Il ministro Orlando assicura: la riforma delle carceri è in dirittura d’arrivo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 febbraio 2018 Oggi dovrebbero arrivare i pareri sui decreti delle Commissioni Giustizia di Camera e Senato. Oggi le Commissioni giustizia di entrambi le Camere dovranno concludere l’iter per dare un parere definitivo sui decreti attuativi della riforma dell’ordinamento penitenziario. Ieri, nel frattempo, si sono riunite la Sesta e Nona Commissione del Consiglio superiore della magistratura per esprimere un parere sui decreti della riforma che sarà all’esame del plenum la prossima settimana. Durante il seminario è intervenuto anche il ministro della Giustizia Orlando spiegando che la riforma è in dirittura d’arrivo e nella legge di bilancio ci sono 60 milioni per l’attuazione della riforma dell’ordinamento penitenziario. “Quindici milioni sono per il potenziamento del lavoro penitenziario - ha spiegato il guardasigilli, 4 milioni per le attività di formazione scolastica dei detenuti, un milione per le convenzioni con gli esperti ex articolo 80 (criminologi clinici e psicologi, ndr), senza tenere conto delle risorse per l’ammodernamento e per le strutture penitenziario (oltre 250 mln) e per le assunzioni del personale di polizia penitenziaria”. Orlando ha anche aggiunto: “Il ministro non ha mancato di guardare anche al futuro: gli “aggiustamenti” che ci saranno alla riforma “non cedano a fenomeni di schizofrenia legislativa assai ricorrenti. Ogni arretramento assumerà una connotazione negativa”. Secondo il ministro l’attuazione dovrà essere “equilibrata, senza strappi”. Le risorse finanziarie - come già spiegato da Il Dubbio - quindi ci sono, ma i decreti come l’affettività e il lavoro penitenziario, non approvati preliminarmente dal Consiglio dei ministri per motivi finanziari, sono rimasti tuttora nel cassetto e difficilmente vedranno luce. Anche, perché ancora oggi, diversi obiezioni sono state sollevate proprio sul discorso riguardante il mancato onere finanziario della riforma. Osservazione espressa anche dal Consiglio superiore della magistratura. “La scarsezza di risorse - si legge nel parere, votato dalla Sesta e dalla Nona Commissione del Csm - rischia di trasformare alcune norme contenute nella riforma dell’ordinamento penitenziario in un elenco di buoni propositi, senza dar luogo a un reale miglioramento della vita carceraria e ad un più efficace perseguimento della funzione rieducativa della pena”. Complessivamente, però, è stata apprezzata la natura della riforma. Durante il seminario, infatti, la presidente della sesta commissione del Csm, Paola Balducci, ha espresso felicitazioni per lo spirito della riforma in via di approvazione. “L’impianto complessivo della riforma dell’ordinamento penitenziario - ha spiegato Balducci - è molto positivo anche per l’impronta culturale che punta alla dignità del detenuto e persegue concretamente il reinserimento nella società di chi ha sbagliato”. Poi, sempre la presidente della sesta commissione, aggiunge: “La particolare attenzione alla salute dei detenuti e il rilancio del ruolo del magistrato di sorveglianza sono finalmente in sintonia con il dettato costituzionale e attestano un passo avanti di grande civiltà del nostro sistema senza rinunciare alle esigenze di sicurezza”. L’esponente del Partito radicale Rita Bernardini, giunta al 16esimo giorno dello sciopero della fame, e con la partecipazione al Satyagraha di oltre settemila detenuti, critica il Csm: “Anziché porsi il problema del salto di qualità che deve fare la magistratura di sorveglianza per aderire ai compiti che la legge le affida, fa la lagna e, nell’ultima parte, dimostra di non aver nemmeno letto la normativa su cui la prossima settimana dovrà esprimere un parere”. La Bernardini si riferisce alla critica del Csm nei confronti di quella parte di decreto dove si modifica l’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario. Oggi, quindi, salvo intoppi o rinvii, le commissioni giustizia della Camera e del Senato, dovrebbe licenziare i decreti delegati e inviarli sul tavolo del consiglio dei ministri. Salvo smentite, venerdì ci sarà l’ultima seduta prima delle elezioni politiche del 4 marzo. Dopo, sarà troppo tardi. Carceri. Le Commissioni del Csm: “senza risorse rischio flop riforma” Agi, 7 febbraio 2018 La “scarsezza di risorse rischia di trasformare” alcune norme contenute nella riforma dell’ordinamento penitenziario “in un elenco di buoni propositi, senza dar luogo a un reale miglioramento della vita carceraria e ad un più efficace perseguimento della funzione rieducativa della pena”. È quanto si legge nel parere, votato dalla Sesta e dalla Nona Commissione del Csm che sarà all’esame del plenum la prossima settimana, riguardante il decreto legislativo, tuttora al vaglio delle Commissioni parlamentari competenti, con cui si attua una parte della delega sulle carceri. Le due Commissioni di Palazzo dei Marescialli - presiedute dai laici Paola Balducci e Giuseppe Fanfani - pur esprimendo “giudizi positivi” sull’impianto delle nuove norme, non omettono di evidenziare “criticità”, sottolineando che “alcune” di queste “possono addirittura compromettere il concreto conseguimento degli obiettivi sottesi alla novella, che giunge dopo decenni di riforme al dettaglio e prive di sistematicità”. Nel parere, infatti, si osserva che “il più macroscopico ostacolo alla riuscita della riforma è costituito dalla clausola di invarianza finanziaria e, comunque, dall’appostamento in bilancio di risorse non adeguate a inverare il tratto di soluzione di continuità che lo schema di decreto intende immettere nell’ordinamento”. Il tema della scarsezza di ricorse “potrebbe determinare - si legge ancora nel documento - che, al maggior impegno richiesto alle Autorità giudiziarie e amministrative nelle attività correlate alla fase dell’esecuzione della pena, non corrisponda quel radicale mutamento delle modalità del trattamento penitenziario a beneficio dei detenuti e della complessiva maggiore efficienza del sistema”. Le Commissioni di Palazzo dei Marescialli, poi, esprimono “perplessità’“ sulla scelta del Governo di non attuare contestualmente altre previsioni della delega, tra cui quelle sul lavoro in carcere, l’affettività del detenuto, l’ordinamento penitenziario minorile, le misure di sicurezza e la giustizia riparativa: “solo l’assicurazione di concrete opportunità lavorative”, si rileva nel parere, “consentiranno il perseguimento effettivo del finalismo rieducativo”: senza interventi in tal senso, “si rischia che le misure alternative producano solo a una parziale riduzione del sovraffollamento carcerario per mitigare apparentemente, ma senza risolvere, le violazioni strutturali più volte ritenute dalla Corte Edu con il rischio concreto che si generi un effetto boomerang nell’evoluzione legislativa, che riporti il trattamento penitenziario verso un non auspicabile, opposto assetto restrittivo e marcatamente retributivo”. Stranieri, in carcere presenze stabili. Crescita lenta per i reati più frequenti di Vittorio Nuti Il Sole 24 Ore, 7 febbraio 2018 L’immigrazione, ha detto il leader di Forza Italia accendendo il primo vero falò polemico di questa campagna elettorale, è “una questione urgentissima”. Il problema, secondo Silvio Berlusconi, sono i 630mila migranti presenti in Italia, “di cui solo il 5%, e cioè 30mila, ha diritto di restare in quanto rifugiati e cioè fuggiti da guerra e morte. Gli altri 600mila sono una bomba sociale pronta a esplodere, perché vivono di espedienti e di reati”. Ma quanto è realistica questa visione che associa automaticamente i migranti alla vita criminale? Per capire l’evoluzione della delinquenza straniera in Italia e sfatare alcuni luoghi comuni possiamo partire dai dati, elaborati periodicamente dal Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, sul numero di detenuti stranieri per tipologia di reato. Reati contro il patrimonio - Prendendo in considerazione i reati più frequenti, in termini di popolazione carceraria, a incidere di più sono quelli “contro il patrimonio”, macro categoria che comprende furti, rapine, estorsioni, ma anche danni a cose e animali, ricettazione, appropriazione indebita e truffa. Al momento, questo tipo di reato tiene dietro le sbarre 32.336 persone: 9.222 stranieri e 23.114 italiani. Nel 2015 i numeri non erano molto diversi: 8.192 stranieri e 21.721 italiani, cifre che indicano una crescita in due anni leggermente più marcata dei non italiani (+1.393) sui nostri connazionali (+1.030). Reati legati alla droga - La seconda categoria, per consistenza, è quella che raggruppa i reati collegati alla violazione del Testo Unico sugli stupefacenti. Parliamo quindi di importazione, esportazione, acquisto, ricezione e detenzione di droghe e sostanze psicotrope - comportamenti criminosi spesso basati sulla manovalanza straniera - ma anche di violazioni alla legge sulle armi e del 416bis del Codice penale (associazioni di tipo mafioso anche straniere), e di reati contro la persona o contro il patrimonio connessi al traffico e al commercio di droga. Sotto questo profilo, i detenuti stranieri a fine 2017 erano pari a 7.430 unità, 12.363 gli italiani. A fine 2015 il Dap registrava in questa categoria di reati 6.266 detenuti stranieri e 11.410 italiani. L’incremento in due anni è stato quindi rispettivamente di 1.164 e 953 unità. Reati contro la persona - Il terzo raggruppamento di atti criminali per i quali è in carcere un numero consistente di stranieri è quello dei reati contro la persona, tra cui percosse e lesioni personali, violenze sessuali, omicidio volontario, colposo e preterintenzionale, e violenza privata. Qui si è passati dai 6.599 detenuti del 2015 ai 7.151 del 2017, con una crescita in termini assoluti di 516 unità. Gli italiani nello stesso periodo sono passati da 14.869 a 15.849, +980 unità. Per tutti e tre i raggruppamenti di reati dunque la crescita c’è, ma in qualche modo fisiologica, senza un progresso esponenziale, e soprattutto la crescita procede di pari passo a quella dei detenuti italiani. In carcere soprattutto africani ed europei - Non bisogna poi dimenticare che la voce “stranieri” è molto più composita e articolata di quello che tendiamo a credere. Sotto questo profilo, un altro dato interessante fornito dalle statistiche del ministero della Giustizia ed elaborate da Open Migration (un progetto per l’informazione di qualità sul fenomeno delle migrazioni promossa dalla Coalizione italiana libertà e diritti civili) riguarda il numero complessivo degli stranieri ospiti delle patrie galere: 19.745 su 57.608 detenuti totali in Italia al 31 dicembre 2017. Il dato - ed è un altro elemento rilevante - somma sia gli stranieri provenienti da altri paesi europei (7.287 in tutto, di cui 3.387 di altri Stati Ue, e in particolare la Romania, e 2.598 dell’Albania) sia quelli provenienti da Africa (9.797, in particolare Marocco, 3.703, e Tunisia 2.112), Asia (1.357) e America (1.096). A fine 2015, il numero complessivo degli stranieri in carcere era invece di 17.340 su 52.0164 detenuti: in due anni, la crescita è stata di 2.405 unità. Stranieri sovra-rappresentati - Tornando ai 19mila detenuti stranieri registrati lo scorso anno, rileva ancora Open Migration “i cittadini non italiani, pur essendo