Riforma delle carceri, ultimo step per i decreti attuativi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 febbraio 2018 Ieri le Commissioni giustizia della Camera e del Senato hanno concluso l’esame dei decreti attuativi della riforma dell’ordinamento penitenziario e approvato un parere favorevole con le relative osservazioni poste dai membri delle commissioni. Due sono state le personalità politiche che nelle commissioni hanno votato contro e rappresentano il Movimento Cinque Stelle e la Lega. ‘Riforma drammatica’, ha tuonato Nicola Molteni della Lega durante l’esame. Secondo il deputato leghista è un male che questa riforma concede più sconti e più benefici per chi commette reati, aggiungendo che secondo lui si tratta di un condono giudiziario e sarebbe stato opportuno fermarsi e aspettare le prossime elezioni che potrebbe determinare un’altra maggioranza. Poi c’è Vittorio Ferraresi del M5S che vota contro, ma chiedendo comunque di prendere in considerazione alcuni sue osservazioni, come quello di inserire il nulla osta del magistrato per far introdurre i volontari nelle carceri, oppure inserire il veto del procuratore nazionale antimafia per la concessione dei benefici. Ma la maggioranza di entrambe le commissioni hanno votato a favore, facendo osservare all’unisono che questa riforma garantisce l’effettività della pena, puntando sulle pene alternative che diminuiscono la recidiva e quindi contribuiscono alla sicurezza del nostro Paese. Molto sentite le dichiara - di Walter Verini, capogruppo Pd in Commissione giustizia della Camera: ‘La riforma dell’ordinamento penitenziario su cui le Commissioni giustizia di Camera e Senato hanno dato parere favorevole, è una conquista di civiltà e umanità utile per la sicurezza dei cittadini. A più di trent’anni dalla legge Gozzini, la riforma, che ora il Consiglio dei ministri dovrà approvare definitivamente nei prossimi giorni, è una grande occasione per far sì che chi ha sbagliato paghi la giusta pena. Ma lo faccia in condizioni umane e soprattutto in forme di detenzione, pene alternative per reati minori, finalizzate al recupero e al reinserimento sociale’. Sempre Verini ha aggiunto: ‘Le condizioni umane, lavoro in carcere, formazione, attività di socialità sono fondamentali per far sì che chi esce dal carcere a fine pena non torni a fare il delinquente. Questo è il cuore della riforma. Che prevede rigore per i colpevoli di reati gravissimi, come quelli legati alle mafie, al terrorismo. Che prevede valorizzazione del ruolo della polizia penitenziaria, che svolge un compito difficile e fondamentale. Pene certe, condizioni civili, recupero e reinserimento: cosi si rispetta la Costituzione, si investe in umanità e si investe in sicurezza della società’. Tra le osservazioni accolte dalle commissioni, emerge quella della senatrice Maria Mussini dove pone l’accento sul parere della Conferenza Stato - Regioni. Si è soffermata, in particolare, sulle proposte della Conferenza in ordine alle modifiche dell’articolo 2, comma 1, lettera c) dello schema di decreto, che modifica l’articolo 65 dell’ordinamento penitenziario rubricato ‘Sezioni per detenuti con infermità’. Sotto tale profilo, per la Mussini, sarebbe opportuno che il governo modifichi la rubrica del predetto articolo 65 nel senso di aggiungere la parola ‘psichica’ al fine di specificare la tipologia di infermità dei detenuti cui sono destinate le sezioni speciali. Con riferimento alle modifiche apportate dall’articolo 14 dello schema con l’introduzione dell’articolo 47septies dell’ordinamento penitenziario sull’affidamento in prova dei condannati con infermità psichica, la senatrice Mussini propone infine che sia accolto il rilievo della Conferenza nel senso che l’interessato concordi con il dipartimento di salute mentale della Asl il progetto per l’affidamento in prova ai sensi del medesimo articolo 47septies, stabilendo soltanto che lo stesso possa essere realizzabile anche con una struttura privata accreditata. Da ultimo ritiene che debba essere considerata l’osservazione della Conferenza concernente le modifiche da apportare all’articolo 14, comma 1, lettera b) capoverso 2 in ordine alla certificazione che deve essere rilasciata dal Dipartimento di salute mentale per l’affidamento in prova dei malati psichici. Nel frattempo, l’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini - giunta al 17esimo sciopero della fame - fa sapere che continuerà con il Satyagraha per l’immediata e definitiva approvazione di questi primi decreti da parte del Consiglio dei ministri al quale chiede di aggiungere subito i decreti mancanti. Sì, perché, ricordiamo, che i decreti attuativi sull’affettività, lavoro, ordinamento penitenziario minorile, misure di sicurezza e giustizia riparativa, sono rimasti nel cassetto. Ora l’ultimo passaggio spetta a Palazzo Chigi che dovrà dare l’approvazione definitiva. Si riunirà entro questa settimana e i decreti saranno all’ordine del giorno? Ancora non è dato sapere. Decreto carceri: ok del Senato e della Camera, ma con ritocchi Public Policy, 8 febbraio 2018 Arriva il via libera della Commissione Giustizia al Senato della riforma delle carceri firmata da Andrea Orlando. Con il parere positivo di questa mattina si rinvia il testo al Governo che potrebbe apportare alcuni aggiustamenti (la Camera si esprimerà nel pomeriggio). In ogni caso, sono diverse le richieste avanzate da Palazzo Madama: dall’esclusione di alcuni reati dalle nuove norme sulle misure alternative alla detenzione all’attenzione alle convinzioni religiose di chi vive in carcere. Innanzitutto, nel parere si chiede di escludere dall’applicazione della semilibertà i casi di condanna per delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, e associazione mafiosa e gli altri previsti dall’articolo 416bis del codice penale. Non piace poi la riduzione a quattro anni - invece che sei anni previsti finora - della pena da eseguire, per la quale è possibile poi la concessione dei benefici e misure alternative per i condannati per reati commessi in relazione allo stato di tossicodipendenza. Si chiede quindi di cancellare l’interno articolo 12. Il diritto dei detenuti o internati di rifiutare, al momento della carcerazione, le informazioni sul proprio stato di salute, previsto già dall’ordinamento, non è presente nel decreto in discussione. Per questo i commissari, sempre nello stesso parere, hanno inserito un’osservazione al riguardo per chiedere all’Esecutivo di reintrodurlo. E ancora: tra i paletti che la commissione chiede di inserire quella di escludere alcuni reati dall’innalzamento a 4 anni del limite di accesso alla misura alternativa, in parallelo a quello previsto per l’affidamento in prova, in modo da favorire l’accesso al trattamento extra-murario da parte di coloro che potrebbero astrattamente aspirare anche alla misura più estesa ma che necessitano di un maggior controllo. Infine, tra le richieste, quella di tener conto la religione e l’affettività dei detenuti prevedendo misure idonee al soddisfacimento di entrambe. I “no” della Commissione Giustizia della Camera Rimanga il divieto di accesso alle misure alternative al carcere e gli altri benefici penitenziari per chi si è macchiato di reati di traffico di stupefacenti e contrabbando. Questa una delle richieste contenute nel parere messo a punto e votato mercoledì dalla commissione Giustizia alla Camera riguardo alla riforma delle carceri. Il provvedimento, a firma del ministro Andrea Orlando, rivede le regole della vita negli istituti penitenziari e, in particolare, anche l’accesso alle misure extra murarie. I deputati hanno deciso di dare l’ok al testo ma chiedendo diversi ritocchi prima dell’approvazione finale da parte di Palazzo Chigi. Per la commissione, in primis, ‘è opportuno estendere e recuperare il divieto’ anche per chi ha partecipato alla associazione criminale (e non solo per i capi che sono già esclusi) in quanto ‘vi è una sostanziale equiparazione - si legge - in termini di pericolosità sociale e radicamento’ con le associazioni di stampo mafioso. Non solo, l’esperienza giudiziaria ha mostrato - si legge ancora - ‘come non vi sia alcuna sostanziale differenza, in termini di pericolosità sociale, e di conseguenza di elementi utili per una proficua collaborazione tra quanti rivestano il ruolo di ‘promotori’ all’interno dell’associazione’ e quanti invece ‘meri partecipi’, che ‘dall’attività criminosa traggono comunque profitto’. Condannare alla “legge del carcere” è illegale e incivile di Iuri Maria Prado Il Dubbio, 8 febbraio 2018 Scegliendo se infliggere il carcere, in Italia, il giudice decide anche se far sopportare al condannato la barbarie del carcere così com’è. Com’é? Uno sconcio in faccia alla Costituzione della Repubblica. Spesso la legge penale consente al giudice di decidere quale pena infliggere, e praticamente sempre gli permette di decidere quanta infliggerne. Il carcere, spesso, non costituisce l’unica pena possibile. E praticamente sempre, appunto, la legge stabilisce tempi diversi, minimi e massimi, di punizione detentiva. Ora, già disporre del potere di togliere la libertà a qualcuno dovrebbe tormentare l’anima di chi è chiamato dalla società ad esercitare questa specie di sopruso: che sarà pur necessario alla convivenza civile e per tenere in ordine pacifico la comunità, ma resta un sopruso. Ma ci sono casi (e il caso italiano è uno di questi) in cui non si tratta soltanto di arrestare la libertà altrui: ci sono casi in cui si tratta di arrestarla conducendo tuttavia il condannato a subire la condizione incivile e molto spesso illegale per cui concretamente e ignobilmente si segnala l’organizzazione carceraria. Il giudice che decide quale pena infliggere, dunque, e quanta infliggerne, esercita un potere di scelta più grave e che più gravemente dovrebbe implicare la sua coscienza e dirigerla. Perché scegliendo se infliggere o no il carcere, o per quanto tempo infliggerlo, egli infatti decide anche se far sopportare o no al condannato, o per quanto tempo, la barbarie del carcere così com’è. E il carcere così com’è costituisce uno sconcio in faccia alla Costituzione della Repubblica, oltre che davanti ai minimi criteri di civiltà propri di uno Stato appena accettabile. Si potrebbe rispondere che se le carceri sono combinate in questo modo