La sfida del carcere che riabilita di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 6 febbraio 2018 Nella riforma in dirittura d’arrivo maggiore flessibilità della pena e minori automatismi. Tra tentazioni neo-securitarie e un diritto della punizione umano e rieducativo. Con il carcere diventato sempre più una risposta (la sola?) che troppo spesso la politica sa dare alle paure dei nostri tempi. Eppure questa fase terminale della legislatura ha visto approdare in Parlamento, e a breve potrebbe essere in vigore, una riforma che in altri tempi si sarebbe detta veramente “di struttura”, quella dell’ordinamento penitenziario, attesa da anni, l’attuale disciplina è datata 1975, e testimonianza di un tentativo, anche ambizioso, di cambiare prospettiva, da provare a fare comprendere a un’opinione pubblica sospesa tra l’incudine dell’enfatizzazione di episodi di cronaca nera e il martello di una politica che troppo spesso soffia sul fuoco della preoccupazione sociale. Anche perché puntare su una maggiore flessibilità della pena, su minori automatismi, sul recupero di spazio discrezionale della magistratura di sorveglianza potrebbe rivelarsi, a conti fatti, una scommessa vincente. A corroborarla ci sono già oggi dati che testimoniano come i detenuti affidati al circuito carcerario tornano a delinquere nel 68% dei casi, mentre il tasso di recidiva tra chi è affidato a misure alternative si ferma al 19 per cento. In un contesto poi che vede di nuovo in crescita la popolazione carceraria con tutti i rischi legati alle condanne già emesse in sede internazionale per il trattamento dei detenuti. La riforma, che è stata preceduta dal lavoro di una commissione ministeriale e dagli Stati generali dell’esecuzione penale, interviene allora su una serie di punti. A partire dall’eliminazione di sbarramenti al trattamento di rieducazione che non dipendono dalla condotta o dall’atteggiamento dell’interessato, ma da presunzioni assolute. Si è poi intervenuti sulla revisione delle modalità e dei presupposti di accesso alle misure alternative, sia con riferimento ai presupposti oggettivi, sia con riferimento ai limiti di pena (sale da 3 a 4 anni il limite per la sospensione), per facilitarne l’accesso, salvo che per i casi di eccezionale gravità e pericolosità, e, in particolare, per le condanne per i delitti di mafia e di terrorismo internazionale. Alle misure alternative potranno però accedere, per esempio, anche quegli affiliati a organizzazioni criminali che hanno fornito una collaborazione che però non si è rivelata così determinante come la legge richiede. Sono stati eliminati gli automatismi nelle preclusioni che impediscono o ritardano, sia per i recidivi sia per gli autori di determinate categorie di reati, l’individualizzazione del trattamento rieducativo e la differenziazione dei percorsi penitenziari in relazione alla tipologia dei reati commessi e alle caratteristiche personali del condannato. A questa indicazione si accompagna una semplificazione sul piano delle regole processuali, ma anche delle possibilità di utilizzare la partecipazione a distanza (attraverso video) alle udienze, per fronteggiare il prevedibile aumento delle domande. Nel dettaglio, sarà più facile anche ottenere permessi premio per i recidivi e anche per chi è stato condannato durante la detenzione. Si allarga poi la possibilità di concessione della esecuzione a domicilio per le pene detentive fino a 18 mesi come pure dell’affidamento in prova al servizio sociale. E se un ostacolo alla concessione di misure alternative, come la detenzione domiciliare, soprattutto per i detenuti stranieri, è la mancanza di una dimora, la riforma prevede l’istituzione di luoghi pubblici di cura e assistenza. Una maniera oltretutto anche di utilizzo per finalità sociale di quei beni nella disponibilità dei Comuni per l’applicazione di confische contro la criminalità organizzata. E quanto alle misure che devono accompagnare strumenti alternativi come l’affidamento ai servizi sociali, la riforma mette l’accento più che su prescrizioni rigide, come l’obbligo di lavoro, su alternative, come gli impegni a ridurre le conseguenze della condotta criminale oppure occupazioni di natura sociale quando manca una persona offesa dal reato oppure sono stati colpiti interessi diffusi. Alla semilibertà potranno poi accedere anche i condannati all’ergastolo dopo che abbiano fruito senza inciampi di permessi premio per almeno 5 anni consecutivi, presupposto adesso alternativo all’avere scontato almeno 20 anni di pena. Nella prospettiva di contenere il più possibile il ricorso alla detenzione, si accentuano l’attenzione a percorsi individualizzati con riferimento anche, per quanto riguarda i rischi di radicalizzazione, ad aspetti come le abitudini alimentari. Si alza fino a 4 il numero di ore che devo essere trascorse all’aperto; si stabilisce, di regola, l’individuazione di un istituto di pena vicino alla residenza della famiglia del detenuto (per favorire i contatti con i familiari si ammette un maggiore utilizzo della posta elettronica e di strumenti come Skype, anche se solo 17 penitenziari permettono di utilizzarlo); si limitano i trasferimenti da carcere a carcere per il rischio di interruzione di percorsi di rieducazione. Come dare e chiedere di più al condannato di Glauco Giostra* Il Sole 24 Ore, 6 febbraio 2018 Nessuno auspica vessazioni inumane nei confronti dei condannati, ma è bene che scontino la pena inflitta sino all’ultimo. Vi deve essere la certezza della pena. Se il problema è il sovraffollamento, si costruiscano nuove carceri. Sarebbero queste, nella stragrande maggioranza, le risposte a una eventuale indagine demoscopica sull’opportunità della riforma penitenziaria ora all’esame delle Commissioni parlamentari. Risposte che in questo periodo fanno intravvedere un troppo ghiotto bottino elettorale perché certa politica non cerchi di accaparrarselo soffiando sulle braci della paura. La paura induce ad alzare muri nell’utopistica convinzione di poter contenere al di là di essi tutti i pericoli, scongiurandoli. Non sorprende, quindi, l’istintiva avversione nei confronti di una riforma che in sostanza intende riconoscere al condannato la possibilità di togliere dal muro di cinta del carcere un mattone dopo l’altro se dimostra di volerne e saperne fare un ponte per tornare in società, rispettandone le regole. Non bisogna comunque rinunciare a offrire dati e argomenti affinché ciascuno possa formarsi un suo pensiero critico, anche se potrebbe non servire a molto in una stagione in cui la bontà delle idee si misura in base ai decibel con cui sono espresse e alla loro cifra demagogica. La riforma penitenziaria non è ispirata ad alcun indulgenzialismo. Muove semplicemente dalla premessa che una pena da scontare sino all’ultimo giorno in carcere qualunque sia il comportamento tenuto dal condannato nel corso della sua espiazione costituirebbe una soluzione costituzionalmente illegittima e socialmente pericolosa. Incostituzionale, perché in base all’articolo 27 comma 3 della nostra Carta fondamentale “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato” e una pena che non riesce a promuovere e a valorizzare, là dove ci siano, gli sforzi di riabilitazione sociale del condannato non adempie alla sua funzione. Pericolosa, perché la reclusione senza speranza è criminogena. “Il carcere come camicia di forza, come immobilità per non far male - scriveva Vittorino Andreoli, l’autorevole psichiatra - è pura follia, è antieducativo. Non appena viene tolto il gesso, c’è subito una voglia di correre e di correre contro la legge”. Tutte le statistiche nazionali e internazionali confermano che l’inclinazione a commettere nuovi reati diminuisce sensibilmente quando il condannato aderisce ad un progetto individualizzato di graduale reintegrazione sociale, sino quasi a scomparire se torna in società con una propria collocazione lavorativa. Il carcere come unica pena, dunque, comporta minore sicurezza sociale, a meno che non si pensi di punire tutti i reati con l’ergastolo. L’assurdità dell’ipotesi dimostra che non possiamo miopemente preoccuparci soltanto del quando il condannato deve tornare in libertà, disinteressandoci del come. Ciò non significa rinunciare a punire, ma fare in modo che la reclusione non sia il luogo dell’abbrutimento, dell’infantilizzazione e della mortificazione della dignità del condannato, ma dell’offerta di opportunità di formazione professionale, di istruzione, di lavoro, di svolgimento di attività gratuite in favore della collettività, di percorsi di giustizia riparativa, per prepararsi a un progressivo, responsabile ritorno in libertà. Modulare il trattamento sanzionatorio sull’impegno e sulla personalità del condannato, non significa rendere incerta la pena, ma “registrarla” sull’individuo e sulla sua condotta, in base a presupposti e parametri di valutazione normativamente prestabiliti. Come nel processo la sanzione, a parità di titolo di reato, varia in ragione della gravità (soggettiva e oggettiva) del fatto commesso, e nessuno parla di incertezza della pena, così nella fase dell’esecuzione il trattamento punitivo va calibrato sui progressi compiuti dal condannato. Le misure alternative alla detenzione che questi può gradualmente conquistare non costituiscono esoneri di pena, ma una modalità di espiazione della stessa. Tali misure - ha ricordato lo scorso anno il Consiglio d’Europa nell’esortare gli Stati a farvi ricorso - sono “mezzi importanti per combattere la criminalità, per ridurre i danni che essa causa”, evitando “gli effetti negativi della reclusione”. La riforma in esame favorisce l’accesso a queste misure, rafforzandone nel contempo il contenuto prescrittivo e risocializzativo: chi vi è sottoposto è tenuto a rispettare regole e divieti, nonché a dimostrare volontà di reinserimento sociale, anche adoperandosi per elidere o attenuare le conseguenze del reato. Una decarcerizzazione risocializzante, tra l’altro, riducendo la recidiva, ridimensiona fortemente il problema del sovraffollamento carcerario (escono più soggetti e ne entrano di meno). Pensare invece di risolvere tale problema costruendo nuove carceri è idea semplicistica e sconsigliabile, poiché - come ha da tempo ammonito il Consiglio d’Europa - aumentare la capacità ricettizia significa aumentare senza vantaggio alcuno la domanda di carcere: una simile politica negli Stati uniti ha quasi decuplicato la popolazione penitenziaria, senza che a ciò abbia corrisposto alcuna riduzione della criminalità. Rende la società più giusta e più sicura, dunque, una riforma come quella in discussione che - ribadendo con forza come niente autorizzi lo Stato a togliere, oltre alla libertà, anche la dignità e la speranza - dà e chiede di più al condannato, affinché, pur punito, possa essere ancora in parte artefice del suo futuro, ove si impegni per rimediare al male commesso e per tornare a vivere in società come avrebbe dovuto. *Presidente della Commissione per la riforma dell’ordinamento penitenziario Venerdì l’ultima chance per attuare la riforma penitenziaria di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 febbraio 2018 Potrebbe essere il Consiglio dei Ministri decisivo per l’approvazione dei decreti. Sono più di 5.600 i detenuti e i loro familiari che hanno aderito all’azione nonviolenta del Partito Radicale. Rita Bernardini è giunta al 15esimo giorno di sciopero della fame. C’è il serio rischio che si arresti l’iter per l’approvazione della riforma dell’ordinamento penitenziario. Se venissero confermate le voci, provenienti da fonti attendibili, le quali dicono che venerdì prossimo potrebbe esserci l’ultimo Consiglio dei ministri della legislatura in corso, parliamo dell’ultima possibilità di approvazione definitiva dei decreti delegati prima del 4 marzo, il giorno delle elezioni politiche. Difficilmente si potrebbe immaginare che la prossima legislatura abbia come prerogativa l’approvazione della riforma. Tutto ora dipende dalle commissioni giustizia di entrambe le camere. La commissione della Camera, salvo imprevisti, dovrebbe finire l’iter mercoledì prossimo, mentre quella del Senato ha convocato per oggi pomeriggio le audizioni informali invitando il direttore generale dei detenuti e trattamento Roberto Piscitello, il procuratore aggiunto della procura di Catania Sebastiano Ardita e Stefano