramai al 18esimo sciopero della fame. “Niente da fare - ha annunciato la radicale Bernardini, l’agenzia ha confuso l’ordinamento penitenziario con “attuazione del principio di delega della riserva di codice nella materia penale”. Sì, perché ha tratto in inganno la dicitura “esame definitivo delle Disposizioni di attuazione del principio di delega della riserva di codice nella materia penale, a norma dell’articolo 1, comma 85, lettera q), della legge 23 giugno 2017, n. 103”, che certamente ha a che fare con l’ordinamento penitenziario, ma dal punto di vista dell’ambito di materia penale. Articolo già licenziato preliminarmente ad ottobre scorso e solo ora approvato definitivamente. Rimane quindi il lecito dubbio se il governo ce la faccia ad approvare definitivamente la riforma. Durante la trasmissione speciale di Radio Radicale dedicata, per l’appunto, alla mobilitazione straordinaria per l’approvazione del nuovo ordinamento, c’è stato un intervento di Donatella Ferranti, la presidente della commissione giustizia della Camera, la quale ha spiegato che l’iter è ancora lungo. “Le Commissioni di entrambe le Camere - ha spiegato la Ferranti - hanno dato pareri diversi che non collimano, soprattutto in merito alla modifica del 4bis. Quindi il Consiglio dei ministri, una volta riunito, se non dovesse accogliere le osservazioni, dovrà inviare alle commissioni le eventuali motivazioni. Dopodiché - continua Donatella Ferranti - la commissione avrà tempo dieci giorni per esprimere un parere”. Una notizia che non lascia ben sperare. L’unica speranza è quella di una convocazione straordinaria da parte del Consiglio dei ministri per accelerare i tempi, altrimenti se ne riparlerebbe dopo le elezioni. L’unica certezza è che se il governo dovesse farcela, la riforma sarà comunque incompleta, con il rischio - se dovesse accogliere le osservazioni della commissione giustizia del Senato - anche di depotenziare la modifica del 4 bis, il fulcro principale dei decreti attuativi visionati. Troppi suicidi e troppe morti in carcere di Sergio Ravelli* welfarenetwork.it, 9 febbraio 2018 Un giovane di 28 anni, detenuto per il reato di spaccio, è deceduto l’altra sera nel carcere di Cà del Ferro. In un primo momento si era ipotizzato il suicidio, ma dalle prime ispezioni medico legali eseguite sul corpo sembrerebbe che la causa del decesso sia stato un arresto cardiocircolatorio anche se sono ancora in corso gli accertamenti per capirne la causa, soprattutto alla luce della giovane età. Il 28 maggio dello scorso anno, sempre nel carcere di Cremona, un detenuto di 35 anni si era tolto la vita attraverso un rudimentale cappio. Nel solo mese di gennaio 2018 sono già 6 detenuti che si sono suicidati nelle carceri italiane. A questi vanno aggiunti i 10 decessi avvenuti in carcere per “cause naturali”. Morti e suicidi in carcere continuano dunque in maniera inarrestabile e crescente: 45 suicidi e 115 decessi nel 2016; 52 suicidi e 123 decessi nel 2017. Un numero enorme che fa tornare agli anni più bui della detenzione in Italia. Dopo che la Corte europea ha archiviato il ‘caso Italia’ sulle condizioni delle nostre carceri, ricomincia a montare il sovraffollamento. Ma nonostante tutto questo il governo non ha ancora provveduto alla definitiva approvazione dei decreti delegati di riforma dell’Ordinamento Penitenziario che deve necessariamente avvenire prima del 4 marzo, giorno del voto per le elezioni politiche. Dopo il voto tutto ricomincerà da capo e il lavoro di tre anni iniziato con gli Stati Generali dell’esecuzione penale andrà letteralmente in fumo. Per scongiurare tutto ciò è ripresa l’iniziativa nonviolenta dell’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini che dal 22 gennaio scorso è in sciopero della fame, sostenuta dall’adesione di circa 7 mila cittadini detenuti e liberi in tutta Italia, affinché il Governo assicuri la definita approvazione di questa importante riforma entro il mese di febbraio. *Presidente di Radicali Cremona, associazione del Partito Radicale Chi insegna in carcere merita un ruolo speciale: uno “scivolo” per andare prima in pensione? di Alessandro Giuliani tecnicadellascuola.it, 9 febbraio 2018 Ai docenti della scuola secondaria che lavorano nelle carceri, a contatto con i detenuti, dovrebbe essere riconosciuto un ruolo speciale: lo ha detto Elena Centemero, deputata e responsabile scuola e università di Forza Italia, al termine di una visita al carcere di Monza e di un incontro con i docenti che vi lavorano svolti la mattina dell’8 febbraio. Questi prof meritano un riconoscimento. Secondo la forzista, “la pena detentiva dovrebbe sempre prevedere un serio percorso riabilitativo basato anche, e soprattutto, sull’istruzione. Proprio per questo, gli insegnanti che operano in carcere svolgono un lavoro fondamentale che merita un riconoscimento”. Centemero si dice dispiaciuta del mancato accoglimento della sua proposta in tale direzione: “Durante la legislatura ho proposto di riconoscere un ruolo speciale ai docenti che prestano servizio nelle scuole in carcere nella consapevolezza che l’insegnamento negli istituti penitenziari richiede competenze straordinarie che devono avere un riscontro anche giuridico. Il Pd non ha voluto dar seguito alla mia iniziativa”. In mezzo alla notizia - La responsabile Scuola di Forza Italia, infine, si impegna a portare “avanti questo impegno nella prossima legislatura”. Qualora il partito a cui appartiene dovesse andare al Governo, quindi, potremmo risentire parlare dell’iniziativa della Centemero, probabilmente sotto forma di un vero e proprio disegno di legge da sottoporre alle commissioni parlamentari di competenza. Lo “scivolo” degli anni Ottanta - L’idea della deputata di FI, comunque, non è nuova: sino agli anni Ottanta, infatti, i docenti che svolgevano attività di insegnamento in istituti cosiddetti “speciali”, beneficiavano di una sorta di bonus-scivolo pensionistico, molto simile a quello previsto ancora oggi per i lavoratori delle forze armate e per gli agenti di polizia. In pratica, ogni tre anni di servizio effettuato all’interno di istituti collocati nelle carceri, negli ospedali, oppure scuole per alunni sordi o ciechi, scattava un bonus di maggiorazione di alcuni mesi (in genere quattro o sei): quindi, dopo 30 anni di servizio, il docente si ritrovava con cinque anni in più a livello previdenziale. Un avanzamento che, ai tempi della riforma Monti-Fornero e della pensione di vecchiaia a 67 anno o di anzianità solo con almeno 42-43 anni di contributi, si rivelerebbe assai prezioso. Giustizia e riforme: assenti ingiustificati di questa campagna elettorale di Mariano Bella Il Dubbio, 9 febbraio 2018 Scrivevo qualche giorno fa su questo giornale che l’eliminazione delle clausole di salvaguardia che farebbero aumentare l’Iva di quasi 13 miliardi di euro dal primo gennaio 2019 dovrebbe essere un tema della campagna elettorale. Purtroppo ci sono altri assenti ingiustificati, tutti temi di primissimo piano. Intanto, le riforme istituzionali. Dunque, il 4 dicembre 2016, come qualcuno ricorderà, gli italiani hanno rigettato quel progetto (ko 59 a 41%). Molti leader che sostennero posizioni avverse alla riforma suggerivano di votare No perché poi si sarebbe comunque messo mano alla questione per riformulare il tutto in modo coerente e funzionale. Per esempio, ricordo che taluni dissero che il Senato andava abolito del tutto, che si sarebbe dovuto pensare finalmente al presidenzialismo e via discorrendo. Mi pare di ricordare, tra l’altro, che un po’ tutti concordassero sulla necessità di modificare l’articolo 117 della Costituzione, quello, per intenderci, sulla competenza concorrente tra Stato e regioni (che, si disse, e con ragione, crea tanti, troppi conflitti istituzionali). Ancora: mi punge il ricordo di un diffuso - e confuso - comune sentire sulla necessità di ricentralizzare alcune funzioni come, per esempio, le grandi infrastrutture a rete. Un altro tema che emerge di tanto in tanto nel dibattito politico- mediatico, e talvolta con tale virulenza da immaginare mobilitazioni nazionali per la sua soluzione e che ingenuamente pensavo decisivo per il buon vivere e il prosperare della società e dei suoi componenti è il funzionamento della giustizia. Per dire la verità, oltre a me e pochi amici, anche alcune istituzioni internazionali di peso non irrilevante (Ocse e Fmi, tra le altre) ritengono, a questo punto forse scioccamente, che uno dei freni alla crescita del prodotto potenziale della nostra economia risieda nel cattivo funzionamento della giustizia. Una disfunzione che genera tanto una strutturale incertezza dei diritti e del grado di esigibilità delle obbligazioni che ne scaturiscono, quanto una scarsa e decrescente prevedibilità degli esiti delle controversie e quindi dei costi connessi. I tempi della formulazione delle decisioni giudiziarie (espressione da preferire rispetto a “i tempi della giustizia”), seppure in netto miglioramento, sono ancora troppo elevati in Italia nel confronto internazionale. Di tutto questo non si parla, nonostante la campagna elettorale costituisca il momento più adatto per farlo (penso: se non in campagna elettorale, quando?). Possibile spiegazione (sbagliata): economia e società nel giro di un anno hanno subito mutamenti tali da non richiedere più tali profonde revisione degli assetti legislativi e istituzionali. Francamente non mi pare, ce ne saremmo accorti. Possibile spiegazione (maliziosa): parlare di riforme istituzionali porta male e farlo in campagna elettorale porta peggio; esprimersi sulla giustizia non è, diciamo così, igienico; anzi, non lo è mai stato e la paura anch’io ne avrei - è giustificata: pensate a cosa accadrebbe se qualcuno rilanciasse il tema della separazione delle carriere tra inquirenti e giudicanti (in tutti i palinsesti e nelle prime pagine dei giornali conquisterebbe il secondo posto, perché Sanremo non si batte). Ed ecco che la mia spiegazione dei temi dell’attuale campagna elettorale si ottiene per sottrazione: escludendo i suddetti temi fondamentali, sostanzialmente si smette di parlare alle persone per interloquire con i contribuenti: infatti, non resta che parlare di rapporti di dare e avere economico tra pagatori di tasse e operatore pubblico. Sul versante dei tributi, imperversa la flat tax (dare di meno allo Stato) nella formulazione battutistica, mentre su quello della spesa pubblica si impongono redditi minimi, migliori pensioni e aree di esenzione d’imposta (avere di più dallo Stato). A questo punto mi verrebbe da dire: fate in fretta, per favore, a ottenere questi risultati fantastici perché con gli ultimi dati meno occupati e riduzione delle vendite al dettaglio a dicembre 2017, contrazione della fiducia di famiglie e imprese a gennaio 2018 - c’è la possibilità che gli italiani si ritrovino alla meta con minore crescita di quella prevista e con un quadro peggiore di finanza pubblica. Quindi, il rischio è che non ci siano le risorse da riscuotere, chiunque vinca il 4 di marzo. E questo a prescindere dalla mia profonda convinzione che senza buone istituzioni, tra cui quella giudiziaria, nessuna riforma fiscale - cioè riforma dello stare insieme come collettività attraverso un riequilibrio della dignità dei cittadini nei confronti dello strapotere dello stato - avrà mai successo. Ventimila casi al mese. Così la mediazione accelera la giustizia di Giuseppe Legato La Stampa, 9 febbraio 2018 Meno spese e tempi ridotti per evitare cause infinite. Nel primi 9 mesi del 2017 sono già 200 mila le mediazioni iscritte in Italia, più del totale di cinque anni fa e in leggero calo rispetto al 2016. Di queste una su quattro si registra nel Settentrione. La nostra regione è la terza del Nord, davanti a Liguria, Veneto, Friuli e dietro solo a Lombardia ed Emilia Romagna. Dopo il primo incontro quasi un cittadino su due accetta di discutere per trovare una soluzione. Gli stessi giudici delegano sempre di più a questo strumento - destinato a deflazionare il carico giudiziario - la risoluzione delle controversie: 7700 nel 2014, 18 mila nel 2015, 19.120 nel 2016 (il 90% per improcedibilità). Torino cresce con il trend nazionale. Potrebbe essere un antidoto molto utile contro i tempi della giustizia lumaca, i tribunali intasati (23 mila processi pendenti solo in corte d’Appello), le controversie infinite che durano anni e comportano costi elevati per la collettività e per i singoli direttamente coinvolti. “Il mediatore è come un buon padre di famiglia, ed è terzo e imparziale, mai un giudice - racconta Luigi Maria Perotti, ingegnere che ha fondato con il fratello Carlo l’Organismo di Mediazione e Conciliazione della società Perotti & C. S.r.l -, che svolge una delicata attività professionale finalizzata a realizzare la composizione di contrapposti interessi”. Il ricorso alla mediazione garantisce tempi decisamente più rapidi di quelli del percorso giudiziario. Di fronte ai circa 900 giorni necessari, di media, per ottenere una sentenza nei tribunali cosiddetti di eccellenza (Torino lo è), la mediazione, per