la colpa non è dei giudici. È ben vero. Non è colpa loro (un po’ anche sì, in realtà, giacché non li sentiamo spesso, anzi non li sentiamo quasi mai, reclamare soluzioni per il miglioramento delle condizioni indecenti in cui i carcerati sono costretti a vivere). Ma diciamo pure che non si può caricare sui magistrati la colpa del fatto che il carcere è nel nostro Paese molto più, e molto peggio, che la fine della libertà. Ed è però allora proprio questo il punto: non è colpa mia, giudice, se la mia sentenza non si limita a togliere la libertà ma concretamente infligge al condannato la pena supplementare di un carcere incivile. Ma è la mia sentenza che la infligge, e allora io, giudice, questa colpa non me la prendo. Se posso (e spesso posso) non condanno al carcere. Se posso (e praticamente sempre posso) condanno al minimo. La giurisprudenza ha offerto e imposto letture ‘costituzionalmente orientate’ di una quantità di leggi le quali, se diversamente applicate, avrebbero urtato le sensibilità civili e democratiche dei giudicanti. Lo si è fatto in materia di lavoro, in materia di separazione tra i coniugi, in materia di urbanistica, in qualunque materia. Ci si orienti finalmente a non punire con il carcere, o a infliggerne il meno possibile, almeno sin tanto che il carcere sarà così com’è. Andando contro la legge scritta nei codici? No: andando contro la legge del carcere. Perché la legge del carcere, cioè la situazione che lo governa, è illegale oltre che incivile. E il magistrato che ordina il carcere applica al condannato questa legge illegale e incivile. Potrebbe rifiutarsi di farlo. Dovrebbe. Carcere: il paradosso di una riforma di Alfredo Grado* appiapolis.it, 8 febbraio 2018 Alle soglie delle Elezioni Politiche del 4 marzo, prosegue l’iter parlamentare dello schema di decreto legislativo, approvato in via preliminare dal Consiglio dei ministri lo scorso 22 dicembre, sulla riforma dell’ordinamento penitenziario. Con essa, è previsto il rafforzamento e l’ampliamento delle misure alternative al carcere, superando automatismi e preclusioni, tranne che per i condannati per delitti di mafia e terrorismo. Lo schema di decreto contiene anche novità sulla sanità penitenziaria, con l’equiparazione tra infermità fisica e psichica, volta a garantire adeguati percorsi rieducativi compatibili con le esigenze di cura della persona. Premesso che lo ‘stato di salute’ non riguarda solo il singolo ma si riflette sulla collettività, per cui la relativa tutela ‘implica e comprende il dovere di non ledere né porre a rischio con il proprio comportamento la salute altrui’, appare paradossale pensare ad una sanità ‘più equa’ mentre nel corso dell’anno che ci siamo lasciati alle spalle si è assistito ad un prepotente ritorno del carcere e del sovraffollamento. Basti pensare che nel 2017 i detenuti presenti sono stati circa 3.000 in più rispetto a quelli che si registravano alla fine del 2016. In aumento sono stati anche coloro che si trovavano in carcere in custodia cautelare, circa il 35%. Una percentuale destinata ad alzarsi nel caso degli stranieri. Tra questi, ad essere detenuti senza condanna definitiva sono stati il 41%. Al 31 dicembre 2016 invece il tasso di detenuti in custodia cautelare era del 34,7% (gli stranieri in custodia cautelare erano il 41,7%). Numeri molto al di sopra della media europea del 22%. Ma non finisce qui! Ciò che lascia davvero perplessi è il fatto che su 78 carceri sparsi sull’intero territorio nazionale, ‘nel 9% dei casi le celle sono senza riscaldamento; in 36 (46%) senza acqua calda, in 4 (5%) il wc non è in un ambiente separato, in 31 (40%) l’istituto non ha un direttore tutto suo; in 37 (47%) non ci sono corsi di formazione professionale e in 4 (5%) non è garantito il limite minimo di 3mq a detenuto’. (Dati Antigone). A ciò si aggiunga che dall’inizio dell’anno è arrivato a 6 il numero dei suicidi accertati nelle carceri italiane. Nelle carceri italiane i detenuti si tolgono la vita con una frequenza 19 volte maggiore rispetto alle persone libere e, spesso, lo fanno negli istituti dove le condizioni di vita sono peggiori, quindi in strutture particolarmente fatiscenti e con poche attività trattamentali. Ne è un esempio il carcere di Potenza, la cui condizione è stata denunciata dai sindacati del corpo di polizia penitenziaria della Basilicata, che parlano di un vero e proprio ‘rischio igienico-sanitario’. Oppure quello del carcere fiorentino di Sollicciano, nel quale lo scorso dicembre i detenuti hanno protestato alla presenza del Ministro Orlando per la mancanza di acqua calda e riscaldamenti. Per non parlare poi della casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere, tristemente nota per la mancanza cronica di acqua potabile con approvvigionamento mediante autobotti e per la vicinanza con il sito di San Tammaro per il trattamento dei rifiuti. Di fronte a questi dati è difficile pensare al rispetto dell’uomo detenuto e delle persone che ci lavorano. Diventa difficile immaginare che una riforma del sistema penitenziario possa configurarsi senza scontrarsi con il reale stato delle cose. Ma si dice che la vita, in fondo, può riservare sempre qualche bella sorpresa. Ce lo auguriamo. *Docente di Sociologia del Diritto - Criminologo La privacy entra in tribunale di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 8 febbraio 2018 Arriva, anche nel penale, il responsabile per la protezione dai dati personali obbligato a segnalare al Garante tutte le possibili violazioni della sicurezza. Un responsabile della protezione dei dati anche nei tribunali penali, obbligati a segnalare le violazioni della sicurezza all’autorità di controllo, individuata nel Garante della privacy anche per il settore giudiziario. Sono le coordinate della bozza di decreto legislativo, esaminato ieri in pre-consiglio dei ministri, con il quale si attua la direttiva europea n. 2016/680, relativa alla protezione delle persone fi siche con riguardo al trattamento dei dati personali da parte delle autorità competenti a fini di prevenzione, e repressione dei reati, indagine, accertamento e perseguimento di reati o di esecuzione di sanzioni penali. Il quadro. Con specifico riferimento all’ambito giudiziario, attualmente trovano applicazione gli articoli da 46 a 52 del codice della privacy, dedicate ai trattamenti svolti nell’esercizio delle funzioni sia civili che penali, compresi i trattamenti in materia di status giuridico ed economico del personale della magistratura. Per i trattamenti effettuati dall’autorità di pubblica sicurezza per fi ni di prevenzione, accertamento o repressione dei reati o di tutela della sicurezza pubblica, la direttiva Ue ha assorbito totalmente quella oggi prevista dagli articoli da 53 a 57 del codice della privacy, che saranno conseguentemente abrogati. È prevista la designazione di un responsabile della protezione dei dati (Rpd, noto anche come Dpo, ovvero l’acronimo della denominazione inglese della fi gura). La nomina è, quindi, necessaria anche per l’autorità giudiziaria, e ciò per la gestione di trattamenti complessi e spesso inerenti dati sensibili, quali appunto quelli svolti in sede giudiziaria. Il provvedimento prevede l’obbligo di notifica al Garante del data breach cioè della violazione della sicurezza da cui deriva una violazione di dati personali. Se, poi, dalla violazione di dati deriva un rischio elevato per i diritti e le libertà delle persone, è prevista una specifica comunicazione all’interessato senza ingiustificato ritardo. L’autorità di controllo della privacy anche nel settore giustizia è identificata nel Garante della privacy, previsto dal codice della privacy. La bozza del decreto esclude, però la competenza del Garante sui trattamenti effettuati dall’autorità giudiziaria nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali e di quelle giudiziarie del pubblico ministero. La privacy giudiziaria ha delle sue intrinseche peculiarità. Una tra queste è l’applicazione delle regole dei codici di procedura per quanto concerne l’accesso ai dati personali contenuti in una decisione giudiziaria, nel casellario giudiziale o, comunque, trattati nell’ambito di un procedimento penale, anche in fase esecutiva. Il provvedimento modula le esigenze di tutela dei diritti dell’interessato sulla base delle peculiarità proprie dell’attività di prevenzione e repressione dei reati del contesto processuale e della giustizia penale. Si prevede, ad esempio, che nel procedimento penale o dopo la sua definizione, l’interessato può chiedere, con le modalità di cui all’articolo 116 del codice di procedura penale, la rettifica, la cancellazione o la limitazione dei dati personali che lo riguardano. Si istituisce l’obbligo di tenere, in forma scritta, un registro delle categorie delle attività di trattamento. Inoltre diventa obbligatorio l’obbligo di tracciabilità (con registrazione in appositi fi le di log) delle operazioni essenziali svolte sui dati personali in sistemi di trattamento automatizzati, in modo tale da poter consentire la verifica della liceità del trattamento nell’ambito Il decreto prevede le sanzioni amministrative per violazione della privacy nei tribunali in misura decisamente più bassa a quelle previste nel settore privato a carico di imprese. I limiti edittali delle sanzioni pecuniarie amministrative pertanto non possono superare nel massimo 150 mila euro per le violazioni inerenti le modalità del trattamento e le violazioni in tema di predisposizione delle misure che garantiscono l’esattezza e la completezza dei dati. Per le violazioni ritenute meno gravi, inerenti tra l’altro l’esercizio dei diritti di informazione, accesso, rettifica o cancellazione dei dati personali e limitazione del trattamento, la sanzione indicata nel massimo di 80 mila euro. Il Manifesto & Il Giornale, la gara gioiosa a chi è più feroce con Caino di Piero Sansonetti Il Dubbio, 8 febbraio 2018 Ieri mattina ho dato un’occhiata a due giornali importanti nel panorama editoriale italiano, i quali, tra l’altro, sono nati tutti e due, a breve distanza, nei primi anni settanta. Lontanissimi tra loro per impostazione e idee politiche e culturali: Il Manifesto, fondato da Luigi Pintor e Rossana Rossanda nel 1971, e Il Giornale fondato da Indro Montanelli nel 1974, e successivamente vent’anni dopo - ristrutturato