Ferracuti, professore associato della facoltà di medicina e psicologia presso la Sapienza di Roma. Dopodiché, i della commissione giustizia del Senato, si dovranno riunire mercoledì per concludere l’iter. Quindi, in teoria, se tutto andrà bene e senza alcun rinvio, mercoledì prossimo entrambi le Commissioni dovrebbero inviare al Consiglio dei ministri il testo dei decreti con le loro osservazioni. Solo a quel punto, in teoria, il Consiglio potrà mettere all’ordine del giorno l’approvazione definitiva dei decreti. Venerdì, salvo smentite, è l’ultimo giorno disponibile. Basta quindi un piccolo intoppo per far naufragare la riforma tanto attesa, sia dalla popolazione detenuta, sia dalla Corte Europa dei diritti umani e il diritto sovranazionale. L’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini, giunta al 15esimo sciopero della fame per chiedere la completa approvazione della riforma entro questa legislatura, ha chiesto pubblicamente al ministro della Giustizia Andrea Orlando e il presidente del consiglio Paolo Gentiloni di dire come stanno realmente le cose, se per davvero rischia di non passare la riforma. La Bernardini ha anche fatto notare il rischio, oramai quasi inevitabile, che la riforma venga approvata comunque incompleta. Sì, perché, ricordiamo, il Consiglio dei ministri aveva approvato preliminarmente solo una parte dei decreti, tralasciando quelli che riguardano la giustizia riparativa, quella minorile, l’affettività e il lavoro. Per quanto riguarda gli ultimi due, non erano stati presi in considerazione, perché mancava ancora l’approvazione della legge di bilancio. Cosa che intanto è avvenuta e le risorse finanziarie, seppur esigue, ci sono. Nell’articolo 44 della legge di Bilancio, infatti, c’è un capitolo specifico dove si prevede l’assunzione di 296 assistenti sociali per potenziare l’esecuzione penale esterna e, relativamente all’attuazione dell’ordinamento penitenziario e al processo penale, una dotazione di 10 milioni di euro per l’anno 2018, 20 milioni di euro per l’anno 2019 e 30 milioni di euro a decorrere dal 2020. Ma nulla da fare, oramai questi decreti sono rimasti nel cassetto. Sono più di 5.600 i detenuti e i loro familiari che fino ad ora hanno aderito all’azione nonviolenta promosso dal Partito Radicale. C’è stata una promessa da parte del governo sull’attuazione della Riforma e l’aspettativa della popolazione detenuta dunque è molto alta. Come ha fatto notare più volte il filosofo Aldo Masullo sulle pagine de Il Mattino, i detenuti, attraverso le azioni non violente, hanno dimostrato di possedere un grado di civiltà maggiore rispetto ai cittadini liberi. I primi lottano non per il potere, ma per l’affermazione dei diritti di libertà dell’individuo e per un più rigoroso Stato democratico di diritto, mente una gran fetta dei secondi chiede punizioni esemplari, meno garanzie. Il paradosso vuole che all’interno dei penitenziari, ci sia fermento liberale. Il ruolo delle battaglie radicali è stato centrale, soprattutto per far capire ai detenuti il valore dell’azione non violenta. Ma se la riforma dell’ordinamento penitenziario non dovesse trovare luce, gli effetti potrebbero essere molto gravi. A partire dai suicidi. Sì, perché dall’inizio del nuovo anno, già sei detenuti si sono tolti la vita: l’ultimo nella notte tra venerdì e sabato nel carcere di Lecce, dove un 59enne di nazionalità marocchina si è impiccato. Su quest’ultimo punto l’esponente del partito radicale Rita Bernardini spiega a Il Dubbio che “nella situazione attuale delle nostre carceri è difficile prevenire i suicidi perché, da un lato, sono carenti proprio le figure professionali come gli psicologi che meglio sanno riconoscere gli stati di profondo disagio e disperazione e, dall’altro, perché un’altissima percentuale di reclusi è affetta da problemi psichiatrici e di tossicodipendenza. Anche per il target più a rischio, quello dei nuovi giunti che fanno la prima esperienza con il carcere, avere colloqui con gli psicologi è pressoché un miraggio”. Sempre Rita Bernardini aggiunge: “Inoltre, con la nuova vice- presidenza del Dap del Dott. Marco Del Gaudio, si è tornati molto indietro sulla trasparenza relativa alla vita dentro gli istituti, basti pensare - ed è solo un esempio - che è stato dato ordine ai direttori di non compilare più i questionari che presentavamo in occasione delle nostre visite per conoscere dati sulle professionalità presenti e sugli eventi critici quali i suicidi e gli atti di autolesionismo”. Le tante leggi delega e quei decreti mai approvati Durante i governi di Mario Monti, Enrico Letta e Matteo Renzi, le leggi bisognose di decreti attuativi sono state 227. Di queste appena 78 sono state completate. Mentre ben 149, più del 65% del totale, sono ancora monche. Questo è il quadro desolante che si va ad inserire nel discorso delle leggi delega, come quella della riforma dell’ordinamento penitenziario che, a fatica, ancora deve concludere l’iter di approvazione. Nell’immaginario comune una legge viene alla luce con la firma del Presidente della Repubblica e la pubblicazione in Gazzetta ufficiale. Questo è vero in parte. Un dossier curato e pubblicato da Openpolis svela che il 28,61% delle leggi approvate dai governi Renzi, Letta e Monti, per funzionare, ha avuto bisogno di almeno un decreto attuativo. Quest’ultimo si tratta dei provvedimenti che attuano una legge o un decreto-legge. Per fare un esempio, è un decreto attuativo quello che ha permesso alle unioni civili di passare dall’astratto della carta al concreto della cerimonia davanti al sindaco. Questo importante passaggio è nelle mani del governo che attraverso i ministeri competenti deve varare i decreti. In sostanza i ministeri devono scrivere come la legge verrà messa in pratica. Un caso particolare sono le cosiddette leggi- delega, con cui il parlamento dà all’esecutivo soltanto delle linee guida, sulla base delle quali scrivere i decreti. Esattamente come il caso della riforma dell’ordinamento penitenziario. La Legge Delega è quindi un provvedimento normativo che fornisce al governo la possibilità di intervenire, tramite l’emanazione di decreti legislativi su determinati temi, tracciandone le finalità e le linee guida di azione. L’effettiva operatività degli interventi indicati nella Legge deve, pertanto, attendere l’emanazione di vari decreti legislativi. Pe essere emanati, i decreti devono essere approvati preliminarmente dal consiglio dei ministri, poi visionati e discussi dalle commissioni competenti delle due camere, infine l’approvazione definitiva del consiglio. Ma, come già detto, non tutte le leggi delega sono state approvate e, se lo sono state, la maggior parte risultano incomplete. Di fatto, quindi, le disposizioni contenute nelle leggi in questione, almeno in parte, sono lettera morta. E anche quando questi provvedimenti vedono la luce, lo fanno comunque molto tardi, come dimostrano i numeri elaborati da Openpolis. La permanenza di un provvedimento attuativo su una scrivania ministeriale ha una durata indefinita. Per approvare una legge, il parlamento impiega mediamente 267 giorni. Per la sua attuazione pratica, invece, ci vorranno ben 815 giorni, più o meno due anni e mezzo. Metà della vita di una legislatura. Mentre l’attuazione dei decreti legge (emanati dal governo in casi di necessità e urgenza e convertiti in legge dal parlamento entro 60 giorni) richiede, in media, 1032 giorni. Alcuni decreti attuativi hanno una data di scadenza entro la quale devono essere adottati. I governi Monti e Letta hanno ancora 154 decreti in sospeso: 78 sono fuori tempo massimo. Questo avviene quando nel frattempo cambiano i governi e scelgono altre priorità. L’incubo che ciò possa accadere anche con la riforma dell’ordinamento penitenziario, si fa sempre più concreto. Carcere e detenuti stranieri: ecco cosa cambia con la riforma di Teresa Valiani Redattore Sociale, 6 febbraio 2018 Tecnologia, tutela dei diritti e maggiore comunicazione con gli operatori e le famiglie per rispettare il dettato costituzionale e garantire sicurezza. Intervista a Paolo Borgna, procuratore aggiunto al tribunale di Torino, componente della commissione Giostra e coordinatore del Tavolo “Stranieri” degli Stati generali. La riforma del sistema dell’esecuzione penale vista da un pubblico ministero. Quali sono i punti di forza e le criticità dei decreti all’esame delle Camere? Cosa è rimasto fuori e cosa cambia per i detenuti stranieri? Procuratore aggiunto al Tribunale di Torino, componente della commissione Giostra sulla riforma dell’Ordinamento penitenziario e coordinatore del Tavolo 7 sugli Stranieri nell’ambito degli Stati generali, Paolo Borgna fa il punto sul complesso percorso avviato per restituire dignità al sistema carcere e all’esecuzione della pena in Italia. Quali sono i punti di forza e le criticità dei decreti all’esame delle Camere? In linea generale, la riforma aggiorna i principi della legge penitenziaria del 1975, alla luce della nuova realtà del carcere rispetto a quella di 40 anni fa. Basti pensare che all’epoca gli stranieri presenti nelle carceri erano l’uno per cento, mentre ora sono il 33 per cento (19.745 su un totale di 57.608 detenuti presenti al 31 dicembre 2017 n.d.r.). Oppure, si pensi alle innovazioni tecnologiche e ai diversi modi di comunicare e rendere possibili i colloqui con le famiglie. Inoltre la riforma tiene conto della giurisprudenza costituzionale ed europea degli ultimi anni. Non dimentichiamo che nel 2013 l’Italia fu messa sotto tutela dalla nota sentenza Torreggiani per le condizioni delle carceri e gli spazi destinati a ciascun detenuto. Ma i principi ispiratori sono quelli della legge del ‘75 e, a ben vedere, quelli sanciti nella Costituzione che indica, come finalità della pena, la ‘rieducazione del condannato’ e bandisce tutti i ‘trattamenti contrari al senso di umanità’, vietando non solo ogni violenza fisica ma anche morale. La filosofia ispiratrice della riforma del ‘75 era riassumibile in poche parole: il detenuto, pur essendo privato della libertà personale, deve poter mantenere il più possibile i legami con la società, a cominciare dalla famiglia; non deve perdere il diritto alla speranza; deve poter studiare e, volendo, imparare un lavoro. Cosa cambia in questo senso con la riforma? La riforma rinverdisce questi principi superando rigide presunzioni legali di irrecuperabilità sociale, rendendo più facili i colloqui, anche per via telematica, facilitando la possibilità di accedere alle informazioni, prevedendo un nuovo permesso per ragioni familiari di particolare rilevanza e favorendo le attività riparative in favore della vittima del reato. Stranieri ed esecuzione penale: quali sono le novità che si vogliono introdurre? La possibilità di avere colloqui via Skype riguarda tutti i detenuti ma, ovviamente, interessa soprattutto gli stranieri che spesso non hanno possibilità di usufruire di colloqui e di mantenere i contatti con la famiglia, considerati uno dei pilastri del mantenimento dei contatti con la società esterna, al fine del reinserimento. Ecco, dunque, un esempio tipico di come un principio della riforma del ‘75 viene riattualizzato in considerazione del mutato contesto carcerario e delle innovazioni tecniche. Ma la novità più significativa è la maggiore presenza in carcere dei mediatori culturali, resa possibile dall’inserimento di questa figura tra quelle dei professionisti ed esperti di cui già l’amministrazione penitenziaria poteva avvalersi. La presenza dei mediatori è essenziale per supplire alle difficoltà di comprensione del sistema giudiziario e all’assenza di legami con il mondo esterno: ostacoli all’integrazione del detenuto e fonte di rischio di radicalizzazioni assai frequenti in carcere, come purtroppo ci insegna l’esperienza francese. Cosa, di importante, è rimasto fuori dai decreti rispetto alle proposte della Commissione per quel che riguarda gli stranieri? La Commissione aveva proposto che insieme ai cappellani di culto cattolico fossero presenti in carcere anche i ministri e le guide di culto di tutte le confessioni che avessero stipulato intese o accordi con le amministrazioni dello Stato italiano. Era una proposta di riforma non solo fedele all’articolo 8 della Costituzione (“tutte le confessioni religiose sono ugualmente libere davanti alla legge”) ma che fotografava la nuova realtà delle