soltanto il 9% circa della popolazione libera in Italia” rappresentano il 34% del totale dei detenuti: “Dieci anni fa erano di più, il 37%, ma si tratta sempre di una proporzione considerevole”. La crescita della popolazione straniera detenuta in Italia negli ultimi quattro anni riguarda comunque “più i numeri assoluti, legata com’è a un trend in risalita di tutti i numeri della popolazione reclusa, compresa quella italiana. Una crescita che nulla ha a che fare con gli indici generali di delittuosità”. Burocrazie più forti, la politica senza potere di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 7 febbraio 2018 Sono falliti tutti i tentativi avviati per riformare l’amministrazione o le magistrature, che sono state in grado di mobilitare l’opinione pubblica disinformata. Perché nessuno fra gli impegnati nella campagna elettorale parla del fatto che la politica rappresentativa pesa oggi molto meno, esercita molto meno potere, delle burocrazie amministrative e giudiziarie? Perché non si dice che la politica rappresentativa è costretta, quasi sempre, a subire i diktat di quelle burocrazie? Non lo si dice per due ragioni. La prima è che non puoi chiedere il voto dell’elettore dopo avergli detto che conti poco. Devi invece convincerlo che, se verrai eletto, sarai potente e in grado di fare tutte le cose che hai promesso. La seconda ragione è che se i politici dicessero la verità, ossia che amministrativi e magistrati (di ogni tipo) hanno più potere di loro, non verrebbero creduti dai più. Direbbero gli elettori: non siete voi politici quelli sempre in vetrina e che chiedono il voto? Coloro di cui parlate non hanno volto (con l’eccezione di alcuni attivissimi magistrati portati per le relazioni pubbliche), di loro conosciamo solo le inchieste e le sentenze (se sono magistrati di qualunque ramo) oppure gli effetti - in genere oscillanti, per noi cittadini, fra il fastidioso e l’intollerabile - del quotidiano procedere della macchina amministrativa. È solo vostra - pensano molti elettori - la responsabilità di ciò che non va. Se non che, i politici si dividono in due categorie: ci sono, da un lato,i complici, al servizio di quelle burocrazie, e, dall’altro, quelli troppo deboli per poter imporre cambiamenti. Questa storia comincia sul finire della Prima Repubblica quando il vecchio sistema dei partiti entra in crisi. In seguito, arriva Mani Pulite ed è il diluvio. Il prestigio dei politici crolla ai minimi termini (e non risalirà più). È allora che si diffonde quella che chi scrive considera la madre di tutte le fake news, la falsa idea secondo cui questo sarebbe il Paese più corrotto del mondo o giù di lì. Per responsabilità dei politici, ovviamente. Un’idea che nessuno ha più tolto dalla testa di gran parte degli italiani. Si capisce perché. Alle suddette burocrazie fa comodo che i nostri concittadini lo pensino per tenere sulla graticola la politica rappresentativa, per mantenere deboli, ricattabili e al guinzaglio i politici. La politica - siamo nei primi anni novanta - reagisce al crollo del vecchio sistema dando il via alla stagione maggioritaria (un modo per rafforzare il governo e contrastare così il vuoto di potere lasciato dai partiti). Si apre allora un lungo duello fra una politica che cerca di riconquistare il primato perduto e le burocrazie amministrative e giudiziarie che, grazie alla crisi dei partiti, hanno visto crescere i propri poteri e non intendono mollare l’osso. Credo che l’esito del referendum costituzionale dello scorso anno - con cui la stagione maggioritaria si è definitivamente chiusa - abbia sancito la vittoria di quelle burocrazie. Non è vero che la politica rappresentativa abbia la stessa forza in ogni circostanza. L’Italia è un esempio dell’oscillazione fra l’onnipotenza (Prima Repubblica) e una debolezza che, in certi ambiti, diventa impotenza. Per un verso, la politica, come è provato dai tentativi falliti, non ha la coesione e la forza per riformare l’amministrazione o le magistrature. Basta che qualcuno ci provi e gli interessi minacciati sono in grado di mobilitargli contro un’opinione pubblica disinformata e pregiudizialmente ostile alla politica. Inoltre, quegli interessi dispongono (tra Corte costituzionale e tribunali amministrativi) di mezzi di difesa potenti. Non c’è possibile riforma del settore della quale non si possa dire che lederebbe qualche “diritto acquisito”. E ciò permette di bloccarla. Per un altro verso, anche quando non osa toccare l’organizzazione amministrativa e giudiziaria, la politica ha comunque margini di manovra ristretti. È persino in discussione la liceità di quella “rappresentanza territoriale degli interessi” che, al netto di ogni retorica, è parte centrale della rappresentanza in tutte, nessuna esclusa, le democrazie. C’è in qualunque momento il rischio che venga catalogata - anche quando non lo è affatto - come illegale (voto di scambio, traffico delle influenze e quant’altro). Il problema è che quando la politica cede il bastone del comando alle burocrazie amministrative e giudiziarie, un Paese rischia grosso perché esse sanno autotutelarsi ma non sanno governarlo. Lo provano i colpi di maglio giudiziari contro insediamenti industriali o contro l’export (affari di miliardi in fumo per procedimenti giudiziari su presunte tangenti finiti con assoluzioni) o contro lo sfruttamento del patrimonio energetico, che hanno vanificato tante occasioni di sviluppo. Per non parlare della capacità che ha l’amministrazione di rendere difficilissima la vita delle aziende. Si veda, ancora, cosa riescono a combinare le suddette burocrazie quando mettono le mani sul sistema educativo. Maurizio Ferrera ha raccontato (Corriere, 3 febbraio) della sentenza con cui il Consiglio di Stato (facendosi forte di una decisione della Corte costituzionale) ha proibito i corsi di laurea in lingua inglese del Politecnico di Milano. Per lesa maestà nei confronti della lingua italiana e perché vengono discriminati gli studenti che non conoscono l’inglese. Quei corsi di laurea sono una buona piattaforma per dare a ragazzi dotati qualche chance in più di trovare un lavoro post-laurea, ma perché mai ciò dovrebbe interessare ai “guardiani delle leggi”? Si noti che il no ai corsi in inglese fa il paio con il “non passi lo straniero” pronunciato contro i direttori non italiani dei musei. Urge, a quanto pare, la rivalutazione di Benito Mussolini: fu lui ad inventare l’autarchia. Le burocrazie, amministrative e giudiziarie, spadroneggiano. I politici o sono al loro servizio o sono troppo deboli per tenerle a bada. Lasciate a se stesse quelle burocrazie ci preparano un futuro di autarchia e di declino economico e culturale. Chi fosse interessato a far restare il Paese nel mondo moderno dovrebbe porsi il problema di come tagliare loro le unghie. La giustizia inquinata e il problema degli anticorpi di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 7 febbraio 2018 Da un lato c’è un pubblico ministero bollato come “integralmente asservito” a interessi altrui, dotato di una “inquietante capacità criminale. Dall’altro un giudice amministrativo accusato di aver “ricevuto utilità per la sua funzione di presidente di sezione del Consiglio di Stato”. In mezzo un gruppo di avvocati, imprenditori e faccendieri collegati in grado di comprare magistrati, e dunque pilotare sentenze a proprio favore. Un sistema integrato, che in Sicilia era riuscito a “penetrare a più livelli nell’attività giudiziaria, economica e politica”, e nella capitale d’Italia era in grado di indirizzare decisioni su appalti da centinaia di milioni di euro. Questa è la rete svelata dalle indagini condotte dalle Procure di Messina e di Roma, dove a fronte di provvedimenti graditi, perizie compiacenti e procedimenti penali costruiti ad arte sono saltati fuori viaggi e vacanze pagate, versamenti di contanti quanto meno anomali, conti svizzeri e intrecci societari sospetti e altre forme di presunta corruzione in atti giudiziari. È questa una delle forme più pericolose di malaffare e contaminazione della vita pubblica, perché per l’appunto inquina e condiziona quella che dovrebbe essere un’attività trasparente e equa per definizione: l’amministrazione della giustizia. Purtroppo la doppia inchiesta venuta ieri alla luce dimostra che non sempre è così. E a distanza di oltre vent’anni si ripropongono intrecci e connivenze alimentate da mazzette e altre forme di retribuzione occulta, che già avevamo visto ai tempi dei processi milanesi sulle “toghe sporche” nel palazzo di giustizia di Roma. Come se non fosse cambiato nulla, la storia si ripete con altri protagonisti ma secondo gli stessi schemi. All’epoca le indagini fecero scalpore perché entrarono dentro un sistema di potere che dalle aule di tribunale si era esteso alle stanze del potere politico; stavolta sembra siano entrate nel cuore di un “apparato relazionale” capace di indirizzare gare d’appalto milionarie come quelle gestite da Consip, o di inquinare altre indagini che hanno coinvolto colossi di Stato come l’Eni. Persino attraverso un ufficio giudiziario periferico come la Procura di Siracusa. Del resto è lì, in quell’avamposto di legalità trasformato - almeno in parte e secondo le ipotesi di accusa - in una piccola centrale d’affari, che un gruppo di magistrati ha avuto la coscienza e la forza di lanciare l’allarme: “Soggetti portatori di specifici interessi economici e imprenditoriali dimostrano una preoccupante attitudine ad orientare a proprio favore l’azione della procura, rendendo fondato il timore che parte dell’ambiente giudiziario non sia immune a tale forza di infiltrazione”. Era l’incipit di una dettagliata denuncia completa di nomi ed episodi da cui hanno preso spunto il Consiglio superiore della magistratura e le Procure competenti per svolgere gli accertamenti che hanno portato al risultato di ieri. A dimostrazione che il sistema istituzionale ha gli anticorpi per reagire alle illegalità che si annidano al proprio interno, ma ciò avviene solo dopo che gli imbrogli si sono realizzati. Mancano invece, ancora una volta, gli anticorpi necessari alla prevenzione, soprattutto in quei settori che alimentano gli affari con meccanismi truffaldini utili a battere la concorrenza e garantirsi più facili guadagni. Addirittura con la complicità del potere giudiziario. Che almeno in questo caso è riuscito a guardare dentro se stesso e-fatta salva la presunzione di innocenza degli indagati- smascherare l’illegalità nascosta nei suoi stessi ingranaggi. Provando così a restituire ai cittadini almeno un po’ di fiducia nelle istituzioni violate dalla corruzione. Testimoni di giustizia tutelati. Indennizzi, uso dei beni confiscati e un referente al fianco di Francesco Cerisano Italia Oggi, 7 febbraio 2018 La nuova legge, pubblicata in Gazzetta Ufficiale, entrerà in vigore il 21 febbraio. Il 21 febbraio 2018 sarà ricordato come un giorno fondamentale per i testimoni di giustizia. Da quella data entrerà infatti in vigore la legge, approvata il 21 dicembre scorso che riconosce maggiori tutele a coloro che, totalmente estranei alle organizzazioni criminali, per essere stati testimoni di un fatto di reato, abbiano dovuto essere inseriti in un programma di protezione. La legge 11 gennaio 2018, n. 6 con le “Disposizioni sui testimoni di giustizia”, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 