da Berlusconi. Il manifesto nacque per rompere il conformismo di sinistra, soprattutto quello comunista. Il Giornale per rompere il conformismo borghese. Mi ha colpito una cosa: pur restando distanti sul piano delle idee, sono molto vicini quando si tratta di titillare gli istinti giustizialisti dei lettori. Il manifesto lo fa mettendo sotto accusa il libertinismo di Berlusconi e poi esprimendo indignazione contro il diritto alla difesa dei fascisti. Il Giornale, viceversa, si indigna per il fatto che un nigeriano (diciamo pure: un ‘negro’...) la fa franca. Lasciamo stare per questa volta il tema dell’antiberlusconismo che spinge il manifesto a una posizione moralista e molto antica sulla prostituzione. Parliamo solo del giustizialismo da tribunale. Il titolo del manifesto è questo: ‘L’onda nera non molla Macerata. Forza Nuova pagherà le spese legali di Luca Traini’. Il titolo del Giornale, a tutta prima pagina, è questo: ‘Stai a vedere che alla fine il nigeriano la fa franca’. Occhiello: ‘follie giudiziarie’. Sottotitolo: ‘Ha fatto a pezzi Pamela ma per i giudici non l’ha uccisa’. Partiamo dal manifesto. (Solo tra parentesi osservando che la notizia che in Germania i lavoratori hanno ottenuto la settimana da 28 ore è appena un richiamino, mentre l’urlo contro Berlusconi puttaniere è il titolo principale con una foto grandissima: a dimostrare che la vecchia lotta di classe è stata interamente sostituita dal moralismo). Il manifesto si indigna perché qualcuno pagherà le spese legali a Luca Traini. Io francamente, con tutto l’orrore che provo per le idee di fondo di Forza Nuova, non riesco a capire cosa ci sia di male nell’adoperarsi per garantire una difesa forte e giusta a un imputato. Non so come spiegare agli amici del manifesto (che peraltro, negli anni, hanno avuto tra i loro collaboratori dei giganti del garantismo, e persino tra i propri fondatori) che il diritto alla difesa è un diritto, appunto, ed è essenziale nella vita di una democrazia, e che il diritto alla difesa esiste solo se è per tutti, e non può essere considerato un diritto per i più buoni, o per i meno colpevoli, o per quelli che ci sono più amici o hanno idee vicine alle nostre. Garantire un’ottima difesa a Luca Traini dovrebbe essere un’aspirazione di tutti noi. E indignarsi perché Forza Nuova, per una volta, fa una cosa intelligente, è assurdo. La posizione del Giornale è speculare. Così come il manifesto, furioso giustamente per l’azione di Traini, vede non di buon occhio la sua difesa, così il Giornale, furioso giustamente per l’uccisione di Pamela, non ammette che sia scarcerato il nigeriano. Perché il giudice lo scarcera? Perché si è convinto che non ha ucciso Pamela. Il problema non è che la fa franca, il problema è che non l’ha uccisa, e non è un male che si sia scoperto che non l’ha uccisa anche se nelle prime ore sembrava accertato che l’avesse uccisa lui, e nessun giornale, proprio nessuno, ha messo in dubbio questa verità. Hanno sbagliato i giornali a dar per certa la notizia che lui era l’assassino, non il giudice che ha scoperto che non lo è. Scrive il Giornale: ‘L’ha fatta a pezzi ma per il giudice non l’ha uccisa’. Lasciando capire che il giudice è un pazzo, perché ritiene che si possa fare a pezzi una persona senza ucciderla. Invece il giudice ha accertato che la ragazza è stata fatta a pezzi dopo che era morta, e che l’imputato non è in nessun modo responsabile di omicidio. Ora bisognerà accertare se è responsabile di vilipendio di cadavere, reato orrendo, ma evidentemente diverso dall’omicidio. Voi direte. Vabbè, ma sono due casi di giustizialismo veniale. Può darsi. Mi ha colpito la coincidenza. La volontà di colpire con la mannaia l’imputato che ci è nemico politicamente per qualche ragione. Mi ha colpito la stessa furia, identica, a destra e a sinistra: colpite Caino, punitelo, impiccatelo, spogliatelo dei suoi diritti. Così noi ci sentiremo tutti più Abele, sempre più Abele. Caso Macerata. Se la voce dell’odio diventa egemone di Alessandro Dal Lago Il Manifesto, 8 febbraio 2018 Giorno dopo giorno, aggressione dopo aggressione, insulto dopo insulto, il discorso razzista sta diventando egemone in questo paese. Il raid di Macerata ha scoperchiato la pentola di un odio per gli stranieri che monta da anni, alimentato dalla propaganda leghista, dalle azioni di Casa Pound e Forza Nuova, dalle strumentalizzazioni di Berlusconi e dall’assenza di qualsiasi azione di governo contro il fascismo. In altri tempi, il sindaco di sinistra o centrosinistra di una città ferita come Macerata avrebbe chiamato i cittadini a mobilitarsi. Oggi, il sindaco Carancini chiede, in nome della ‘comunità’, che si sospenda ogni manifestazione. Ma non è difficile prevedere che a gridare sarà solo la destra razzista. E così la voce dell’odio è la sola che si sente davvero. Da sempre, nel dopoguerra, il fascismo ha trovato spazio, alimentato non solo da un ribellismo cialtrone, ma anche dalla connivenza di settori dell’apparato dello stato. Oggi, tuttavia, sembra in grado di condizionare con i suoi messaggi ‘sociali’ ampli strati di un’opinione pubblica disertata dalla cultura civile. Il problema non è soltanto il rispuntare del culto delle ‘buone opere’ di Mussolini - che non manca nemmeno in qualche brillante mente di centrosinistra. È la creazione del disordine in nome della ‘legalità’, la stigmatizzazione violenta delle minoranze a favore delle supposte maggioranze, lo sdoganamento del razzismo biologico e il menefreghismo con cui i ‘liberali’ e i ‘democratici’ accolgono le dichiarazioni razziste dei loro alleati. Qualsiasi partito di centro o liberale francese, tedesco o inglese (nell’Europa dell’est è tutt’altra storia) non avrebbe sostenuto la candidatura di un Fontana, quello della ‘razza bianca’. In Italia si ridacchia o si minimizza. In un paese civile, Calderoli, che diede dell’orango al ministro Kyenge, sarebbe stato cacciato dal parlamento. In Italia, è stato salvato dai voti dei senatori Pd. Dovunque, il fascista che uccise con un pugno un profugo nigeriano dopo aver urlato ‘scimmia africana’ alla moglie sarebbe in galera. Da noi, ha fatto poco più di un anno di prigione. Dovunque, per farla breve, il raid razzista di Macerata, opera di un leghista, avrebbe profondamente scosso la società. Da noi, o lo si minimizza come gesto di un folle o lo si esalta sui social o sugli striscioni. In tutta questa vicenda, il ruolo della Lega è centrale. Dopo la svolta ‘nazionale’ di Salvini, esiste di fatto una connivenza oggettiva tra estrema destra nazi-fascista e gli ex-padani. I messaggi xenofobi di Salvini sono identici a quelli di Forza Nuova e Casa Pound. Ma non minore è la responsabilità di Berlusconi e dei suoi portaborse. Invocare l’espulsione di 600.000 stranieri - qualcosa di impossibile e impensabile - significa gettare benzina sull’ostilità dilagante per profughi e migranti. Alla fine, ci sarà sempre qualche miserabile giustiziere che prenderà attivamente le parti della ‘comunità’. La minimizzazione del raid di Macerata da parte del Pd, a parte qualche voce isolata, sembrerà astutissima a Renzi, che mira a governare con Forza Italia. Ma è un altro piccolo contributo all’avvelenamento dell’aria che si respira in Italia. Questo dovrebbe essere il momento della mobilitazione, dell’espulsione dei fascisti dalla scena politica, non del quietismo e del volemose bene in nome della tranquillità, come chiede il sindaco di Macerata. Perché, come si vede facilmente girando per i social e come sa Laura Boldrini, altri vigliacchi sono pronti a colpire i deboli per difendere i forti. Caso Macerata. Orlando: ‘ho ricevuto minacce, ma i fascisti non mi spaventano’ di Monica Rubino La Repubblica, 8 febbraio 2018 Il ministro della Giustizia a Circo Massimo su Radio Capital: ‘Salvini e Berlusconi irresponsabili. Provare a giustificare un atto criminale e terroristico come quello di Traini è inaccettabile’. Ha ricevuto minacce e insulti sui social il ministro della Giustizia Andrea Orlando, dopo la sua visita in ospedale ai sei giovani migranti feriti nel raid razzista di Macerata del 3 febbraio. Intervistato da Massimo Giannini e Jean Paul Bellotto a Circo Massimo su Radio Capital, assicura di non avere paura dei fascisti: ‘Sono andato a Macerata e per questo io e la mia famiglia abbiamo ricevuto offese e minacce. Ma sono stato cresciuto da comandanti partigiani e mi hanno insegnato che i fascisti non vanno tenuti in considerazione perché al momento buono sono sempre scappati. Non mi fanno paura’. Il ministro trova inoltre ‘inaccettabile’ che si cerchino ‘giustificazioni sociologiche’ al comportamento di Luca Traini: ‘Matteo Salvini e Silvio Berlusconi sono degli irresponsabili: dare una forma di giustificazione a un comportamento criminale e terroristico è un modo per sdoganarlo e dargli un valore politico, è un rischio enorme’. ‘Quest’anno - prosegue Orlando - il numero degli stranieri presenti in Italia, dopo anni, è diminuito: sono più gli italiani andati all’estero che gli stranieri arrivati. Berlusconi cosa direbbe se anche gli altri Paesi rimandassero indietro i nostri concittadini? I fenomeni vanno regolati, certo, ma dire che siccome Traini ha sparato bisogna mandare a casa 600mila persone è un modo di ragionare che disonora il Paese, la Costituzione e quella che pomposamente la destra chiama ‘patria’, che è una cifra di civiltà e di valori’. Il ministro si dice anche preoccupato del fatto che Traini in carcere sia stato accolto dagli applausi degli altri detenuti: ‘È un segno di profonda involuzione, che segna un clima contro il quale bisogna reagire’. E in merito alla decisione del sindaco di Macerata Romano Carancini di annullare il corteo antifascista previsto per sabato prossimo, commenta: ‘Se il sindaco ritiene sia meglio far calare la tensione, è una posizione rispettabile. Però un momento nel quale si dia la possibilità all’Anpi di testimoniare i valori antifascisti del Paese credo che vada trovato’. Alla domanda se il Pd di fronte a questa vicenda abbia assunto una posizione di ripiego, Orlando risponde: ‘Non arriverei a trarre questa conclusione, ma il problema è il livello di iniziativa politica che si mette in campo: non rassegniamoci al senso comune, che in questo Continente ha prodotto in passato anche dei mostri’. Il ministro racconta