legge, dura fino a un massimo di 90 giorni con possibilità di proroga (fisiologica per dirimere il contenzioso). È stata prevista dal legislatore per le liti condominiali, le locazioni, le successioni, i diritti reali, la colpa medica-responsabilità sanitaria, le diffamazioni a mezzo stampa, le controversie in materia bancaria e assicurativa o in materia di azienda. “Ma la casistica in cui sfruttarla proficuamente è tendenzialmente sconfinata”, spiega l’avvocato Eugenio Dadone uno dei 50 mediatori politecnici della Perotti & c. Srl. “Il suo ricorso, al netto dei casi di obbligatorietà, andrebbe incentivato con benefici non solo per le parti, ma anche per il sistema-Paese”. Quali poi siano i vantaggi - al netto dei tempi brevi - lo sottolinea l’avvocato Laura Presti, altro mediatore della Perotti & c: “La procedura di mediazione si svolge in un contesto informale che consente alle parti personalmente di esprimere con libertà, nel corso degli incontri, fatti, emozioni ed obiettivi in un contesto ove tutti i soggetti partecipanti sono tenuti al vincolo di riservatezza su quanto letto o sentito. La presenza di regole formali renderebbe inutile la natura stessa del procedimento”. Capitolo costi: le tariffe ufficiali degli organismi di mediazione, commisurate al valore della controversia, prevedono per avviare il procedimento da 40 a 80 euro, oltre Iva, al deposito della istanza di mediazione in funzione del valore della controversia. “L’eventuale indennità successiva verrà corrisposta laddove il procedimento prenderà effettivo avvio” spiega Perotti. “Alle parti che corrispondono l’indennità di mediazione è riconosciuto per l’anno successivo, un credito d’imposta fino alla concorrenza di 500 euro in caso di raggiunto accordo” aggiunge Dadone. Infine: il verbale di accordo, ove sottoscritto dalle parti e dai legali intervenuti, ha valore di “titolo esecutivo” ed è esente dal pagamento della tassa di registro fino alla concorrenza di 50 mila euro del valore dell’operazione. Mafie. La vera sfida è contro la cultura degli inganni di Giuseppe Lombardo* La Repubblica, 9 febbraio 2018 Sostiene Stephen Hawking: “Il più grande nemico della conoscenza non è l’ignoranza, è l’illusione della conoscenza”. Non possiamo più correre il rischio, quando si parla di mafie, di accettare dogmi o precomprensioni. La ricerca della verità va coltivata ogni giorno attraverso la valorizzazione di metodi di lavoro che, aperti al confronto, siano la sintesi di determinazione e flessibilità. Chi opera dalla parte della legge sa che la giustizia non si alimenta di gesti arroganti ma di azioni autorevoli e decise: caratteristiche proprie di chi è chiamato a rappresentare lo Stato. Lo sanno benissimo, gli uomini e le donne di mafia, che il giudice è tanto più forte quanto più è ampia la sua capacità di conoscenza, che consente di aprire amplissimi spazi alla correlata libertà di giudizio. Sanno bene quegli uomini e quelle donne che il giudice libero è l’esatto contrario del mafioso, che è servo degli schemi criminali che la sua appartenenza gli impone: è schiavo di una linea di comando che, in quanto oscura, non lo rassicura per niente e lo mette, ogni giorno, di fronte al dubbio che acceca l’esistenza di chi non comprenderà mai fino in fondo il suo vero ruolo. Il grande capo, come il picciotto, vive nel sospetto che ci sia altro a governare il suo stesso agire. Quanto sia esteso quel mondo di sopra non sarà mai in grado di saperlo: è immerso nella drammatica consapevolezza di chi non conosce e non può scegliere. E chi non può scegliere non decide. Al mafioso non rimane altro che vivere in uno stato di perenne autoinganno. Che può diventare appagante ai suoi occhi nella misura in cui quel microcosmo criminale, dagli incerti confini, tende a trasformarsi ogni giorno in qualcosa di diverso, in una sorta di rincorsa ciclica verso nuove forme di manifestazione mafiosa. Ecco la ragione per la quale il moderno contrasto ai sistemi criminali, sempre più integrati ed allargati, passa anche e soprattutto dalla nostra capacità di comunicare che la forza dello Stato va oltre il semplice contrasto del simbolismo mafioso. Oggi siamo chiamati a colpire in profondità la loro capacità di veicolare i loro valori antidemocratici, spezzando i nuovi circuiti informativi in grado di alimentare dinamiche criminali sempre più evolute. Non è più necessario ricordare i numerosi episodi tipici della sopraffazione mafiosa, a cui l’Italia ha assistito nella sua lunga storia, per trarre la convinzione che ‘Ndrangheta, Cosa Nostra, Camorra ed altre espressioni del crimine organizzato - che divengono manifestazione unitaria quando è richiesto da interessi superiori - hanno da tempo trovato il “loro” modo di comunicare, a volte in modo grossolano altre attraverso raffinati simbolismi, di essere capaci di condizionare il destino di migliaia di persone. La vera sfida che ci aspetta è quella di creare, collettivamente, le condizioni affinché un numero elevatissimo di persone, spesso libere e non sottomesse solo nel loro foro interiore, non divengano più le nuove componenti dell’ampia comunità dei deboli, degli impauriti, dei soggiogati. Dei collusi, dei contigui, dei conniventi e dei fiancheggiatori. Dei concorrenti esterni. Di tutti quelli che tristemente sono accomunati dalla frustrante convinzione che in una sorta di gioco circolare di copertura periodica, di cui divengono spesso protagonisti, si possa trovare la forza di costruire il futuro di realtà territoriali quasi integralmente inginocchiate davanti ad un boia, al quale, con coraggio, andrebbe tolto definitivamente il cappuccio. Non è più tempo di ascoltare solo le paure, fisiche e psicologiche, di quei soggetti che la mafia l’hanno sfiorata o vissuta da vittime sulla propria pelle. Non basta più guardare gli occhi spenti di tutti quelli che non hanno avuto la forza di chiedere aiuto. Attraverso la percezione di quelle paure e di quegli sguardi abbiamo capito che la risposta alla domanda di giustizia, in questo Paese, passa dal coraggio di chi agisce e non dal silenzio vigliacco di chi osserva. “La vigliaccheria chiede: è sicuro? L’opportunità chiede: è conveniente? La vana gloria chiede: è popolare? Ma la coscienza chiede: è giusto?”. Alla coscienza dei tanti che per troppo tempo si sono interrogati sulla efficacia delle azioni da intraprendere, le mafie hanno continuato a contrapporre veicoli comunicativi rapidi, che allo stesso tempo sono divenuti destabilizzanti ed eversivi. Proprio per questo oggi siamo chiamati a rinnovare la determinazione di chi coltiva un alto senso di giustizia ed è consapevole che la forza della legge diventa dirompente nell’azione di contrasto del crimine organizzato nel momento in cui la sua concreta applicazione sia preceduta dalla comprensione profonda del linguaggio, spesso simbolico, allusivo o gestuale, di tutti coloro i quali determinano, realmente, le sorti di strutture mafiose così ampie, complesse ed evolute. Nelle mille sfaccettature, intonazioni, sottintesi del loro modo di parlare c’è la traccia di una capacità di comunicare a cui noi siamo chiamati a contrapporre la forza della conoscenza collettiva, della giustizia diffusa, del moderno sentire antimafia. Quello delle mafie non è il nostro linguaggio. Non è il nostro modo di comunicare e non lo sarà mai. Nei loro messaggi violenti, originati dall’arroganza culturale tipica di chi non regge il confronto ad armi pari, si annidano significati ulteriori che hanno contribuito a generare la convinzione del mafioso di essere portatore di un modello forte e vincente. Abbiamo ormai compreso il loro modo di comunicare, incrociando i loro sguardi, osservando i loro gesti, ascoltando i loro silenzi. Senza che se ne siano accorti, ci hanno detto molto di più di quanto avevano preventivato, consentendoci di comprendere che al dovere morale di combatterli con tutte le forze, senza girarsi mai dall’altra parte, deve seguire oggi l’impegno collettivo di tutti quelli che hanno scelto di contribuire alla crescita di una comunità nazionale che si identifica negli alti principi antimafia della nostra Carta costituzionale. È indicata in quelle pagine la strada che ognuno di noi è chiamato a seguire. Nel contrasto alle mafie non ci sono spettatori, non ci sono tifosi, non ci sono sostenitori: ci sono solo cittadini che svolgono tutti insieme funzioni pubbliche, con disciplina ed onore, divenendo protagonisti di quella necessaria, ed ampia, azione di salvaguardia del bene comune. Non è più tempo di sperare che altri, domani, facciano la parte che oggi tocca a noi. Domani, nell’azione di contrasto alle mafie, è sempre troppo tardi. *Magistrato, procuratore aggiunto della Procura della Repubblica di Reggio Calabria Caso Macerata. Su Minniti e Orlando tempeste incrociate di Goffredo De Marchis La Repubblica, 9 febbraio 2018 Contestati, minacciati, insultati. Due ministri del Pd presi di mira sui social network. Andrea Orlando, da destra, a causa della sua visita agli stranieri feriti da Luca Traini a Macerata. Marco Minniti, da sinistra, per aver detto che un episodio come l’attentato di sabato scorso lo aveva intravisto dieci mesi fa e per questo “bisognava intervenire sugli sbarchi dalla Libia”. Non era una giustificazione per la “rappresaglia di odio razziale”, ma la comprensione di un clima. Eppure il titolare dell’Interno è finito in cima ai trend topic di Twitter, criticato ancora una volta per la sua politica dell’immigrazione e per aver minacciato di fermare le manifestazioni politiche a Macerata. Il ministro non digerisce queste contestazioni e la loro provenienza. Come si fa a non capire che quell’avvertimento era rivolto a Forza Nuova, ovvero ai fascisti, “dal momento che Anpi, Cgil, Arci e Libera avevano già aderito all’appello del sindaco, non mio, per rinviare il loro appuntamento?”. Come si fa a non vedere che è un primo cittadino “non razzista, non fascista, non populista, un uomo di sinistra” a chiedere un po’ di pace per la propria comunità, magari sperando di superare lo shock della morta di Pamela Mastropietro e degli spari di Traini, di ricominciare a guardare al futuro visto che Macerata è candidata al ruolo di capitale della cultura? Sono i sindaci, i politici più vicini alla gente, a cercare la tranquillità. Perché la sinistra è diventata incapace di ascoltare anche loro? La risposta di quel mondo è un rilancio che spiazza il ministro. La sua minaccia, pronunciata alle 19 di mercoledì da Pesaro dopo che le associazioni di sinistra avevano già rinunciato, era rivolta solo ai neofascisti. Invece no: domani Leu e altre sigle saranno comunque in piazza. Minniti, da ministro, valuterà con tutti gli organismi competenti se lasciarli fare. Il ministro della Giustizia Orlando ha tirato fuori le unghie per rispondere alle intimidazioni dell’estrema destra dopo il saluto in ospedale agli stranieri feriti. Si è ricordato della sua gioventù a La Spezia, terra di comandanti partigiani: “Mi hanno insegnato che al momento buono il fascista scappa sempre. Quindi non mi fanno paura”, ha raccontato a Circo Massimo. Lui e la sua famiglia sono stati oggetto di avvertimenti chiari, di offese pesanti. Il clima generale però è pesante. Perciò va rispettata la richiesta del sindaco Carancini, ma “ci vorrà un luogo e un tempo per manifestare”. Contro la violenza, il razzismo e contro “gli irresponsabili Salvini e Berlusconi: non si giustifica un atto criminale, non gli si dà un valore politico. È un rischio enorme”. Dovrà essere sempre l’Anpi a convocare un appuntamento pubblico in modo da sottolineare “i valori antifascisti”. Perché secondo Orlando il Pd non è stato timido “ma occorre alzare l’iniziativa per non rassegnarsi al senso comune che in Europa ha prodotto dei mostri”. Reati a querela, snodo decorrenza di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 9 febbraio 2018 Servirà un terzo passaggio in Consiglio dei ministri per l’approvazione definitiva del decreto legislativo sull’estensione dell’area della procedibilità a querela. Ieri il Governo ha approvato l’ultima versione del testo che è però stato rinviato in Parlamento visto che il ministero della Giustizia non ha recepito integralmente le condizioni di Camera e Senato. Il testo rappresenta l’attuazione della delega contenuta nella legge di riforma del processo penale, la n. 103 del 2017, in vigore dall’agosto scorso, e insieme a questa deve essere letto. Perché se da una parte la riforma già operativa introduce, tra l’altro, una nuova causa di estinzione del reato per effetto di condotte riparatorie relativi a illeciti perseguibili a querela, dall’altra il decreto va ad allargare proprio la perseguibilità a querela. Sino a comprendere una serie di delitti sinora procedibili d’ufficio oppure a sterilizzare l’impatto delle aggravanti su condotte che solo nell’ipotesi base sono soggette a querela. L’obiettivo è chiaro: evitare di fare scattare meccanismi di repressione automatici per fatti di una rilevanza trascurabile, alleggerendo i carichi processuali senza toccare