30 di ieri, appresta un ampio ventaglio di tutele. Dall’indennizzo forfettario per i danni psicologici o biologici subìti, all’inserimento lavorativo nella p.a. (ammesso, ma considerato come extrema ratio, qualora ogni altra forma di reinserimento occupazionale sia fallita, perché la normalità dovrà, invece, essere la tutela della sicurezza del testimone nel luogo d’origine con conseguente mantenimento anche dell’occupazione svolta). E ancora. La legge, fortemente voluta dal ministro della giustizia Andrea Orlando, garantisce ai testimoni l’assegnazione in uso dei beni confiscati alla mafia. E dispone un maggiore ricorso all’incidente probatorio e alla videoconferenza per acquisire nel processo le dichiarazioni del testimone senza esporlo a pericoli. Al testimone sarà infine garantita la possibilità di avere al proprio fi anco un referente dello Stato per tutto il periodo della protezione. Il referente sarà individuato all’interno del Servizio centrale di protezione, fin dal momento dell’inserimento nel piano provvisorio e costituirà un punto di riferimento continuo fi no a che l’affidamento al Sistema non sia terminato. Uno dei tanti meriti della legge (frutto del lavoro della commissione parlamentare antimafia che sin dall’ottobre 2013 ha individuato tra le priorità d’azione il riconoscimento della piena dignità ai testimoni, il cui status era fino a ieri regolato da una legge del 1991, modificata poi nel 2001, con norme pensate per i collaboratori di giustizia, i cosiddetti pentiti) è proprio quello di distinguere nettamente le due fi gure, circoscrivendo lo status del testimone e specificando che, per essere tale, l’oggetto della testimonianza dovrà essere “attendibile e rilevante” ai fini delle indagini o del giudizio. Il testimone, inoltre, per poter essere ammesso al programma di protezione non dovrà aver riportato condanne per delitti non colposi, né essere stato sottoposto a misure di prevenzione e soprattutto non dovrà aver tratto beneficio dai reati che sta denunciando. Per esempio, l’imprenditore che per anni abbia subìto una estorsione da parte di una organizzazione criminale, ma che proprio grazie al rapporto con questa organizzazione sia stato concretamente avvantaggiato nell’accaparrarsi appalti, non potrà essere considerato un testimone di giustizia anche se a un certo punto decidesse di denunciare. Dell’Utri resta in carcere: “malattia non avanzata e lui può scappare” di Fulvio Fiano Corriere della Sera, 7 febbraio 2018 La decisione del tribunale di sorveglianza. La Procura generale aveva espresso parere negativo alla scarcerazione per motivi di salute. I giudici: “Adeguate le cure in struttura protetta. La radioterapia è incompatibile con l’uso del braccialetto elettronico. Nessuna violazione dei diritti umani”. Se ricoverato in una struttura sanitaria non attrezzata alla detenzione o se mandato ai domiciliari, Marcello Dell’Utri potrebbe darsi alla latitanza. “La sua posizione giuridica non è in alcun modo rassicurante”, scrivono i giudici del Tribunale di sorveglianza, che rigettano l’istanza dell’ex senatore del Popolo della libertà, detenuto a Rebibbia per una condanna definitiva a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Pesano in questa valutazione i precedenti penali e i processi ancora in corso. Ma soprattutto, motiva il tribunale “allarmante appare la pregressa latitanza in Libano (2014), nonostante l’età, la patologia cardiaca e le altre affezioni già all’epoca presenti”. Il pericolo di fuga è concreto considerando “le condizioni fisiche non impeditive” del 76enne e le sue piene “capacità relazionali e cognitive”. Dell’Utri “potrebbe facilmente allontanarsi”, dato che nelle sedute di radioterapia a cui si deve sottoporre non indosserebbe il braccialetto elettronico. “Esclusa ogni forma di contrasto con il principio di umanità” - Su questo punto, le ragioni del “no” si incrociano con le valutazioni mediche. Il quadro clinico “serio ma stabile” del co-fondatore di Forza Italia, pur se necessario di controlli continui, non presenta fattori di rischio imminente, dicono le perizie dei giudici. Né per la cardiopatia, né per il diabete, né per il tumore alla prostata (valori in regressione): “Ne deriva che nel bilanciamento con le ragioni di prevenzione e con il principio di indefettibilità della pena (per i reati di mafia non ci sono benefici penitenziari, ndr) questi ultimi devono essere ritenuti prevalenti”. Gli avvocati Alessandro De Federicis e Simona Filippi avevano chiesto gli arresti ospedalieri presso la Humanitas di Milano. Per i giudici, però, l’ex parlamentare può essere curato nei reparti di servizi assistenza intensificata delle strutture carcerarie, in particolare quello dell’ospedale San Giovanni Battista-Le Molinette di Torino. Qui, sottolinea il collegio, nel periodo di detenzione “non breve ma nemmeno eccessivo” che serve alle cure, Dell’Utri avrebbe una “stanza singola, con uso di bagno privato, tv funzionante”, e uno spazio dedicato al movimento e alla socialità, “per cui è esclusa ogni forma di contrasto con il principio di umanità della pena”. E se l’ex senatore dovesse ancora opporsi a questa soluzione “si chiede espressamente al Dap”, a tutela della sua salute e in forza dell’articolo 32 della Costituzione, di disporne il trasferimento. Le motivazioni - La richiesta di scarcerazione avanzata dagli avvocati prevedeva la sospensione della pena per effettuare presso la struttura ospedaliera Humanitas, di Milano, le cure a lui necessarie. Il 7 dicembre scorso lo stesso tribunale aveva respinto l’uscita dal carcere nonostante gli stessi consulenti della procura si fossero espressi per la incompatibilità tra le condizioni di salute di Dell’Utri e il suo stato di detenuto. Secondo i i giudici, invece, il detenuto può essere curato nelle strutture protette dell’amministrazione penitenziaria (ad esempio l’ospedale Pertini di Roma), perché: “La modalità del ricovero non viola diritti, ma provoca alcune limitazione che non pregiudicano la riuscita della terapia, che è l’interesse prevalente nel giudizio di compatibilità, non rilevando la disponibilità di degenze più confortevoli in ambiente extracarcerario”. Decisivo, poi per negare luoghi alternativi di cura,tra cui i domiciliari, il fatto che “le terapie previste non consentono nemmeno l’applicazione dello strumento elettronico (il braccialetto, ndr) di controllo”, per cui verrebbe a mancare ogni forma di controllo rispetto al pericolo concreto di fuga. La moglie: “Bisogna vergognarsi di essere italiani” - “Se viene negato” il diritto alla salute, “bisogna vergognarsi di essere italiani. Ci stupiamo di Turchia e Venezuela, ma evidentemente non sappiano guardare in casa nostra”: questo il commento di Miranda Ratti, moglie di Marcello Dell’Utri, intervistata da Tgcom24. E Ratti spiega che “sembra inutile dire che nella magistratura non ho nessuna fiducia perché anche quest’ultima istanza dimostra un accanimento, e contro l’accanimento, se uno è prevenuto, non c’è nulla da fare”. Tante le reazioni sulla decisione del Tribunale di sorveglianza. “Quello di Dell’Utri mi sembra un caso di accanimento carcerario di cui non vedo le ragioni” ha detto Maurizio Lupi, coordinatore nazionale di Noi con l’Italia-Udc, che ha aggiunto: “La giustizia non ha bisogno di infierire ulteriormente su una persona anziana e ammalata di tumore e chi ha la responsabilità di amministrarla, oltre al rispetto della legge, dovrebbe considerare quel senso di umanità che è fondamento del nostro vivere sociale”. Per il deputato di Civica popolare, Fabrizio Cicchitto, invece, “ci troviamo di fronte ad un caso di denegata giustizia, e che con la vita di Dell’Utri si sta giocando una ignobile partita”. Ma anche il leader di Leu, interpellato in merito alla sentenza ha commentato che si tratta di “una decisione della magistratura e noi dobbiamo rispettarla”. Cannabis, quando coltivare non è reato di Luigi Saraceni Il Manifesto, 7 febbraio 2018 In una recente sentenza, la Terza Sezione Penale della Corte di cassazione, presidente Aldo Cavallo e relatore Carlo Renoldi, ha affrontato l’annosa questione della punibilità della coltivazione della classica piantina di marijuana ad uso esclusivamente personale. La soluzione adottata appare la più equa, razionale e giuridicamente corretta. Nel caso di specie l’imputato aveva coltivato, all’interno della propria abitazione, 6 piantine di cannabis, da cui si sarebbero potute ricavare una quarantina di “canne”. In questa rubrica sono state commentate numerose sentenze dei giudici di merito che hanno affrontato questa spinosa questione dal 2010 al 2016 con una interpretazione favorevole all’assoluzione del “coltivatore” sulla base di questo ragionevole argomento: la legge punisce la coltivazione di tipo “agrario” e non la coltivazione “domestica”, non essendovi alcuna ragione per punire chi, per procurarsi l’erba destinata al consumo personale, anziché rivolgersi al mercato della droga, la coltiva in proprio. Ma questa ragionevole soluzione è stata sistematicamente bocciata dalla Cassazione. Ora i giudici della Terza sezione vanno oltre, partendo dalla constatazione che, nel caso sottoposto al loro giudizio, la coltivazione delle piantine era certamente destinata al consumo personale, come dimostrava anche il fatto che il giudice di merito aveva ritenuto destinati all’uso personale circa tre grammi di marijuana rinvenuti nella stessa abitazione dell’imputato. La Corte procede quindi ad una scrupolosa rassegna della giurisprudenza in argomento, dando conto della soluzione più rigorosa, fondata sulla lettera della legge, che non annovera la “coltivazione” tra le condotte penalmente scriminate dal consumo personale. Ma - osserva la Corte - più convincente appare quella giurisprudenza che, superando l’interpretazione meramente letterale, fa leva sul concetto di “offensività”, che esclude la punibilità tutte le volte che la condotta dell’imputato, pur rientrando astrattamente nel tipo di reato previsto dalla legge, non arreca in concreto alcuna lesione al bene protetto dalla norma incriminatrice. Partendo da questa premessa, la Corte osserva che il bene tutelato dalla norma di legge che incrimina le condotte di “spaccio”, consiste nell’impedire che la disponibilità dello stupefacente comporti il concreto pericolo della sua diffusione e quindi un incremento del mercato della droga. Or dunque, una coltivazione di poche piantine di marijuana destinate al consumo personale non è, per definizione, destinata ad incrementare il mercato, e perciò, non essendo idonea a ledere il bene protetto dalla norma incriminatrice, non è punibile. In conclusione il Collegio afferma che nel caso concreto la coltivazione in casa di sei piantine di cannabis non poteva recare “alcuna lesione della salute pubblica” in quanto destinata al consumo esclusivo di una sola persona; e aggiunge che a tale condotta non poteva essere attribuita l’effetto di favorire la circolazione della droga e di alimentarne il mercato. La soluzione adottata dalla recente sentenza della Cassazione è in consonanza con la giurisprudenza della Corte costituzionale che, come ricordano i giudici di piazza Cavour, ha più volte affermato che “l’idoneità offensiva della condotta di coltivazione può stemperarsi nella constatazione” che