infine che non gli è stato possibile incontrare ieri la famiglia di Pamela Mastropietro, la ragazza assassinata: ‘Ho sentito telefonicamente lo zio della ragazza, che è anche legale della famiglia, che mi ha ringraziato di averlo cercato, penso ci vedremo nei prossimi giorni’. E conclude ‘Vi è ipocrisia: ci si muove per lo sdegno di questa vicenda, ma poi chi si dice sdegnato si approfitta e diffonde particolari sulla vita della ragazza. Raccolgo l’appello dello zio che chiede pietas sulla ragazza rispetto a ricostruzioni che non hanno nulla a che vedere con la vicenda’. Il procuratore, dopo l’arresto del figlio, invoca lo stato di diritto: “ora basta gogna” di Egidio Guarnacci Il Dubbio Il magistrato Buonanno: ‘viviamo in uno stato di diritto dove la responsabilità penale è personale. Mio figlio risponderà dei fatti che gli sono contestati, ma io sono stato sbattuto in prima pagina anche se non ho fatto nulla’. Sono giorni difficili per il procuratore capo di Brescia Tommaso Buonanno. Chi lo ha incontrato parla di un uomo provato, schiacciato tra la professione di magistrato e il ruolo di padre. La mazzata è arrivata lunedì scorso, giorno in cui il Gip di Bergamo ha chiesto l’arresto di suo figlio Gianmarco, accusato di rapina a mano armata. E contro Tommaso Buonanno si è subito messa in moto la macchina della gogna che ha convinto il procuratore a prendere un periodo ‘riposo’ perché, dice: ‘Voglio stare vicino a mio figlio’. Chi lo ha incontrato parla di un uomo provato, schiacciato tra la professione di magistrato e il suo ruolo di padre. Sono giorni molto difficili per il procuratore capo di Brescia Tommaso Buonanno. La mazzata è arrivata lunedì scorso, giorno in cui il Gip di Bergamo ha chiesto l’arresto di suo figlio Gianmarco, accusato niente meno che di rapina a mano armata. Il figlio del procuratore avrebbe infatti assaltato un supermercato Conad armato di mitra. Valore del colpo: 12mila euro. Ma le videocamere avrebbero fotografato la targa della sua auto, peraltro intestata al padre. Di lì al momento dell’arresto sono passate poche ore. E poco dopo il procuratore ha fatto sapere di voler lasciare il suo lavoro per un lungo periodo. ‘Mi metto in ferie per stare vicino a mio figlio’ avrebbe confessato. E poi lo sfogo, raccolto dal Corriere di Brescia: ‘Sono stato sbattuto in prima pagina, anche se non ho fatto nulla’. E in effetti la stampa di mezza italia si è sbizzarrita: ‘Figlio del procuratore con problemi di droga rapinava con il mitra’, era il titolo che campeggiava sui Tutti molto attenti a mettere in relazione la professione del padre e quella decisamente ‘meno nobile’, ma ancora tutta da provare, del figlio. ‘Un trattamento che ha penalizzato anche mio figlio - ha continuato il procuratore - si è parlato solo di lui. Un trattamento che rischia di metterlo anche in condizioni di pericolo in carcere, lì non ci sono persone per bene, quando sapranno che è figlio di un magistrato potrebbe anche correre dei pericoli. Anche l’uso di un’auto intestata a me da parte di mio figlio è stato enfatizzato: si tratta di una vettura che mio figlio usa da una vita, abbiamo discusso più volte perché è talmente vecchia che volevo la rottamasse’. ‘Fino a prova contraria - dice il procuratore - viviamo in uno stato di diritto dove la responsabilità penale è personale. Mio figlio risponderà personalmente dei fatti che gli sono contestati, io posso continuare a guardare gli altri in faccia senza dovermi vergognare. Da 41 anni faccio il magistrato con dignità e anche con qualche risultato, come è stato dimostrato più volte. Posso continuare a fare il mio lavoro, come ho fatto finora. Gli sbagli di mio figlio sono una cosa, il mio lavoro è un’altra: lui ha sbagliato a Bergamo, io sono il procuratore a Brescia. Non c’è nessun profilo di incompatibilità, le indagini sono della procura di Bergamo’. ‘In procura precisa Buonanno - non c’è alcuna situazione di tensione. Ma a questo punto preferisco prendere un periodo di pausa per stare con la mia famiglia’. Buonanno aveva già passato qualche guaio anche con l’altro figlio, Francesco, quattro anni più giovane di Gianmarco, che un anno fa era finito in un’inchiesta sullo spaccio di droga nel mondo degli ultras dell’Atalanta. Ma in Italia c’è lo stato di diritto e la responsabilità penale è sempre personale, come ripete in questi giorni il procuratore Buonanno. Stato-mafia, il falò delle verità Di Claudio Martelli Panorama, 8 febbraio 2018 Il processo sulla ‘Trattativa’, che va a sentenza, la dice lunga sugli eccessi di certi Pm. Nel momento stesso in cui otteneva il processo di mafiosi, ufficiali dei carabinieri e politici per ‘attentato o violenza contro un corpo politico dello Stato’, il procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia partì per il Nicaragua, ma solo dopo aver pubblicato un libro. ‘Io so’, s’intitola, e sin dalla prima pagina chiarisce: ‘Io so, ma non lo posso dimostrare’. Chissà cosa avranno pensato i colleghi della procura ereditando un’accusa che il loro capo dichiarava indimostrabile e cosa ne penseranno i giudici che dovranno sentenziare. Un’opinione pubblica prima attonita poi distratta ha assistito ai fuochi fatui, agli equivoci e alle spiritose invenzioni ispirate più a Scherzi a parte che al processo alla trattativa tra Stato e mafia. La più nota è quella del cosiddetto papello - una prova mai depositata agli atti - con scritte a mano le richieste di Totò Riina allo Stato, e di un contro papello con le correzioni di Vito Ciancimino. Entrambi i documenti sono conigli del cappello di Massimo Ciancimino, cioè del teste chiave di Ingroia finché il castello di contraddizioni, bugie e millanterie convinse anche la Procura di Palermo ad accusarlo di falsa testimonianza. Grande scalpore fece l’interrogatorio del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in merito a intercettazioni di colloqui, irrilevanti ma strombazzati, di Nicola Mancino con il suo consigliere, Loris D’Ambrosio, un magistrato valoroso che ingiustamente sospettato di connivenza con l’ex ministro morì di crepacuore. Quanto all’altro ex ministro processato, Calogero Mannino, secondo l’accusa era così terrorizzato dall’assassinio di Salvo Lima da spronare il generale Antonio Subranni del Ros, a trattare con Cosa Nostra per salvargli la vita. E già così ci siamo persi. Qual è ‘il corpo dello Stato’ minacciato o violentato: l’Arma dei carabinieri? Il Governo? Ma allora Subranni e Mancino accusati dello stesso reato sarebbero stati, nello stesso tempo, gli attentatori e gli attentati, i violentatori e le vittime? Eppure, tra il 1992 e il ‘93, mentre il Governo conduceva la più efficace repressione anti-mafiosa della storia, alcuni uomini delle istituzioni compirono scelte incoerenti e pericolose. Per esempio Giovanni Conso, ex ministro della Giustizia che confessò: ‘Io e io solo decisi di dare un segnale di disponibilità all’ala moderata di Cosa Nostra guidata da Bernardo Provenzano perché fermasse le stragi’. Il segnale era togliere dal 41bis centinaia di detenuti mafiosi. Fu una scelta sbagliata, grave e pericolosa, un segno di cedimento che non fermò le stragi. Quanto al generale Mario Mori, in aula a Firenze, anni fa, aveva già tranquillamente ammesso di aver provato a trattare con Vito Ciancimino, che era terrorizzato dall’omicidio di Salvo Lima e disposto in un primo momento a collaborare con gli investigatori. Le ammissioni di Conso e di Mori configurano responsabilità politiche e scelte investigative certe, ma nei tribunali si processano i reati penali non la storia e la qualità professionale di ministri e carabinieri. Evasori con la messa alla prova. Beneficio non subordinato all’estinzione di tutti i debiti di Dario Ferrara Italia Oggi, 8 febbraio 2018 Una sentenza della Cassazione sulle prestazioni gratis a favore della collettività. Non si può subordinare la messa alla prova dell’evasore Iva all’estinzione di tutto il debito verso il fisco. E ciò perché l’articolo 168-bis c.p. prevede il risarcimento del danno ‘ove possibile’ e dunque ha una natura sì prescrittiva ma non assoluta: il giudice deve quindi verificare se la riparazione è fattibile e l’eventuale impossibilità deriva da fattori estranei alla sfera di dominio dell’interessato. È allora escluso che si possa modificare il programma concordato con l’ufficio esecuzione penale esterna, prevedendo la restituzione più interessi dell’intero debito verso l’erario nei due anni di sospensione del procedimento. E ciò specie perché la società amministrata dall’imputato può ancora ottenere la rottamazione della cartella esattoriale e restituire così a rate la sola sorte capitale. È quanto emerge dalla sentenza 5784/18, pubblicata il 7 febbraio dalla terza sezione penale della Cassazione. Benefici e requisiti - La messa alla prova introdotta dalla legge 67/2014 consente di ottenere l’estinzione del reato se va a buon fi ne il programma di lavori di pubblica utilità - insomma prestazioni gratis a favore della collettività - che l’imputato deve svolgere durante la sospensione del procedimento. Che però scatta solo per i reati meno gravi: quelli puniti con la sola pena pecuniaria o con la reclusione fi no a quattro anni (ma c’è una serie di eccezioni). Impossibilità e giustificazione Nella specie è accolto il ricorso dell’imputata per il reato ex articolo 10ter del decreto legislativo 74/2000. Anzitutto è violato l’articolo 464-quater, comma quarto, c.p.p. perché il giudice ben può modificare il programma di trattamento, ma solo con il consenso dell’inquisito: nella specie, invece, la prescrizione di restituire all’Agenzia delle entrate oltre 278 mila euro, cioè l’intera somma dovuta all’erario, risulta disposta senza che l’obbligo fosse previsto negli accordi con l’Uepe. In ogni caso non si può ritenere che il giudice possa subordinare la sospensione del procedimento all’integrale risarcimento del danno. Bisogna verificare la fattibilità dell’adempimento anche se l’impossibilità non esonera automaticamente l’imputato perché ben può essere ingiustificata e precludere così il beneficio. Nella specie manca ogni certezza sull’entità del risarcimento perché la società può ridurre il suo debito tributario grazie all’opportunità grazie alla definizione agevolata dei ruoli offerta dal decreto legge 193/16. La parola passa al giudice