carceri. Ancor più, se sapientemente utilizzata, poteva costituire un serio antidoto ai rischi di radicalizzazione. I decreti legislativi approvati dal Consiglio dei Ministri non hanno, per il momento, accolto la proposta. Se, come penso, tale mancato accoglimento è dovuto soltanto al timore di nuove spese, connesse alla predisposizione dei locali, spero che l’innovazione possa trovare spazio in un prossimo intervento del Governo. Tribunali e procure sono pronti a recepire le novità introdotte dalla riforma? La riforma non comporta particolari aggravi di lavoro per le Procure. Anzi, in linea generale, prevede la semplificazione di alcuni procedimenti. La riforma non incide sul 41bis. Ma è chiaro a tutti? No, e come pubblico ministero mi preme evidenziare la totale falsità dell’affermazione, ripetuta da polemiche fondate sull’ignoranza della legge o, peggio, sulla malafede, secondo cui la riforma consentirebbe ai mafiosi di tornare più facilmente in libertà. I decreti legislativi emanati dal Governo non prevedono questo; e, si noti bene, non avrebbero potuto prevederlo perché la legge delega prescriveva di escludere qualsiasi modifica al regime di “carcere duro”. Né i mafiosi sono favoriti dal superamento di alcune preclusioni alla concessione di misure alternative. È comunque bene sottolineare che la concessione di pene alternative, oggi maggiormente previste per i reati diversi da quelli di mafia, non è mai automatica: si tratta di una “possibilità” che deve essere valutata, caso per caso, dai magistrati di sorveglianza. Si badi che gli ‘automatismi’ vengono superati non solo per il divieto di misure alternative ma anche con riferimento alla concessione delle stesse. Ad esempio, è abrogata la legge che consentiva in modo quasi automatico di espiare la pena in detenzione domiciliare; e sono aumentate sia le verifiche per la concessione delle pene extra-murarie (ad esempio, al detenuto è chiesto di impegnarsi concretamente in favore della vittima) sia i controlli sulle condotte dei detenuti ammessi alle misure alternative, coinvolgendo in essi anche la polizia penitenziaria. In sostanza, come efficacemente ha riassunto il Presidente della Commissione di riforma, Glauco Giostra: ‘l’idea è che al condannato si debba dare e chiedere di più’. Quanto, in generale, è stato ripreso dal lavoro degli Stati Generali e cosa, di rilevante, non è stato recepito? La riforma attinge ampiamente all’elaborazione culturale degli Stati generali dell’esecuzione penale voluti dal ministro Orlando nel 2015 ma alcuni importanti punti non sono stati accolti. Principalmente, il Governo non ha recepito la proposta, che veniva anche dalla stessa Commissione Giostra, sul riconoscimento del diritto all’affettività, pur specificamente previsto in questi termini dalla legge delega, in sintonia con altre legislazioni europee. È un punto delicato, al cui accoglimento ostavano problemi di varia natura, anche di edilizia carceraria, e un’opinione pubblica probabilmente non favorevole. E su cui era facile imbastire, soprattutto in una fase pre-elettorale, prevedibili campagne polemiche. Penso che su questo punto si dovrà tornare, con una riflessione pacata e con un confronto serio con l’opinione pubblica, con tempi più lunghi ma non infinitamente dilazionabili. L’urlo dei giornali: “Condannate tutti!”. Ma i processi si fanno in tribunale di Carlo Alberto Tregua Quotidiano di Sicilia, 6 febbraio 2018 Si è aperta una polemica tra gli avvocati penalisti modenesi, accusati di esercitare una sorta di censura sulla stampa, e l’Ordine dei Giornalisti dell’Emilia Romagna. Oggetto della polemica è la rivolta di quei professionisti contro i giornalisti diventati il megafono dei pubblici ministeri. L’accusa è mossa attraverso un libro bianco secondo la cui ricerca è emerso che “l’impostazione delle cronache giudiziarie è quasi totalmente appiattita sulle tesi dell’accusa e sulla fase delle indagini preliminari e di polizia. Mentre lo spazio dato alla difesa è percentualmente irrisorio”. La massima parte delle notizie provengono dall’accusa e le pubblicazioni avvengono spesso in violazione di due norme del codice di procedura penale: 114, secondo comma, e 329. Essi vietano di riprodurre la testualità di atti processuali, anche quando non è venuto meno il segreto. La conseguenza è che spesso l’indagato e i suoi legali apprendono dalla stampa che è stata emessa un’informazione di garanzia non ancora notificata: una vera porcheria. La combutta fra investigatori e informatori può anche condizionare il processo vero e proprio, anche se noi riteniamo che i giudici riescano sempre, per cultura e preparazione, a mantenere quel ruolo di terzietà ed indipendenza proprio di chi deve emettere sentenze. Quanto precede, accade perché spesso i giornalisti non leggono le notizie con spirito critico, non cercano di controllarle da almeno due fonti e dimenticano il Testo unico dei doveri dei giornalista del 27 gennaio 2016, il quale puntualmente impone loro comportamenti etici. Sulla materia ha preso una ferma posizione l’Unione delle camere penali, ma non vi è dubbio che leggendo i giornali, quanto precede risulta evidente all’opinione pubblica. La situazione diventa più grave quando gli indagati vengono rinviati a processo senza che il giudice delle indagini preliminari si renda conto delle ipotesi di reato e dell’insieme degli indizi, che dovrebbero essere concordanti, precisi e gravi in modo da far ragionevolmente pensare al Gip un’alta probabilità che l’accusa sia fondata. Per cui, il numero degli assolti dai tribunali di primo e secondo grado aumenta sempre di più, come accaduto lo scorso anno. Ma quando un imputato è assolto perché il fatto non sussiste o non costituisce reato o per altra motivazione, in presenza del ragionevole dubbio e in assenza di ipotesi di dolo o di intenzionalità, i buoni giornali non gli danno sufficiente spazio e relegano la notizia in posizione marginale per numero di pagina e per collocazione nella stessa. Quanto precede è una precisa violazione del diritto dei cittadini, considerati innocenti fino a sentenza passata in giudicato. Ovviamente, questa analisi non riguarda la criminalità organizzata e i delinquenti abituali, per i quali si può presumere la loro attitudine a continuare a delinquere. La questione delle accuse non fondate ha un riflesso economico per lo Stato perché esso deve rifondere centinaia di milioni a titolo di risarcimento del danno, il quale, una volta compiuto, non trova ristoro in somme pecuniarie, perché quando viene calpestata la dignità e la reputazione di una persona, resta nella memoria dell’opinione pubblica l’evento negativo e poco la sua riabilitazione. Un esempio da non seguire riguarda gli urli che tutti i giornali hanno emesso relativamente alle accuse che i pubblici ministeri del processo Stato-Mafia hanno chiesto al collegio giudicante: quindici anni al generale Mori, dodici a Dell’Utri, sei a Mancino e così via. Ma le richieste dell’accusa, dopo cinque anni di processo e duecento udienze, non sono state bilanciate sul piano mediatico dalle richieste della difesa, realizzando un vero e proprio sbilanciamento e quindi una destabilizzazione del principio di equità, secondo il quale l’accusa e la difesa devono avere le stesse prerogative e gli stessi mezzi. Si tratta di un principio costituzionale del tutto pacifico, che regge sull’uguaglianza fra i cittadini e considera i magistrati parte di un ordinamento e non di un potere. Intendiamoci, quanto precede non è una responsabilità dei giudici ma di chi vede nella giustizia lo strumento per accrescere la propria notorietà e speculare su di essa. Pm indisciplinati: 1.300 esposti, 1.265 assoluzioni di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 6 febbraio 2018 Quando i magistrati giudicano altri magistrati. Nella lunga relazione del procuratore generale della Corte di Cassazione Riccardo Fuzio per l’inaugurazione dell’anno giudiziario, un intero capitolo è dedicato ai procedimenti disciplinari delle toghe. Dopo la riforma Castelli del 2006, il procedimento disciplinare nei confronti dei magistrati è infatti divenuto obbligatorio per il procuratore generale, rimanendo solo facoltativo per il ministro della Giustizia. “La materia disciplinare si rivela sempre più centrale nel sistema del governo autonomo della magistratura ed è la cartina di tornasole del rapporto di fiducia - o di sfiducia - che lega i cittadini al sistema giudiziario e ciò anche a prescindere dal fatto che la condotta del magistrato denunciata si riveli poi passibile di sanzione disciplinare”, scrive il procuratore generale. “Una giustizia che non ha credibilità o comunque legittimazione non è in grado di assicurare la democrazia”, aggiunge Fuzio, sottolineando come “la materia di competenza della Procura generale investe questioni di deontologia e di professionalità che anticipano spesso l’aspetto prettamente disciplinare”. Nel 2017 sono pervenute alla Procura generale ben 1.340 segnalazioni di possibile rilievo disciplinare (1.363 nel 2016). In notevole incremento sono stati gli esposti di privati cittadini, elemento che “evidenzia una generale sfiducia dell’opinione pubblica verso l’operato della magistratura - prosegue Fuzio, sintomo che a fronte di una quantità abnorme di processi che gravano su tutte le sedi giudiziarie non sempre vi è una risposta qualitativamente adeguata di chi è tenuto a rendere giustizia”. Di queste centinaia di segnalazioni, il 92,7% è stata archiviata direttamente nella fase pre-disciplinare. Del rimanente 7,3% per cui è stata esercita l’azione disciplinare, le condanne al termine dell’istruttoria sono state solo 35. 4 ammonimenti, 24 censure, 4 perdite di anzianità e 3 rimozioni dalla magistratura. La risposta al perché di numeri cosi bassi la fornisce lo stesso Fuzio: “Il sistema disciplinare, per unanime constatazione, presenta notevoli lacune e zone “franche” che lasciano spazio a condotte non sanzionabili disciplinarmente e però tutt’altro che insignificanti nella definizione della deontologia complessiva e della figura del magistrato”. In altre parole, essendo gli illeciti disciplinari per le toghe dal 2006 “tipizzati”, ciò che non è espressamente indicato non è sanzionabile. In questo sistema ipergarantista, molte condotte “non ritenute meritevoli di sanzione disciplinare, e sovente nemmeno di inizio di azione disciplinare, ben potrebbero o dovrebbero essere tenute in considerazione dal Csm per i diversi profili attinenti le valutazioni di professionalità”, evidenzia però Fuzio. Il numero dei magistrati valutati non positivamente è attualmente pari a solo lo 0,58% del totale. Un numero che “non ha eguali in nessuna organizzazione complessa”, disse stigmatizzando il dato lo scorso anno in Plenum l’ex presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio. Fra le tante e varie anomalie, meritano di essere segnalati i casi di “appiattimento di qualche pubblico ministero poco diligente rispetto all’attività della polizia giudiziaria. Si sono riscontrati casi di “copia- incolla”, non solo di provvedimenti del Gip rispetto alla richiesta del pubblico ministero, ma anche di richieste cautelari del Pm rispetto al rapporto informativo della polizia giudiziaria, sintomo del conseguente rischio che gli errori di quest’ultima, se non adeguatamente vagliati, si riverberino in gravi violazioni di legge da parte dei magistrati” La fine dei magistrati in politica di Antonio Esposito Il Fatto Quotidiano, 6 febbraio 2018 In lista pochi giudici e molti indagati ma bisogna comunque eliminare i privilegi delle toghe che si candidano. È impressionante il numero degli “impresentabili” che sta per dare l’assalto alla massima istituzione del Paese. È grazie al Fatto che i cittadini hanno avuto la possibilità di conoscere i “curriculum” giudiziari di tanti possibili “onorevoli” tra i quali si annoverano condannati, arrestati, prescritti, indagati e imputati per peculato, corruzione, falso, truffa, bancarotta, abuso di ufficio, turbativa d’asta, voto di scambio. L’ex sottosegretario Giovanni Legnini, oggi vicepresidente del Csm, incredibilmente, ha pontificato che “il fatto che un politico sia indagato non dovrebbe comportare le sue dimissioni o l’esclusione dalle candidature”. In questa campagna elettorale, imperano poi le “dynasty” del voto: i parenti dei politici eccellenti in corsa per