la lesione del bene protetto dalla norma incriminatrice dello “spaccio” in realtà, in concreto, non sussiste. C’è da augurarsi che questa soluzione, in assenza di un intervento risolutivo del legislatore, diventi patrimonio unanime della giurisprudenza. Non va riconosciuto asilo all’immigrato per gli abusi subiti nel viaggio di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 7 febbraio 2018 Corte di cassazione - Sezione VI civile - Ordinanza 6 febbraio 2018 n. 2861. L’immigrato richiedente asilo non può basare l’istanza sulle vessazioni subite durante il viaggio per raggiungere l’Italia senza, invece, fornire sufficienti elementi di pericolosità del Paese di provenienza. La Cassazione con l’ordinanza n. 2861/2018 ha precisato che la protezione internazionale non poteva essere concessa a un cittadino che proveniva dal Gambia e che attraversando il deserto libico aveva subito una serie di vessazioni. Quello che conta secondo la Corte è la situazione politica e sociale che sussiste nel Paese di provenienza. Alla luce di quanto disposto dall’articolo 8, comma 3, del Dlgs 25/2008 “ciascuna domanda è esaminata alla luce di informazioni precise ed aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine dei richiedenti asilo e, ove occorra, dei Paesi in cui sono transitati elaborate dalla Commissione nazionale sulla base dei dati forniti dall’Acnur (Alto commissariato delle nazioni unite per i rifugiati), dal ministero degli affari esteri, anche con la collaborazione di altre agenzie ed enti di tutela dei diritti umani operanti a livello internazionale, o comunque acquisite dalla Commissione stessa”. Inammissibilità del ricorso - I Supremi giudici hanno rilevato l’inammissibilità del ricorso in quanto il ricorrente ha chiesto una rivalutazione non consentita in fase di legittimità dell’attuale situazione del Gambia senza, tuttavia, riportare il contenuto delle allegazioni svolte a tale proposito nel corso del giudizio di merito. No al sequestro per equivalente se il riciclaggio non è adeguatamente provato di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 7 febbraio 2018 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 6 febbraio 2018 n. 5459. La misura cautelare reale si applica al reato di riciclaggio e non a quello di ricettazione. Lo chiarisce la Cassazione con la sentenza n. 5459/18. La Corte si è trovata alle prese con un soggetto che aveva eccepito l’illegittimità del sequestro per equivalente disposto ex articolo 646 quater cp. La vicenda - L’imputato nel ricorso per Cassazione ha evidenziato come si fosse limitato a ricevere sul conto corrente una somma prossima a 299mila euro senza, tuttavia, adottare alcun espediente volto a ostacolare l’accertamento dell’origine illecita della richiamata somma di denaro. Il tribunale del riesame - richiamando un filone di giurisprudenza - aveva evidenziato come il delitto di riciclaggio sarebbe stato integrato anche da condotte finalizzate non solo a impedire ma anche a rendere semplicemente più difficile l’accertamento della provenienza illecita dei beni attraverso qualsiasi espediente. I giudici quindi avevano ritenuto configurabile il delitto di riciclaggio anche nel caso di specie, visto che il versamento sul conto personale era comunque finalizzato a creare una schermatura alla provenienza illecita del denaro. La Cassazione, sul punto, non si è trovata in sintonia, ritenendo che perché si possa parlare di riciclaggio occorra un quid pluris consistente nel compimento da parte dell’agente di un’attività volta a ostacolare la tracciabilità della provenienza del bene. E da qui non era possibile applicare la misura cautelare prevista solo per il reato di cui all’articolo 648-bis cp (riciclaggio). In definitiva la Corte ha rimesso la questione ai giudici di merito perché possano concretamente individuare l’imputazione di riciclaggio. Non basta per integrare quest’ultimo reato la sola ricezione delle somme oggetto di distrazioni. Quando c’è riciclaggio - L’elemento essenziale perché possa sussistere il riciclaggio consiste nell’idoneità della condotta a ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa del bene, in presenza del quale, il concreto intento di lucro può valere a rafforzare, ma non a escludere il dolo generico del riciclaggio. Cremona: 28enne morto a Cà del Ferro, decessi in aumento nelle carceri italiane cremonaoggi.it, 7 febbraio 2018 Si sarebbe trattato di morte naturale, per il 28enne trovato morto nella serata di lunedì in una cella del carcere di Cremona. Se in un primo momento chi era intervenuto aveva ipotizzato il suicidio, anche per la presenza di un fornelletto a gas acceso, dall’autopsia eseguita sul corpo del giovane sembrerebbe che la causa del decesso sia stato un arresto cardiocircolatorio, anche se sono ancora in corso gli accertamenti per capirne la causa, soprattutto alla luce della giovane età. Il 28enne, di nazionalità italiana, era detenuto per il reato di spaccio. A ricostruire la vicenda è il sindacato di Polizia Penitenziaria Sappe. “Alle 20.30 circa, durante un giro di controllo, il collega di pattuglia è stato chiamato da un detenuto che ha riferito di aver visto il proprio compagno di cella riverso sul pavimento del bagno” racconta Alfonso Greco, segretario regionale per la Lombardia. “Immediatamente sono partiti i soccorsi, ma l’uomo è purtoppo deceduto, per cause naturali. Anche questa tragedia nonostante la celerità dei soccorsi prima della polizia penitenziaria e degli operatori sanitari, ha poi avuto un triste epilogo”. La vicenda è stata ripresa anche da Donato Capece, segretario generale del Sappe, che sottolinea come siano aumentati i decessi e gli episodi violenti all’interno delle carceri italiane. Secondo il leader del sindacato, “con il regime penitenziario ‘aperto’ e la vigilanza dinamica, ossia con controlli ridotti della Polizia Penitenziaria, la situazione si è ulteriormente aggravata”. Capece, nel trasmettere alla Commissione Giustizia del Senato della Repubblica le proprie critiche alla riforma dell’ordinamento penitenziario attualmente all’esame del Parlamento, ha messo nero su bianco i numeri di questa disfatta: “La situazione si è notevolmente aggravata rispetto al 2016”, denuncia. “I numeri riferiti agli eventi critici avvenuti tra le sbarre nell’interno anno 2017 sono inquietanti: 9.510 atti di autolesionismo (rispetto agli 8.586 dell’anno 2016, già comunque numerosi), 1.135 tentati suicidi (nel 2016 furono 1.011), 7.446 colluttazioni (che erano state 6.552 l’anno prima) e 1.175 ferimenti (949 nel 2016). E la cosa grave è che questi numeri si sono concretizzati proprio quando sempre più carceri hanno introdotto la vigilanza dinamica ed il regime penitenziario ‘aperto’, ossia con i detenuti più ore al giorno liberi di girare per le Sezioni detentive con controlli sporadici ed occasionali della Polizia Penitenziaria. I decessi per cause naturali in cella, poi, sono passati dai 64 del 2016 ai 78 del 2017”. Per il Sappe “lasciare le celle aperte più di 8 ore al giorno senza far fare nulla ai detenuti, come lavorare, studiare, essere impegnati in una qualsiasi attività, è controproducente perché lascia i detenuti nell’apatia: non riconoscerlo vuol dire essere demagoghi ed ipocriti”. Capece torna a sottolineare l’alto dato di affollamento delle prigioni italiane: “oggi abbiamo in cella 58.087 detenuti per circa 45mila posti letto: 55.646 sono gli uomini, 2.441 le donne. Gli stranieri sono il 35% dei ristretti, ossia 19.818. Mancano Agenti di Polizia Penitenziaria e se non accadono più tragedie più tragedie di quel che già avvengono è solamente grazie agli eroici poliziotti penitenziari, a cui va il nostro ringraziamento. Un esempio su tutti: negli ultimi 20 anni le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria hanno sventato, nelle carceri del Paese, più di 18mila tentati suicidi ed impedito che quasi 133mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze”. Critico il giudizio del Sappe, infine, sulla riforma dell’ordinamento penitenziario: “I dati ci confermano che le aggressioni, i ferimenti, le colluttazioni - che spessissimo vedono soccombere anche gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria, sempre più contusi e feriti da una parte di popolazione detenuta prepotente e destabilizzante - sono sintomo di una situazione allarmante, per risolvere la quale servono provvedimenti di tutela per gli Agenti e di sicurezza per le strutture carcerarie e certo non leggi che allarghino le maglie della sicurezza penitenziaria”. Sulla vicenda interviene anche il gruppo dei Radicali di Cremona, da sempre impegnati sulle tematiche del carcere, preoccupati dalle moti in carcere. “Il 28 maggio dello scorso anno, sempre nel carcere di Cremona, un detenuto di 35 anni si era tolto la vita attraverso un rudimentale cappio. Nel solo mese di gennaio 2018 sono già 6 detenuti che si sono suicidati nelle carceri italiane. A questi vanno aggiunti i 10 decessi avvenuti in carcere per cause naturali. Morti e suicidi in carcere continuano dunque in maniera inarrestabile e crescente: 45 suicidi e 115 decessi nel 2016; 52 suicidi e 123 decessi nel 2017. Un numero enorme che fa tornare agli anni più bui della detenzione in Italia. Dopo che la Corte europea ha archiviato il ‘caso Italià sulle condizioni delle nostre carceri, ricomincia a montare il sovraffollamento. Ma nonostante tutto questo il governo non ha ancora provveduto alla definitiva approvazione dei decreti delegati di riforma dell’Ordinamento Penitenziario che deve necessariamente avvenire prima del 4 marzo, giorno del voto per le elezioni politiche. Dopo il voto tutto ricomincerà da capo e il lavoro di tre anni iniziato con gli Stati Generali dell’esecuzione penale andrà letteralmente in fumo. Per scongiurare tutto ciò è ripresa l’iniziativa nonviolenta dell’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini che dal 22 gennaio scorso è in sciopero della fame, sostenuta dall’adesione di circa 7 mila cittadini detenuti e liberi in tutta Italia, affinché il Governo assicuri la definita approvazione di questa importante riforma entro il mese di febbraio”. Torino: inaugurazione del reparto colloqui tra familiari e detenuti lettera21.org, 7 febbraio 2018 Da “Volare” di Domenico Modugno, al mare, la sala d’attesa e sei sale colloqui rinnovate, accolgono da oggi i familiari delle persone private della libertà recluse presso la Casa Circondariale di Torino “Lorusso e Cutugno”. Voluto dalla Direzione della Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino, in collaborazione con la Direzione del Liceo Artistico Primo e Fondazione Casa di Carità l’intervento rappresenta un passo in avanti verso l’attenzione per le persone che in un istituto di pena sono ristrette o hanno i propri cari reclusi. Una considerazione che deve essere ben presente in un’area dove, contatto, emozioni e relazioni possono fare la differenza nella qualità di vita di familiari e detenuti, tanto più quando ad essere presenti e coinvolti sono anche dei minori e dei bambini. “Reparto delicato, l’area colloqui, dove la dignità umana va rispettata e che per trent’anni non ha risposto pienamente a queste esigenze. Spazio che coinvolge molti detenuti e per questo uno dei primi a vedere intraprendere un’azione di bonifica con interventi ambientali, di