il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale; nello stesso tempo si estende la possibilità che già dalla fase delle indagini si possano attivare meccanismi conciliativi dei quali si gioverebbe l’intero sistema senza compromettere la posizione della persona offesa in un rafforzamento dell’interesse privato alla punizione del colpevole. A rientrare nel perimetro del decreto sono i reati di truffa, frode informatica, appropriazione indebita, arresto illegale, indebita limitazione di libertà personale, perquisizione e ispezione personali arbitrarie, minaccia “grave”, violazione di domicilio commessa da pubblico ufficiale, falsificazione o alterazione del contenuto di comunicazioni, sottrazione di corrispondenza o rivelazione del suo contenuto, uccisione o danneggiamento di animali altrui. Nel caso della truffa è escluso il caso del danno patrimoniale di rilevante gravità e la minorata difesa (l’approfittamento cioè delle condizioni che impediscono una difesa compiuta). Per l’appropriazione indebita il riferimento è alle condotte realizzate con abuso di autorità o relazioni domestiche oppure abuso di relazioni d’ufficio di coabitazione o di ospitalità; tutti contesti in cui emergono in primo piano interessi e relazioni di natura strettamente personale per le quali la perseguibilità dell’offesa non può che essere affidata all’iniziativa del soggetto privato. Sono esclusi quei reati per i quali non è possibile individuare con precisione l’identità della persona offesa. È il caso, per esempio, dell’auto-riciclaggio che solo per collocazione materiale rientra tra i reati contro il patrimonio. La data di entrata in vigore del decreto rappresenterà poi uno snodo fondamentale. Infatti, il termine per la presentazione della querela per i reati interessati commessi in un momento antecedente inizierà proprio dalla data di entrata in vigore se la persona offesa ha avuto conoscenza del fatto-reato. Se è in corso un procedimento sarà il pm, nella fase delle indagini preliminari, oppure il giudice, dopo l’esercizio dell’azione penale, a informare la persona offesa. Escluso invece il cambio delle condizioni di procedibilità se il giudizio, sempre al momento dell’entrata in vigore della riforma, è in Cassazione. Rischio maxi-sanzioni per la privacy in tribunale di Ivan Cimmarusti Il Sole 24 Ore, 9 febbraio 2018 Maxi sanzioni fino a 150mila euro in caso di irregolarità nella gestione dei dati personali da parti dei soggetti delegati al trattamento “a fini di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati o esecuzioni di sanzioni penali”. Il Consiglio dei ministri ha approvato ieri in prima lettura lo schema di decreto legislativo che attua la direttiva 2016/680/Ue, con cui si disciplinano le regole di gestione dei dati personali non solo da parte dei Tribunale, ma anche di tutti quegli organismi che si occupano di svolgere indagini o verifiche di ordine pubblico. La norma ha l’obiettivo di fornire una regolamentazione organica del trattamento dei dati personali delle persone fisiche legate ad aspetti penali, che supera e sostituisce quella già disciplinata nei titoli primo (principi generali) e secondo (regole generali per il trattamento dei dati) del Codice (Dlgs 196/2003). Stando allo schema di decreto, si rischiano sanzioni da 50mila a 150mila euro nel caso in cui i dati non siano trattati in modo lecito e corretto e siano trattati per finalità diverse. Si va da 20mila a 80mila euro, invece, qualora ci siano violazioni delle disposizioni che regolano l’esercizio dei diritti di informazione, accesso, rettifica o cancellazione dei dati personali e limitazione del trattamento. Con il provvedimento, che ora dovrà ricevere i pareri delle Camere, si intende creare un testo unitario, tutto dedicato alla complessiva disciplina del trattamento dei dati personali in ambito penale, con l’obiettivo di creare un verso e proprio statuto, contenente i principi generali di regolamentazione della materia, rivolti anche al legislatore del futuro. Pisa: il Garante regionale “al carcere Don Bosco situazione di degrado” met.provincia.fi.it, 9 febbraio 2018 Sopralluogo del garante regionale dei detenuti questa mattina alla casa circondariale: un quadro di umanità sofferente nella sezione femminile e problemi rimasti irrisolti Una situazione di degrado con troppi problemi denunciati ma rimasti irrisolti, numerosi interventi segnalati, ma ancora da effettuare e un ambiente sempre più deteriorato. Questa la fotografia scattata dal garante regionale dei detenuti, Franco Corleone che questa mattina ha visitato la casa circondariale Don Bosco, insieme al garante dei detenuti di Pisa Alberto Di Martino. Corleone ha denunciato un quadro di umanità sofferente, soprattutto nella sezione femminile, dove ha registrato un forte sovraffollamento e mancanza di privacy. La sezione accoglie 37 detenute su una capienza massima di 13, in alcune stanze sono, infatti, presenti anche quattro detenute e, senza alcun rispetto per la privacy, si sono mantenuti i servizi igienici a vista. Secondo il garante regionale, questo edificio degli anni 20 su cui pesa fortemente l’inadeguatezza degli spazi e dei servizi necessita di un’urgente ristrutturazione e soprattutto della messa in funzione di quella che viene definita la cattedrale nel deserto, un fortilizio che potrebbe ospitare 30 persone ma che non è mai stato portato a termine e quindi ancora inutilizzato. Il garante ha reso noto alcuni numeri: 264 i detenuti presenti rispetto alla capienza massima di 217, dei quali 37 donne, 24 italiane e 13 straniere, e 227 uomini, 83 italiani e 144 stranieri, dei quali 38 provenienti dal Marocco, 23 dalla Tunisia, 13 dalla Romania e 21 dall’Albania. Un terzo dei detenuti ha una condanna per reati di droga, 8 sono in regime di semilibertà e 9 svolgono lavori esterni. Tra le proposte avanzate dal garante regionale quella di riaprire una sezione femminile a Livorno e di mettere in campo corsi professionali per il reinserimento dei detenuti stranieri nei loro Paesi e politiche internazionali per il loro rimpatrio assistito. Corleone ha annunciato che nei prossimi giorni incontrerà il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria di Toscana e Umbria per stabilire un cronoprogramma per superare una situazione divenuta ormai insostenibile. Corleone chiederà anche una serie di incontri nelle varie case circondariali con operatori e detenuti per illustrare i nuovi contenuti della riforma dell’ordinamento penitenziario. Napoli: baby gang, l’antidoto c’è di Francesco Uccello Gioia, 9 febbraio 2018 Minorenni che massacrano coetanei senza motivo, con ferocia inaudita: dopo le ultime aggressioni a Napoli, si riaccende l’allarme sulla violenza dei giovanissimi. Che oggi non sono più necessariamente disagiati. La prima cosa che ho imparato quando lavoravo come educatore con i ragazzi in ambito penale è che non ti guardano mai in faccia. Me l’avevano detto in tanti, anche un giudice del Tribunale dei minori di Napoli che ogni volta, prima di iniziare il procedimento, diceva al ragazzino di turno: “Guardami in faccia”. Abbassare gli occhi, evitare lo sguardo: non è perché si prova vergogna, ma un modo per ignorare l’altro, per non considerarlo come persona. Se i suoi aggressori l’avessero guardato in faccia, forse sarebbe andata diversamente per Arturo, il diciassettenne che in centro a Napoli, il 18 dicembre scorso, è stato assalito da un gruppetto di ragazzini i quali, senza nessun motivo, gli hanno sferrato dodici coltellate. Arturo è stato in fin di vita, oggi fatica a parlare e i segni di quelle ferite restano scolpiti sul corpo e nella mente. Chi è capace di tanta ferocia? A oggi, per quell’aggressione è stato arrestato solo un quindicenne. Gli altri tre della gang, tra i 12 e i 17 anni, potrebbero restare impuniti. Il 12 gennaio, intanto, un gruppo di baby delinquenti ha assalito Gaetano, 15 anni, come Arturo colpevole di aver “guardato nella direzione sbagliata”, e cioè colpevole di nulla. Massacrato di botte (fino a rendere necessaria l’asportazione della milza) “davanti a tutti”, come ha raccontato lui: “E nessuno ha fatto niente”. E chissà se riusciva a incrociare lo sguardo del suo allievo mentre lo rimproverava, la professoressa Franca Di Blasio, prima di essere sfregiata dal ragazzo con un coltello a serramanico, il 1° febbraio, in un istituto professionale del casertano. Erano 69 i minori detenuti nel carcere di Nisida, il 15 dicembre scorso. Un primato in Italia, Roma è seconda con 56. Ma questo non vuol dire che le baby gang siano un problema solo di Napoli: a gennaio, a Milano cinque ragazzini hanno devastato diverse carrozze della metropolitana; ad Albisola (Savona) quattro studenti tra i 15 e 18 anni hanno saccheggiato per giorni le auto in sosta, prima che la polizia li prendesse. Alla domanda su come nascano tanta violenza e delinquenza, cosa spinga un ragazzino a compiere simili gesti, la mamma di Arturo - Maria Luisa Iavarone, che non smette di cercare i colpevoli dell’aggressione a suo figlio - aveva già dato una risposta anni fa. Oggi le chiamano baby gang, ma la delinquenza minorile ha radici antiche: nel 1985 il giornalista di Repubblica Ermanno Corsi raccontava dei “muschilli”, quei bambini, corrieri della droga, che i poliziotti non riuscivano mai a prendere perché veloci, appunto, come moscerini; nel 1991 la Commissione antimafia rilasciò un dossier sui nuovi baby killer, ragazzini di 15 anni affiliati alla criminalità organizzata. Ed era il 1997 quando al corso universitario per educatori di strada che frequentavo, l’allora ricercatrice Iavarone, attualmente professore ordinario di Pedagogia generale e sociale all’Università Parthenope, mi spiegava le origini del disagio sociale e le azioni per contrastarlo. Né si stanca di farlo oggi, attraverso la consapevole sovraesposizione mediatica frutto della tragedia che l’ha coinvolta: “Alla base di questo fenomeno c’è una mancanza di adulti significativi. Schiere e schiere di genitori incapaci o non desiderosi di ascoltare i propri figli e di guardarli negli occhi”. Il famoso sguardo. Continua Iavarone: “A questo si aggiunge un’iper-stimolazione che nasce dall’uso e dall’abuso, della tecnologia. Il che genera un’alterazione della percezione della realtà e provoca risposte istintive, impulsive, violente”. Oggi tra l’altro i ragazzi delle baby gang non sono solo quelli che vivono per strada o i cui genitori hanno precedenti penali. Oggi la maggior parte di loro sono adolescenti che, ignorati e abbandonati da quegli adulti che dovrebbero educarli, non temono la polizia e conoscono bene la legge che li rende quasi intoccabili. Per loro, in effetti, certi contesti sono il microcosmo ideale. Per esempio se all’aver rubato, rapinato, assalito qualcuno, aggiungi l’aver picchiato qualcuno del quartiere “nemico” o aver trascorso qualche mese al centro penitenziario minorile di Nisida, il tuo curriculum diventa perfetto per un profilo social degno di migliaia di follower. Nell’era digitale, le bande vivono e si alimentano di consensi, di selfie con pistole e tirapugni, di frasi e slogan dal tipico linguaggio camorristico. Tutto è utile a mettere paura, a mostrare forza, anche i “mi piace” e il sostegno online che arriva, purtroppo, anche dagli adulti. Gli ultimi dati del 2016 sulla dispersione scolastica a Napoli aggiungono un tassello alla comprensione del fenomeno: più del 10 per cento dei 15.000 studenti iscritti al primo anno delle superiori abbandona, il 22,6 per cento - più di uno su cinque - viene bocciato. E in effetti un’altra fetta di responsabilità ricade sulla scuola, incapace di essere un punto di riferimento per i ragazzi. Nonostante lo scarso sostegno delle politiche sociali in città, per fortuna, diverse associazioni sono diventate un esempio di come è possibile accogliere ed educare i bambini e i ragazzi. La fondazione Rione Sanità (fondazionerionesanita.org) e l’orchestra giovanile Sanitansamble (sanitansamble.it), l’Associazione Quartieri spagnoli (associazionequartierispagnoli.it), le Onlus Terra e libertà (terraetliberta.it) e Figli in famiglia (figliinfamiglia.it) nella periferia est, il centro territoriale Mammut a Scampia (mammutnapoli.org) o, nello stesso quartiere, la palestra di judo di Gianni Maddaloni (starjudo.com): questi e altri centri sono la testimonianza che, come spiega il filosofo Aldo Masullo, novantenne e napoletano, “L’antidoto contro l’indifferenza è la cura”. Proprio per questo la professoressa Maria Luisa Iavarone, da madre, sta creando un movimento civico che parta dalle madri, “una mummy gang”, come dice scherzando ma non troppo: perché sono loro a poter restituire ai ragazzi la capacità di guardare negli occhi. Farlo significa entrare in contatto, riconoscersi. È sempre e solo attraverso l’altro che possiamo vedere noi stessi. E mai come oggi c’è bisogno di occhi aperti, di occhi che riflettano la luce, quella che illumina il volto di chi ci sta di fronte. Napoli: “noi, ragazzi di strada, liberiamo i compagni dai bulli di via Foria” di Maria Chiara Aulisio Il Mattino, 9 febbraio 2018 Da