il Parlamento sono tanti: figli, mogli e nipoti. A questa disdicevole pratica non si è sottratto anche, sia pure in misura più ridotta rispetto agli altri partiti (due casi), il Movimento 5 Stelle così offuscando, in parte, il merito di non aver presentato “impresentabili”. A questo si aggiunge il continuo passaggio di candidati da un partito all’altro. Contro questo indecente mercato, poco o nulla possono i cittadini il cui primario diritto di scegliere i propri rappresentanti è stato ulteriormente compresso dalla peggiore legge elettorale mai approvata. In questo contesto una drastica riduzione delle candidature dei magistrati può da un lato indurre il sospetto che i politici preferiscano i pregiudicati ai giudici, dall’altro sembra che stia per chiudersi una stagione che ha visto un gran numero di magistrati “scendere”, impropriamente, in politica. Non mancano le eccezioni tra le quali la più significativa è quella del magistrato Cosimo Ferri, da anni sottosegretario alla Giustizia (in quota Pdl), e oggi candidato Pd in collegi “blindati”. Sarebbe opportuno che costui - se eletto - si dimettesse dall’ordine giudiziario, non solo per l’impegno profuso nell’esecutivo, quanto per essere leader di una corrente associativa di magistrati. Sembra inopportuno che un magistrato, diventato parlamentare (e, quindi, politico), possa ancora essere un punto di riferimento di una corrente di magistrati. Secondo Legnini “il Csm ha contribuito a un alleggerimento della tensione tra politica e magistratura grazie alla stesura di una delibera che, purtroppo, però, non è stata approvata dal Parlamento, che regolamenta l’accesso alle candidature per i magistrati in servizio e il loro reingresso in ufficio”. Ma quanto prevede la delibera è inadeguato a risolvere il problema. Per risolverlo è necessaria una legge che vieti ai magistrati di candidarsi nelle competizioni elettorali, salvo che si dimettano dall’ordine giudiziario. Né si può obiettare che in questo modo i magistrati vengono privati del diritto di elettorato passivo, perché ciò gli è sempre consentito dismettendo una carica che li vede far parte di un ordine che la Costituzione vuole “autonomo e indipendente da ogni altro potere”. Se proprio non si volesse addivenire ad una decisione del genere, va statuito che il magistrato deve essere collocato, inderogabilmente, presso l’Avvocatura dello Stato o in un ruolo autonomo del ministero di Giustizia. Altra alternativa è quella di prevedere che il periodo di consiliatura non venga computato ai fini della progressione in carriera. Il magistrato, al termine del mandato rientra - proprio perché non ha esercitato la funzione - nel grado e nell’anzianità (anche economica) che aveva al momento della sua elezione. Ciò costituirebbe un deterrente per i magistrati desiderosi di fare politica e metterebbe fine a quello scandaloso privilegio per il quale magistrati, fuori ruolo per anni, continuano a ottenere avanzamenti di carriera con lusinghiere valutazioni di professionalità senza aver mai più fatto una sentenza, un’udienza, un’indagine. Le fake news rischiano di condizionare il voto: tre italiani su dieci ci credono di Andrea Carugati La Stampa, 6 febbraio 2018 A meno di un mese dal voto del 4 marzo, il rischio che le fake news possano influenzare i comportamenti di voto resta molto alto. Un sondaggio realizzato da Doxa per Findomestic svela un aspetto che rischia di neutralizzare gli sforzi per smascherare le bufale che circolano soprattutto in rete. Tre persone su dieci, spiega Doxa, credono a notizie false anche se sono state palesemente certificate come tali. È il caso, ad esempio, della finta sorella di Laura Boldrini che gestirebbe centinaia di cooperative che assistono immigrati. Un falso certificato, ma il 30% degli intervistati lo crede ancora vero. Stessa sorte per la bufala sulla bambina musulmana di 8 anni data in sposa a un 35enne a Padova: la finta notizia era circolata nel novembre del 2017, diventando subito virale. E ancora oggi il 63% degli intervistati la crede vera. Dal test risulta che in media oltre il 40% delle persone non riconosce notizie inventate e già smascherate. Secondo l’80% degli intervistati le fake news condizionano l’opinione pubblica, mentre solo l’1,4% ritiene che non abbiano alcun tipo di influenza. Secondo lo studio realizzato da Doxa, oltre il 50% degli italiani ammette di essere caduto nel tranello delle fake news almeno una volta nell’arco dell’ultimo anno. Addirittura il 13% confessa di aver “abboccato” a più di 5 notizie false. Un dato che si spiega anche con il tipo di consumo di media che si è andato sviluppando. I siti Internet sono considerati i mezzi di informazione più attendibili da quasi tre persone su dieci (29,4%); seguono la televisione (26,5%), i blog e i forum (18,1%) e i quotidiani (10,1). E i social network (7,7%) sono reputati più veritieri delle radio (6,3%). Sono soprattutto i più giovani a fidarsi dei siti Internet: quasi il 36% nella fascia tra i 18 e i 24 anni. I quotidiani, invece, registrano il massimo tasso di credibilità (20,5%) tra gli over 60. Fortunatamente, il 71,2%delle persone controlla se la notizia è riportata anche su altre fonti e il 66,6% valuta la fonte da cui proviene la notizia. Nonostante la situazione sia critica, circa il 40% si dice contrario all’introduzione di controlli, per evitare ogni tipo di censure. Mentre il 50% si esprime a favore di un “controllo esterno” (meglio se ad opera di un soggetto imparziale) che certifichi cosa è vero e cosa no. Cassazione: rischia sanzioni chi fa lo sciopero della fame in carcere per protesta Ansa, 6 febbraio 2018 Rischia “ritorsioni” chi in carcere si mette in sciopero della fame per protestare pacificamente contro le cattive condizioni in cui si svolge la reclusione. Confermata infatti dalla Cassazione la sanzione disciplinare dell’esclusione dalle attività in comune per nove giorni, nei confronti di due detenuti di un carcere calabrese che, insieme ad altri compagni, avevano iniziato lo sciopero della fame per protestare contro la cattiva qualità del vitto, rifornito da una ditta esterna, e per avere almeno l’acqua calda per lavarsi. La protesta, pacifica, aveva preso il via dopo che la richiesta inoltrata dai detenuti alla direzione del carcere, nella quale si chiedeva il rispetto dei diritti “basilari di una vita carceraria dignitosa”, non aveva ricevuto alcuna risposta. Anzi, la risposta c’era stata: la sanzione disciplinare con la quale i detenuti individuati come capi dello sciopero venivano puniti con nove giorni di “carcere duro”. Contro la conferma del provvedimento convalidato dal Tribunale di sorveglianza di Catanzaro nel 2015, due dei detenuti “ribelli” hanno reclamato in Cassazione sostenendo che il rifiuto del cibo non è una “sommossa” e che “la pesante risposta sanzionatoria non era giustificata da una reale pericolosità” della protesta ed era una netta “chiusura alla richiesta di ascolto invocata dai detenuti, di tal modo conculcati nell’esercizio del legittimo diritto all’autodeterminazione”. “Nell’alveo dell’esercizio di tale diritto - ha inoltre fatto presente la difesa dei due carcerati - costituzionalmente e convenzionalmente garantito, doveva essere inquadrata la scelta del ricorso allo sciopero della fame, opzione che sovente rappresenta nell’ambito carcerario l’unico mezzo per manifestare una reale situazione di disagio, di malessere fisico e psichico”. Per questo, quei nove giorni di sanzione erano una risposta “ingiustificatamente severa”. I supremi giudici, però, non hanno avuto nulla da obiettare e hanno convalidato la decisione del magistrato di sorveglianza per cui il digiuno era “un’azione dimostrativa di scontro e di ostilità verso le istituzioni e, dunque, pericolosa e sediziosa, perché idonea in concreto a scuotere e porre in pericolo l’ordine interno all’istituto, a turbare il normale svolgimento della vita carceraria, con il pericolo concreto di degenerare anche in un ingestibile allarme sanitario per il numero delle persone coinvolte nello sciopero della fame”. Concludono i verdetti degli “ermellini” - 5315 e 5316 della Prima sezione penale - che la decisione della Sorveglianza “non merita censura”. L’arresto dopo un’attività di investigazione non configura la “quasi flagranza” di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 6 febbraio 2018 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 2 gennaio 2018 n. 39. Alla luce delle puntualizzazioni fornite dalle sezioni Unite (sentenza 24 novembre 2015, Ventrice), la “quasi flagranza” legittimante l’arresto da parte della polizia giudiziaria è configurabile tutte le volte in cui sia possibile stabilire un particolare “nesso” tra il soggetto e il reato che, pur superando l’immediata individuazione dell’arrestato sul luogo del reato, permetta comunque la riconduzione della persona all’illecito sulla base della continuità del controllo, anche indiretto, eseguito da coloro i quali si pongano al suo inseguimento. Lo ricorda la Cassazione con la sentenza n. 39 del 2018. Tale condizione si può configurare nei casi in cui l’arresto avvenga in esito a inseguimento, ancorché protratto ma effettuato senza perdere il contatto percettivo anche indiretto con il fuggitivo, o nel caso di rinvenimento sulla persona dell’arrestato di cose o tracce dalle quali appaia che egli abbia commesso il reato immediatamente prima; ma non si può configurare nelle ipotesi nelle quali l’arresto avvenga in seguito a un’attività di investigazione, sia pure di breve durata, attraverso la quale la polizia giudiziaria raccolga elementi (dalla vittima, da terzi o anche autonomamente) valutati i quali ritenga di individuare il soggetto da arrestare, il quale beninteso non sia trovato con cose che lo colleghino univocamente al reato e non presenti sulla persona segni inequivoci riconducibili alla commissione del reato da parte del medesimo. La sentenza richiama i principi indicati dalle sezioni Unite, con la sentenza 24 novembre 2015 Ventrice, secondo cui in tema di arresto da parte della polizia giudiziaria, lo stato di “quasi flagranza” non sussiste nell’ipotesi in cui l’inseguimento dell’indagato da parte della polizia giudiziaria sia stato iniziato per effetto e solo dopo l’acquisizione di informazioni da parte della vittima o di terzi, dovendosi in tal caso escludere che gli organi di polizia giudiziaria abbiano avuto diretta percezione del reato. La nozione di “inseguimento”, caratterizzata dal requisito cronologico dell’“immediatezza” (“subito dopo il reato”), postula, quindi, la necessità della diretta percezione e constatazione della condotta delittuosa da parte degli operanti della polizia giudiziaria procedenti all’arresto: l’attribuzione dell’eccezionale potere di privare della libertà una persona si spiega proprio in ragione di tale situazione idonea a suffragare la sicura previsione dell’accertamento giudiziario della colpevolezza (da queste premesse, la Corte ha rigettato il ricorso del pubblico ministero avverso il provvedimento del giudice che aveva escluso la quasi flagranza, in una vicenda in cui la polizia giudiziaria aveva proceduto all’arresto per il reato di lesioni personali aggravate dall’uso di un coltello dopo alcune ore dalla commissione del reato ed esclusivamente sulla base delle dichiarazioni rese dalla vittima e dalle persone informate dei fatti nonché degli esiti obiettivi delle lesioni rilevati sul corpo della persona offesa: in una situazione in cui, quindi, secondo le sezioni Unite, non poteva ricorrere l’ipotesi dell’“inseguimento” inteso nei termini di cui sopra). Da questi principi, la Corte ha rigettato il ricorso del Procuratore della Repubblica proposto avverso l’ordinanza di non convalida dell’arresto, per difetto della flagranza, resa in una fattispecie in cui il giudicante aveva motivato la propria decisione evidenziando l’assenza della “quasi flagranza” in ragione del fatto che la polizia giudiziaria era pervenuta all’identificazione del responsabile del furto in un esercizio commerciale solo tramite le indicazioni di un testimone oculare (che aveva notato l’arrestato disfarsi della refurtiva) e le dichiarazioni della responsabile del centro commerciale quanto alla provenienza delittuosa della refurtiva. Era mancato, quindi, il “nesso” tra il soggetto e il reato necessario per giustificare la legittimità