del rinvio che dovrà pronunciarsi sulla possibilità del risarcimento. Lazio: stanziati 400 mila € per i mediatori linguistici nelle carceri di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 febbraio 2018 Soddisfatto il Garante regionale dei detenuti, Stefano Anastasia. Fondi per implementare la mediazione linguistico culturale nelle carceri. La scorsa settimana la regione Lazio ha stanziato 400.000 euro per lo svolgimento di attività di mediazione culturale a beneficio dei cittadini stranieri detenuti nelle istituti penitenziari del Lazio. La Regione ha così attuato la delibera della giunta regionale del 9 agosto del 2017 che prevedeva dei fondi per l’attivazione degli interventi di inclusione sociale dei detenuti stranieri, ripartiti tra i Comuni e gli Enti capofila dei Distretti socio sanitari sede di istituti penitenziari ai quali ora spetta la responsabilità di stipulare specifici protocolli con le singole direzioni carcerarie, così da regolamentare le attività secondo le indicazioni regionali. Al 31 dicembre scorso, 2625 erano gli stranieri detenuti nelle carceri del Lazio, pari al 42% della popolazione detenuta, con punte del 58% a Rieti, del 59% a Civitavecchia, del 50% a Rebibbia femminile, del 53% a Regina Coeli, del 56% a Viterbo. ‘Quando il Consiglio regionale mi ha affidato il compito di Garante delle persone private della libertà nel Lazio - spiega il garante Stefano Anastasia, nel mio primo giro di visite negli istituti, la prima necessità che mi è stata rappresentata da operatori e volontari, e che ho potuto riscontrare in decine di colloqui con detenuti stranieri, in particolare con quelli appena arrestati, era soprattutto questa: di far comprendere ai detenuti perché si trovassero lì e con quali diritti, e di far comprendere agli operatori quali fossero le loro necessità’. E conclude: ‘Lo stanziamento deliberato dalla Giunta, dunque, è un fatto molto importante per migliaia di detenuti della Regione, cui spero possano seguire rapidamente gli adempimenti conseguenti, affidati agli enti locali nei cui territori si trovano gli istituti penitenziari’. La figura della mediazione culturale, infatti, è di primaria importanza, perché serve anche a risolvere il problema della convivenza tra varie etnie e culture. Nell’attuale contesto detentivo, caratterizzato dal crescente fenomeno del multiculturalismo, è quindi indispensabile che il personale penitenziario venga messo nelle condizioni di decodificare i codici di comportamento ed i valori di riferimento propri dei detenuti stranieri, al fine di evitare che, dalle reciproche incomprensioni, derivi una discriminazione sostanzialmente frutto dell’ignoranza delle altre culture. In tale ottica la mediazione linguistica-culturale rimane di vitale importanza per supportare la quotidianità detentiva e fornire uno spazio di ascolto ai vissuti emotivi dei detenuti extracomunitari; tale canale permetterebbe inoltre agli operatori penitenziari di accedere alla lettura non solo del disagio psicologico del detenuto. Mancando tutto questo, la situazione inevitabilmente può creare disagi e incomprensioni. Ostacoli che creano l’integrazione del detenuto e quindi anche rischi di radicalizzazione. Marche: nasce il Coordinamento regionale dei giornali in carcere di Alessandra Napolitano centropagina.it, 8 febbraio 2018 Il progetto mette insieme le esperienze editoriali degli istituti penitenziari di Fermo, Ancona, Pesaro e Fossombrone ed è stato presentato quest’oggi (7 febbraio) in Regione. Si intitola ‘Ci siamo anche noi, quaderni dal carcere’, il giornale che racchiude in un’edizione speciale articoli, interviste, riflessioni e proposte scritte dai detenuti rinchiusi negli istituti di pena marchigiani. La prima edizione regionale è stata realizzata in collaborazione tra le testate giornalistiche nate all’interno delle carceri: ‘L’Altra chiave news’, il periodico della casa di reclusione di Fermo (capofila), ‘Penna libera tutti’ di Villa Fastiggi di Pesaro, ‘Fuori Riga’ della Casa circondariale di Ancona Montacuto e ‘Mondo a quadretti’ il periodico del carcere di Fossombrone. ‘Ci siamo anche noi’ è il primo risultato del coordinamento dei giornali supportato dalla Regione all’interno del progetto ‘La parola ai detenuti’ con un finanziamento di 10 mila euro per il 2017 e 13 mila per il 2018. Il progetto intende sostenere e coordinare i giornalini realizzati negli istituti di pena marchigiani per l’attività trattamentale socio-culturale. Coinvolge anche gli ambiti territoriali sociali, le carceri, l’Ordine dei giornalisti ed è appoggiato dal Garante dei diritti Andrea Nobili. ‘La parola ai detenuti’ è un progetto editoriale nato a Fermo 5 anni fa e mette insieme i giornalini presenti all’interno delle carceri marchigiane. In ogni redazione lavorano gruppi di 10-12 detenuti alla volta, negli anni ne sono stati coinvolti centinaia: disegnano molto, scrivono poesie, lettere, i loro sentimenti. Cercano di tornare umani lontani dalla realtà- spiega Angelica Malvatani, responsabile di ‘L’altra chiave news’. Oggi è difficile parlare di carcere. Molte persone rinchiuse in un istituto possono essere recuperate, il nostro sogno è di far capire che non si fa supporto a delinquenti, noi rimettiamo insieme cocci di vite che si sono perse’. ‘È un impegno che rientra nell’ambito della legge regionale 28/2008 di supporto alle fragilità. La Regione sostiene quelle attività che possono gestire i soggetti che a vario titolo sono destinatari di provvedimenti restrittivi, di carattere preventivo o definitivo- afferma l’assessore regionale al Bilancio, Fabrizio Cesetti-. L’obiettivo è consolidare il ponte che ci deve essere tra gli istituti di pena e la società esterna, da consolidare perché è la precondizione affinché l’espiazione stessa abbia un senso, per tendere alla rieducazione dei soggetti condannati e al loro reinserimento’. ‘La legge 28 è del 2008 ma la Regione è dal 2000 che fa interventi in questo senso. In 18 anni, dal 2000 al 2018, la Regione ha messo a disposizione per attività di riabilitazione e reinserimento nelle carceri marchigiane 6,5 milioni di euro. C’è stato un incremento annuale significativo. Nel 2000 erano 48mila, oggi sono 600mila - spiega Giovanni Santarelli, dirigente servizio Politiche Sociali della Regione. Tra le attività svolte all’interno degli istituti penitenziari marchigiani ci sono laboratori teatrali, sistema bibliotecario carcerario (coordinato dalla Regione), giornali, produzione di cortometraggi, inclusione socio abitativa, supporto sociale ai minorenni, progetti di gestione dei crimini particolari come quelli dei sex offender servizio di mediazione dei conflitti per provare a conciliare l’autore del reato e la vittima’. Marco Bonfiglioli, dirigente del Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria di Emilia Romagna e Marche ha ribadito che le esperienze editoriali sono fondamentali all’interno degli istituti di pena. ‘Sogno una condizione in cui si parli di carcere non solo quando ci sono fatti eclatanti di cronaca ma anche nella normalità. Le esperienze dei giornali sono utili ponti per abbattere pregiudizi e difficoltà, per costruire ponti e dare possibilità di recupero alle persone - sottolinea. L’impegno deve essere quello di assicurare progetti di lavoro e supporto abitativo a chi prova a ricostruirsi dopo un periodo in carcere’. Il progetto di coordinamento dei giornali è stato presentato dall’Ambito sociale XIX di Fermo, coordinato da Alessandro Ranieri. ‘Gli investimenti fatti all’interno del carcere sono investimenti per il futuro delle nostre città - dichiara il sindaco di Fermo, Paolo Calcinaro. Sono orgoglioso del lavoro fatto, soprattutto nella costruzione di rapporti stabili con le scuole, progetti reali di educazione alla legalità’. ‘In questi due anni e mezzo di impegno come garante ho notato che per il carcere si cerca un dialogo. Questo ci consente di portare avanti progetti che sono qualificanti per il territorio e che sono un esempio sul piano nazionale. Il progetto della messa in rete delle redazioni penitenziarie ha un valore aggiunto anche per il fatto non scontato che si fa sistema - dichiara il Garante dei Diritti Andrea Nobili. Laddove ognuno porta avanti la propria strategia di intervento qui si cerca di fare qualcosa di diverso, di costruire un dialogo e di razionalizzare. Siamo strati tra i primi a sostenere questo progetto quando ancora eravamo in fase embrionale. È un progetto in divenire che può crescere ancora e può rappresentare un fiore all’occhiello della politica penitenziaria del nostro territorio. Non è una stagione facile quella che stiamo vivendo dal punto di vista penitenziario. Stanno riaffiorando problematiche che pensavamo risolte come il sovraffollamento, la qualità della vita carceraria e la tipologia di popolazione detenuta: aumentano gli extracomunitari, gli irregolari, i tossicodipendenti, e le persone con problemi psichiatrici. In Parlamento si sta dibattendo la riforma dell’ordinamento penitenziario e temo che non arrivi a compimento’. Le redazioni giornalistiche nate all’interno dei penitenziari marchigiani continueranno a portare avanti i propri progetti e a lavorare in rete. Alla fine dell’anno è previsto un nuovo lavoro insieme. Trani (Bat): morte in carcere di Gregorio Durante, è necessaria una ‘superperizia’ traniviva.it, 8 febbraio 2018 La Corte d’Appello chiede maggiore chiarezza e nomina tre nuovi consulenti. Una superperizia orienterà le sorti del processo di secondo grado sul decesso di Gregorio Durante, il 33enne salentino morto nell’infermeria del carcere di Trani il 31 dicembre 2011. E’ quanto deciso dalla Corte d’Appello di Bari, che vuole ancor più chiarezza sull’iter clinico e sulle effettive cause che portarono alla morte del detenuto. Perciò i giudici baresi hanno nominato tre periti che assumeranno l’incarico all’udienza del 20 marzo. Evidentemente non sono bastate le deposizioni del prof. Francesco Introna, consulente dei 3 medici imputati, Francesco Monterisi, Michele De Pinto e Gioacchino Soldano, e dei consulenti che furono nominati dalla Procura della Repubblica di Trani Biagio Solarino, Roberto Catanesi e Roberto Gagliano Candela. Per la morte di Durante il 14 novembre 2014 il giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Trani, Luca Buonvino, condannò