Marika a Giuseppe: “I prof non ce la fanno, dobbiamo pensarci noi”. Vivono quasi tutti in via Foria, lo stesso quartiere dove lo scorso dicembre è stato accoltellato il giovane Arturo. Conoscono molto bene la sua storia e soprattutto sanno vita, morte e miracoli di quello che nel quartiere chiamano “o nano”, il ragazzino attualmente detenuto nel carcere di Nisida con l’accusa di aver partecipato all’aggressione. Abitano per lo più nei bassi, tra piazza Cavour e piazza Carlo terzo, sono adolescenti, faticano a esprimersi in italiano ma ci provano. Li trovi dalle quattro del pomeriggio in poi nelle aule del centro dell’opera don Calabria, al civico numero 2 di via Santa Maria Avvocata, un istituto religioso a due passi dalla fermata del bus dove il diciassettenne di via Foria ha rischiato di perdere la vita sotto i colpi delle coltellate sferrate da una baby gang. Sono segnalati dai servizi sociali, dalle parrocchie del quartiere o più semplicemente da genitori disperati che non riescono a mettere insieme il pranzo con la cena. “Basta davvero poco per perderli definitivamente. Bisogna stargli sempre dietro altrimenti hanno tutte le carte in regole per finire nella trappola della criminalità”. Parola di Susi Vilardi, una delle tenaci educatrici del Centro don Calabria coordinato da Giuseppe Marino, una vita, la sua, vissuta nel segno della solidarietà con l’obiettivo di aiutare gli “ultimi” che nelle diverse realtà locali hanno come protagonisti i minori, i ragazzi, i disabili e i detenuti. Con la Vilardi c’è Giuseppe, 14 anni, mamma a casa e papà sempre in cerca di qualcosa da fare, studente dell’istituto alberghiero di Calata Capodichino con il sogno di fare lo chef. Giuseppe racconta di violenze e bullismo con cui fare i conti tutti i giorni: “Ho abbandonato il gruppo whatsapp della classe perché voglio stare tranquillo. Prima o poi va a finire male, già lo so, e io in mezzo non ci voglio stare”. La storia è questa: una banda di studenti ogni giorno prende di mira la stessa ragazza, la più fragile di tutti, e la costringe a subire veri e propri atti di bullismo: “La prendono in giro, le tirano i capelli, le fanno di tutto, pure cose sporche. E intanto uno di loro gira il video e poi lo mette sul gruppo tra le risate di tutti. Le insegnanti’ Lo sanno, purtroppo non possono fare niente: qualcuno è stato anche sospeso ma poi torna a scuola e ricomincia. Sì, è venuta a protestare anche la mamma della ragazza, ha detto che la prossima volta va dai carabinieri. E secondo me fa bene”. Bullismo e violenze anche in classe di Maria, “però a me il nome Maria non mi piaceva e allora mamma ha detto mi potevo fare chiamare pure in un altro modo e io ho scelto Marika”. Maria Marika, 14 anni pure lei, papà muratore e madre casalinga, studentessa all’Itis Alessandro Volta, in piazza Santa Maria della Fede, è dovuta scendere in campo “seriamente” per arginare gli atti di violenza messi a segno da una banda di studenti nei confronti di una sua compagna: “Sfottono sempre a una cinese che sta in classe mia. La mettono in croce a quella poverina: la settimana scorsa aveva l’herpes, le dicevano che era colpa sua perché non si lavava. E una, e due, e tre, mi so’ scocciata proprio e ho detto che un’altra volta che lo facevano prima andavo dalla preside e poi li vattevo. Anzi: prima li vattevo e poi andavo dalla preside”. La reazione di Maria purtroppo è servita solo a tenerli buoni qualche giorno perché poi hanno ricominciato, stavolta nel mirino è finito uno studente pakistano, figlio di un venditore ambulante. E Maria Marika è stata costretta a intervenire un’altra volta: “Sapete quelli che vendono le cover dei telefonini? Il padre della mia amica questo fa. E allora i compagni di classe hanno cominciato a dirle che gli appicciavano la bancarella, così le cover se le andava a vendere nel paese suo perché qui non ci dovevano stare. Tanto hanno fatto che lei si è messa a piangere e io sono dovuta intervenire un’altra volta”. Nelle sale dell’opera don Calabria si raccolgono i figli dell’emergenza, del degrado e della povertà. Quelli che - spiegava in una recente intervista Giuseppe Marino - a dodici anni hanno già messo a segno scippi e rapine e a quattordici consumano e spacciano sostanze stupefacenti. In una tasca portano il cellulare, nell’altra il coltello, “status” imprescindibile al pari dello smartphone. Basta fare un giro nelle strade che circondano piazza Carlo Terzo per vederli lì, tutti insieme, in attesa di entrare in azione mentre smerciano un pezzo di hashish all’ultimo cliente. L’aria che si respira in famiglia è quella di chi deve imparare a cavarsela da solo. In che modo’ Con la cultura delle violenza e della sopraffazione, quasi fosse una forma di protezione dalla strada: se ti fanno del male tu fagli peggio. E loro naturalmente eseguono. “Facciamo una gran fatica - prosegue l’educatrice - a volte si perde, altre si vince. Mane varrebbe comunque la pena, fosse solo per recuperare anche un solo ragazzo. Qui da noi ci sono bambini che il padre non lo hanno mai visto perché quando sono nati era in già in galera, e altri che per la stessa ragione non sono stati neanche riconosciuti”. Tra gli ospiti dell’opera don Calabria, ‘o nano - accusato di essere uno dei quattro del branco sospettato di aver partecipato al raid del 18 dicembre in via Foria - lo conoscono un po’ tutti: “Non sono amica sua, questo lo voglio specificare, però so benissimo chi è. Marò, quando ho visto su Facebook che stava pure lui nella banda di via Foria mi stava venendo un colpo”. Raffaella, 15 anni, primo anno all’Alessandro Volta, mamma casalinga e papà senza lavoro, non nasconde paura e preoccupazione: “Se Arturo aveva fatto qualche cosa non lo so, ma sinceramente non credo a guardarlo in faccia. E allora questo vuol dire che manco quando torniamo a casa stiamo tranquilli visto che qua ti accoltellano come se niente fosse”. Stesso stato d’animo di Emanuele, 14 anni, che il sabato sera e la domenica consegna a domicilio le pizze che la nonna frigge nel suo basso di via Foria: “Le vado portando in giro, ma da quando è successo quel fatto al ragazzo un poco di paura me la metto pure io. Però me la faccio passare perché alla nonna la devo aiutare per forza, quella solo il sabato e la domenica lavora. E più pizze vendiamo meglio stiamo tutti quanti”. Palermo: rimosse telecamere nella sala colloqui con gli avvocati del carcere Pagliarelli Ansa, 9 febbraio 2018 Sono state disinstallate le telecamere che si trovavano nella sala dove si svolgono i colloqui dei detenuti nel carcere del Pagliarelli di Palermo. Lo rende noto il presidente dell’Ordine degli avvocati di Palermo Francesco Greco. “Erano arrivate diverse segnalazioni da parte di colleghi che lamentavano la presenza delle telecamere - dice Greco. I colloqui tra detenuto e avvocati per legge non possono essere né filmati né registrati. Lo ha ribadito anche l’ultima legge sulle intercettazioni su proposta del ministro Andrea Orlando. Quelle telecamere era contrarie alla legge. Per questo abbiamo presentato una nota al direttore del Pagliarelli chiedendo la rimozione”. Dopo la nota le telecamere sono state rimosse. “Il direttore del carcere mi ha detto che quelle telecamere sono state montate lì per errore - aggiunge Greco - Dovevano essere montate nei corridoi e non nella sala dei colloqui dei detenuti con gli avvocati. Sono state smontate e non hanno registrato nessuna conversazione”. Reggio Calabria: beni confiscati, furto nel magazzino della Cooperativa Alba avveniredicalabria.it , 9 febbraio 2018 La notte scorsa è avvenuto un gravissimo episodio ai danni della cooperativa sociale Alba che, per conto del Consorzio Macramè e in accordo con gli amministratori giudiziari, opera su quasi 300 ettari di terreni agricoli della cosiddetta “confisca Oliveri” ormai giunta alla fase definitiva, ricadenti nel Comune di Anoia (Rc). Ignoti si sono introdotti nel magazzino all’interno del quale la cooperativa custodiva strumenti agricoli e altre dotazioni sottraendo automezzi, trattori e attrezzatura agricola per un valore di centinaia di migliaia di euro. Un danno che rappresenta una vera e propria decapitazione del patrimonio della cooperativa sociale, costruito con anni di lavoro e profondi sacrifici. Il fatto avviene proprio all’indomani della ripresa dei lavori da parte di Alba anche su altri terreni confiscati, quelli di Rosarno, sui quali Macramè sta realizzando un progetto di integrazione socio lavorativa di migranti attraverso la creazione di un parco delle biodiversità, grazie anche al sostegno di Fondazione Con il Sud. L’impegno di Alba si realizza dunque su più fronti e su diversi terreni ricadenti nella Piana di Gioia Tauro, operando sempre nel rispetto delle norme e dei valori che regolano la cooperazione sociale. Anche per tali motivi il gesto vigliacco assume ancor più gravità ed è da leggere nel più generale e complesso quadro del territorio calabrese dove le forze criminali mantengono un atteggiamento di vera sfida ai tentativi di rispristino della legalità. Il Consorzio Macramè manifesta profonda preoccupazione per il fatto subito ed esprime massima solidarietà e vicinanza ai lavoratori di Alba, pur sapendo che quando accaduto non determinerà alcun passo indietro da parte della cooperativa rispetto agli obiettivi di giustizia e sviluppo per la propria terra. Siena: la vita nel carcere “Santo Spirito” al centro di una mostra fotografica gonews.it, 9 febbraio 2018 Alla scoperta della vita all’interno della Casa Circondariale di Siena attraverso l’occhio di Alessio Duranti. Sarà inaugurata domani, venerdì 9 febbraio, alla Galleria Olmastroni la mostra fotografica “Piccole storie da Santo Spirito” dedicata alla vita all’interno del carcere di Siena. Gli scatti del fotografo senese sono suddivisi in tre sezioni: la prima dedicata alla nascita della Biblioteca all’interno del carcere, una relativa al laboratorio fotografico, realizzato nel 2016 con Samuele Mancini, insieme ai detenuti e una sezione visiva dedicata agli spettacoli teatrali che in questi anni si sono tenuti presso la Casa Circondariale. Al centro della narrazione fotografica di Alessio Duranti c’è il lavoro culturale che riguarda la vita detentiva, la voglia di partecipazione e di crescita del detenuto stesso. L’inaugurazione della mostra, che rientra all’interno degli eventi del cartellone del Festival Siena Città Aperta, è in programma domani alle ore 18.30 alla Galleria Olmastroni di Palazzo Patrizi (via di Città 75) e vedrà la partecipazione dell’assessore alla Cultura del Comune di Siena, di Sergio La Montagna, direttore del carcere di Siena, di Altero Borghi e di Alessio Duranti. La mostra, a ingresso libero, resterà aperta fino al 18 febbraio. Catanzaro: sulla Calabria un filo di speranza dal carcere di Filippo Veltri zoomsud.it, 9 febbraio 2018 Si può parlare di una fiammella di speranza per la Calabria dentro un carcere? Si può chiedere a chi non ha la sua libertà (per motivi e cause varie) di non fasciarsi la testa ora e per sempre ma invece di credere che un cambiamento è possibile? Ho presentato il mio ultimo libro, “Cambia Calabria che l’erba cresce”, nel carcere di Catanzaro, con quasi un centinaio di detenuti che hanno posto domande e interrogativi per oltre due ore. Un segno di un cambiamento è già il fatto che sia possibile una cosa del genere e questo è dovuto alla direttrice Angela Paravati e al lavoro di chi cura il gruppo di lettura e scrittura dentro il penitenziario, il prof. Nicola Siciliani de Cumis, calabrese, docente universitario a Roma. Entrare in un carcere significa entrare in un luogo e in un posto tutto a sé, dove ci sono regole ben precise e dove il rapporto col mondo esterno é delegato a volte solo ai colloqui saltuari con i parenti. I detenuti avevano letto il libro e mi hanno consegnato domande e osservazioni scritte a mano da loro, su foglietti volanti, a volte in bella scrittura, a volte con correzioni, riletture, cancellature. Un segno di un lavoro fatto sul serio e per davvero. Ma cosa si coglie dentro una struttura del genere della Calabria e di quel che avviene? L’ultima domanda, delle 18 che mi sono state fatte, ha colto il lato pessimistico: cambia Calabria o campa cavallo che l’erba cresce? L’universo carcerario è, infatti, molto concentrato sui problemi della giustizia, della mafia e dell’antimafia; leggono molto e ovviamente sono assai diretti nella percezione di quello che non va nella soluzione dei loro problemi con l’apparato giudiziario ma sanno alla perfezione quello che accade nella politica, nella società, persino nelle università. Lì - in quel micro mondo tutto suo - la Calabria appare ancora più nera di quello che in realtà è. E non potrebbe, forse, essere diversamente. Ma alla fine delle due ore e passa di dibattito loro stessi si rendono conto che un cambiamento é possibile, che qualcosa è anche in atto; che non tutto è fermo e immobile. E sapeste quanto è difficile coglierlo là dentro. Colgono che l’autostrada Salerno-Reggio - ad esempio - i parenti riferiscono loro non è più