verniciatura, climatizzazione e controsoffittatura da parte dell’Amministrazione” ha sottolineato durante l’inaugurazione del 6 febbraio il Dott. Domenico Minervini - Direttore della Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino. Luoghi da oggi più fruibili ed accoglienti “gli “arredi tipici della detenzione” non sono più presenti, grazie all’utilizzo della Cassa delle Ammende ed al coinvolgimento degli studenti del Liceo Artistico sezione carcere e dei lavoranti del Mof, si è dato vita ad una riqualificazione estetica capace di aiutare psicologicamente a stare meglio chi di quegli spazi fruisce.” ha continuato Minervini. In questo modo gli arredi donati da Ikea, si trasformano in strumenti utili per attenuare nervosismo e sovreccitazione, così come gli interventi artistici e plastici rappresentano un valido aiuto, per poter contenere l’emotività e le tensioni per chiunque oltrepassi all’interno le mura di un carcere. Si è provato a dare forma alla bellezza, nonostante le molteplici difficoltà operative. Durante i lavori i colloqui continuavano, così si procedeva di stanza in stanza, in alcuni casi sono durati per 15 giorni con giornate di 8 h. lavorative. Attività che vista l’importanza dell’iniziativa, particolarmente sentita da chi recluso vi ha preso parte “perché permetteva di esprimersi in libertà e lo spazio era quello delle relazioni con l’esterno” ha visto grande partecipazione e coinvolgimento, anche del “mondo fuori le mura”. Sono più di una le opere donate da artisti o realizzate da studenti delle sezioni del Primo Liceo Artistico di Torino, alcuni dei quali hanno potuto recarsi presso l’Istituto di pena torinese. Interventi infine resi possibili grazie alle migliorie strutturali, a partire dalla controsoffittatura, realizzate in collaborazione con Fondazione Casa di Carità. Così hanno preso forma stanze più grafiche ed alcune più pittoriche, tutte però capaci di trasmettere un’idea differente, del “luogo carcere”. Ci sono le installazioni che rendono quasi tangibile il “volo della farfalla” ed i pannelli del “mare”, non semplici decorazioni, ma opere artistiche che trasudano libertà e spazi aperti. E poi ci sono le stanze della natura, del treno (che da illustrazione diventa fumetto in quanto luogo destinato ai bambini) e dell’arcobaleno a ricordare che la vita è fatta di stagioni, passaggi, stazioni e si può riemergere. “La vita è come un arcobaleno: ci vuole la pioggia e il sole per vederne i colori dipinti nel cielo”. Colori e cielo sono il leitmotiv di un’ulteriore sala, dove sullo spartito di “Volare” di Domenico Modugno invece delle note trovano spazio le sagome di alcuni uccelli. Un invito per provare a volare verso nuove opportunità e a far si che prendano vita “nuove canzoni” per chi in quegli spazi vi transita. Prato: il Garante “istituto complesso, servono almeno 20 agenti oltre quelli attivi” nove.firenze.it, 7 febbraio 2018 Il Garante regionale in visita a La Dogaia, seconda struttura in Toscana per numero di presenze, 590 in tutto. Molti i detenuti non italiani tra albanesi, nigeriani, tunisini, cinesi. Prossima tappa Livorno, seguirà Pisa. Servirebbero almeno 20 agenti di Polizia penitenziaria oltre quelli già in servizio a La Dogaia e una maggiore attenzione di quella data, perché è la seconda struttura in Toscana per numero di presenze (590) e ha caratteristiche molto particolari. È l’analisi del Garante regionale dei diritti dei detenuti, Franco Corleone, al termine della visita di oggi, martedì 6 gennaio, alla casa circondariale di Prato. L’istituto, costruito nella metà degli anni Ottanta e messo in funzione nell’estate del 1986, ha una superficie di 71 mila mq ed è composto di vari reparti tra cui una sezione di alta sicurezza, con circa cento di detenuti e una sezione “protetti” di oltre 70 persone. La popolazione carceraria è variegata e la presenza di detenuti non italiani è consistente. Secondo i dati raccolti dal garante, si contano 30 albanesi, 43 nigeriani, 26 tunisini e 46 cinesi. Numeri che fotografano una realtà complessa che pure vanta aspetti positivi. La presenza, all’interno dell’edificio, del polo universitario, che coinvolge circa 30 studenti, deve diventare una realtà consolidata e funzionante, come peraltro Corleone aveva già rilevato in occasione del convegno sull’esperienza dei poli universitari penitenziari organizzato a Firenze lo scorso dicembre. Altra novità definita positiva dal garante è il progetto ideato dall’istituto alberghiero di Prato e inteso non solo come corso scolastico fine a se stesso, ma anche come sbocco lavorativo. I lavori di ristrutturazione di una sezione all’interno del carcere, resa possibile grazie ai finanziamenti di Caritas e Coop, dovrebbero terminare nei prossimi mesi aprendo così la strada ad una prospettiva giudicata dal garante interessante. Resta aperto, invece, l’altro progetto operativo di un’officina meccanica. Su entrambi, però, occorre garantire un adeguato funzionamento e, a detta di Corleone, ciò è possibile solo aumentando la presenza di personale. Tra i punti critici della struttura, il garante ha citato la situazione sanitaria con un caso fra tutti, quello di un detenuto cinese in condizioni molto gravi e sotto dialisi, ormai al termine della pena e abbandonato a se stesso una volta libero Quella de La Dogaia è insomma una realtà di luci e ombre, sulla quale il garante invita a tornare una volta varata la riforma dell’ordinamento penitenziario. Intanto l’Autorità di garanzia, collegiale e indipendente, non giurisdizionale che opera a favore dei detenuti, in Toscana istituita con legge nel 2009, continua il consueto tour annuale e sarà nei prossimi giorni in visita alle strutture di Livorno (mercoledì 7 gennaio) e Pisa (giovedì 8 gennaio). “La persona e i suoi diritti sono al centro del mio impegno sociale e politico, a 360 gradi. Sono rimasti pochi giorni per portare a compimento la riforma dell’Ordinamento penitenziario, necessaria a dare piena attuazione all’articolo 27 della Costituzione e riportare il pieno rispetto dei diritti umani nelle carceri italiane. È del tutto inutile parlare di sicurezza se non si affronta uno dei problemi alla radice: così come sono, sovraffollate, fatiscenti in cui spesso non e possibile beneficiare neanche del diritto alla salute, le carceri italiane falliscono anche nello scopo rieducativo della pena. E finiscono per essere solo luoghi d’abbandono, dove il crimine si rafforza invece di essere contrastato. I dati parlano chiaro: il tasso di recidiva si abbassa di oltre tre volte tra chi accede alle misure alternative d’integrazione sociale, al lavoro, allo studio, al volontariato mentre è altissima tra i tanti condannati all’abbandono in celle spesso prive dei più elementari requisiti igienici e di dignità. Aderisco, quindi, con un giorno di digiuno simbolico, nella giornata di mercoledì 7 febbraio, alla iniziativa lanciata dal Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito - un partito non elettorale - insieme a più di seimila detenuti in lotta nonviolenta e resistenza pacifica per chiedere la definitiva approvazione dei decreti attuativi della riforma entro questa legislatura. Il mio appello, in nome della dignità umana da tutelare sempre e ovunque, va quindi al Governo, affinché dia pieno compimento alla delega ricevuta dal Parlamento già a luglio del 2017”. Fermo (Ap): gli studenti dell’Itet incontrano i vertici del carcere cronachefermane.it, 7 febbraio 2018 Un incontro tra dentro e fuori, per capire quanto è lieve il confine tra legalità e devianza. Nuovo appuntamento per l’Itet Carducci Galilei nell’ambito del progetto legalità che vede la scuola al fianco della casa di reclusione di Fermo, per spiegare ai ragazzi il sistema penitenziario, per far capire cosa si fa per cercare di recuperare persone che hanno sbagliato. Ben sei le classi quinte, anche della sezione geometri, riunite nell’aula magna della scuola, a coordinare il progetto, supportato dalla dirigente Cristina Corradini, il docente Roberto Cifani che ha introdotto l’incontro con la direttrice del carcere, Eleonora Consoli, il commissario Loredana Napoli, comandante della Polizia penitenziaria, e Nicola Arbusti, responsabile dell’area trattamentale. Punto di contatto con i ragazzi, la redazione del giornale del carcere, L’Altra chiave news, gli studenti saranno presto proprio a colloquio con i detenuti che realizzano il giornale diretto da Angelica Malvatani. La direttrice Consoli ha spiegato come nel carcere si cerchi di dare sostanza alla Costituzione italiana per cui “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. “La casa di reclusione di Fermo, spiega la direttrice, ha una piccola sezione circondariale e una sezione per i semiliberi, a fronte di una capienza di 41 persone, c’è una media di 65 detenuti, il 98 per cento con un condanna definitiva, il 62 per cento italiani, molti marchigiani. Il 38 per cento è di origine straniera, per lo più marocchini albanesi e tunisini. Per il 48 per cento si tratta di persone dipendenti alle droghe o all’alcol, il 30 per cento ha patologie psichiatriche. L’età media è di 30 anni, la condanna media è di quattro anno ma c’è chi ha il fine pena fissato al 2025”. Il comandante Napoli ha spiegato il nuovo sistema di vigilanza che anche a Fermo è stato organizzato, con i detenuti che hanno le porte delle celle aperte per tutto il giorno: “Le celle diventano così camere di pernottamento e la vigilanza è per forza di cose dinamica, ha spiegato la comandante, con un peso maggiore a carico degli agenti ma con benefici altrettanto importanti sul benessere delle persone detenute, libere di frequentare la palestra, di incontrarsi, di muoversi”. Nicola Arbusti per l’area trattamentale ha parlato dell’impegno che c’è per ogni singola persona, per ogni storia e per un percorso che sia il più possibile costruttivo. I ragazzi hanno ascoltato e fatto domande, hanno chiesto come è organizzata una giornata in carcere, quanto costa alla collettività un detenuto, hanno compreso l’importanza di provare a recuperare persone altrimenti perse alla società. Nelle prossime settimane saranno condotti in visita all’interno del carcere, per un confronto con i detenuti che si vogliono proporre come un esempio da non seguire, per far capire ai ragazzi che certi errori si pagano cari, perdendo il bene più prezioso: la libertà. Domani mattina (7 febbraio), inoltre, sarà presentato in Regione, il progetto “La parola ai detenuti”, che vede la casa di reclusione di Fermo capofila, insieme con il periodico L’Altra chiave news. L’obiettivo è coordinare tutte le esperienze editoriali realizzate nelle carceri delle Marche, sarà presentato il quaderno del carcere realizzato proprio con il contributo della Regione e con la collaborazione dei detenuti coinvolti nelle Marche nei giornali d’istituto. Sarà presente, tra gli altri, anche il presidente Luca Ceriscioli, l’assessore Fabrizio Cesetti e Marco Bonfiglioli dirigente del Prap (Provveditorato Amministrazione Penitenziaria di Emilia Romagna e Marche), tra gli altri. Alba (Cn): gli studenti della Scuola Enologica incontrano i detenuti di Francesca Pinaffo gazzettadalba.it, 7 febbraio 2018 Il progetto “Vale la pena”, nato nel 2006 e rivolto ai detenuti della casa di reclusione Giuseppe Montalto di Alba, si arricchisce di nuove