solo uno dei 5 imputati: 4 mesi di reclusione col beneficio della pena sospesa per il medico tranese Francesco Monterisi. Furono, invece, assolti tutti gli altri colleghi che operavano in carcere per cui il pubblico ministero Luigi Scimè chiese il rinvio a giudizio: i medici biscegliesi Michele De Pinto e Giuseppe Storelli ed i colleghi tranesi Gioacchino Soldano e Francesco Russo. La sentenza di primo grado fu impugnata dal dr. Monterisi ma anche dalla Procura Generale presso la Corte d’Appello di Bari e dalla parte civile nei confronti di due medici assolti De Pinto e Soldano. Parma: emergenza carcere, il Sindaco Pizzarotti chiede chiarimenti a Orlando La Repubblica, 8 febbraio 2018 Il sindaco Federico Pizzarotti ha nuovamente chiesto chiarimenti al ministro della Giustizia Andrea Orlando: ‘Chiedo chiarezza - fa sapere Pizzarotti. È per questo che lo esorto a prendere pubblicamente una posizione netta: l’istituto penitenziario di massima sicurezza di Parma è in una situazione di criticità oppure no? A noi pare di sì: sovraffollamento, mancanza di organico e necessità di rivedere la propria governance sono assolute priorità. Sottovalutare questi aspetti rischierebbe di rimandare a chissà quando una riforma necessaria per Parma e per il suo carcere. Questo non possiamo permettercelo in alcun modo. Chiedo quindi al ministro una posizione chiara, di riprendere il discorso affrontato insieme sulle problematiche del carcere e di non sottovalutare le richieste che arrivano dal territorio. Per questo lo invito a una visita congiunta presso il penitenziario, in modo che tocchi con mano le criticità. Disponibile sin da ora a un incontro’. Al primo cittadino arriva la replica del ministro: ‘L’invito ad analizzare insieme la situazione dell’istituto penitenziario di Parma, che oggi mi rivolge il sindaco Pizzarotti, è stato oggetto già di un primo incontro nel gennaio scorso dedicato, appunto, alle problematiche del carcere cittadino. A seguito di quell’incontro di neanche un mese fa, ho preso l’impegno di chiedere agli uffici competenti di procedere a una attenta analisi della situazione dell’istituto di Parma. Il ministero della Giustizia ha avviato quindi il percorso per modificare il decreto che attribuisce i punteggi per l’individuazione dell’istituto come sede di incarico superiore’. Livorno: il Garante regionale dei detenuti “in carcere situazione inaccettabile” stamptoscana.it, 8 febbraio 2018 E’ molto più di una denuncia, ciò che il Garante regionale dei diritti dei detenuti Franco Corleone ha reso pubblico dopo la visita che oggi, mercoledì 7 febbraio, ha compiuto nel Carcere di Livorno. Molto di più, in quanto l’aggravante è che il garante si è trovato di fronte agli stessi, identici problemi che già erano stati riscontrati nella scorsa visita, e che dunque sono rimasti senza soluzione. Partiamo dal principio. La casa circondariale livornese ospita 238 detenuti, fra cui 128 in regime di alta sicurezza mentre gli altri in ‘sicurezza media’. I detenuti che si trovano in regime di ‘alta sicurezza’ si trovano in cella in tre. L’accordo con il dipartimento di amministrazione penitenziaria prevede invece che in cella si trovino due detenuti. L’aumento a tre comporta, come spiega lo stesso Corleone, grossi problemi che riguardano la convivenza, dal momento che le pene sono abitualmente di lunga durata e molti dei detenuti studiano. Un altro problema ormai incancrenito attiene alle cucine, costruite due anni fa e ‘mai collaudate né messe in funzione perché è stato commesso un errore di costruzione, per rimediare il quale non è stata individuata alcuna soluzione’. Al problema ‘cucine’ si è aggiunto quello delle docce del reparto giallo, che ‘sono state chiuse e transennate da alcuni mesi per problemi strutturali e i detenuti devono andare a fare la doccia in un altro reparto’. Per non parlare degli alloggi di servizio per la polizia penitenziaria, vuoti e inutilizzabili perché pericolanti. Una situazione ‘inaccettabile’, dice Corleone, vere e proprie ‘ferite aperte’ in una struttura afflitta da gravi problemi che turbano profondamente la vita quotidiana di chi vi è ospitato. Ma c’è anche un altro carico pesante: ‘il fatto che sotto la direzione livornese c’è anche Gorgona, carcere che ospita quasi 100 detenuti e che non ha ad oggi un progetto, per cui nessun detenuto lavora’. Corleone ha annunciato che nei prossimi giorni incontrerà il provveditore per affrontare la questione. Agrigento: i detenuti scrivono al ministero ‘ci siamo stancati di mangiare cibi precotti’ teleradiosciacca.it, 8 febbraio 2018 I detenuti del carcere Petrusa di Agrigento, non ne possono più di mangiare solo cibi pecottti e di bere acqua dal cattivo odore, così hanno deciso di scrivere una lettera al Ministero di Grazia e Giustizia, per elencare diversi problemi che la struttura carceraria di Agrigento soffre da tempo. Contestano, oltre di mangiare solo cibi precotti e di bere acqua dal cattivo odore, di fare la doccia ogni tanto e quasi sempre fredda, inoltre di ricevere i telegrammi e le raccomandate con ritardo. Si sono stufati di mangiare sempre cordon bleu, wurstel, salami di scarsa qualità e per di pù non serviti in carrelli confortevoli. Poi nella lettera che hanno inviato al Ministero, fanno rilevare che sul fronte delle attività, l’unico corso di studi che si svolge è quello alberghiero, però ridotto a sole 3 ore giornaliere. Che con frequenza settimanale l’acqua calda viene a mancare e le docce si fanno solo in locale al buio e non in cella. Una serie di segnalazioni che a quanto pare non aggiungono molto di nuovo, rispetto alle missive che da anni partono dal carcere di Petrusa. Pare che la struttura necessiti di interventi di manutenzione, visto che spesso vi sono delle infiltrazioni d’acqua e sui muri compaiano le muffe e che rendono difficile la vita dei detenuti. Questo in un carcere che è stato realizzato negli anni ottanta, non certo come quello di Sciacca, che si trova all’interno di un antico monastero adattato a casa circondariale. Ma a lamentarsi delle condizioni disagevoli, a quanto pare non sono solo i detenuti, ma anche gli agenti penitenziari. A quanto pare non si è potuto intervenire per migliorare le condizioni di vivibilità dei detenuti, per la cronica mancanza di fondi. Vicenza: carcerati con ago e filo creano plaid per bimbi poveri delle materne di Raffaella Forin Corriere del Veneto, 8 febbraio 2018 Tre volontarie bassanesi hanno creduto nel progetto Ieri le prime coperte (per il pisolino) arrivate a scuola. Anche 15 copertine confezionate per i bambini della scuola dell’infanzia possono concorrere a riscattare i detenuti nelle carceri. Ne sono convinti i cinque reclusi che stanno scontando la pena nella casa circondariale di Vicenza, protagonisti del piccolo ma significativo gesto destinato ai bimbi della scuola cittadina Monumento ai Caduti. Nel laboratorio di cucito interno alla struttura, proposto e, dalla scorsa estate, gestito da tre volontarie bassanesi, hanno realizzato con le loro mani 15 plaid. Serviranno per il riposo pomeridiano di altrettanti scolaretti le cui famiglie vivono in una condizione di disagio economico. Ieri mattina, il ‘pacco dono’ è stato consegnato alla capogruppo del plesso Michela Polloniato dalle volontarie Elda Moncecchi, Sandra Zilio (ex docenti di liceo con la passione per il cucito) e dalla loro amica Silvana Gasparetti. Da giugno scorso, tramite il Csi - il Centro sportivo italiano che coordina altre attività educative e ricreative all’interno del San Pio X - e dopo aver ottenuto il consenso dalla direzione della casa di detenzione che ha colto le potenzialità della proposta, le tre amiche hanno attrezzato un laboratorio sartoriale dove, ogni venerdì pomeriggio, insegnano l’arte del taglio e cucito ad un gruppo di detenuti. Il successo è stato immediato e il progetto si è strutturato dandosi il nome ‘Un filo che unisce’. Punto dopo punto, quel filo è arrivato fino a Bassano, nella scuola Monumento ai Caduti, scelta dalle volontarie perché tra le più multietniche della città. ‘È il primo risultato portato a termine nell’ambito del percorso educativo e riabilitativo avviato a Vicenza e abbiamo voluto fosse a beneficio dei bambini’, spiega Moncecchi, la coordinatrice dell’iniziativa, ex docente di scienze motorie, nonché volto noto nel mondo dello sport bassanese. L’altro risultato lo stanno ottenendo i detenuti coinvolti, che si fanno guidare dalle volontarie definite dagli stessi come ‘Il respiro del nostro cuore’. Ogni giorno, gli aspiranti sarti si impegnano seguendo le consegne settimanali delle ‘maestre’. Oltre alle copertine, hanno prodotto raffinate parure di asciugamani e altri manufatti. ‘Siamo partiti con lavori semplici, ma punteremo a qualcosa di più elaborato - afferma Moncecchi - Il gruppo di lavoro ci ha stupito per dedizione, capacità creativa e manuale, per la precisione il rigore che ci mette nel confezionare il prodotto’. Ma il progetto ha anche un importante risvolto educativo. ‘Questi detenuti che in passato hanno commesso un reato contro la società, cercano un riscatto rendendosi utili per gli altri’, sottolineano le volontarie. ‘È anche un modo concreto di portare la bellezza in un contesto degradato - sottolinea l’assessore Mazzocchin. Quando Elda Moncecchi ci ha offerto questo dono lo abbiamo subito accettato con riconoscenza e gioia per i tanti significati profondi che queste semplici coperte rivestono. Che alcuni adulti segnati dalla vita e desiderosi di impegnarsi in qualche cosa di bello e di utile pensino ai bambini e al loro benessere è un segno di speranza per la nostra comunità. Per questo siamo orgogliosi che questo ‘filo che unisce’ coinvolga anche Bassano’. A loro volta, i bimbi e le insegnanti della scuola hanno ricambiato il gesto realizzando un originale elaborato di carta che suggella una nuova amicizia; le volontarie hanno assicurato che lo consegneranno ai ‘loro ragazzi’. Eboli (Sa): cani dietro le sbarre, ma per una buona causa di Benedetta Palmieri Il Mattino, 8 febbraio 2018 L’ultimo di cui si parla è quello partito in Serbia, ma il progetto non è un’assoluta novità e esperimenti simili sono già stati tentati: in Spagna e Brasile innanzitutto, ma anche in Italia. Si sta parlando dell’opportunità di affidare cura e addestramento dei cani