la stessa ed è più ampia; che il nipote che studia ad Arcavacata gli ha detto che è una bella università, etc etc. Alimentare la speranza è complicato lì dentro (lo è anche fuori, in verità) ma non è forse compito di chi gode del bene primario che è la libertà far sì che non muoia e non si spenga quella fiammella? Sicuramente sì, mi chiedevo durante e dopo quelle due ore. Riflettevo sul ruolo degli intellettuali e degli operatori sociali in genere in realtà difficili e complicate come la Calabria, appunto. O come può essere un carcere, o un ospedale o una scuola, con tutte le differenze del caso. Sarebbe bello se tutti potessero ascoltare quello che un signore che sconta l’ergastolo mi ha detto l’altra mattina: “Non bisogna parlare con le metafore ma ci vogliono i fatti. Come ha fatto Stefano Caccavari di cui lei parla nel libro. A noi non ci rimane che tenere vivo l’ottimismo del cambiamento e lottare per una sana legalità”. E poi un appello ai giovani: “Non perdetevi nella via dell’illegalità e comunque ci vuole un bel coraggio ad avere molto coraggio”. Parole dette in un microfono da un signore che è in carcere da 27 anni, che non è previsto esca mai (se non mutano le leggi, visto che ha sulle spalle il così detto ergastolo ostativo) e che comunque ci indicano che non è serio alimentare sempre e dovunque il circo politico-mediatico della negatività. Roma: la SIS per il sociale, al via il progetto “La pallanuoto incontra i detenuti” pallanuotopuglia.com, 9 febbraio 2018 La SIS Roma è lieta di annunciare la partenza del progetto denominato “La pallanuoto incontra i detenuti”, iniziativa di utilità sociale che prevede tre incontri all’interno della casa circondariale femminile di “Rebibbia” - due nel mese di febbraio (lunedì 12 e lunedì 26) ed uno nel mese di marzo (lunedì 5). Le atlete e lo staff della società racconteranno le esperienze sportive di alto livello: Giochi Olimpici, Mondiali e campionati di serie A1. L’obiettivo è sensibilizzare l’opinione pubblica sull’importanza che lo sport riveste all’interno della società di oggi. Lo sport inteso come veicolo di inclusione e di speranza per un futuro migliore una volta terminato il periodo di detenzione, oltre che come strumento di valorizzazione della persona e delle sue capacità. La finalità principale del dibattito è quella di aiutare a restituire alla comunità liberi cittadini che, dopo aver effettuato il corretto percorso riabilitativo, possano offrire un contributo importante alla collettività. La pallanuoto, ma lo sport in generale, diviene quindi uno strumento trasversale utile agli operatori nella strategia educativa della prevenzione e del recupero delle persone detenute. Questi incontri denotano la volontà della società di coinvolgere in attività socialmente utili i suoi tesserati, offrendo loro la possibilità di fare un’esperienza unica nel proprio genere. Il direttore sportivo della SIS Giacomo Esposito presenta il progetto: “Era da un po’ di tempo che avevo in mente di realizzare un’iniziativa del genere e sono felice di aver ricevuto tutto l’appoggio necessario da parte dei vertici societari. Dare una connotazione sociale alla propria attività è segno di grande maturità e voglia di migliorarsi sempre. Ringrazio la Dott.ssa Ida del Grosso, direttore della casa circondariale femminile “G. Stefanini” di Rebibbia, Maria Caterina Samà e Sabrina Maschietto, il cui apporto è stato fondamentale nella realizzazione del progetto”. Napoli: un documentario racconta ai detenuti dieci storie di legalità di Benedetta Palmieri Il Mattino, 9 febbraio 2018 L’importanza di un carcere che sia realmente anche (ri)educativo è argomento sempre all’ordine del giorno e obiettivo non frequentemente raggiunto. E è anche uno dei temi più cari all’associazione “La mansarda” che porta avanti, tra le altre cose, da tre mesi “Confrontiamoci” - progetto di volontariato all’interno del reparto Mediterraneo del carcere di Secondigliano, che mira proprio a offrire ai detenuti opportunità di cura di sé e di confronto. È nell’ambito del progetto che, questo venerdì 9, è prevista la proiezione del film documentario “Dieci storie proprio così” di Emanuela Giordano e Giulia Minoli: la pellicola è tratta dall’omonimo spettacolo teatrale, che è un format di denuncia sulla legalità e la corruzione. Spettacolo e documentario raccontano storie, storie “di uomini e donne che, muniti di coraggio, hanno deciso di opporsi alle minacce della criminalità, denunciando”. Storie che possono dunque essere anche esemplari, rassicuranti - concetto che sottolinea il presidente de “La mansarda” Samuele Ciambriello: “Un messaggio di forza ma al contempo anche di speranza per chi, come loro, decide di voler contribuire a cambiare le cose invece di chiudere gli occhi”. Ciambriello, da molti anni sensibile alle tematiche legate alla detenzione, è fermo sostenitore della necessità rieducativa del carcere, anche sulla base di dati concreti, che lui cita sempre con determinazione. Pare infatti che il dato che vede all’80% la quota di detenuti a rischio di recidiva scende a meno del 10% nei casi in cui essi abbiano avuto la possibilità di imparare un mestiere, di seguire corsi e laboratori, di leggere e studiare. Alla proiezione (alla quale saranno ammessi cineoperatori e giornalisti muniti di tesserino, ma meglio contattare l’associazione per dettagli e conferme) seguirà un dibattito, al quale prenderanno parte anche i detenuti. Diritti umani, all’indice l’Italia e altri Paesi europei di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 febbraio 2018 Pubblicato il Rapporto del Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa Muiznieks. Deterioramento dei diritti umani, Paesi che attuano riforme contrarie allo stato di diritto, leggi incomplete sugli abusi di potere. Questo è il quadro a tinte fosche dipinto dal Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa Nils Muiznieks nel rapporto annuale relativo alla situazione dei diritti umani nel 2017, presentato il 19 gennaio scorso, ma ora reperibile sul sito on line del Consiglio d’Europa. Tanti sono i Paesi europei messi all’indice dal documento, tra i quali spicca l’Italia soprattutto per quanto riguarda gli accordi con la Libia che ha portato conseguenze orribili per i diritti umani dei migranti. Il rapporto rende pubblica anche la lettera che il Commissario inviò l’ottobre scorso al ministro degli interni Marco Minniti per quanto riguarda le operazioni marittime italiane nelle acque territoriali libiche finalizzate alla gestione dei flussi migratori. Esprimendo l’apprezzamento per gli sforzi dell’Italia nel salvare vite umane in mare e nel ricevere i migranti che arrivano nel suo territorio, il commissario ha sottolineato però che c’è il dovere di proteggere e salvaguardare i diritti umani dei migranti anche quando i flussi migratori presentano delle difficoltà. Per questo ha anche richiesto informazioni sulle misure intraprese per garantire che le operazioni di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo - comprese quelle condotte da attori non governativi - possano continuare a essere svolte in modo efficace e sicuro. Nella lettera - sottolineando che consegnando i migranti in Libia, le autorità li espongono a un rischio reale di tortura o di trattamento inumano e degradante, il commissario ha invitato il governo italiano a chiarire il tipo di sostegno che ha messo in atto con le autorità libiche e le misure di salvaguardia per evitare rischi di tortura. Nel dossier, il Commissario sottolinea che questa situazione lo preoccupava molto e per questo si scambiava lettere con il ministro degli Interni, chiedendo informazioni sulla cooperazione italiana con la Libia e richiamando l’Italia agli obblighi internazionali di astenersi da azioni che potrebbero comportare la restituzione di persone nei paesi dove potevano subire delle torture. Poco dopo gli scambi epistolari, l’Onu e i media hanno lanciato l’allarme sulla situazione in Libia, riportando la notizia dei circa 20.000 migranti detenuti in condizioni orribili nei lager libici. Il dossier, sempre per quanto riguarda l’Italia, non parla solo di immigrazione, ma anche della legge sulla reintroduzione del reato di tortura. Infatti, si legge, che il commissario europeo per i diritti umani ha inviato una lettera indirizzata sia ai presidenti del Senato e della Camera, che ai presidenti delle commissioni giustizia, invitando il Parlamento a migliorare la legge che introduce il crimine di tortura nel codice penale italiano. La critica è nota. La legge approvata che incrimina la tortura non è conforme al testo Onu. La tortura dovrebbe restare un delitto proprio, ossia un delitto che, nella storia del diritto internazionale, è tipico dei pubblici ufficiali. La legge purtroppo non dà una definizione ben definita della tortura. Inoltre, gli altri punti criticati sono tre: la previsione della pluralità delle condotte violente, il riferimento alla verificabilità del trauma psichico e i tempi di prescrizione ordinari. Tutti punti che il commissario europeo per i diritti umani ha sollevato. Nel dossier poi c’è una grande preoccupazione per il resto dei Paesi europei. Nel mirino c’è la Polonia per il costante declino della rule of law nel Paese, con riforme contrarie allo stato di diritto. Resta in primo piano, il deterioramento dei diritti umani in Turchia, con particolare riguardo alla constante e progressiva limitazione della libertà di stampa imposta da Erdogan. Non mancano le questioni appartenenti alla gestione sanitaria nelle carceri, il sovraffollamento e le garanzie contro i maltrattamenti in custodia, sollevato sempre dal Commissario nel suo dialogo con le autorità della Georgia e della Repubblica di Moldavia. Il Commissario ha prestato particolare attenzione alle accuse di gravi maltrattamenti fisici e psicologici nei confronti dei gay in Cecenia. Ha esortato le autorità russe a prendere misure decisive per indagare presunti reati e per proteggere le vittime. Un appello simile per un’indagine approfondita sui presunti maltrattamenti delle persone Lgbt sono state presentate anche nei confronti delle autorità dell’Azerbaigian. Il commissario ha inoltre denunciato le torture nei confronti dei bambini disabili in Romania: una Ong locale, il Centro per le risorse giuridiche della Romania, ha denunciato con un dettagliato report (ricco anche di foto e testimonianze dirette) che negli ultimi 4 anni sono stati lasciati morire ben 1.500 bambini disabili, in istituiti definiti dei veri e propri lager. Per questo il Commissario ha invitato l’autorità romena a condurre un’accurata analisi sugli abusi denunciati e consentire la ripresa del monitoraggio indipendente di questi istituti da parte delle organizzazioni non governative. Sassi dal cavalcavia, bambini di 10 e 12 anni fermati: “è stato divertente” di Floriana Rullo Corriere della Sera, 9 febbraio 2018 Sono stati alcuni automobilisti in transito lungo la A5 a segnalare alle forze dell’ordine la presenza di figure sospette su un ponte dell’autostrada a San Benigno, in provincia di Torino. “Ci annoiavamo, così siamo andati sul cavalcavia a lanciare sassi contro le auto che passavano. Ci siamo divertiti un sacco”. Lo raccontano ridendo ai carabinieri Marco e Giulio (nome di fantasia), i due ragazzini di appena 11 e 12 anni residenti a San Benigno e Volpiano, nel Torinese. Nemmeno hanno capito di essere accusati di avere lanciato quelle pietre dal sovrappasso dell’autostrada Torino-Milano. Sassi grandi come una mano che, l’altro pomeriggio, potevano ferire gravemente chi in quel momento passava sotto il ponte dell’A5, prima dello svincolo di Volpiano, verso Ivrea. La ragazza colpita - Poco più che bambini, non si sono resi conto che quel passatempo poteva essere fatale per Carlotta Corino, trent’anni, di Segrate, colpita mentre era al volante della sua Giulietta. “Stavo andando a Torino per lavoro quando ho visto i ragazzi sul cavalcavia. Hanno atteso che passassi e poi hanno scagliato le pietre”, ha raccontato. Un’idea, quella dei due ragazzini, nata come gioco. Per passare un pomeriggio alternativo. Così, dopo aver individuato il luogo giusto ed essersi coperti la testa con i cappucci delle felpe per non essere riconosciuti, i due hanno iniziato la gara di tiro al bersaglio. Una sassaiola che ha colpito l’auto della donna soltanto di striscio, sul paraurti posteriore. La trentenne non si è fatta male. Si è subito fermata e ha lanciato l’allarme ai carabinieri descrivendo i due teppisti.. Il terzo ragazzino non identificato - La giovane, e così anche una seconda persona che ha avvertito le forze dell’ordine, ha però raccontato di aver visto ben tre ragazzini lanciare pietre. Ma almeno per ora i carabinieri ne hanno individuati solo due. Le indagini però sono all’inizio, si cerca di capire se con i due, poco più che bambini, ci fosse qualcun altro, un coetaneo o un adulto. Quello che è certo è che su quel ponte, che collega la frazione San Rocco al paese, i ragazzini ci erano arrivati in bicicletta, attraversando la campagna della periferia di San Benigno. “Come tutti i loro coetanei nelle giornate di sole - racconta Emanuele De Zuanne, sindaco di Volpiano, dove uno dei due protagonisti vive. Spero che ora capiscano la gravità di quello che hanno fatto”. Due rampolli vivaci, frequentano le scuole medie. I genitori di uno di loro a Volpiano gestiscono un’attività commerciale. “Due ragazzini insospettabili”, è questo il ritornello che rimbalza tra le case. Tutti stupiti. A individuarli ci hanno però pensato i carabinieri: “Ma tanto - hanno detto subito quei due alle divise - non potete farci nulla, vero?”