dell’arresto. Alle Sezioni Unite questione se per il corpo del reato il decreto sequestro può essere “sintetico” di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 6 febbraio 2018 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 25 gennaio 2018 n. 3677. Va rimessa alle sezioni Unite la questione se, per le cose che costituiscono “corpo di reato”, il decreto di sequestro probatorio possa essere motivato con formula sintetica ove la funzione probatoria del medesimo costituisca connotato ontologico e immanente del compendio sequestrato, di immediata evidenza, desumibile dalla peculiare natura delle cose che lo compongono o debba, invece, a pena di nullità, essere comunque sorretto da idonea motivazione in ordine al presupposto della finalità perseguita, in concreto, per l’accertamento dei fatti. Lo ha deciso la Cassazione, sezione terza penale, con la sentenza 25 gennaio 2018 n. 3677. L’ordinanza di rimessione, nel sollecitare un nuovo intervento delle sezioni Unite, ritiene di non condividere il principio di diritto stabilito dalla precedente sentenza delle sezioni Unite, 28 gennaio 2004, Ferazzi, evidenziando come, se anche per il corpo del reato, sia necessaria una motivazione sulle esigenze probatorie che con il sequestro si intendono soddisfare, tale motivazione, tuttavia, possa essere sviluppata con formula sintetica, quando la funzione probatoria del corpo del reato sia connotato ontologico e immanente del compendio sequestrato, di immediata evidenza, desumibile dalla peculiare natura delle cose che lo compongono. Ciò che si verifica, ad esempio, in materia di violazioni edilizie, rispetto alle quali non è dubbio non solo che l’immobile abusivo costituisca corpo del reato, ma anche che l’immobile sequestrato per l’abuso presenta quale connotato ontologico e immanente, di immediata evidenza, la finalizzazione probatoria, dal momento che l’attività investigativa non potrà che passare attraverso una puntuale verifica delle difformità prima facie riscontrate nella fase iniziale dell’indagine. In questa prospettiva, secondo l’ordinanza di rimessione, la sintetica motivazione ben potrebbe essere soddisfatta, in caso di convalida da parte del pubblico ministero di sequestro eseguito dalla polizia giudiziaria, anche da un decreto di convalida apposto in calce al sequestro della polizia giudiziaria che pur si limiti a indicare gli articoli di legge per i quali si intende procedere e nell’ambito dei quali i fatti descritti nel verbale possono essere ascritti; mentre un onere di motivazione proporzionalmente più aggravato sarà imposto solo nei casi in cui l’atto della polizia giudiziaria non sia sufficientemente chiaro in ordine ai fatti in corso di accertamento. In questa prospettiva, la motivazione del sequestro del corpo di reato, secondo il ragionamento dell’ordinanza, più che sulla sussistenza delle esigenze probatorie idonee a giustificare il provvedimento cautelare, dovrebbe svilupparsi principalmente sulla configurabilità della res quale corpo di reato, attraverso cioè l’accertamento della presenza del rapporto di “immediatezza”, descritto dall’articolo 253, comma 2, del Cpp, tra la res e l’illecito (sono “corpo di reato” le cose “sulle quali o mediante le quali il reato è stato commesso nonché le cose che ne costituiscono il prodotto, il profitto o il prezzo”). Sequestro preventivo, alla Sezioni Unite l’applicabilità al tentativo di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 6 febbraio 2018 Corte di cassazione - Sentenza 5 febbraio 2018 n. 5378. Saranno le Sezioni unite penali a chiarire se il sequestro preventivo finalizzato alla confisca “allargata”, introdotto nel 1992 per fronteggiare una particolare tipologia di reati, “in seguito ai gravissimi episodi criminali”, sia applicabile anche nel caso di semplice “tentativo” aggravato però dal “metodo mafioso” (art. 7 legge n. 203/91). La II sezione penale, ordinanza 5378 di oggi, preso atto di un contrasto in seno alla Corte di cassazione, ha infatti rimesso la questione al massimo consesso, propendendo per l’applicabilità anche alla luce delle modifiche normative intervenute lo scorso anno. La Suprema corte infatti ricorda che l’articolo 12 sexies del Dl 306/1992 è stato riscritto dal Dl 148/2017 (legge 161/2017) “aggiornando il catalogo dei reati per la cui condanna è sempre disposta la confisca del denaro e dei beni o delle altre utilità di cui l’imputato non possa giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulti essere titolare o avere a disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica”. Il legislatore, prosegue la decisione, “pur non formulando alcuna previsione estensiva alla ipotesi del tentativo”, ha tuttavia “indifferentemente richiamato tutti i delitti, consumati o tentati, riconducibili alla previsione di cui all’art. 51, c. 3 bis, e, dopo l’elencazione, dei delitti già presenti, ha fatto riferimento generico alla categoria dei delitti, senza specificare alcuna tipologia, aggravati ex art. 7 L. n. 203/1992”. Per cui, prosegue, “l’estensione dell’art. 12 sexies ai delitti tentati, aggravati dall’art. 7, non sembra confliggere con la ratio della norma”. La scelta del legislatore, infatti, “è stata quella di individuare delitti spia, allarmanti, idonei a ritenere l”esistenza di un’accumulazione economica ingiustificata e comunque la presenza di un’attività criminale, a sua volta espressione e strumento di ulteriori delitti”. Alla luce di tali considerazioni e per superare il contrasto interno, i giudici hanno rimesso alle Sezioni unite la seguente questione di diritto: “Se sia possibile disporre il sequestro preventivo finalizzato alla c.d. confisca “allargata” ex art. 12 sexies Dl 8.6.1992 n. 306, convertito nella legge n. 356/92 e succ. mod., nel caso di violazione dei reati contemplati da tale norma, anche nella torma del tentativo aggravato dall’art. 7 n. 203/91”. Apologia di reato e istigazione al terrorismo attraverso Internet Il Sole 24 Ore, 6 febbraio 2018 Reati contro l’ordine pubblico - Istigazione a delinquere e apologia di reato - Terrorismo internazionale - Jihad islamica e ISIS - Configurabilità. Le consorterie di ispirazione jihadista operanti su scala internazionale hanno natura di organizzazione terroristiche rilevanti ex articolo 270-bis c.p. L’ideologia della “guerra santa” infatti, legittimando l’impiego dei cd. Kamikaze, acconsente alla realizzazione di condotte che sono al tempo stesso atti di violenza in incertam personam e forme di comunicazione e ammonimento verso i superstiti. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 12 dicembre 2017 n. 55418. Reati contro l’ordine pubblico - Istigazione a delinquere e apologia di reato - Terrorismo islamico - Elementi valutativi dell’attività propagandistica e apologetica. La condotta di chi inneggia apertamente allo Stato islamico e alle sue gesta e ai suoi simboli deve essere adeguatamente considerata per la valutazione del rischio effettivo della consumazione di ulteriori reati derivanti dall’attività di propaganda. Occorre infatti considerare il comportamento del soggetto agente per la condizione personale dell’autore e le circostanze di fatto nelle quali si esplica, tenendo anche conto di eventuali contatti intercorrenti con altri soggetti già indagati per terrorismo islamico e/o internazionale. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 12 dicembre 2017 n. 55418. Reati contro l’ordine pubblico - Apologia - Caratteristiche - Utilizzo dello strumento informatico - Fattispecie. Ai fini della configurazione della fattispecie di cui all’articolo 414 del c.p. non rileva la tipologia dei reati in relazione ai quali si esplica l’attività comunicativa, ma le modalità con cui la comunicazione viene esternata, che devono possedere connotazioni di potenzialità diffusiva, conseguenti al fatto di essere destinate a un numero indeterminato di soggetti e comunque non riconducibili a un ambito strettamente interpersonale. Ne consegue che non è integrato il reato nel caso in cui la diffusione sia circoscritta in ambito esclusivamente privato e interpersonale, come nel caso di conversazioni o chat private di un social network. Per converso, il reato è configurabile nel caso della diffusione di un messaggio o documento apologetico attraverso il suo inserimento su un sito internet privo di vincoli di accesso, in quanto tale modalità ha una potenzialità diffusiva indefinita (fattispecie in cui il reato è stato escluso relativamente a comunicazioni telematiche meramente private, mentre lo si è ritenuto come di possibile integrazione relativamente a videoregistrazioni di contenuto apologetico dell’Isis e del terrorismo di matrice islamica diffuse tramite Facebook). • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 15 maggio 2017 n. 24103. Articolo 414 c.p. - Organizzazione internazionale terroristica - Isis - Potenzialità diffusiva indefinita della comunicazione - Social network - Facebook - Omessa valutazione dell’apologia delle pubblicazioni dei messaggi pubblicati - Rinvio. Per la configurabilità del reato di istigazione a delinquere, previsto dall’articolo 414 del c.p., non rileva la tipologia dei reati in relazione ai quali si esplica l’attività comunicativa, ma le modalità con cui la comunicazione viene esternata. Queste devono possedere connotazioni di potenzialità diffusiva, conseguenti al fatto di essere destinate a un numero indeterminato di soggetti e comunque non riconducibili a un ambito strettamente interpersonale. A chiarirlo è la Cassazione che nel caso di specie non ha ritenuto integrato il reato in quanto la diffusione era circoscritta in ambito esclusivamente privato e interpersonale, ovvero si trattava di conversazioni o chat private di un social network. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 15 maggio 2017 n. 24103. Istigazione a delinquere - Apologia di reato - Elemento oggettivo - Messaggi apologetici dell’organizzazione terroristica ISIS - Postati sul proprio profilo personale “Facebook” - Configurabilità. In tema di apologia di reato, premesso che il requisito della pubblicità è ravvisabile anche nel caso in cui il messaggio apologetico venga inserito in un sito Internet privo di vincoli di accesso, deve ritenersi configurabile il reato nella condotta consistita nel postare sul proprio profilo personale “Facebook” messaggi di esaltazione del metodi e delle finalità di una organizzazione terroristica di ispirazione “jihadista”, quale deve qualificarsi quella costituita dall’ISIS (acronimo significante Islamic State of Irak and Syria). • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 15 maggio 2017 n. 24103. Reati contro la personalità dello Stato - Delitti - Contro la personalità internazionale dello Stato - Associazioni sovversive - Elementi costitutivi - Struttura organizzativa - Contenuto in riferimento alle associazioni di matrice islamica. Ai fini della configurabilità del delitto di associazione sovversiva con finalità di terrorismo internazionale, la necessità di una struttura organizzativa effettiva e tale da rendere possibile l’attuazione del programma criminale non implica necessariamente il riferimento a schemi organizzativi ordinari, essendo sufficiente che i modelli di aggregazione tra sodali integrino il “minimum” organizzativo richiesto a tale fine. Ne deriva che tali caratteri sussistono anche con riferimento alle strutture “cellulari” proprie delle associazioni di matrice islamica, caratterizzate da estrema flessibilità interna, in grado di rimodularsi secondo le pratiche esigenze che, di volta in volta, si presentano, in condizioni di operare anche contemporaneamente in più Stati, ovvero anche in tempi diversi e con contatti fisici, telefonici o comunque a distanza tra gli adepti anche connotati da marcata sporadicità, considerato che i soggetti possono essere arruolati anche di volta in volta, con una sorta di adesione progressiva ed entrano, comunque, a far parte di una struttura associativa saldamente costituita. Ne consegue che, in tal caso, l’organizzazione terroristica transnazionale assume le connotazioni, più che di una struttura statica, di una ‘rete in grado di mettere in relazione soggetti assimilati da un comune progetto politico-militare, che funge da catalizzatore dell’affectio societatis e costituisce lo scopo sociale del sodalizio. (In applicazione di questo principio la S.C. ha