ai detenuti. Ovviamente, l’obiettivo non è a senso unico: si tratta infatti sì di lottare contro il randagismo, di dare asilo a animali abbandonati e in difficoltà, di rieducarli ove necessario e renderli più facilmente adottabili; ma si tratta pure di occupare i detenuti in un’attività che ne favorisca la risocializzazione, che sfrutti la straordinaria capacità empatica dei cani per preparare gli uomini a rientrare nella società, e che possa rivelarsi un domani anche opportunità lavorativa. Al momento, si diceva, il progetto è partito in Serbia, nel carcere di Sremska Mitrovica, a nord di Belgrado: qui sono stati scelti sei detenuti che, sotto la supervisione di addestratori professionisti, si prendono cura degli animali (ne sono già passati circa duecentosessanta), pulendo le cucce che li ospitano, portandoli a passeggio e occupandosi della loro alimentazione e pulizia. Quella di Sremska Mitrovica è una delle prigioni più grandi del Paese, e questo ne fa certamente un esempio significativo ma, come si diceva, anche qui da noi è stata tentata questa strada. Nel 2016 a Eboli, ad esempio, dove nella Casa di reclusione furono portati alcuni meticci accuratamente scelti - per attitudine e caratteristiche - per essere educati dai detenuti (nella struttura, ci sono perlopiù condannati per reati minori e/o legati alla droga), seguiti dagli esperti della Cooperativa Dog Party. O ancora nel 2017 nella casa circondariale di Foggia, che ha avviato un progetto di un anno (è ancora in corso), grazie al quale a varcare i cancelli non saranno solo i cani, ma anche cavalli (ci saranno visite a maneggi) e conigli. Quattro fasi affidate alla cura del Gruppo cinofilo Dauno: i dieci detenuti seguiranno una prima parte teorica, che fornirà loro conoscenze su storia, abitudini e razze dei cani; poi si passerà all’addestramento, e infine alla possibilità di fare di questa una reale opportunità lavorativa, ricevendo le prime nozioni per diventare handler (educatore e preparatore) o commissario di gara. Brescia: a colazione dietro le sbarre, progetto solidale a Verziano con i detenuti di Beatrice Raspa Il Giorno, 8 febbraio 2018 Si chiama Coffee Morning, una colazione nutriente sotto vari profili. Sociale, perché si svolgerà a Verziano con i detenuti a servire caffè e pasticcini. E benefica, perché il ricavato finanzierà la ricerca oncologica pediatrica. Dopo un esperimento simile che si è svolto nella casa di reclusione a dicembre 2016 (i fondi raccolti in quel caso furono dirottati verso le terre colpite dal sisma in centro Italia), l’evento fa il bis il 24 febbraio dalle 9 alle 11. Garante comunale dei diritti dei detenuti, Carcere e territorio Onlus e cooperativa Nitor invitano la cittadinanza a fare colazione in carcere per celebrare la Giornata mondiale della giustizia sociale. La ricorrenza è il 20 febbraio ma la si festeggerà il 24, di sabato. ‘L’appuntamento fa parte di una serie di iniziative che organizziamo per dare ai detenuti una prospettiva sul mondo - spiega la Garante Luisa Ravagnani - Un gruppo di 20-25 persone dal 2016 partecipa a incontri e film su diritti umani, legalità e giustizia. Sono stati loro a proporre di regalare il ricavato della colazione a una Onlus bresciana impegnata nelle malattie oncologiche dei bambini. L’obiettivo è duplice: far capire che anche un detenuto può interessarsi ai diritti e portare il mondo esterno a Verziano’. Una finalità sostenuta dalla Camera penale bresciana (la colazione è patrocinata da Lions club Sirmione) favorevole all’ingresso della società civile in carcere: ‘Così si abbattono pregiudizi’, dice il presidente Andrea Cavaliere. ‘Chi entra scopre un’immagine diversa e poi torna - sottolinea Sandro Del Maschio, direttore della cooperativa Nitor che si spende per trovare lavoro ai reclusi. Il 24 febbraio Magazzini del caffè, Pintossi e Acquolina in bocca, nostri committenti, hanno assicurato la partecipazione’. Per la direttrice Francesca Lucrezi ‘non esiste il delinquente lombrosiano, ma un individuo che non ha fatto scelte giuste e abbiamo il dovere di riaccompagnare in società’. (Iscrizioni via email a info@act-bs.it entro il 16 febbraio indicando generalità del partecipante, luogo e data di nascita). Strutture per persone con disabilità, pronta la mappatura. Al via il monitoraggio superabile.it, 8 febbraio 2018 Il Garante nazionale dei diritti e delle persone detenute o private della libertà personale, Mauro Palma, presenterà lunedì 12 a Roma la mappatura delle strutture per persone disabili in Italia e darà via al monitoraggio. Obiettivo: prevenire abusi e maltrattamenti. Le strutture per persone con disabilità saranno monitorate dal Garante nazionale dei detenuti, al fine di prevenire abusi, maltrattamenti e improprie forme di contrazione della libertà: + stato infatti messo a punto e prenderà il via nei prossimi giorni il sistema di monitoraggio, mentre si è conclusa la mappatura degli istituti che, in Italia, accolgono le persone con disabilità. Il lavoro è affidato all’Unità operativa per la tutela della salute, che fa capo al Garante nazionale dei diritti e delle persone detenute o private della libertà personale. Il compito di monitorare le strutture per disabili a potenziale rischio di trattamenti inumani o degradanti è stato attribuito al Garante nazionale in base alla Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità. E proprio l’attuale Garante, Mauro Palma, lunedì 16 febbraio, a Roma (via San Francesco di Sales 34, ore 11) presenterà l’attività svolta e annuncerà il prossimo avvio del monitoraggio, che l’obiettivo di prevenire e superare le criticità che, in alcune strutture per persone disabili, vengono periodicamente alla cronaca attraverso filmati e intercettazioni ambientali delle forze dell’ordine. L’attività di monitoraggio di queste strutture, troppo spesso poco conosciute e difficilmente accessibili alle autorità di garanzia, diventerà operativa proprio da quest’anno, grazie anche a un protocollo di collaborazione con L’Altro diritto, Centro di ricerca interuniversitario su carcere, devianza, marginalità e governo delle migrazioni (Firenze) e il Centre for governmentality and disability studies ‘Robert Castel’ (Napoli). In futuro verrà implementato un simile sistema di monitoraggio anche per le strutture per anziani. La strage silenziosa dei difensori della terra. Dossier di Global Witness di Sara Gandolfi Corriere della Sera, 8 febbraio 2018 Dall’Amazzonia alla Repubblica democratica del Congo: 197 omicidi nel 2017.Pochi giorni fa, in Kenya, è stato assassinato il ‘cacciatore’ di trafficanti d’avorio. Esmond Bradley Martin è stato ucciso con una pugnalata al collo, in casa sua, a Nairobi. Non un crimine qualunque, anche se la polizia locale lo ha definito una ‘rapina fallita’. Il geografo americano, 75 anni, che da un trentennio risiedeva in Kenya, era il nemico numero uno di bracconieri e contrabbandieri. Ex inviato speciale dell’Onu per la tutela dei rinoceronti, aveva più volte rischiato la vita infiltrandosi sotto copertura nei mercati illegali dell’avorio. Negli ultimi anni aveva viaggiato molto con la moglie in Cina, Vietnam, Laos e Myanmar, mischiandosi a compratori, gangster e trafficanti. L’inchiesta - È stato ammazzato domenica scorsa. Il suo nome quindi non figura nel lunghissimo elenco di ambientalisti uccisi nel 2017 stilato dalla Ong Global Witness, in collaborazione con il quotidiano britannico The Guardian: 197, ben quattro volte di più che nel 2002. ‘The defenders’, i difensori che lottano per proteggere la natura e la terra contro trafficanti, imprese e governi, sono a rischio ovunque, perfino nella civilissima Spagna dove capita che due poliziotti rurali finiscano stecchiti sotto i colpi di un cacciatore dal grilletto facile. Se in Europa è un caso, in alcune parti del mondo è una strage: dagli indigeni in Amazzonia ai rangers della Repubblica democratica del Congo, passando dalle Filippine, il Paese più letale per ambientalisti e difensori della terra (41 morti). Il 60 per cento degli omicidi è imputabile agli interessi del business agricolo o minerario. America latina - Non è una novità: è il continente più pericoloso per attivisti e indigeni, spesso soli in prima linea. Un caso simbolico è quello della colombiana Emilsen Manyoma, leader di Conpaz, organizzazione di comunità rurali che difendeva i contadini cacciati dalle proprie terre a causa dei narcos e delle bande paramilitari d’estrema destra. Ha documentato omicidi e sparizioni, denunciato gli squadroni della morte, cercava di ricostruire la pace dopo decenni di guerra civile. Le hanno teso un agguato nel gennaio dell’anno scorso e l’hanno freddata assieme al marito. Nel 2017, in Colombia sono stati uccisi 32 attivisti, in Messico 15, in Brasile 46 ma si registrano morti anche in Perù, Guatemala, Honduras... In Amazzonia continua il massacro degli indigeni che lottano per i propri territori ancestrali, come i ‘guardiani di Guajajara’, sostenuti dall’ong Survival International, che da tempo ricevono continue minacce di morte dai taglialegna per la strenua difesa di Arariboia, un’isola di verde in mezzo a un mare di deforestazione. Tre ‘guardiani’ sono stati uccisi nel 2016: Cantidio Guajajara è stato investito da un camion dei taglialegna, Assis Oliveira Guajajara è caduto in un’imboscata, picchiato, pugnalato e gettato in un fiume, Alfonso Guajajara è stato freddato in strada. Delitti spesso impuniti. Come accade in altre parti del pianeta. I rangers africani - Essere guardiano di parchi resta uno dei mestieri più pericolosi al mondo (21 omicidi nel 2017) e la Repubblica Democratica del Congo è in assoluto il posto più pericoloso per fare il ranger. Ne sono morti diversi. Il ventiseienne Patrick Muhayirwa si era ‘arruolato’ da poco quando è finito in un’imboscata dei miliziani Mai Mai mentre era di pattuglia nel parco di Virunga, la più antica area protetta per i gorilla di montagna. In Africa, però, i killer sono per lo più bracconieri, come quelli che hanno ucciso in Tanzania Wayne Lotter, noto attivista sudafricano che da tempo combatteva contro il traffico d’avorio e in difesa di elefanti e rinoceronti. È stato ammazzato a colpi di pistola lo scorso agosto. Le donne dell’Asia - Anche qui, contadini e indigeni rischiano quotidianamente la vita opponendosi alle