. E giù a ridere. Per loro, anche se non sono denunciabili data la giovane età, è scattata una segnalazione al Tribunale dei minori di Torino da parte della Procura d’Ivrea. Droghe e alcol, un fenomeno di cui nessuno parla più di Sergio D’Angelo Corriere del Mezzogiorno, 9 febbraio 2018 Si calcola che ogni giorno almeno due giovani si rivolgano all’emergenza ospedaliera per le conseguenze dell’abuso di droghe e alcol. Sono 700 e più in un anno, ragazzi che non accedono ai servizi per le dipendenze e neppure a quelli per la salute mentale (per i danni psichici provocati dall’assunzione di sostanze) perché perlopiù si tratta di adolescenti che giocano a superare i propri limiti, con poca consapevolezza dei rischi, che concepiscono il divertimento solo come una gara a chi arriva prima a situazioni estreme. Un fenomeno “sommerso” nell’universo delle droghe, profondamente mutato rispetto a vent’anni fa quando a prevalere era l’eroinomane classico: oggi i modelli di consumo sono legati prevalentemente all’abuso di cocaina e alcol, spesso associato alla movida violenta ma che tocca anche le persone più emarginate della società, come gli immigrati, i senza dimora e i detenuti. E se dai dati ufficiali del Dipartimento Dipendenze della Asl Napoli 1 Centro emerge che sono 5mila le persone dipendenti in città, 7mila in provincia, dobbiamo stimare che ci sia qualche migliaio di ragazzi che ai servizi non si avvicina se non in casi estremi e che però per l’abuso di droghe diventa protagonista di episodi di conflittualità nei luoghi del divertimento. Anche nel parlare di baby-gang e degli eserciti di ragazzi sbandati che usano la violenza come strategia - come evidenziava mercoledì il Corriere del Mezzogiorno, riportando gli ultimi dati allarmanti della Dia - quasi mai si fa riferimento all’uso di droghe. Che tuttavia è da sempre legato a temi quali la sicurezza e il benessere di una comunità anche se nell’agenda politica ed economica del Governo non è più all’ordine del giorno: la programmazione è assente, la legge quadro è vecchia (ha quasi trent’anni) e tratta allo stesso modo un consumatore adulto e di vecchia data e un giovane alle prime esperienze. Il tema non è presente nel dibattito pre-elettorale e non sembra suscitare alcun interesse neppure nella politica locale. Un disinteresse del tutto ingiustificato, visto che, oltre ai consumi di sostanze, anche i rischi legati alle dipendenze aumentano soprattutto tra i giovani con la comparsa di almeno 600 nuove sostanze psicoattive in Europa negli ultimi anni e 64 solo nel 2017 in Italia. Perciò Gesco ha deciso di approfondire la questione con un reportage sul portale gratuito Napoli Città Solidale dove si scopre, di contro, che sul fronte dei servizi Napoli è una città all’avanguardia, al passo con Londra, Barcellona, Parigi. Come la capitale francese anche Napoli, unica città in Italia, si è dotata di una consulta della notte per intercettare i giovani nei luoghi del consumo e del divertimento e prevenire i danni, ed è la prima in Campania ad attivare un servizio di strada sulle droghe per le persone senza dimora. Come pure qui esiste un servizio per i cocainomani che in maniera del tutto anonima li aiuta a recuperare ritmi e stili “normali” di vita. Sono interventi resi possibili da un’integrazione tra il terzo settore e il servizio pubblico, che ci ha visti protagonisti negli ultimi trent’anni: è grazie a questa esperienza, alla conoscenza profonda del territorio, alla flessibilità tipica degli operatori sociali e alla loro capacità di lavorare in maniera paritaria con i colleghi del pubblico, se i servizi di prevenzione e di contrasto all’abuso di droghe qui da noi funzionano meglio che altrove. Un patrimonio da non disperdere, sperando che tutto quel che di buono è stato costruito in questi anni non sia messo in discussione magari proprio da quelle istituzioni che dovrebbero rivendicarne la paternità. Migranti. “Diecimila rifugiati costretti nelle baraccopoli” di Carlo Lania Il Manifesto, 9 febbraio 2018 Rapporto di Medici senza frontiere. L’organizzazione denuncia le carenze del sistema di accoglienza. In teoria per legge avrebbero diritto a un posto dove dormire, pasti caldi, una corso di italiano e assistenza sanitaria e legale. In teoria. In pratica sono costretti ad arrangiarsi da soli trovando riparo sotto un ponte, oppure occupando edifici vuoti o dando vita, insieme ad altri disperati come loro, a vere e proprie baraccopoli nelle periferie delle nostre città. Diventando così degli invisibili senza più diritti. Sono diecimila gli stranieri che non trovano posto nel sistema di accoglienza italiano. Non si tratta di persone che si trovano nel nostro Paese senza un permesso regolare, “clandestini”, come li bollerebbe il linguaggio della destra xenofoba. Tutt’altro. Sono invece persone che hanno ottenuto lo status di rifugiato o che attendono di conoscere l’esito di una richiesta di asilo. Tra di loro anche molti bambini, alcuni dei quali sotto i 5 anni. A denunciare le condizioni in cui vivono, disegnando una “mappatura delle vulnerabilità e dell’emarginazione sociale”, è la seconda edizione del rapporto “Fuori campo” di Medici senza frontiere che ha preso in esame una cinquantina di agglomerati - da Bolzano alla Sicilia.- in cui rifugiati e richiedenti asilo trovano riparo. “Persone che avrebbero diritto ad accoglienza e protezione mentre oggi non hanno nemmeno un riparo decoroso, cibo sufficiente, l’accesso a cure essenziali”, spiega Giuseppe De Mola, advocacy officier di Msf e curatore del rapporto. Dei 47 luoghi ispezionati dagli operatori di Msf in 12 regioni più della metà, il 55%, non dispone né di acqua né di corrente elettrica. Si tratta di edifici occupati (53%), luoghi all’aperto (28%), tende (9%), baracche (4%), casolari (4%) e container (2%). Nella maggioranza dei casi sono rifugi abitati solo da uomini adulti (53%), seguiti da un 34% di insediamenti popolati da adulti con minori, mentre il 13% dei casi si trovano uomini e donne adulti senza minori. 17 sono invece i campi in cui si trovano bambini con meno di 5 anni. Per quanto riguarda la nazionalità ci sono persone provenienti dall’Africa sub-sahariana e dal Corno d’Africa, ma anche da Siria, Iraq, Pakistan e Afghanistan. Ma tra di loro è possibile trovare anche tanti italiani che condividono con gli stranieri le stesse condizioni di vita. “Sono persone che si scaldano con quello che possono e che hanno un enorme problema di accesso alle cure”, spiega il direttore di Msf Italia Gabriele Eminente. Le normative europee impediscono a queste persone di lasciare l’Italia e per questo vengono bloccate ai confini. Succede a Bolzano, a Trieste e a Ventimiglia, valico quest’ultimo che Msf definisce la “frontiera che uccide” con più di 20 persone che dalla fine del 2016 hanno perso la vita nel tentativo di arrivare in Francia. Inoltre il 23% degli adulti intervistati dall’organizzazione ha dichiarato di aver subito “almeno un atto di violenza da parte di uomini in uniforme, italiani o francesi, mentre tentavano di attraversare il confine. Un’altra situazione di pericolo nasce dalle ordinanza comunali che, in nome del “decoro”, ordinano sgomberi forzati degli edifici occupati dagli stranieri. “Abbiamo riscontrato la tendenza, che nasce da una visione degli sgomberi, alla parcellizzazione degli insediamenti in luoghi sempre più pericolosi, senza acqua né energia elettrica”, denuncia il rapporto di Msf. Per uscire da questa situazione, capace di generare solo degrado, l’organizzazione chiede che venga unificato il sistema di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati, inclusi i minori non accompagnati, “superando i Cas (i centri di accoglienza straordinaria) e attribuendo agli enti locali il compito di attivare e gestire strutture di accoglienza”. Ma anche di prevedere programmi di supporto all’inserimento lavorativo e abitativo e di trovare alloggi ai lavoratori stagionali superando così la logica dei grandi insediamenti. Ma anche di mettere fine agli sgomberi senza che prima sia stata trovata una soluzione alternativa. Migranti. Sulayman, Henri e i due Mamadou: il running per fuggire dall’orrore di Marco Raffaelli La Repubblica, 9 febbraio 2018 Quattro storie di ragazzi che hanno lasciato l’Africa delle guerre e del terrorismo, hanno attraversato il Mediterraneo e stanno provando a costruirsi una vita dignitosa nel nostro Paese. Soprattutto attraverso lo sport. Vi raccontiamo storie di fughe per non morire. Di corse partite da Paesi lontani come il Gambia, il Mali, la Nigeria. Viaggi di ragazzi giovanissimi che hanno visto e subito dolori che noi popoli occidentali non possiamo neanche immaginare. Il Gambia è una delle nazioni più piccole del continente africano. È stretta tra un lungo fiume, che le ha regalato il nome, e il Senegal che la circonda completamente a eccezione del punto in cui il fiume sfocia nell’Oceano Atlantico. La capitale Banjul è lontana 5.400 chilometri da Roma: con un normale volo di linea si impiegano nove ore per arrivare in Italia, ma nelle esistenze dei ragazzi che vi stiamo per raccontare, serve una vita intera raggiungere il nostro Paese e affrancarsi da tutto il male sopportato. Grazie al progetto ‘First Aid Sport’ di Sport Senza Frontiere Onlus sostenuto dall’Unhcr, giovani richiedenti asilo e rifugiati raggiungono un’inclusione sociale attraverso lo sport: il modello di intervento prevede la continuità e la permanenza del bambino/ragazzo nel percorso sportivo/educativo in cui è stato inserito. Michela Santoro è psicologa e coordinatrice di ‘First Aid Sport’. Ci racconta cosa significa richiedere asilo politico da parte di un rifugiato: “Quando un ragazzo arriva in Italia, a Lampedusa o in altri campi d’accoglienza, deve legalizzare la propria posizione con una richiesta di asilo. Per avere una risposta, visto che la pratica è analizzata e la domanda presentata alla Questura, passano più o meno due anni durante i quali le persone interessate non possono avere permesso di soggiorno e quindi non possono lavorare. Si trovano così in una specie di limbo, passando attraverso vari centri di accoglienza (Sprar) di varie dimensioni. Alcuni accolgono centinaia di ospiti, mentre altri sono più piccoli e offrono una dimensione di vita più familiare” Praticare attività sportiva per questi ragazzi può essere di grande aiuto, non solo per impiegare in maniera costruttiva il tempo libero, ma perché attraverso lo sport possono migliorare la loro relazioni, sentirsi più integrati, misurarsi con le proprie capacità, praticare la lingua, recuperare autostima, prendersi cura della propria persona. Alla Corsa di Miguel che si è svolta a Roma il 21 gennaio scorso, abbiamo incontrato quattro dei ragazzi seguiti da ‘First Aid Sport’ : due vengono dal Gambia, uno dal Mali e uno dalla Nigeria. Sono giovani e belli come i campioni olimpici che ammiriamo nelle competizioni di atletica internazionali. Ripongono nel nostro Paese tutte le speranze e le energie necessarie per ripartire in un percorso fatto di dignità, rispetto e legalità, le stesse motivazioni smarrite nelle loro terre devastate da guerre civili, corruzione e fame. Sulayman (24 anni, Gambia). Status: richiedente asilo “Arrivo dal Gambia, sono in Italia da tre anni e ho imparato la vostra lingua per non restare indietro. Parlo anche l’inglese perché a casa mia avevo preso un diploma. Sono scappato per motivi legati alla guerra civile e ho fatto un viaggio infinito attraverso la Mauritania, l’Algeria, il Marocco. Arrivato in Libia sono stato otto mesi nel centro accoglienza che praticamente era un carcere e dove ho subito violenze. Poi mi hanno venduto come schiavo. Sono riuscito a fuggire e con un barcone sono arrivato a Lampedusa. In Gambia ho lasciato le mie due sorelle e mia mamma. Qui ho preso il diploma di terza media, e sto facendo il corso di pizzaiolo e con Sport Senza Frontiere Onlus sto facendo atletica leggera. Amo correre…”. Henri (21 anni, Nigeria). Status: richiedente asilo. Henri ha voglia di parlare e di correre, ha una maglia bianca di Sport senza frontiere e il pettorale della Corsa di Miguel che mostra come se fosse una medaglia. “Sono nel vostro Paese dal 2016, sono scappato a causa delle persecuzioni da parte dei gruppi jihadisti contro noi cristiani”. La madre di Henri è morta nel 2014 in un attentato, la vigilia di Natale. Subito dopo Henri è scappato. Ha viaggiato per molto tempo senza una meta precisa. È arrivato in Libia ed è stato per circa un anno nel