iniziative. È stata firmata nei giorni scorsi la convenzione che impegna i diversi partner (la direzione del carcere, l’istituto superiore Umberto I, l’azienda Sygenta e la fondazione Casa di carità arti e mestieri Onlus) e che era scaduta lo scorso dicembre. La novità riguarda il maggior coinvolgimento della scuola enologica di Alba, come spiega Giovanni Bertello, direttore tecnico e insegnante del progetto fin dal suo esordio: “Se fino a questo momento l’Umberto I si è occupato della vinificazione delle uve prodotte nel vigneto del Montalto e del successivo imbottigliamento, la nuova convenzione prevede la partecipazione diretta degli studenti dell’istituto albese. Da fine gennaio in poi, alcune classi entreranno in carcere e spiegheranno diversi aspetti del mestiere ai detenuti che partecipano al corso di operatore agricolo”. La prima visita si è svolta lunedì 29 gennaio, con una dimostrazione della fase di potatura da parte di allievi del penultimo anno. Ad ascoltarli i quindici detenuti del corso promosso da Vale la pena, che è iniziato a dicembre e che durerà fino ai primi giorni del mese di luglio. “Siamo molto soddisfatti di poter portare avanti questo progetto, cresciuto di anno in anno. Oggi non abbiamo soltanto i vigneti, ma anche un noccioleto e due serre. Il nostro ringraziamento va alla direzione del carcere e a tutti gli educatori”, aggiunge Bertello. È soddisfatta dell’iniziativa anche Antonella Germini, preside dell’Umberto I: “Se da un lato i nostri studenti metteranno a disposizione le loro competenze, con l’intento di favorire il futuro inserimento lavorativo dei detenuti di oggi, dall’altro sarà interessante il contatto con la realtà carceraria”. Brescia: un detenuto al lavoro nel Palazzo di giustizia di Gaetano Costa Italia Oggi, 7 febbraio 2018 Si sposterà dal carcere alla Procura di Brescia e avrà uno stipendio sindacale. Avrà il compito di scannerizzare e convertire in file le pratiche conservate negli archivi. Un detenuto tra le carte di Palazzo di giustizia. Pratiche, scaffali, fascicoli, faldoni: a occuparsi degli archivi della Procura di Brescia, per la prima volta, sarà un carcerato della casa circondariale di Verziano. Un lavoro vero e proprio: per qualche mese, tramite il cosiddetto processo di dematerializzazione, dovrà convertire gli atti giudiziari cartacei in fi le di computer, compresi alcuni documenti che riguardano la strage di piazza della Loggia del 1974. L’incaricato andrà avanti e indietro dal carcere alla Procura, dove avrà libero accesso al laboratorio informatico per la scannerizzazione del materiale. L’iniziativa, autofinanziata, è stata introdotta dal presidente della Corte d’appello di Brescia, Claudio Castelli, e dal presidente del tribunale, Vittorio Masia. I due hanno preso spunto da un progetto sperimentato nel 2009 a Milano. Dove, secondo Castelli, “arrivano a 5 mila copie al giorno”. I parametri riguardano la sottoscrizione d’intenti tra uffici giudiziari e l’Ordine degli avvocati, la convenzione con la cooperativa sociale Cremona Labor, una delle prime a digitalizzare gli atti delle carceri, e il coinvolgimento del tribunale di sorveglianza. Il candidato verrà scelto in base alle condizioni di detenzione, “ma non è necessario che stia scontando la fi ne pena”. Il detenuto avrà un permesso di lavoro e uno stipendio sindacale e sarà seguito da un tutor. La conversione in fi le riguarderà i fascicoli con la notifica di chiusura delle indagini e non gli atti d’inchiesta coperti da segreto. “Ma si occuperà anche della digitalizzazione di alcuni documenti della strage di piazza Loggia”, ha confermato Masia. “Questa iniziativa può prendere piede in modo organico e può dare anche a Brescia i frutti maturati altrove”. Secondo le testate locali, il progetto della procura di Brescia ha suscitato perplessità nell’ambiente della giustizia. Per Castelli, però, “non si verificherà alcun problema di sicurezza. Le mansioni di cui stiamo parlando”, ha detto il presidente della Corte d’appello al Corriere di Brescia, “prevedono una scansione veloce, nel senso che la persona deputata altro non farà che levare i punti dai faldoni e inserirli in maniera massiva nello scanner: non c’è il tempo per rendersi conto dei contenuti”. “È previsto il controllo con una serie di telecamere che saranno sempre attive”, ha proseguito Castelli. “Al fianco del detenuto che lavorerà qui da noi ci sarà sempre un tutor della cooperativa che dovrà aiutarlo con la classificazione degli atti. Questo progetto rappresenta una tappa per l’inserimento nel mondo del lavoro e quindi sociale per chi uscirà dal carcere e potrà vantare un’esperienza importante nel suo curriculum”. Inoltre, come ha specificato Masia, “s’è resa inevitabile anche la digitalizzazione degli atti che appartengono a grossi processi, dato che il tribunale dispone di un archivio da 5 mila metri quadrati”. Carte, faldoni e pratiche di cui, nei corridoi della procura di Brescia, si occuperà un detenuto. Milano: intesa sul muro anti-spacciatori lungo i binari di Rogoredo di Gianni Santucci Corriere della Sera, 7 febbraio 2018 L’intervento per trovare soluzioni “strutturali” in modo da contrastare lo spaccio. Rfi invia i tecnici: pronti a collaborare L’ipotesi di creare anche un parking. L’ultimo sopralluogo, così come l’ultima riunione in Comune, risalgono alla fine di gennaio. Tema: come sistemare l’area e trovare soluzioni “strutturali” per contrastare lo spaccio intorno alla stazione di Rogoredo. Una delle ipotesi principali è quella di alzare un muro al posto della staccionata in cemento vicino ai binari dell’Alta velocità, oggi usata come schermo e protezione dagli spacciatori. Un’ipotesi della quale si era occupato il Corriere domenica scorsa, oggi confermata da una delle aziende coinvolte nei progetti sull’area: “Rete Ferroviaria Italiana (Gruppo Fs Italiane) ha già manifestato la propria disponibilità a collaborare sul tema nel corso di recenti incontri con le autorità per individuare insieme possibili soluzioni, compreso il muro”. Per capire come sia organizzata una delle più importanti piazze di spaccio del Nord Italia, nella quale si riforniscono almeno mille tossicodipendenti al giorno, bisogna descrivere la “geografia”. Da una parte, il boschetto vero e proprio, una collinetta alla quale si accede da via Sant’Arialdo. Qui il Comune ha lavorato per pulire la boscaglia, l’obiettivo finale è la costruzione di una strada lungo la quale le forze dell’ordine possano pattugliare l’intera zona. Dall’altra parte, con accesso da via Orwell, l’aspetto logistico è più complesso: i tossicodipendenti accedono da un’ampia zona sterrata, proprio sotto le rampe della tangenziale, un terreno di proprietà delle Autostrade (la zona è usata anche per consumare l’eroina). Al termine di questo spazio, “protetti” dalla recinzione e (alle spalle) da una dozzina di binari che rendono complicati e pericolosi gli interventi di polizia e carabinieri, stanno fissi gli spacciatori nordafricani. Quell’ultima fascia è di proprietà delle “ferrovie” e sarebbe proprio la zona in cui le sbarre di cemento che permettono il passaggio di soldi e droga dovrebbero essere sostituite da qualche centinaio di metri di muro. In queste settimane gli ingegneri di Rfi stanno valutando la soluzione tecnica più efficace affinché la barriera riesca a impedire davvero (o rendere molto più complicato) il commercio di stupefacenti. L’impegno di Rfi, oltre all’aspetto di “responsabilità civica”, è collegato anche alla sicurezza della circolazione ferroviaria, perché avere persone che frequentano o attraversano regolarmente i binari comporta una situazione di pericolo latente e continuo. Sul resto dello spazio sono in corso di valutazione alcuni progetti per rendere “fruibile” la zona (sarebbe ad esempio adatta per un parcheggio), anche se è talmente periferica e disagevole da raggiungere che alla fine l’ipotesi più plausibile sarà quella di una recinzione per impedire gli accessi. Un ruolo potrebbe averlo anche l’Atm, per la gestione dei corridoi e mezzanini della fermata “Rogoredo”. Novara: redimersi con Amleto, i detenuti fanno una full immersion shakespeariana di Filippo Massaria La Stampa, 7 febbraio 2018 William Shakespeare è il suo San Gennaro. “È lui che mi ha salvato”, garantisce Salvatore Striano. Lo scrittore e attore napoletano lo ha scoperto in carcere, dove ha trascorso 11 anni tra Madrid e Rebibbia per associazione a delinquere, estorsione e spaccio di droga dopo i tre di latitanza. “Voglio che altre persone, come me, imparino a conoscere il suo talento - dice. La cultura è tutto”. Così Striano ha accettato la sfida “di redenzione” del Circolo dei lettori, che per 5 giorni porterà l’arte in cella a Novara con il sostegno della Compagnia di San Paolo. Saranno 23 i detenuti coinvolti settimana prossima in un laboratorio di scrittura e teatro, un appello a reagire. “Perché ognuno di noi ha qualcosa da dimostrare - insiste. Non bisogna darsi mai per vinti. Io sono uscito di prigione a 33 anni e allora nessuno avrebbe puntato su di me”. Striano si è preso una rivincita sul suo passato nella malavita napoletana: ha partecipato e diretto tournée teatrali, scritto tre libri e recitato in 15 film vincendo un Orso d’oro al Festival di Berlino. “Spero di trasmettere una botta di vita - insiste. Mi aspetto di incontrare degli Amleto, ragazzi che hanno perso il papà e magari hanno pensato di vendicarne la morte. Leggendo le opere di Shakespeare, si capisce che quella non è mai la soluzione. O i Macbeth, avidi di potere. Il crimine non ha alcun fascino, crea solo guerra e terrore”. Striano interverrà per primo in una full immersion di lezioni quotidiane. Il giorno dopo toccherà alla scrittrice Elena Stancanelli, candidata al premio Strega 2016. Poi ci sarà il regista Davide Ferrario, che proporrà un’analisi del film Tutta colpa di Giuda, girato all’interno delle Vallette di Torino. Quindi Daniele Bacci, attore della compagnia “Venti Lucenti”. Infine Gaetano Di Vaio, regista, produttore, sceneggiatore e attore in Gomorra - la serie. I docenti alterneranno la teoria alla pratica, spiegheranno come si affronta il palcoscenico e si comunicano le proprie emozioni. Tutto sarà registrato in un video. “Perché il programma diventi un modello - assicura Striano -. Il teatro è una forma di cura e speriamo che in altre carceri si possa agire in questo modo. Non mi piace che questi luoghi vengano definiti della rieducazione. Bisogna semmai aiutare le persone a tirare fuori il meglio di sé”. La casa circondariale di Novara non è nuova a iniziative del genere: nel 2015 aveva siglato un accordo con la biblioteca per promuovere la lettura con un servizio di prestito. “Prima di tutto, Salvatore è credibile - osserva Maurizia Rebola, direttrice del Circolo. Può dare un bel messaggio di speranza, come del resto ha già fatto negli incontri organizzati per presentare i suoi lavori. È per questo che abbiamo immaginato con lui un percorso organizzato e suddiviso in diverse lezioni”. Campobasso: nuovi attrezzi sportivi al carcere, i detenuti ringraziano Parpiglia primonumero.it, 7 febbraio 2018 Questa mattina, martedì 6 febbraio, il consigliere regionale con delega allo Sport, Carmelo Parpiglia, ha incontrato i detenuti del carcere di via Cavour, che nei scorsi giorni hanno inviato una