mega-piantagioni di soia o palma da olio e alla deforestazione selvaggia che vuol far spazio a pascoli per il bestiame. Nel bollettino di morte finiscono però anche avvocati e attivisti. Il caso forse più agghiacciante è quello di Mia Mascariñas-Green. Due sicari hanno affiancato il suo Suv e hanno sparato 28 colpi. Mia, che seguiva diverse cause ambientali di alto profilo, è morta sul colpo. Sui sedili posteriori c’erano i suoi tre figli piccoli, miracolosamente illesi. In questo quadro deprimente, la Ong Global Witness evidenzia però alcuni (pochi) dati positivi. Il numero degli attivisti morti, che cresceva da quattro anni, nel 2017 è rimasto stabile. Honduras e Nicaragua, Paesi notoriamente violenti, hanno registrato un calo degli omicidi. E un’importante banca d’investimenti olandese, la Dutch Development Bank, che aveva finanziato una diga in Honduras contro la quale si batteva l’attivista Berta Caceres, uccisa da killer, ha annunciato che nei suoi investimenti futuri terrà conto del rispetto dei diritti umani. Più strutture per i profughi. In un anno 1321 Comuni aprono all’accoglienza di Raphaël Zanotti La Stampa, 8 febbraio 2018 I dati del Viminale contraddicono la tesi dell’ invasione. La distribuzione è disomogenea: il 60% dei centri non li ospita. È uno dei temi centrali della campagna elettorale, eppure in Italia, in 3 Comuni su 5, non hanno mai visto un solo richiedente asilo. ‘L’invasione’, una volta redistribuita sul territorio, ha queste caratteristiche: su 7978 Comuni italiani, 3291 hanno strutture per l’accoglienza. Per gli altri, è una questione di cui si sente parlare in televisione. Abbiamo chiesto al Viminale i dati capillari dell’accoglienza. Era un lavoro che avevamo già fatto l’anno scorso e questo ci consente di fare alcune valutazioni. Cosa è cambiato tra il 15 luglio 2016 e il 21 dicembre scorso? I Comuni che accolgono richiedenti asilo sono aumentati del 59,8% (si sono aggiunte 1321 amministrazioni); le strutture sono aumentate del 92,9% (da 5.186 a 10.006); la capienza è cresciuta del 109% (da 94.533 posti a 197.607); e anche il numero di ospiti è salito, dell’88,4% (da 98.769 a 186.112). Questo potenziamento ha migliorato le condizioni dell’accoglienza: nel 2016 c’erano 4236 richiedenti asilo in più rispetto ai posti letto a disposizione, mentre nel 2017 avanzavano ancora 11.495 posti. Nel 2016, quando la situazione era più critica dal punto di vista degli sbarchi (181.436 persone contro le 119.369 del 2017) l’allora ministro dell’Interno Angelino Alfano aveva predisposto un piano che prevedeva una distribuzione più equa dei migranti, evitando così le concentrazioni nelle grandi città. L’idea era 2,5 richiedenti asilo ogni mille abitanti. Com’è andata? È stata rispettata questa quota? Diciamo che ora l’accoglienza è meno concentrata. Nel 2016 solo il 58% dei Comuni che accoglievano erano sotto questa quota. Nel 2017 siamo saliti al 68,8% dei Comuni. Il rispetto di questa quota, ovviamente, non è omogenea su tutta l’Italia. Nel Veneto, per esempio, la maggioranza dei Comuni è al di sotto (solo il 49% la supera). Ma è l’unico caso. Ci sono invece regioni dove nella stragrande maggioranza dei casi questo tetto viene superato: nel Molise è il 98,1% dei Comuni con strutture di accoglienza, in Basilicata l’89% e in Abruzzo l’83,3%. Se non prendiamo come parametro i confini geografici, ma il numero di persone, in Italia la media è di un richiedente asilo ogni 325 persone. Nei Comuni che accolgono la media è un richiedente asilo ogni 100 abitanti. La politica che hanno perseguito gli ultimi governi punta a un maggior numero di Comuni che mette a disposizione le proprie risorse. E pare che spingere su questo tema, al di là di singole amministrazioni in cui si sono alzate le barricate, ottenendo un effetto soprattutto mediatico, sta dando i suoi frutti. Anche in questo caso, però, la solidarietà non è uguale in tutte le regioni. Tuttavia, la solidarietà verso un problema nazionale è diversa lungo lo Stivale. La regione con meno Comuni che accolgono richiedenti asilo è la Valle d’Aosta: il 17,6% del totale. Segue la Sardegna: 17,8%. Dall’altra parte della classifica troviamo la Toscana (84% dei Comuni) e l’Emilia Romagna (75,4%). La palma del comune più solidale d’Italia spetta a Valleve, in provincia di Bergamo, che ospita 86 richiedenti asilo su una popolazione di 133 abitanti. Ultima annotazione: a fronte dei 1321 Comuni che si sono aggiunti tra il 2016 e il 2017, ce ne sono 89 che hanno smesso di accogliere. Regno Unito. Sigarette elettroniche in carcere: esperimento riuscito di Barbara Mennitti svapo.it, 8 febbraio 2018 “È stato un grandissimo successo”. Con queste parole il direttore del carcere dell’Isola di Mann, Bob McColm, commenta gli esiti del progetto pilota di sei mesi che ha introdotto la sigaretta elettronica nell’istituto penitenziario del piccolo territorio del Regno Unito. La misura era stata pensata per porre un freno agli incidenti seguiti al divieto di fumo in carcere. I detenuti del carcere di media sicurezza di Jurby, infatti, non avendo accesso al tabacco, cercavano di fumare quello che avevano a disposizione: bucce di banana, bustine di tè o addirittura cerotti alla nicotina. Questi espedienti avevano rappresentato per le autorità carcerarie ‘una seria sfida’, come la definisce McColm, dal punto di vista della sicurezza e della disciplina. Si sono contati circa 800 cortocircuiti nei tentativi di accendere queste ‘sigarette di fortuna’ con bollitori o direttamente dalle prese di corrente e molte ustioni. Per questo si è deciso di provare ad inserire nell’istituto l’ecig, con un dispositivo progettato e creato appositamente per i detenuti, ai quali era garantita una fornitura settimanale di liquidi. Come detto, la sperimentazione ha dato esiti positivi sotto diversi aspetti. Prima di tutto quello comportamentale, visto che i detenuti erano più tranquilli e questo si è tradotto in una diminuzione del 58 per cento delle violazioni dei regolamenti e degli atti violenti. È cresciuto del 25 per cento il numero di detenuti che ha deciso di smettere di fumare grazie all’ecig e, ovviamente, sono venuti meno gli incidenti e le ustioni dovuti ai tentativi di cui sopra. Non solo, rispetto alle terapie sostitutive a base di nicotina a cui si faceva ricorso prima, le ecig hanno un vantaggio anche economico. Grazie a loro lo Stato risparmia infatti 8.500 sterline all’anno. Questo successo è stato sancito non solo dalle autorità del carcere di Jurby, ma anche da un organo di controllo indipendente, che incoraggia ad andare avanti con il programma. ‘Fermare il vaping in carcere - commenta Bob Ringham, presidente dell’ente di controllo - sarebbe un passo indietro’. Dunque sigaretta elettronica e detenzione sono un binomio che non solo si può coniugare, ma funziona. Almeno nel Regno Unito. Perché in Italia, tanto per cambiare, le cose sono andate diversamente. Era il dicembre del 2016 quando Rita Bernardini e Santi Consolo, capo del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, annunciarono che anche negli istituti di detenzione italiana sarebbe entrata la sigaretta elettronica. Poi i loro sforzi si sono scontrati con il muro di gomma della burocrazia del nostro Paese. Alla fine non se ne è fatto niente e nelle nostre carceri si continua a fumare. E chi se ne importa della salute dei detenuti, degli agenti e di tutto il personale penitenziario. Iraq. Oltre 4000 jihadisti detenuti nelle carceri dai curdi globalist.it, 8 febbraio 2018 Durante la battaglia di Hawija un migliaio di miliziani si sono consegnati ai peshmerga per evitre di cadere nelle mani dei soldati iracheni. Le autorità della Regione autonoma curda dell’Iraq hanno reso noto ieri che circa 4.000 jihadisti dell’Isis sono detenuti in carcere. Dal 2014 al 2017, le forze di sicurezza dei peshmerga (i combattenti curdi) ‘hanno arrestato circa 2500 persone appartenenti a Daesh (la sigla in arabo dell’Isis, ndr)’, ha detto ieri un consulente per gli affari internazionali del governo del Kurdistan. Lo stesso consigliere ha detto che durante la battaglia di Hawija - l’ultima roccaforte dell’Isis nel centro dell’Iraq - un migliaio di jihadisti si sono consegnati ai peshmerga, ‘per paura di cadere nelle mani delle forze irachene’. Inoltre, ‘350 persone arrestate nelle regioni di Debes e Kirkuk hanno confessato durante gli interrogatori di appartenere all’Isis. Sono stati trasferiti nelle prigioni di Assayech (i servizi di sicurezza curdi, ndr) dopo che le forze irachene sono entrate a Kirkuk ‘, ha aggiunto il consigliere del governo del Kurdistan. Per quanto riguarda gli stranieri, ‘alcuni sono stati consegnati al loro Paese, tra cui un giornalista (appartenente all’Isis, ndr) al consolato giapponese a Erbil, e un cittadino degli Stati Uniti nazionale al consolato americano’. Comunque il consigliere non ha fornito ulteriori dettagli sul numero e sulla nazionalità degli stranieri detenuti. Il governo federale di Baghdad ha ripetutamente invitato le autorità curde a consegnare questi detenuti. Secondo gli esperti iracheni, le autorità di Baghdad detengono circa 20.000 sospetti jihadisti. Un centinaio di jihadisti francesi sono in mani curde e, contrariamente a quanto molti di loro sperano, non saranno giudicati in Francia, ma ‘dalle autorità giudiziarie locali’. La conferma è arrivata dal ministro degli Esteri di Parigi, Jean-Yves Le Drian, che, rispondendo ad alcuni giornalisti sulla possibilità che i jihadisti francesi possano essere giudicati da tribunali francesi, è stato nettissimo: ‘Non saranno rimpatriati in Francia dal momento che sono i combattenti - quindi sono nemici, è vero per l’Iraq è vero per la Siria - che hanno combattuto i cittadini della Siria, che hanno combattuto i turchi, che hanno violentato, che hanno compiuto atti di barbarie’. In Iraq, ha precisato il ministro, ci sono ‘sei famiglie’ francesi che sono state arrestate e saranno processate, ‘tranne i bambini’. Le Drian ha comunque voluto precisare che ‘il nostro console controlla se sono trattati bene, se i diritti fondamentali sono rispettati. Poi ci sarà un processo da parte delle autorità irachene. La pena di morte esiste in Iraq, esiste in altri Paesi del mondo. In questi casi, la Francia rende nota la sua posizione. Andrò presto in Iraq e glielo farò sapere’.