ritenuto immune da censure la decisione del giudice di merito che, in riforma della sentenza di primo grado, ha ritenuto integrato il delitto di cui all’articolo 270 bis cod. pen., essendo emersi i collegamenti degli imputati con una associazione di natura terroristica, che aveva posto in essere azioni di chiaro stampo terroristico nel Kurdistan, ed il dolo specifico della finalità terroristica dal materiale documentale sequestrato agli imputati e dal contenuto delle intercettazioni telefoniche). • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 25 luglio 2008 n. 31389. Senza l’indirizzo Ip niente diffamazione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 6 febbraio 2018 Corte di cassazione -Sentenza n. 5352. Senza l’accertamento dell’indirizzo Ip cui riferire il messaggio che offende la reputazione non può scattare la condanna per diffamazione. Lo sostiene la Corte di cassazione con la sentenza n. 5352 depositata ieri. La Corte ha così accolto il ricorso presentato dalla difesa di una donna, condannata per il reato di diffamazione, attraverso un messaggio diffuso attraverso Facebook, ai danni del sindaco di un paese del Sud. Tra le tesi alla base dell’impugnazione veniva soprattutto valorizzata l’assenza di una puntuale verifica dell’autorità giudiziaria dell’indirizzo Ip di provenienza, sul codice numerico assegnato cioè in via esclusiva a ogni dispositivo elettronico al momento della connessione a una determinata postazione del servizio telefonico, permettendo così di individuare la linea. Per la Corte la posizione ha un suo fondamento. Per la condanna non è sufficiente attribuire rilievo alla provenienza del post da un profilo Facebook intestato alla donna, alla carica di sindacalista rivestita dalla stesa con i possibili elementi di conflitto nei confronti del sindaco. Il mancato accertamento compromette l’impianto accusatorio perché non consente di procedere con il massimo grado di certezza possibile all’attribuzione della responsabilità; sarebbe infatti anche possibile, adombra la Corte, un utilizzo abusivo del nickname dell’accusata. Cremona: tragedia in carcere, giovane di 28 anni muore suicida Cremona Oggi, 6 febbraio 2018 Tragedia nella serata di lunedì nel carcere di Cremona, dove un giovane detenuto si è tolto la vita. Il corpo privo di sensi del giovane, un italiano di 28 anni, è stato trovato intorno alle 20.18 nella propria cella. A trovarlo sono stati gli uomini della Polizia Penitenziaria, attirati dalle grida del compagno di cella. Gli agenti hanno tentato in ogni modo di rianimare il giovane, ma senza successo. Sono stati allertati anche i soccorritori del 118, che non hanno potuto fare altro che constatarne il decesso. Secondo una prima ricostruzione da parte delle forze dell’ordine, il giovane avrebbe utilizzato il gas, probabilmente un fornellino, per togliersi la vita, oltre a un mix di farmaci. Trani (Bat): il carcere oltre i pregiudizi, seminario per giornalisti e operatori sociali traniviva.it, 6 febbraio 2018 Ospiti il cappellano don Raffaele Sarno e il criminologo Piero Rossi. Il mondo del carcere è un luogo a se stante. Il carcere è un luogo dove vengono reclusi individui resi privi di libertà personale in quanto riconosciuti colpevoli di reati per i quali sia prevista una pena detentiva. Il luogo è talvolta spazio di emarginazione e, alle volte, dell’isolamento. Chi perde la libertà perde anche un po’ la sua dignità di persona. Stare vicino a chi ha ricevuto una condanna vuol dire accompagnare persone che attraversano periodi e situazioni difficili della loro vita. L’Ufficio del Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale si prefigge di contribuire a garantire, in conformità ai principi fondamentali della Costituzione e nell’ambito delle competenze regionali, i diritti delle persone presenti negli istituti penitenziari, negli istituti penali per minori, nei centri di prima accoglienza e nei centri di assistenza temporanea per stranieri, nelle strutture sanitarie in quanto sottoposti al trattamento sanitario obbligatorio. All’interno di un percorso articolato di aggiornamento per giornalisti con crediti formativi, aperto anche agli operatori sociali, l’ufficio cultura e comunicazioni sociali dell’arcidiocesi di Trani-Barletta-Bisceglie ha organizzato il 6 febbraio, alle ore 17, presso la biblioteca dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Trani, il seminario su:” L’informazione, la paura e il pregiudizio. La carta di Milano”. Interverranno: Don Raffaele Sarno, direttore Caritas diocesana e cappellano carcerario, avv. Piero Rossi, criminologo e garante dei detenuti regione puglia, diacono Riccardo Losappio, giornalista e direttore ufficio diocesano cultura e comunicazioni sociali. La Carta di Milano è uno strumento di autoregolamentazione e il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti fa propria la necessità di sostenere, anche con l’informazione, la lotta ai pregiudizi e all’esclusione sociale delle persone condannate a pene intra o extra murarie. È un codice etico/deontologico per giornalisti e operatori dell’informazione che trattano notizie concernenti cittadini privati della libertà o ex-detenuti tornati in libertà. Il detenuto non si identifica con il suo reato. L’assenza di ascolto e di risposte può portare a gesti estremi. La depressione e la scelta di strumenti di lotta quali lo sciopero della fame, il rifiuto della terapia o i gesti di autolesionismo, sono frequenti. Essi sono il segno del profondo malessere provato fra le mura della prigione, rappresentano la richiesta di essere ascoltati e rispettati, dati dignità fornendo nuove opportunità di inserimento socio lavorativo. “In questo modo - ha dichiarato Riccardo Losappio - direttore dell’Ufficio diocesano cultura e comunicazioni sociali - si educa all’educazione alla pace, alla mondialità, al dialogo, alla legalità e alla corresponsabilità attraverso la valorizzazione del volontariato e della solidarietà sociale in cui il carcere può diventare una palestra sociale “. L’evento è stato accreditato dall’Ordine dei giornalisti come evento deontologico con cinque crediti. Il seminario è aperto a tutti gli operatori sociali. Con il patrocinio dell’Ufficio del Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Avezzano (Aq): i detenuti al teatro di Civitella con “La Fortuna con l’effe maiuscola” marsicalive.it, 6 febbraio 2018 Il gruppo teatrale della Casa Circondariale a Custodia Attenuata di Avezzano, denominato “Teatro instabile ma mai traballante”, dopo i successi ottenuti con lo spettacolo del 22 dicembre 2017 al teatro dei Marsi di Avezzano e il 22 Gennaio 2018 all’interno del carcere romano di “Regina Coeli” alla presenza dei detenuti e di molte autorità romane, replica la commedia “ ùLa Fortuna con l’effe maiuscola”, tre atti comici ripresi dalle opere di Eduardo De Filippo e Armando Curcio al teatro comunale di Civitella Roveto il 10 Febbraio 2018 alle ore 21. Il gruppo teatrale è composto da operatori penitenziari, da detenuti, da disabili dell’associazione Unitalsi di Avezzano, e da attori della Compagnia Teatrale “Je Concentramente”- diretto egregiamente e con passione dal regista Raffaele Donatelli. L’iniziativa segue una tradizione esperienziale teatrale che si snoda ormai da alcuni anni con coinvolgimento trattamentale dei detenuti nell’accoglimento di una visione responsabile e solidale della partecipazione sociale. L’esperienza teatrale è unica e coinvolgente soprattutto quando rivolta alla solidarietà. Con tale attività, nel 70° anno della ricorrenza dell’adozione della Costituzione, in cui la solidarietà viene indicata, all’articolo 2, come cardine del nostro sistema giuridico, si ritiene di poter contribuire come scambio solidale di conoscenza e di valori tra il dentro e il fuori. In scena oltre ai detenuti, Raffaele Donatelli, Sergio Berardi, Massimo Petrini, Gisella Venditti, Mario D’Andrea, Ivan D’Alessandro e gli educatori Michele Sidoti, Brunella Faonio, Sabrina Paris. Augusta (Sr): teatro e allegria al carcere nello “Speciale Tg1” di Rai Uno augustanews.it, 6 febbraio 2018 Nella puntata andata in onda domenica sera c’è stato spazio anche per i detenuti della casa di reclusione impegnati, tra l’altro, in progetti di teatro con studenti e disabili. Provare allegria in un carcere. Si può alla casa di reclusione di Augusta dove, anche grazie alle varie attività trattamentali che vengono promosse e portare avanti dagli operatori e dal direttore Antonio Gelardi, se pur tra quattro mura i detenuti possono trascorrere momenti più spensierati. Anche di questo si è parlato nella puntata dello “Speciale tg1” andato in onda ieri sera, dopo le 23, 30, su Rai 1, dedicato all’allegria attraverso le testimonianze di volti famosi e non del mondo dello spettacolo tra cui i fratelli Rosario e Beppe Fiorello che proprio da Augusta hanno vissuto prima di raggiungere il successo nel mondo dello spettacolo e del cinema. “Un viaggio inconsueto nella dimensione dell’allegria, nei vari modi con cui si manifesta l’allegria, uno degli ingredienti più importanti dell’esistenza individuale e collettiva di ciascun membro dell’umanità” ha detto il giornalista Paolo Di Giannantonio che con le telecamere della troupe è entrato dentro la casa di reclusione durante le prove di teatro dei detenuti e dei diversamente abili di “Progetto Icaro” e Asd “Nuova Augusta” che hanno dato vita ad uno spettacolo, nei mesi scorsi, nell’ambito del progetto “Smile and fly” curato da Michela Italia. Un modo anche per abbattere barriere mentali. Sullo sfondo “A città e Pulecenella” e le note scanzonate di Renato Carosone, interpretate dalla “Swing Brucoli’s brother band”, la corale diretta da Maria Grazia Morello che da anni si esibisce durante i tradizionali concerti aperti anche al pubblico esterno. “Questi momenti ci aiutano tantissimo”, ha commentato nel servizio un detenuto ad Augusta, altri hanno sottolineato come “anche nello stato di detenzione ci possono essere sprazzi di felicità. Tutto dipende da come uno vive il carcere, noi ci inventiamo l’allegria e cerchiamo di smorzare i toni”. Catanzaro: reinserimento e socializzazione, in campo la squadra di calcio del carcere di Giuseppe Foti strettoweb.com, 6 febbraio 2018 Calcio e sociale grazie alla partecipazione di una squadra del carcere di Catanzaro al campionato Amatori. Reinserimento, inclusione, socializzazione sono solo alcuni degli obiettivi che si prefigge la reclusione. Lo sport può aiutare e la partecipazione di una squadra del carcere di Catanzaro al campionato Amatori di calcio organizzato dal Comitato Regionale Calabria della Figc/Lega Nazionale Dilettanti può diventarne un mezzo più che idoneo. “È una grande emozione ogni volta - dice il capitano - ci lasciamo alle spalle le nostre sofferenze per 90minuti ed invece di parlare di avvocati e cause corriamo dietro un pallone e parliamo di calcio”. E pazienza se il campo in terra battuta, con la speranza dei detenuti che possa diventare presto in erba naturale o artificiale poco importa, sia incastonato tra le altissime mura delle celle dalle quali chi non gioca fa il tifo. L’idea nasce dalla collaborazione tra il CR Calabria della Figc/Lnd e la direzione del carcere che ha subito sposato l’idea. “È un’esperienza che crea un ponte fondamentale tra interno ed esterno - dice la direttrice Angela Paravati valorizzandone le finalità sociali più che sportive - non è semplice comunicare le iniziative che vengono svolte all’interno del carcere, ma la partnership con la FIGC Regionale ci consente di lanciare un forte messaggio educativo e far capire che qui c’è gente che vuole ancora mettersi in gioco ed il calcio è un veicolo formativo importante”. Per il Presidente della Figc/Lnd Regionale Saverio Mirarchi, che spera di istituzionalizzare la partecipazione della squadra al campionato Amatori, “gli scopi sociali della Lega Nazionale Dilettanti e le finalità di reinserimento si sposano alla perfezione a dimostrazione che le nostre non sono solo attività legate al risultato della domenica ed alle classifiche del lunedì. Il progetto, tra l’altro praticato solo da un paio di altre realtà in Italia tra cui l’Opera di Milano, sta creando tanto entusiasmo tra i detenuti ma anche tra i partecipanti delle altre squadre dell’intera provincia che prestano volentieri il loro aiuto per il raggiungimento degli obiettivi