missiva all’Amministratore regionale riguardo all’usura e all’inutilizzabilità delle attrezzature e dei materiali sportivi a disposizione del penitenziario del capoluogo. Il consigliere regionale, accompagnato dal Direttore della struttura Mario Silla e dalla dottoressa Daniela Brancaleoni, responsabile Area educativa, ha potuto incontrare i detenuti che avevano inviato la richiesta di sostegno. “Ho parlato con alcuni detenuti che necessitavano di un momento di condivisione oltre che di palloni, manubri e altro materiale per svolgere correttamente attività sportiva nella palestra e sui campi di calcetto. Un intervento semplice, ma ritengo importante visto che è anche grazie allo sport che è possibile moderare i livelli di stress e aggressività dovuti alla detenzione e aggregare per uno scopo comune persone e gruppi eterogenei provenienti da contesti ambientali e storie differenti. È stata un’esperienza formativa anche per me - ha proseguito Parpiglia - oltre che l’ulteriore certificazione di quanto si possa fare attraverso lo sport e il movimento”. Il Direttore della Casa di reclusione, Mario Silla, aggiunge: “Il dialogo tra le istituzioni è fondamentale per la nostra attività. Abbiamo costantemente bisogno di sostegno da parte dei nostri interlocutori. Non sempre riscontriamo questa sensibilità: in questo luogo si potrebbe fare anche altro se avessimo persone pronte ad ascoltarci. Ringrazio quindi il consigliere Parpiglia per quanto ha fatto e farà. Spero infatti che questo possa essere solo il primo incontro all’interno di una struttura che vista dall’interno - ha concluso - non è il ‘mostro’ che appare da fuori”. Soddisfatti anche i detenuti che ringraziano per l’attenzione sia la città di Campobasso che il Consigliere Parpiglia “Ringraziamo la popolazione della città di Campobasso, in particolare l’assessore allo Sport della Regione Molise, Carmelo Parpiglia. Il quale, venuto a conoscenza, tramite una nostra missiva, che le attrezzature e i materiali sportivi, data l’usura, erano ormai inutilizzabili, con solerzia, senso di responsabilità e con la forza del suo mandato istituzionale, ha fatto sì che noi potessimo ricevere nuovo materiale sportivo”. Quelle narrazioni che amplificano la spirale della violenza Il Manifesto, 7 febbraio 2018 L’appello. Scrittori e scrittrici si rivolgono ai direttori e alle direttrici delle reti televisive e delle testate giornalistiche riguardo i fatti di Macerata. “Siamo studiosi e studiose, scrittori e scrittrici, preoccupati dal dilagare dell’odio nei media italiani. Odio verso le donne, i migranti, i figli di migranti, la comunità Lgbtq”. Comincia così l’appello pubblicato su Nazione Indiana e che in poche ore ha ricevuto moltissime adesioni tra nomi centrali nel panorama culturale e politico italiano. Tra i primi firmatari Vanessa Roghi, Helena Janeczek, Igiaba Scego e Sabrina Varani. Che proseguono con Paola Capriolo, Loredana Lipperini, Simone Pieranni, Alessandro Portelli e molti altri. L’urgenza verte sui fatti recenti di Macerata che hanno portato un frequentatore degli ambienti neonazisti ad aprire il fuoco contro uomini e donne africani. Ciò che è accaduto è ormai noto nei dettagli, così come la strumentalizzazione sulla pelle di chi, indifeso davanti allo sciagurato delirio xenofobo, ha subito questo attentato. È stata “cercata la strage”, prosegue l’appello che si rivolge ai direttori e alle direttrici delle reti televisive e delle testate giornalistiche, chiamando a una responsabilità che non arretri sul “patto democratico e antifascista”. La narrazione tossica e senza conduzione a cui si assiste nei vari talk show “nei quali vige da tempo la politica dei microfoni aperti, senza nessuna direzione o controllo”, determina l’amplificazione di talune farneticazioni che generano una legittimazione di violenza. L’attentato di Macerata lo dimostra: “Le parole di odio, lo abbiamo visto chiaramente, possono tradursi in atti di violenza omicida. Azioni che, acclamate e imitate, rischiano seriamente di innescare una spirale di violenza. Per noi è evidente che il nodo mediatico ha contribuito a produrre e legittimare lo scatenarsi delle pulsioni peggiori. Per questo chiediamo ai media di non prestare più il fianco alla propaganda d’odio, ma di compiere anzi uno sforzo nel contrastarla”. Così l’immigrazione detta il voto. I nazionalisti pesano ma non vincono di Alessandra Coppola Corriere della Sera, 7 febbraio 2018 Ricerca Ismu sulle urne in 4 Paesi: solo in Germania prevale il fronte pro migranti. I ricercatori annotano che più che sulla classica polarizzazione destra/sinistra, la scelta alle urne si è orientata lungo la frattura chiusura/apertura. Non è una particolarità italiana. Ognuno con i suoi toni e le sue polemiche, i Paesi europei che l’anno scorso sono andati al voto hanno discusso in campagna elettorale soprattutto di immigrazione. Lo osserva, tra gli altri, il politologo della Statale di Milano Nicola Pasini, che (con l’aiuto di Livia Ortensi, Marta Regalia e Pierre Georges Van Wolleghem) per conto della Fondazione Ismu ha passato in rassegna quattro recenti votazioni - in Olanda, Francia, Gran Bretagna e Germania - per concludere che se “i partiti o movimenti anti-immigrazione non sono riusciti a imporsi come forza di governo”, tuttavia “hanno occupato la scena politica ottenendo un consenso significativo”. E condizionando anche le formazioni meno radicali. La centralità dell’immigrazione - “Il tema dell’immigrazione sta diventando sempre più centrale nell’agenda politica nazionale e spesso le elezioni si vincono o si perdono anche in funzione delle posizioni prese dai diversi partiti su questa issue fondamentale”. Per opportunismo, allora, ma anche perché dalla crisi dei rifugiati del 2015 la questione è in vetta alle preoccupazioni degli europei - scavalcando pure crisi economica e disoccupazione - tutte le forze in campo ne parlano. Lo studio, nelle differenze dei sistemi elettorali, prende in considerazione nei quattro Paesi i principali partiti e li raggruppa in base ai proclami pro o contro gli stranieri. Dai nazionalisti estremi come il Partito per la Libertà (Pvv) in Olanda, il Front National in Francia, l’Ukip britannico e l’Alternativa per la Germania; fino ai sostenitori dell’apertura (e dell’Ue, i due temi si tengono) sul modello dei laburisti e socialdemocratici; passando per gli “intermedi” cristiano-democratici. La sorpresa tedesca - A leggere i risultati, i partiti della “chiusura” (basta ingressi, meno Europa, e così via) non hanno vinto. Eppure in due casi su quattro hanno riportato la maggioranza. Relativa nel caso dell’Olanda (sommando la percentuale del Pvv con quella di Libertà e Democrazia, su posizioni analoghe). Maggioranza assoluta per i contrari all’immigrazione in Gran Bretagna contando l’Ukip, ma anche i conservatori. Quota minoritaria in Francia, ma decisamente alta (41,3 per cento mettendo assieme i voti della frontista Marine Le Pen con il gollista François Fillon, meno estremo, ma comunque negativo). Sorprende la Germania, che dei quattro Paesi è il più interessato dai nuovi flussi, ci si sarebbe potuti aspettare un atteggiamento ostile diffuso. E invece gli estremisti di AfD hanno attirato molta attenzione, ma hanno riportato solo il 12,64 per cento: la grande maggioranza degli elettori ha seguito partiti “neutrali” come la Cdu di Angela Merkel, se non “favorevoli” all’immigrazione come l’Spd, la Linke o i Grünen. La retorica dell’ondata - Guardare solo ai partiti e agli schieramenti, però, può essere fuorviante. I ricercatori annotano che più che sulla classica polarizzazione destra/sinistra, la scelta alle urne si è orientata proprio lungo la frattura chiusura/apertura, che attraversa le classi, ed è condizionata dal genere, dal livello di istruzione, dal tipo di impiego, dalle paure. È in questa spaccatura che gli estremisti - con le loro “soluzioni semplicistiche e seducenti a problemi complessi” - sono più bravi ad attingere consenso. Anche nei Paesi dell’Est Europa, per esempio, più di transito che di arrivo dei rifugiati, dove la retorica dell’”ondata” non dovrebbe attecchire. Anche negli Stati dove l’ immigrazione è recente e per quanto rapida ancora contenuta, come l’Italia. Gli inganni della propaganda sui migranti di Ignazio Masulli Il Manifesto, 7 febbraio 2018 In questa brutta campagna elettorale, e dopo i fatti di Macerata, stiamo assistendo ad uno spettacolo particolarmente degradante: è una rincorsa alla mistificazione fatta da chi associa l’immigrazione alla disoccupazione, alla criminalità e perfino al rischio di terrorismo. Il governo, per parte sua, tenta d’imbellettare con sbandierati obiettivi di “lotta ai trafficanti d’uomini” o di “un’equa ripartizione dei richiedenti asilo tra i paesi Ue” la sostanza di una dura e spregiudicata politica di respingimento dei migranti. In realtà concorre a quell’opera di strumentalizzazione politica che tenta di dirottare il malessere sociale e i sentimenti d’insicurezza avvertiti da tanta parte della popolazione dalle vere cause, facendo credere che i problemi che l’affliggono dipendano da una presunta minaccia esterna costituita dall’immigrazione. In tal modo s’inganna l’opinione pubblica su più versanti. Il primo inganno è proprio quello di far credere che i nuovi flussi migratori possono essere fermati e che per farlo ogni mezzo sia giustificato: dagli accordi con i paesi d’origine e di transito perché impediscano l’emigrazione sul nascere fino alla cattura di persone innocenti ed inermi e la loro detenzione in campi in cui subiscono ogni sorta di violenza. Il secondo inganno consiste nell’occultare attentamente i vantaggi che deriverebbero da politiche di accoglienza ben organizzate e capaci di una positiva integrazione. Vantaggi che possono essere facilmente indicati. In termini demografici, è noto lo squilibrio derivante dai nostri andamenti di scarsa natalità ed aumento della vita media. Talché oggi, considerando la popolazione dei 27 paesi dell’Ue, un cittadino troppo giovane o troppo anziano per lavorare, dipende da 1,8 persone in età lavorativa, che si ridurranno a 1,5 entro 12 anni. Il che prospetta una situazione insostenibile a detta della stessa Commissione europea. Per quanto riguarda le spese sociali, il mantenimento degli attuali standard di welfare richiederebbe una base contributiva garantita da un aumento della popolazione europea di 42 milioni di persone in 5 anni. Cosa concepibile solo attraverso l’accoglienza e regolarizzazione di un numero di migranti esponenzialmente maggiore di quelli che bussano attualmente alle nostre porte. Sul piano fiscale, come dimostra il bilancio italiano del 2016, tasse e contributi versati dagli immigrati nati all’estero e regolarmente censiti eccedono di oltre il 60% le spese di cui beneficiano. Né è trascurabile il loro apporto all’aumento del Pil (circa il 9% nello stesso anno). In terzo luogo un confronto tra questa e le due altre grandi migrazioni che l’hanno preceduta (quella transoceanica di fine Ottocento e primo Novecento e quella del secondo dopoguerra dalle campagne alle aree industriali d’Europa) indica come anche l’attuale sia foriera di mutamenti di grande portata nel sistema mondo. Si tratta, infatti, di un tendenziale e sia pur parziale accorciamento di distanze tra Sud e Nord. Mutamenti