centro di accoglienza/detenzione. Dove è stato discriminato perché “nero”. I migranti molto spesso vengono messi in queste carceri per chiedere riscatti alle famiglie di origine, ma lui non aveva nessuno e quindi rischiava di restare lì dimenticato e senza speranza. Dopo varie violenze, un poliziotto ha avuto pietà di lui e lo ha aiutato a fuggire verso un barcone che lo ha portato qui in Italia dove ha conseguito il diploma di terza media. Tutti i martedì e sabato fa volontariato in un centro che si occupa di persone senza fissa dimora. Con Sport senza frontiere gioca a calcio ed è uno dei più forti: “Giocavo anche in Nigeria”. Mentre Henri ci parla, due ragazzi più piccoli ascoltano con sguardi che mettono disagio: ogni incertezza e sofferenza vissute da anime così fragili ha lasciato un segno indelebile nei loro occhi. Mamadou (17 anni, Mali). Status: minore straniero non accompagnato. È partito dal Mali nel 2016 (la sua famiglia è ancora lì) ed arrivato in Italia da due mesi. Minore, vive in una casa famiglia. Non racconta volentieri il suo viaggio e i motivi che lo hanno spinto a fuggire. Sta studiando italiano e per la licenza media. Pratica il pugilato e lo sport lo sta aiutando tantissimo non solo dal punto di vista fisico ma soprattutto perché durante gli allenamenti lui è forzato ad esercitarsi con la lingua italiana. Mamadou ci ha detto che grazie alla boxe sta imparando a gestire l’emotività. Mamadou (15 anni, Gambia). Status: richiedente di asilo. Mamadou è partito dal Gambia a tredici anni ed è da in Italia da due. È arrivato con il passaporto e quindi ha potuto avviare subito la pratica di richiesta di asilo, senza dover aspettare la maggiore età. Il padre, un professore, è stato ucciso e lui con il patrigno ha vissuto una situazione molto difficile. Così ha deciso di lasciare il Paese e venire in Europa. Dal Gambia è andato in Senegal, Mauritania, Nigeria, Burchina Fasu, Algeria. Poi, naturalmente, la Libia dove lo attendeva il centro di accoglienza/detenzione. Sa leggere e scrivere bene sia in inglese che in francese. Ha preso la terza media e sta già facendo il liceo. Vuole diventare infermiere. Con Sport senza frontiere fa atletica leggera (mezzofondo): ha talento e apprende con grandissima velocità. Si è subito integrato con il gruppo di allenamento. Anche lui sta trovando grande beneficio psicologico con l’attività sportiva. I ragazzi ora si stanno preparando per partecipare alla Milano Marathon della prossima primavera. L’obiettivo di ‘First Aid Sport’ è di ridurre l’isolamento dei giovani richiedenti asilo e rifugiati, risollevare le loro basse aspettative per il futuro, risolvere le possibili difficoltà relazionali, le eventuali difficoltà motorie e di coordinazione. Affrontare le malattie psico-fisiche dovute alle esperienze traumatiche subite. Miracoli che solo lo sport può trasformare in realtà. La conferenza nazionale sul cyber italiano: “Serve piano straordinario su cyber-sicurezza” di Carola Frediani La Stampa, 9 febbraio 2018 Metà delle imprese italiane danneggiate da attacchi. Mancano insegnanti. I talenti emigrano. Agli stati generali sulla sicurezza informatica dell’Italia, università, governo e aziende tentano il salto di qualità. “Uno stato sovrano deve avere controllo totale di alcune tecnologie chiave. Dunque va deciso quali debbano essere sviluppate a livello nazionale e quali invece reperite su mercato estero”. È questo il messaggio più politico emerso, per bocca di Paolo Prinetto, professore del Politecnico di Torino e presidente del Laboratorio nazionale di cybersecurity, espressione del Consorzio Interuniversitario Nazionale per l’Informatica (Cini), nel corso della presentazione del libro bianco “Il futuro della Cybersecurity in Italia: Ambiti Progettuali Strategici”. È martedì e siamo al Politecnico di Milano nel primo giorno di Itasec18, la seconda conferenza nazionale sulla sicurezza informatica organizzata proprio dal Laboratorio del Cini con l’obiettivo di riunire professionisti del mondo accademico, industriale e governativo. Come dire: i nostri “stati generali” sulla cybersicurezza. “Per tecnologie strategiche e necessario dotarsi di strumenti per la verifica sul software e l’hardware; ed essere in grado di assumerne pieno controllo”, ha proseguito Prinetto. In tempi di hacker statali, tecnologie delicate e invasive, timori di interferenze da intelligence straniere, attacchi che colpiscono strutture strategiche nazionali, ma anche guerre commerciali sul fronte tecnologico e non solo tra Usa, Russia e Cina, anche l’Italia cerca di posizionarsi. O quanto meno di avviare una riflessione sulla capacità anche statale e governativa di utilizzare tecnologie che non rischino di essere opache o fuori dal proprio controllo. Tanto da evocare a un certo punto perfino un cloud nazionale, per ora però apparentemente ancora una prospettiva indistinta e che non convince, come vedremo, tutti gli addetti ai lavori presenti. Il libro bianco sulla cybersicurezza e un piano straordinario - Non e l’unico messaggio uscito dal primo giorno di Itasec18. Ci sono infatti alcune raccomandazioni stilate dai 120 ricercatori di 40 diversi istituti e centri che hanno partecipato alla redazione del libro bianco, per rispondere alla sfida della trasformazione digitale in un’ottica di sicurezza. Tra queste l’accento è posto sulla formazione. Preoccupano infatti l’emigrazione di professionalità oltre che la scarsità di insegnanti. “Pochi i docenti in Italia in grado di insegnare cybersicurezza, pochi i percorsi formativi”, ha ammonito Prinetto. Di qui la necessità di attivare nuovi corsi ma soprattutto di un piano straordinario per l’assunzione di ricercatori e professori universitari del settore, per la diffusione di competenze, per il reclutamento di talenti e anche più banalmente per l’attuazione dello stesso “Piano nazionale per la protezione cibernetica e la sicurezza informatica” varato dal governo lo scorso maggio, che prevede la creazione, fra le altre cose, di un Centro nazionale di ricerca e sviluppo in cybersecurity; un centro nazionale di crittografie; fondi per le startup. Insomma, non proprio bruscolini. Ma gli autori del libro bianco si spingono anche oltre e delineano una visione ancor più ambiziosa, articolata in molteplici centri di ricerca, sia tematici che territoriali, in grado di diffondere conoscenze e supporto alle imprese e alla PA in modo capillare. E ancora, come ha sottolineato Donatella Sciuto, prorettore del Politecnico di Milano, la necessità di creare una cultura della resilienza digitale che non sia solo tecnologica ma che tenga conto del fattore umano, anello debole di ogni catena di sicurezza. Dove stanno i soldi? - Una visione che però, va detto, richiede sostanziose risorse finanziarie, il convitato di pietra del convegno, dato che fino ad oggi tali risorse ancora scarseggiano. Né è chiaro quante ne arriveranno in futuro. Per ora stiamo ancora ai 150 milioni di euro stanziati dalla Legge di stabilità del 2016 (15 milioni alla Polizia Postale e 135 al Sistema di informazione per la sicurezza ovvero i servizi, di cui però si sa poco e niente). “Certamente vi sono alcuni Paesi che già stanno investendo molto di più”, commenta diplomatico Rocco De Nicola, dell’IMT School for Advanced Studies di Lucca, nonché tra i curatori del volume insieme a Prinetto e a Roberto Baldoni, professore della Sapienza di Roma da poco nominato vicedirettore generale del DIS, (l’organo di coordinamento dei nostri servizi) con delega alla cybersecurity. Un ruolo di coordinamento per cui in passato era stata ventilata la nomina di Marco Carrai, imprenditore vicino a Matteo Renzi e che è stato infine affidato a un accademico. Baldoni, professore di Sistemi distribuiti e direttore del Centro di ricerca in Cyber intelligence della Sapienza, oltre che tra gli ideatori di Itasec, dovrebbe presiedere il neonato Nucleo di Sicurezza Cibernetica, istituito dal decreto emanato lo scorso febbraio dal governo Gentiloni (il DPCM del 17 febbraio 2017). Metà imprese italiane danneggiate da attacchi - Oltre alla questione dei fondi l’altro tema spinoso è quello dei dati. Pochi quelli affidabili e provenienti da fonti statali, che non siano cioè di vendor, produttori di software o servizi, i quali tendono ad avere campioni limitati, e anche interessi specifici nel settore. E ciò vale sia per l’Italia sia per il resto del mondo. Tuttavia almeno da noi qualcosa si sta muovendo. Viene infatti in aiuto un’iniziativa di Banca d’Italia che si è messa a raccogliere dati sugli incidenti informatici a danno di imprese italiane, su un campione ampio e rappresentativo. In particolare, secondo uno studio a firma di Claudia Biancotti, ricercatrice di Bankitalia, ben il 45 per cento delle aziende nazionali sono state colpite da un qualche attacco nel corso di un anno, tra settembre 2015 e settembre 2016. “Colpite da attacco vuol dire che hanno subito qualche tipo di danno”, specifica Biancotti. Bersagliate soprattutto imprese del Centro e del Nordest, oltre che quelle con un alto numero di addetti, dai 200 in su. In arrivo dati nazionali: le iniziative di Bankitalia e Istat - “In Italia stiamo creando un archivio con metodologie documentate sulla frequenza e sull’impatto economico degli impatti cyber. Saremo i primi in Europa, con la Gran Bretagna. I dati sono liberamente accessibili sul nostro sito”, commenta ancora Biancotti a La Stampa. E a quanto pare, proprio sulla raccolta dati, sta per muoversi anche Istat sul fronte della pubblica amministrazione. Lo annuncia in plenaria il professor Antonio Schizzerotto, dell’università di Trento. “Non abbiamo dati sicuri sui cyberattacchi alla Pa. Ma nella prossima indagine Istat ci sarà una sezione ampia sulla cybersicurezza”. Il parere delle aziende - Oltre alla visione però, di cui si parlava prima, c’è anche la realtà attuale. Ed è quella che emerge brutale quando si parla con le aziende, uno dei vertici del triangolo che compone Itasec18, insieme a governo e accademia. Storie di quotidiano orrore informatico che pervadono ancora parti consistenti sia del mondo imprenditoriale italiano sia di quello della Pa. E anche, più semplicemente, gli ostacoli all’attuazione di alcuni punti chiave ribaditi a più riprese dalla conferenza. Ad esempio, la collaborazione fra pubblico e privato. “Sono anni che se ne parla”, osserva in privato uno dei partecipanti ai panel. Una riflessione ribadita anche da Carlo Mauceli, NTO di Microsoft Italia: “Si fa ancora una fatica immensa a creare quelle relazioni tra pubblico e privato di cui tutti parlano”, commenta a La Stampa. E avanza anche perplessità su alcuni riferimenti alla creazione di un cloud nazionale. “Farne una questione di sovranità nazionale è anacronistico, dal momento che in Europa esiste la libera circolazione dei dati. Bisogna ragionare in un’ottica europea, non si può certo pensare di isolarsi. Il dato è proprietà delle persone e se sono titolate a muoversi liberamente in Europa, devono di conseguenza poter usufruire liberamente dei propri dati. Controproducente mettere confini”. Le sfide del cybercrimine e non solo - Nel mentre, le attività cybercriminali sono passate da una dimensione più artigianale a una industriale, ricorda Giovanni Vigna, professore all’ University of California Santa Barbara (sul tema della professionalizzazione del cybercrime La Stampa ha scritto vari reportage. Per questo per colpirli “bisogna agire dove fa più male”, prosegue Vigna, “ovvero nei meccanismi di cash-out, di incasso dei soldi”. Di qui l’importanza di studi che modellino le economie underground per individuarne i punti critici. Ma gli attacchi informatici negli ultimi anni hanno anche alzato il tiro sul mondo dell’industria. L’Italia sarebbe al quarto posto tra i Paesi più colpiti in questo settore, con il 35,2 per cento di sistemi di sicurezza informatica industriale attaccati, secondo i dati presentati a Itasec da Vladimir Dashchenko, ricercatore di Kaspersky. Attacchi veicolati tramite internet nel 18,8 per cento dei casi, e subito dopo via mail nell’8,8 per cento (più del 5,1 della media europea). Come non far scappare i talenti - Così, si ritorna al tema dei talenti. Prova a cercarli la Cyberchallenge, “programma di addestramento” per giovani delle scuole superiori e delle università, organizzato tra gli altri dallo stesso CINI, al suo secondo anno, e che nel 2018 conta su 1866 iscritti, annuncia sul palco il coordinatore Camil Demetrescu. Ma i talenti si trovano anche creando un clima di un certo tipo, mormorano nelle pause della conferenza molti addetti ai lavori, soprattutto i più giovani. Un clima che ad esempio non criminalizzi gli hacker che ricercano vulnerabilità e le rivelano in modo responsabile con il solo intento di rendere più sicuri i sistemi di aziende, organizzazioni, Pa. Secondo quanto risulta a La Stampa, i nostri Cert, cioè le unità nazionali deputate al monitoraggio e alla risposta agli incidenti informatici, ricevono in continuazione segnalazioni di vulnerabilità. Spesso da anonimi. E in ogni caso da persone