nonostante qualche piccola difficoltà organizzativa tra cui quella di dover giocare sempre all’interno del carcere. La Sider di Lamezia, ad esempio, capolista del girone ha inteso regalare una intera muta di divise da gioco”. La presenza degli arbitri ufficiali dediti al rispetto delle regole e rappresentati dal Presidente della sezione AIA di Catanzaro, Franco Falvo, è una ulteriore dimostrazione dell’assoluto valore formativo del progetto. “È un’idea bellissima e sono onorato di farne parte - sono le parole del mister Gino Caglioti allenatore Federale esterno al carcere - È un bene che questi ragazzi possano confrontarsi con persone libere ed io ho inteso dedicarmi a loro come ad una squadra vera nella quale più che il risultato conta il sano comportamento nel rispetto dei veri valori dello sport”. Palermo: concerto rock al carcere Pagliarelli, con i fratelli Cirrone e Daniel Bellina siciliainformazioni.com, 6 febbraio 2018 Concerto rock al carcere Pagliarelli di Palermo. La band formata dai tre fratelli Alessandro (chitarra e voce), Bruno (basso e voce) e Mirko Cirrone (chitarra e voce) e da Daniel Bellina (batteria), si esibisce al Teatro della casa circondariale a partire dalle 10. Il concerto è rivolto ai circa 400 detenuti (donne e uomini) che assisteranno a una vera e propria esperienza musicale rock che li porterà a rivivere i classici che hanno segnato la storia musicale inglese e americana dei nostri tempi. Proprio a quella gloriosa tradizione musicale, i fratelli Cirrone vogliono riallacciarsi portando la loro musica all’interno del carcere. Nel 1968 Johnny Cash, celebre cantante folk americano, fu il primo a cui venne l’idea di esibirsi in un concerto gratuito dentro una prigione americana andando contro la sua stessa casa discografica che, in principio si oppose all’idea, poi pubblicò le registrazioni e At Folsom Prison finì per vendere 3 milioni di copie solo negli Stati Uniti. La musica con il suo grande potere attrattivo e aggregante è il legame che unirà le due diverse realtà: i musicisti ed i detenuti. “Il cerchio si unisce - spiega una nota del Comune di Palermo -. La città è con i detenuti. E la musica, intesa come forma artistica universale, è uno dei tanti veicoli attraverso i quali poter offrire solidarietà, svago e cultura alle minoranze più disagiate”. I fratelli Alessandro, Bruno e Mirko Cirrone sono reduci da ben tre tour in Inghilterra, circa 30 concerti nelle principali città inglesi dove si sono esibiti nell’ambito anche di festival internazionali. L’Italia degli immigrati: gli irregolari sono 500.000 di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 6 febbraio 2018 Sono quasi 6 milioni gli stranieri che vivono nel nostro Paese, tra loro anche 500mila senza permesso. È Milano la città che ospita il maggior numero di richiedenti asilo, la Lombardia guida la classifica delle Regioni con 23.880 stranieri assistiti. Segue il Piemonte con 13.232 persone. In tutto - secondo i dati ufficiali aggiornati a ieri - sono 153.700 gli uomini e le donne in attesa di “verdetto”. Si tratta di una minima parte rispetto ai regolari che vivono ormai da anni nel nostro Paese e hanno superato quota 5 milioni. Persone che lavorano, studiano, pagano le tasse. La comunità più numerosa è quella dei rumeni con circa 1 milione e 200mila persone, seguita da circa 450mila albanesi e 420mila marocchini. La situazione dei migranti nel nostro Paese viene ben fotografata dalle associazioni e dal Viminale e mostra la doppia faccia di un fenomeno che dopo la tentata strage di Macerata è diventato prioritario nella campagna elettorale. Oltre 500mila (pari a circa l’8 per cento) sono invece gli irregolari. Molti di loro non sono riusciti a ottenere lo status di rifugiato, ma sfuggono all’espulsione perché gli Stati di origine non accettano il rimpatrio. Altri decidono di non andare via alla scadenza del permesso di soggiorno. Per avere un’idea c’è un numero relativo al 2016 quando ne sono stati concessi quasi 4 milioni di cui oltre un milione e 600mila a durata limitata. Ma nessuno è in grado di sapere quanti stranieri siano effettivamente usciti dall’Italia. È il rapporto annuale della Fondazione Ismu a puntare l’attenzione sulle possibilità legate all’occupazione. E dimostra una crescita del numero dei lavoratori, anche se rimane alto quello delle donne “inattive”. Il 2016 fa registrare ben 2 milioni e 400mila occupati, vale a dire il 10 per cento del totale: l’86,6 per cento degli stranieri sono dipendenti, oltre il 70 per cento svolgono mansioni di operaio, più del doppio degli italiani. Il tasso di disoccupazione nel 2016 è in diminuzione (15,4 per cento contro il 16,2 del 2015), ma rimane comunque molto alto rispetto ai livelli pre-crisi (nel 2008 era l’8,5%). Ben “1 milione e 181mila sono gli stranieri inattivi in età lavorativa (ovvero tra i 15 e i 64 anni) e tra loro ben il 72% per cento sono donne”. Un dato che gli analisti ritengono preoccupante soprattutto se si tiene conto che “tra le 15 e le 24enni la componente inattiva (ovvero volontariamente esclusa dal mercato del lavoro, non perché disoccupata) è per le immigrate oltre il doppio di quella registrata tra le coetanee italiane”. Il numero dei migranti approdati via mare continua a diminuire, ma questo non rassicura perché la situazione in Libia non è affatto pacificata. Finora sono giunti sulle nostre coste 4.723 stranieri, poco meno della metà di quelli arrivati nello stesso periodo dello scorso anno. Gli eritrei sono 1.184, i tunisini 754. La maggior parte di chi viene accolto negli hotspot richiede asilo, ma non più del 40 per cento riesce a ottenere lo status. Gli altri sono destinati al rimpatrio, ma la politica delle espulsioni continua a mostrare gravi carenze perché soltanto pochissimi Stati accettano i rimpatri. Rimane pressoché stabile il numero degli stranieri che delinquono. Secondo gli ultimi dati del Viminale sull’andamento della criminalità, aggiornati ad agosto 2017, “su 839.496 segnalazioni su denunce e arresti, quelle che riguardano stranieri sono 241.723, vale a dire il 28,8 per cento”. Il numero dei reati registra un generale calo, in realtà ad incidere è il rapporto rispetto alla popolazione residente perché “nel caso degli stranieri è pari al 4,78 per cento contro l’1,07 per cento degli italiani”. Ci sono particolari reati in cui si registra la responsabilità degli stranieri: il 55 per cento dei furti “con destrezza”, il 51,7 per cento dello sfruttamento della prostituzione e della pornografia minorile, il 45,7 per cento delle estorsioni, il 45 per cento dei furti in abitazione e il 41,3 per cento di ricettazioni. Dei 202mila stranieri che sono diventati italiani nel 2016 “4 su 10 sono minori che - si legge nel rapporto Ismu - hanno acquisito la cittadinanza per trasmissione dai genitori, oppure quando sono divenuti maggiorenni”. Gravissimo rimane il fenomeno dei minori non accompagnati: nel 2017 su 18.491 “under 18” arrivati, ben 14.579 erano soli. È invece positivo il bilancio relativo agli studenti. Secondo i dati Caritas-Migrantes “nell’anno scolastico 2015/2016, gli alunni stranieri in Italia erano 814.851, pari al 9,2 per cento del totale della popolazione scolastica. La scuola primaria accoglie da sempre il maggior numero di iscritti con cittadinanza non italiana (297.285), seguita dalla secondaria di secondo grado (187.525), dalle scuole dell’infanzia (166.428) e dalle scuole secondarie di primo grado (163.613)”. I più numerosi sono i rumeni, seguiti da albanesi e marocchini. Residenti e irregolari: ecco la mappa dei migranti in Italia. Un detenuto su tre è straniero di Andrea Carli e Andrea Gagliardi Il Sole 24 Ore, 6 febbraio 2018 Oltre 5 milioni di migranti regolari e circa 500mila irregolari sprovvisti di valido permesso di soggiorno. Sono i numeri che emergono dai più recenti rapporti sull’immigrazione. L’ultimo Dossier del centro studi Idos stima in 5 milioni 359mila a fine 2016 gli immigrati regolari in Italia, l’8,8% della popolazione totale. Cifre simili sono fornite dalla Fondazione Ismu, per la quale al 1° gennaio 2017 la popolazione straniera in Italia ha raggiunto quota 5 milioni 958mila presenze (regolari e non), con un aumento di 87mila unità (+1,5%) rispetto all’anno precedente. Un incremento dovuto soprattutto alla componente irregolare (+56mila). Recentemente il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi ha parlato di 600mila migranti che “non hanno diritto di restare”. Ma l’ultima stima dell’Ismu, relativ al 1° gennaio 2017, perla di 491mila gli stranieri (contro i 435mila alla stessa data dell’anno precedente) non in possesso di un valido titolo di soggiorno. L’incidenza degli irregolari sul totale della popolazione straniera presente è quindi dell’8,2%. Dieci anni fa, nel 2008, in base ai risultati del primo “censimento” degli extracomunitari sans papier messo a punto sulla base delle 724mila domande di assunzione presentate per il decreto flussi 2007, il Sole 24 Ore aveva stimato in almeno 650mila gli “irregolari” che lavorano nelle città italiane, ma senza permesso di soggiorno. In media, 11 ogni mille abitanti. In base ai dati Istat il 57,8% del totale degli stranieri regolari risiede al Nord, e il 33,8 per cento nel solo Nord-ovest, che si conferma ancora come l’area con il maggior numero di residenti stranieri. Il 24% è nel nord-est, il 25,7% nel Centro, l’11,8% al Sud e il 4,7% nelle Isole. Se si fa riferimento all’incidenza sul totale della popolazione residente, la situazione è pressoché invariata rispetto al 2016: al Nord circa 11 individui su 100 sono cittadini stranieri, quasi il triplo rispetto al Mezzogiorno, in cui la proporzione scende a meno di 4 stranieri ogni 100 individui. Tra le regioni con la più alta incidenza di residenti stranieri l’Emilia Romagna (11,9%), la Lombardia (11,4%), il Lazio (11,2%). A seguire Umbria (10.8%) e Toscana (10,7%). Per quanto riguarda le provenienze, anche per il 2016, si conferma il primato dei rumeni, che con quasi un milione e 169mila residenti, rappresentano il 23,2% del totale, cui seguono circa 450mila albanesi (8,9%) e 420mila marocchini (8,3%). La fondazione Ismu inoltre sottolinea una crescita delle acquisizioni di cittadinanza: nel corso del 2016 si contano ben 202mila nuovi italiani (in 4 casi su 10 si tratta di minori). Per quanto riguarda gli arrivi, i dati del Viminale segnano una netta contrazione: dai 181.436 sbarchi nel 2016 si è passati ai 119.310 del 2017 (-34,2%). Da sottolineare che il calo dei flussi è stato molto più marcato nel secondo semestre del 2017 (-51% a luglio; -81,6% ad agosto; -63% a settembre; -78% a ottobre; -58,5% a novembre; -73% a dicembre). Quanto alle domande di asilo sono state 130mila nel 2017, in crescita rispetto alle 123.600 del 2016 e alle 84mila del 2015. Da sottolineare che al primo posto tra le domande di asilo presentate ci sono i nigeriani con oltre 25mila istanze. Quanto alle domande esaminate lo scorso anno, sono state 77.562. Quelle respinte sono state circa il 60% (46.176). La protezione internazionale è stata accordata in oltre 12mila casi: a 6578 persone è stato riconosciuto lo status di rifugiato e a 5.680 la protezione sussidiaria. Mentre in circa 19mila casi è stato rilasciato il permesso di soggiorno per protezione umanitaria. Sul fronte dei rimpatri dei migranti irregolari, il Viminale ha reso noto che nel 2017 sono stati rimandati nei Paesi d’origine 6.340 stranieri irregolari dall’Italia, erano 5.300 lo scorso anno, con una variazione percentuale positiva del 19,6%. A parte i costi dei voli di rimpatrio, con agenti e misure di sicurezza annesse (si stimano circa 4mila euro a espulso) per realizzare i rimpatri bisogna stipulare prima gli accordi di riammissione con i quali gli Stati di provenienza dei migranti si impegnano a riaccogliere i propri cittadini. L’Italia ne ha stipulati con Egitto, Nigeria, Tunisia e Marocco. Quella straniera del resto è una componente importante del mondo delle 190 carceri italiane. I detenuti presenti a fine 2017, in base ai dati del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) erano 57.608, di cui 19.745 ossia il 34,3% del totale mentre tra i residenti sono circa il 9%. Tra le nazionalità al primo posto marocchini (3.703), seguiti dagli albanesi (2.598) e dai rumeni (2.588). Poi i tunisini (2.112) e i nigeriani (1.125). Per la cronaca è