quanto mai impellenti. Per accennare al solo problema del calo demografico di cui dicevamo a proposito dei paesi europei, ad esso corrisponde un andamento opposto nel Sud del mondo, nei paesi che non hanno ancora spezzato il circolo vizioso tra maggiore povertà e maggiore popolazione. Ne consegue che la straordinaria crescita della popolazione mondiale prevista nei prossimi decenni (+ 2,3 miliardi nel 2050) si concentrerà per il 91,6 % nei paesi meno sviluppati: una vera e propria bomba demografica dagli effetti distruttivi paralleli agli altri grandi squilibri, ecologici, economici, sociali. In conclusione si può dire che ci troviamo ad un vero e proprio punto di biforcazione storico. O siamo capaci di aprire la società alle trasformazioni che premono; e la nuova ondata migratoria le rappresenta per più versi. Oppure si persegue la strada della chiusura a questa come ad altre trasformazioni urgenti e ineludibili. Ma è una strada senza sbocchi. I diritti dei minori nelle agende elettorali: quali sono i temi più urgenti? di Federico Taddia La Stampa, 7 febbraio 2018 L’iniziativa di “Sos Villaggi dei Bambini” e La Stampa: cinque proposte e un questionario online. Il risultato verrà sottoposto ai leader politici. Ripartire dai giovani. Rendendoli protagonisti della vita democratica e ponendo l’infanzia al centro dell’agenda dei politici. Chiamando in causa - ora e con proposte concrete, tratteggiate e condivise - i candidati delle coalizioni delle prossime elezioni. “Bambini e diritti: la tua opinione conta” è la campagna promossa da “Sos Villaggi dei Bambini” e da La Stampa per riscrivere, con la partecipazione dei lettori, la governance, le tutele e il sostegno agli “under 18”. L’appello ai politici - “Un’iniziativa pensata per i giovani” spiega Roberta Capella, direttore generale di “Sos Villaggi dei Bambini” “che vedrà proprio i giovani protagonisti nel rivolgere ai candidati delle coalizioni politiche un promemoria con tre proposte concrete, tra le cinque che verranno promosse e votate online grazie alla partnership con La Stampa, sui temi dell’infanzia e dell’adolescenza per la prossima legislatura. Sos Villaggi dei Bambini si impegna da oltre 60 anni in 135 Paesi del mondo, Italia compresa, a favore dei bambini e dei giovani che hanno perso o rischiano di perdere le cure della loro famiglia, affinché siano attori a pieno titolo della loro vita, del loro futuro. Questa iniziativa è per tutti loro un’opportunità in più per partecipare attivamente ed essere parte di un cambiamento”. Le idee - Ridurre la frammentazione dei ministeri che hanno competenza in materia di minorenni, creando un dipartimento unico presso la Presidenza del Consiglio o un ministero dedicato in modo da non disperdere interventi e investimenti; favorire la partecipazione dei minorenni con una normativa sul diritto all’ascolto e la formazione dei professionisti che interagiscono con le nuove generazioni; definire accordi internazionali per proteggere i minorenni in situazioni di conflitto, con l’apertura di corridoi umanitari; garantire in tutto il Paese lo stesso standard di prestazioni sociali; istituire un fondo di accompagnamento a tutti i neo maggiorenni cresciuti fuori dalla famiglia d’origine per accompagnarli all’autonomia abitativa ed economica. Il parere dei lettori - Tra questi punti i lettori saranno chiamati a scegliere le priorità attraverso un questionario interattivo. Le proposte più votate verranno sottoposte ai leader degli schieramenti e, in ogni incontro, tre lettori avranno la possibilità di partecipare all’appuntamento e intervistare i candidati. “Come richiamato dalla più alta carica dello Stato nel discorso di fine anno - continua Capella - è forte l’esigenza di far partecipare i cittadini e occorre prestare particolare attenzione ai neomaggiorenni affinché sentendosi coinvolti comprendano che a essere in gioco è il loro futuro e quello di tanti giovani meno fortunati”. Tailandia. L’appello di Manconi per Denis, condannato a morte Il Dubbio, 7 febbraio 2018 Chiesto l’intervento del governo per l’uomo arrestato a marzo del 2011. Si è sempre dichiarato innocente, fu lui stesso a presentarsi alla polizia per le indagini, finendo invece in manette; liberato su cauzione due volte è rimasto per il processo. Un appello è stato lanciato per Denis Cavatassi dal senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani, nel corso di una conferenza stampa organizzata in Senato sul caso dell’imprenditore di Tortoreto, arrestato nel marzo del 2011 con l’accusa di essere il mandante dell’omicidio di Luciano Butti, suo socio in affari, ucciso in Tailandia. “È indispensabile che le autorità italiane facciano sentire, con una pressione soprattutto di tipo politico, l’interesse del Paese alla tutela dei diritti fondamentali e della incolumità fisica di un suo cittadino, condannato senza un processo degno di questo nome e detenuto da tempo in condizioni a dir poco orribili”. Alla conferenza stampa hanno partecipato tra gli altri Romina e Adriano Cavatassi, sorella e fratello di Denis, condannato in primo e secondo grado alla pena capitale e ora in attesa della pronuncia definitiva della Corte Suprema. “L’istruttoria è chiusa - ha ricordato Manconi - la verità non è mai stata cercata ma non c’è più spazio per nuove indagini: nel tragico caso in cui la sentenza dovesse essere confermata, l’Italia deve però esigere il rispetto del trattato di cooperazione sottoscritto con la Tailandia nel 1984 che prevede, a iter giudiziario concluso, la possibilità per l’imputato riconosciuto colpevole di scontare la pena nel proprio Paese”. “Sono stata l’ultima volta in Tailandia a gennaio - ha ricordato Romina Cavatassi - e in quell’occasione sono riuscita a vedere Denis ma solo attraverso uno schermo, tipo Skype. Con me c’erano la moglie, conosciuta e sposata in Tailandia, e la loro bambina, Asia, 7 anni a giugno. È stato un incontr0 straziante, ma sono sicura che Denis ne abbia ricavata nuova energia. Asia dopo mi ha detto “papà mi manca tanto, ma sono stata contenta di vederlo”. Aveva ragione lo stesso Denis a definire la sua vicenda kafkiana: fu lui stesso a presentarsi alla polizia per aiutare le indagini, finendo invece in manette; in due occasioni, liberato su cauzione, avrebbe potuto tentare di fuggire, e invece è rimasto: “Avremmo voluto delle indagini serie, ma nessuno le ha mai davvero fatte. E le scene che ho visto - ha spiegato il fratello Adriano - quando sono riuscito ad andare in carcere, prima le avevo viste solo in certi film. Persone al limite della sopravvivenza, lasciate senza cure, legate”. Sorte, quest’ultima, toccata allo stesso Denis: per almeno un mese a mezzo con i ceppi ai piedi e una catena fissata al muro. “Le circostanze del primo arresto di Denis sono a dir poco anomale - ha ribadito l’avvocato Alessandra Ballerini (legale, tra gli altri, della famiglia Regeni, ndr) visto che al suo interrogatorio non hanno preso parte né un avvocato né un funzionario dell’ambasciata né un traduttore. È stato l’inizio di un incubo: nessun testimone, due sentenze di condanna condensate in poche paginette”. Per l’avvocato Francesca Carnicelli, della Onlus “Prigionieri del Silenzio”, Cavatassi “è certamente innocente, aveva gli strumenti per difendersi ma non è stato messo nelle condizioni di farlo, sottoposto a processo senza alcuna garanzia”. “Speriamo nell’ultimo grado di giudizio ha affermato Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International Italia, che l’innocenza di Denis venga riconosciuta: come Amnesty ci uniamo all’appello allo Stato italiano affinché segua gli sviluppi del caso e non lasci nulla di intentato”. Serbia. La cura dei cani randagi affidata ai detenuti di Stefano Giantin Il Piccolo, 7 febbraio 2018 Come affrontare due problemi di difficile soluzione e all’apparenza inconciliabili, quello del randagismo e quello della risocializzazione e del reinserimento nella società dei carcerati? Come affrontare due problemi di difficile soluzione e all’apparenza inconciliabili, quello del randagismo e quello della risocializzazione e del reinserimento nella società dei carcerati? Una soluzione inedita arriva da Sremska Mitrovica, in Serbia, cittadina a nord di Belgrado che ospita una delle carceri più grandi del Paese. E che ha - come tante altre città serbe e dei Balcani - un serio problema con i cani randagi. È proprio a Sremska Mitrovica è stato lanciato alla fine dello scorso anno un progetto innovativo, che continua ad attirare l’attenzione. Progetto che ha visto la creazione in un’area esterna della prigione, all’aria aperta, di un canile dove i quattro zampe randagi vengono alloggiati. La novità consiste nel fatto che i cani sono curati e persino addestrati da un gruppo di carcerati, selezionati fra quelli condannati a pene meno severe. A raccontare i dettagli del progetto sono stati svariati media, tra cui l’agenzia Associated Press e la rivista locale M-Novine, con sede proprio a Sremska Mitrovica, che è entrata direttamente nel carcere per analizzare l’iniziativa. Rivista che ha specificato che sono al momento “263 i cani randagi” raccolti nelle vie della città negli ultimi mesi e ora affidati a “sei carcerati”, vigilati da tre ufficiali della prigione. Il cuore del progetto, sostenuto anche dall’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce), è il canile nel carcere, realizzato in un ex area destinata all’allevamento, che può contare sul rispetto di “tutte le necessarie condizioni igieniche” e sulla “totale assistenza sanitaria” per gli animali, oltre naturalmente alla fornitura regolare di “cibo e acqua”. I carcerati selezionati hanno invece il compiuto di prendersi cura giornalmente dei cani, accudirli, pulire le loro cucce, curarli, dar loro da mangiare e persino addestrarli a rispondere ai comandi più semplici. Fra i prescelti, ha raccontato la rivista, un 25enne di Titel, Dragan Pejkovic, che si è fatto portavoce degli altri prigionieri-addestratori, lodando l’iniziativa e assicurando che il tempo in carcere passa più velocemente nella cura degli animali. “Amo i cani, ne abbiamo sempre avuti in casa”, ha detto Dragan, illustrando poi il suo lavoro di addestramento. Lavoro che ha dato frutti, con una decina di cani che hanno già trovato una sistemazione e un padrone. “Mi è difficile” vederli partire, “perché mi affeziono ai cani, ma dall’altra parte ne sono felice perché so che hanno trovato una nuova casa”, ha detto Dragan. Il progetto, aveva raccontato a fine novembre la Tv pubblica serba al momento della firma di un’intesa con l’Osce, è il primo del genere in chiave risocializzazione in un carcere del Paese balcanico. Ed è importante, perché aiuta sicuramente la futura “reintegrazione e insieme l’accettazione” dei carcerati nella società, ha specificato al tempo il direttore della prigione, Aleksandar Alimpic. Progetto forse circoscritto, ma di grande e concreto effetto, aveva assicurato lo stesso sindaco di Sremska Mitrovica, Vladimir Sanader. E magari da imitare per trovare soluzioni al problema delle decine di migliaia di cani randagi che vagano in tutti i Balcani, spesso affrontato con metodi sbrigativi. O persino con avvelenamenti di massa organizzati da mano ignota, come registrato nei mesi scorsi a Mladenovac, in Serbia, ma anche a Zenica e a Teslic, in Bosnia.