che temono di rischiare ripercussioni legali e che si muovono perlopiù per canali informali. “Le indicazioni su come gestire segnalazioni di vulnerabilità sono state codificate da tempo nel settore”, spiega a La Stampa Stefano Zanero, professore di sicurezza informatica al Politecnico di Milano e tra gli organizzatori di Itasec. “Bisogna solo applicarle”. Proprio Zanero si era pubblicamente espresso a favore di Evariste Galois, lo pseudonimo usato da un giovane hacker che aveva segnalato al Movimento 5 Stelle, e poi pubblicamente, la presenza di alcune vulnerabilità e criticità del sistema Rousseau e che attualmente è indagato per accesso abusivo a sistema informatico. “Questa vicenda sta lanciando proprio il messaggio opposto a quello che servirebbe”, prosegue Zanero. A favore di Galois c’è anche una raccolta firme promossa da alcuni ricercatori di sicurezza. Francia. Carceri, terrorismo e islamismo di Yves Mamou* L’Opinione, 9 febbraio 2018 Gli agenti di polizia penitenziaria francesi sono in sciopero. In meno di dieci giorni, un certo numero di secondini che prestano servizio in varie carceri del paese è stato aggredito e ferito, soprattutto da islamisti reclusi per reati di terrorismo o da piccoli criminali che hanno intrapreso la strada della radicalizzazione. In risposta, gli agenti hanno bloccato l’ordinario funzionamento della maggior parte delle prigioni. L’ondata di attacchi è iniziata l’11 gennaio 2018. Tre agenti di custodia del carcere di Vendin-le-Vieil, nel nord della Francia, hanno riportato lievi feriti in seguito a un’aggressione all’arma bianca da parte di Christian Ganczarski, un tedesco convertito all’Islam che si è unito ad al-Qaeda e mente organizzatrice dell’attacco a una sinagoga di Djerba, in Tunisia, nel 2002. Il 15 gennaio 2018, sette agenti penitenziari sono stati aggrediti e feriti da un detenuto “radicalizzato” nella prigione di Mont-de-Marsan, nel sud della Francia. Il 16 gennaio, un agente di custodia della prigione di Grenoble-Varces ha rischiato di perdere un occhio nel corso di un’aggressione. Prima di entrare in una cella l’uomo ha effettuato un controllo attraverso l’apposito spioncino, ma all’improvviso un detenuto ha cercato di conficcargli una matita nell’occhio. Fortunatamente, il secondino non è rimasto ferito. Sempre il 16 gennaio, un detenuto di 28 anni rinchiuso nella prigione di Tarasconha dato un pugno in faccia a un supervisore donna. Arrestato per rapina, l’uomo è sospettato di essere un islamista sottoposto a radicalizzazione. Il 17 gennaio, un agente in servizio al carcere di Grenoble-Varces è stato aggredito da un detenuto che voleva recarsi in infermeria senza avere un appuntamento con il medico. La stampa non ha specificato se l’uomo sia o meno un islamista. Il 19 gennaio, due guardie carcerarie sono state aggredite da quattro detenuti islamisti rinchiusi nella prigione di Borgo, in Corsica. Gli agenti sono stati ricoverati in ospedale in gravi condizioni. Secondo il procuratore, “non è possibile affermare che si sia trattato di un attacco terroristico islamista”. Il 21 gennaio, due agenti - un uomo e una donna - in servizio nel penitenziario di Longuenesse, nel nord della Francia, sono stati brutalmente picchiati da un detenuto armato di una sbarra di ferro. I due sono stati ricoverati in ospedale. Il 21 gennaio, un totale di 123 detenuti del carcere di Fleury-Mérogis, situato in una banlieue parigina, si sono rifiutati di tornare in cella alla fine dell’ora d’aria. Sono dovute intervenire delle squadre d’intervento per evitare una rivolta. Il 22 gennaio, gli agenti del penitenziario di Craquelin, a Chateauroux (nella Francia centrale), hanno disarmato un detenuto che al grido di “Allahu Akbar” (“Allah è il più grande”) minacciava gli altri detenuti con un coltello. Prima di essere immobilizzato, l’uomo era riuscito a tirare una sedia contro gli agenti, ferendone leggermente uno. Il 22 gennaio, secondo un comunicato del ministero della Giustizia, 27 prigioni sono state totalmente bloccate dagli agenti in sciopero. Secondo i sindacati, 120-130 carceri, su 188, sono state paralizzate o parzialmente paralizzate. Sempre secondo i sindacati, la maggioranza dei 28 mila agenti in sciopero afferma che continuerà a scioperare fino a quando il governo non fornirà sufficienti risorse per garantire la loro sicurezza. Come la polizia e i vigili del fuoco, gli agenti di custodia francesi vivono in un clima permanente di violenza e paura. E la loro esasperazione cresce. “Bernard”, una guardia carceraria che ha chiesto di rimanere anonimo, afferma: “Prima, ogni mattina avevo paura di trovare qualcuno appeso nella sua cella. Sapete di cosa ho paura oggi? Di essere ammazzato, spogliato, pugnalato alla schiena. In nome dell’Islam e dell’Isis. Tutti giorni, andando al lavoro, questa paura mi fa stare male”. “Ciò che gli agenti stanno esprimendo è la loro sensazione di abbandono”, scrive Le Monde. Pugni in faccia, distorsioni e lussazioni: Anthony, un supervisore del carcere di Les Baumettes, a Marsiglia, afferma di aver subito quattro aggressioni fisiche negli ultimi tre anni. Ogni volta, ha sporto denuncia, ma tali denunce sono state secretate dal procuratore. “Noi chiediamo più agenti, è vero, ma anche che i giudici facciano il loro lavoro perché la violenza fisica è sempre più frequente”. Terrorismo e islamismo hanno cambiato la situazione all’interno delle strutture carcerarie. Secondo Joaquim Pueyo, ex direttore del carcere di Fleury-Mérogis, oggi deputato, la situazione è molto semplice: “In passato, il comportamento aggressivo era legato alle difficoltà della vita quotidiana. Ora, l’odio e la violenza [da parte degli islamisti] si riversano contro la nostra autorità, la nostra società e i nostri valori. Non sorprende che gli agenti, trovandosi ad affrontare la radicalizzazione dei detenuti, diventino dei bersagli”. Secondo le statistiche ufficiali del ministero della Giustizia, l’1 dicembre 2017, poco meno di 80 mila persone erano recluse nelle carceri francesi. Quanti sono i detenuti musulmani nei penitenziari francesi? È difficile saperlo, perché la legge vieta qualsiasi dato basato su razza, religione o origini. Nel 2015, un rapporto ufficiale sulle carceri del senatore Jean-René Lecerf citava uno studio secondo il quale in quattro dei più grandi penitenziari francesi oltre il 50 per cento dei detenuti è musulmano. Secondo il ministero della Giustizia, 500 musulmani sono detenuti in carcere per reati con finalità di terrorismo e altri 1.200 sono criminali comuni identificati come islamisti radicali. Lo sciopero degli agenti penitenziari è un sintomatico esempio delle conseguenze di politiche inadeguate che sono state perseguite fino ad oggi in materia penale e carceraria. Gli agenti non sono più disposti a tollerare la violenza e di rischiare la vita per mano degli islamisti e di altri radicali che li minacciano mentre svolgono il loro lavoro in carcere. Anziché ritenere che l’islamismo abbia cambiato sostanzialmente la questione della politica penale e carceraria, il ministero della Giustizia continua a pensare che i problemi maggiori siano il sovraffollamento nelle carceri e le pessime condizioni carcerarie. Ovviamente, tali problemi sono importanti, ma l’inerzia amministrativa, unitamente alla negazione politica permanente del fatto che gli islamisti sono in guerra in Francia, impedisce ai politici e ai funzionari pubblici di vedere il carattere distruttivo dell’islamismo nelle prigioni. Invece di rivedere tutte le politiche carcerarie tenendo conto del rischio islamista - il rischio che gli agenti penitenziari vengano uccisi e che i detenuti musulmani, i quali costituiscono la maggioranza dei 70 mila prigionieri islamici, si trasformino in autentici jihadisti - il governo cerca di compare la pace degli agenti con qualche aumento di stipendio e con degli “esperimenti” volti a “reintegrare” gli islamisti in una “vita normale” nella “società normale”. Invece di capire che i famosi centri di deradicalizzazione - spesso ospitati in castelli medievali convertiti - non si sono rivelati utili perché la deradicalizzazione non ha avuto luogo, i decisori politici francesi continuano a pensare che la soluzione alla guerra islamista sia l’appeasement. I loro nuovi esperimenti vanno tutti nella stessa direzione: perseguire l’illusione che “se siamo gentili con i jihadisti, questi ultimi saranno gentili con noi”. La situazione risulta bloccata a causa del rifiuto di formulare il problema su una base fattuale. Finché i decisori politici non considereranno l’islamismo come il principale problema della politica carceraria, gli agenti penitenziari francesi continueranno a pagare con le loro sofferenze e forse anche con la loro stessa vita. E dopo, gli agenti di custodia saremo noi. Entro il 2020, il 60 per cento dei jihadisti detenuti nelle carceri uscirà di prigione, ovvero in meno di tre anni. *Gatestone Institute. Traduzione a cura di Angelita La Spada Siria. Mosca, Teheran e i piani Usa: i vincitori e i rischi di un nuovo contagio di Davide Frattini Corriere della Sera, 9 febbraio 2018 Dopo sette anni e oltre mezzo milione di vittime nessuno sembra essere realmente interessato alla pace. Il conflitto rischia di allargarsi? Dopo lo scontro tra i ribelli siriani sostenuti dagli americani e i miliziani fedeli al presidente siriano Bashar Assad, il Pentagono ha subito proclamato di non voler entrare in guerra con il regime. Anche perché questo significherebbe affrontare la Russia - la potenza che con il suo appoggio militare ha permesso ad Assad di restare al potere e ha sfruttato l’indecisione americana per rilanciarsi come potenza globale - e l’Iran che sta facendo della Siria un suo protettorato. In ogni caso quello siriano è un conflitto internazionale che coinvolge le nazioni confinanti, vedi l’intervento turco contro i curdi nel Nord del Paese. Chi ha la forza di imporre un cessate il fuoco? I russi dichiarano “irrealistica” la tregua umanitaria di un mese proposta dalle Nazioni Unite e appoggiata dagli americani. Sarebbero gli unici a poter tentare di fermare le armi, ma sono i loro jet che in questi giorni continuano a bombardare la zona di Ghouta, controllata dai ribelli alla periferia di Damasco, anche se fa parte delle aree di “de-escalation” individuate proprio da Mosca. Che per ora non sembra ancora pronta a cercare una via d’uscita pur avendo dichiarato vinta la guerra contro lo Stato Islamico. Gli europei, d’altro canto, si rifiutano di impegnarsi per una futura ricostruzione senza risposte sul futuro ruolo di Assad. Chi sta vincendo a oltre sette anni dall’inizio della rivolta contro Assad? Con 500 mila morti e metà dei siriani costretti a vivere da rifugiati (fuori o dentro il Paese), la risposta dovrebbe essere nessuno. Assad e i suoi sponsor internazionali hanno però raggiunto l’obiettivo, pur non avendo ancora il totale controllo del territorio: mantenere al potere il clan che domina il Paese da 47 anni, evitare che Bashar faccia la stessa fine dell’egiziano Hosni Mubarak o del libico Muhammar Gheddafi. Anche così consolidato il governo di Damasco dovrà affrontare anni di scontri con i gruppi di insorti, ormai radicalizzati, che continueranno a colpire come cellule clandestine. Gli israeliani potrebbero intervenire? Il governo di Benjamin Netanyahu ha ribadito in questi giorni che non permetterà agli iraniani (o all’Hezbollah libanese, loro manodopera armata) di arroccarsi nelle regioni siriane vicine alla frontiera con Israele. Sui campi della Siria potrebbe spostarsi lo scontro con Hezbollah e l’espansionismo degli ayatollah. Gli analisti prevedono che il confine nord - dal Libano alla Siria - diventerà un fronte di guerra. Sono in disaccordo solo sul quando succederà. Cambogia. La Corte suprema conferma la condanna di un’attivista per il diritto alla casa di Riccardo Noury Corriere della Sera, 9 febbraio 2018 Ieri Tep Vanny, da oltre 10 anni animatrice del movimento per il diritto alla casa in Cambogia, ha ricevuto la brutta notizia che temeva: la Corte suprema ha confermato la condanna a 30 mesi di carcere, emessa il 23 febbraio 2017 e ribadita in appello cinque mesi dopo, per “violenza intenzionale aggravata”. Tep Vanny dovrà anche risarcire con l’equivalente di circa 2500 euro i due agenti che l’avevano denunciata. Chi la conosce sa che Tep Vanny non è minimamente capace di usare violenza. E infatti del tutto pacifica era stata la manifestazione svolta nel marzo 2013, di fronte alla residenza del primo ministro Hun Sen, per chiedere il rilascio di un’attivista della comunità del lago Boeung Kak, soggetta a sgomberi forzati nella capitale Phnom Penh per fare posto ad appartamenti di lusso. Ogni volta che è scesa in piazza per difendere il diritto degli esclusi dal progresso ad avere un tetto sotto la testa e ogni volta che si è opposta in modo non violento alle ruspe, Tep Vanny è stata minacciata e picchiata. Quella confermata ieri è la terza condanna ricevuta in un decennio. Tep Vanny è in carcere da 542 giorni e non avrebbe mai dovuto essere arrestata.