nigeriano lo spacciatore Innocent Oseghale considerato dagli inquirenti l’assassino di Pamela Mastropietro, la 18enne romana allontanatasi da una comunità di recupero di Corridonia nelle Marche, il cui cadavere smembrato è stato trovato in due trolley nelle campagne di Pollenza. Sul fronte dell’accoglienza, in base ai dati del Viminale, a fine 2017 i migranti presenti nelle varie strutture di accoglienza erano 183.681 (suddivisi centri di accoglienza straordinaria - Cas; sistema di protezione Sprar gestito dagli enti locali e i centri di prima accoglienza). Le Regioni più coinvolte nell’accoglienza sono: Lombardia (26.519 migranti; 14%), Campania (16.677; 9%) e Lazio (16.447; 9%), Sicilia (13.87; 8%). Il sistema di accoglienza comprendeva a fine 2016 il 40,5% dei Comuni italiani (3.231), un terzo dei quali è situato in Lombardia (20,3%) e Piemonte (10,8%). L’incidenza più elevata tra Comuni coinvolti nell’accoglienza e Comuni esistenti nella regione riguarda tuttavia la Toscana (sul totale dei comuni toscani ben l’83% accoglie richiedenti asilo) e l’Emilia Romagna (78,1%) mentre i valori più bassi sono relativi a Sardegna (17,8%), Abruzzo (19,3%) e Valle d’Aosta (20,3%). Sul fronte lavorativo infine, si segnala che gli stranieri occupati nel 2016 raggiungono la cifra di 2 milioni e 401mila, contro i 2.359.065 del 2015 (+42mila unità) e rappresentano il 10,5% dell’occupazione complessiva. Con un tasso di occupazione salito al 58,5%, 2,5 punti percentuali in più rispetto agli italiani. Il lavoro immigrato resta in netta prevalenza di tipo dipendente (86,6% degli occupati rispetto al 74,8% degli italiani) e operaio (76,6% rispetto al 30,7% degli italiani). L’incidenza del lavoro autonomo tra gli stranieri è del 13,4%. E le imprese gestite da stranieri, in crescita, sono oltre 571mila (il 9,4% del totale delle imprese). La disoccupazione è leggermente diminuita sia in valori assoluti che (437mila unità; - 19mila) che in valori percentuali (tasso di disoccupazione al 15,5%). Da evidenziare, infine che quest’anno si sono riaperte le porte per l’ingresso in Italia di lavoratori extracomunitari. È di 30.850 la quota massima di lavoratori subordinati, stagionali e non stagionali, nonché di lavoratori autonomi che potranno entrare nel nostro Paese. Lo stabilisce il decreto flussi 2018, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 16 gennaio. Va ricordato che il decreto flussi è attualmente l’unico strumento per entrare legalmente in Italia, a parte i ricongiungimenti familiari e le domande di asilo (compresa la strada dei corridoi umanitari). Le istanze possono essere presentate, fino al 31 dicembre 2018, utilizzando la procedura informatica allestita dal Ministero dell’Interno. Migranti. La “bomba sociale” lanciata sul voto di Andrea Colombo Il Manifesto, 6 febbraio 2018 Tra Salvini e Berlusconi gara a chi è più feroce contro “l’invasione”. Renzi accusa l’ex Cav: “Ha firmato Dublino e i migranti arrivano per la guerra in Libia”. In un clima incarognito sembrano cadere da un altro pianeta i moniti del Colle, della Ue e della Cei. Lo stato delle cose, nell’Italia che si accinge a votare, lo restituisce il dibattito surreale e angosciante che si è snodato ieri per ore intorno al raid nazista di Macerata: una gara tutt’altro che nobile consistente nell’addossare ai rivali la responsabilità di quella che un Berlusconi peggiore di Salvini definisce piatto “la bomba sociale dell’immigrazione”. Sullo sfondo i moniti - che in questo clima incarognito sembrano piovere da un pianeta alieno - di Bruxelles, del capo dello Stato, dei vescovi. Quello di Macerata è “un attacco volontario ai nostri valori fondamentali, un tentativo di distruggere il tessuto che ci lega come europei”, declama il vicepresidente della commissione Ue Timmermans. Impeccabile. Lo sarebbe anche di più se aggiungesse un passaggio su quel trattato di Dublino che l’Europa blinda e che contribuisce a lacerare in Italia “il tessuto”. Mattarella è più obliquo quando segnala che “l’Italia ha bisogno di sentirsi comunità, senza diffidenza. La mancanza di senso della comunità porta a diffidenza, intolleranza e a volte violenza”. Nessuna obliquità, invece nelle parole esplicite del presidente della Cei Bassetti: “Bisogna favorire l’inclusione: no agli imprenditori della paura”. È l’unico, insieme al leader di LeU Grasso col suo “chi semina odio raccoglie violenza”, che si sottrae al coro che litiga partendo però da una posizione identica: l’invasione c’è e bisogna fronteggiarla. Ci si divida dunque, su chi sa farlo meglio, con la mano più pesante. Berlusconi ci tiene a quel primato. Si smarca da Salvini, ma solo quando l’alleato accusa la sinistra di avere le mani sporche di sangue. Il cavaliere frena, “a proposito della sinistra a volte usa toni eccessivi”. Sulla “bomba sociale” invece l’intesa è perfetta, e anzi il moderato di Arcore supera il ringhiante. Espulsioni a raffica: 600mila clandestini. Poliziotto di quartiere. Invito ai cittadini a denunciare gli irregolari, forse la più odiosa tra le idee-forza del capo azzurro. Salvini si frega le mani. Rivendica la paternità della proposta di espulsioni in massa, però “senza gelosia”. Poi lancia la parola d’ordine comune: “Più espulsioni che sbarchi”. E Luca Traina, il fuciliere col Mein Kampf in camera? Per Berlusconi è solo “un folle”. La sterzata di Berlusconi è tanto repentina è brusca da richiedere qualche spiegazione. E come al solito bisogna risalire all’eterno oracolo: i sondaggi. Quelli che ha commissionato Arcore dicono che il centrodestra resta distante dalla maggioranza parlamentare e che il tema su cui far leva è proprio la difesa della patria dall’”invasione”. Assicurano (non solo le rilevazioni datate ma anche quelle commissionate a stretto giro proprio a Macerata) che gli italiani, nonostante Minniti, non credono che il governo uscente sia stato sufficientemente duro e pensano che ci voglia un uomo forte. Prima che guardino all’amico-nemico Salvini, o peggio a Luigi Di Maio, Berlusconi ci tiene a occupare quel lucroso posto. Salvini peraltro non s’ingrugna. Sa perfettamente che la virata a destra dell’alleato lo vincola ben più di quanto non farebbe quella “manifestazione anti-inciucio” indetta da Giorgia Meloni alla quale il leader di Arcore, che con un piede resta stabilmente nella eventuale larga intesa, si è rifiutato di partecipare. Si vede che persino per la sua proverbiale sfacciataggine la presa in giro ha un limite. La competizione a destra era nell’ordine della cose. Un po’ meno lo è il j’accuse di Renzi che sulla “bomba sociale” e sulle deportazioni in massa non avverte necessità di segnare differenze, però ci tiene ad additare proprio Silvio il Feroce come vero responsabile del disastro: “Con Dublino ogni Paese gestisce l’immigrazione da solo, ma quei trattati li ha firmati Berlusconi. Se in Italia arrivano i migranti è per colpa della guerra in Libia e il premier allora era Berlusconi”. È la stessa argomentazione che squaderna Di Maio, che però aggiunge alla lista nera anche il Pd. Il Cavaliere è addirittura “un traditore della patria”, ma il centrosinistra non è da meno. “Berlusconi - strilla il pentastellato - è responsabile della bomba sociale. L’immigrazione è fuori controllo per colpa sua e del centrosinistra. Insieme hanno firmato trattati vergognosi e hanno bombardato la Libia”. Trattandosi dell’M5S non può mancare l’allusione a turpi traffici. La porta all’esercito invasore è stata spalancata per lucro: “L’immigrazione è un business e loro ci hanno fatto speculazione”. È un tornante chiave della campagna elettorale. Sinora quasi tutti, per motivi diversi, avevano cercato di esorcizzare il tema che in tutta Europa è stato l’elemento chiave nelle prove elettorali. Dopo Macerata esorcizzare il capitolo immigrazione non è più possibile. E dai fondali della politica emerge tutto insieme il peggio. Nato e nucleare non sono temi elettorali di Manlio Dinucci Il Manifesto, 6 febbraio 2018 Il Governo, che nel periodo elettorale resta in carica per il “disbrigo degli affari correnti”, sta per assumere altri vincolanti impegni nella Nato per conto dell’Italia. Saranno ufficializzati nel Consiglio Nord Atlantico che si svolge il 14-15 febbraio a Bruxelles a livello di ministri della difesa (per l’Italia Roberta Pinotti). L’agenda non è stata ancora comunicata. È però già scritta nella “National Defense Strategy 2018”, che il segretario Usa alla Difesa Jim Mattis ha rilasciato il 19 gennaio. A differenza dei precedenti, il rapporto del Pentagono è quest’anno “top secret”. Ne è stato pubblicato solo un riassunto, sufficiente comunque a farci capire che cosa si prepara in Europa. Accusando la Russia di “violare i confini di nazioni limitrofe ed esercitare potere di veto sulle decisioni dei suoi vicini”, il rapporto dichiara: “Il modo più sicuro di prevenire la guerra è essere preparati a vincerne una”. Chiede quindi agli alleati europei di “mantenere l’impegno ad aumentare la spesa per potenziare la Nato”. L’Italia si è già impegnata nella Nato a portare la propria spesa militare dagli attuali circa 70 milioni di euro al giorno a circa 100 milioni di euro al giorno. Praticamente nessuno, però, ne parla nel dibattito elettorale. Come non si parla del contingente italiano schierato in Lettonia a ridosso del territorio russo, né dei caccia italiani Eurofighter Typhoon schierati il 10 gennaio in Estonia, a una decina di minuti di volo da San Pietroburgo, con la motivazione di proteggere i paesi baltici dalla “aggressione russa”. Silenzio sul fatto che l’Italia ha assunto il 10 gennaio il comando della componente terrestre della “Nato Response Force”, proiettabile in qualsiasi parte del mondo “alle dipendenze del Comandante supremo delle forze alleate in Europa”, sempre nominato dal presidente degli Stati uniti. Ignorata la notizia che la Marina italiana ha ricevuto il 26 gennaio il primo caccia F-35B a decollo corto e atterraggio verticale, il cui personale verrà addestrato nella base dei Marines di Beaufort in Carolina del Sud. Questo e altro viene taciuto nel dibattito elettorale. Esso si concentra sulle implicazioni economiche dell’appartenenza dell’Italia all’Unione europea ma ignora quelle politiche e militari, e di conseguenza anche economiche, dell’appartenenza dell’Italia alla Nato sotto comando Usa, di cui fanno parte (dopo la Brexit) 21 dei 27 stati della Ue. In tale quadro non viene sollevata la questione delle nuove bombe nucleari B61-12, che tra circa due anni il Pentagono comincerà a schierare in Italia al posto delle attuali B-61, spingendo il nostro paese in prima fila nel sempre più pericoloso confronto nucleare con la Russia. Per rompere la cappa di silenzio su tali questioni fondamentali dovremmo porre ai candidati e alle candidate alle elezioni politiche (come propone il Comitato No Guerra No Nato) due precise domande in incontri pubblici, social e trasmissioni radio-televisive: “Lei è favorevole o no all’uscita dell’Italia dalla Nato? Lei è favorevole o no alla immediata rimozione dall’Italia delle armi nucleari Usa? Risponda Sì o No, motivando eventualmente il perché della sua scelta”. Ai 243 parlamentari (tra cui spicca il candidato premier Luigi Di Maio), firmatari dell’impegno Ican a far aderire l’Italia al Trattato Onu sulla proibizione delle armi nucleari, dovremmo porre una terza domanda: “In base all’impegno sottoscritto, Lei si impegnerà, nella prossima legislatura, per la immediata rimozione dall’Italia delle bombe nucleari Usa B-61, che già violano il Trattato di non-proliferazione, e per la non-installazione delle B61-12 e di altre armi nucleari?”. Turchia. La guerra silenziosa del Sultano ai curdi abbandonati da tutti di Valerio Sofia Il Dubbio, 6 febbraio 2018 Non si ferma l’operazione militare al confine con la Siria. Le forze turche avanzano inesorabili nell’enclave curda di Afrin, nella Siria settentrionale. Blande proteste internazionali non fermano l’operazione “Ramo d’ulivo” con la quale i soldati di Ankara intendono sottrarre ai curdi il controllo delle aree di confine fra Siria e Turchia. Il governo siriano ha denunciato l’azione militare turca come un’occupazione, ma non sembra volere e poter andare oltre le proteste formali, tanto più che i curdi non sono alleati di Damasco. Le forze siriane sembrano decisamente più interessate a continuare insieme ai russi i loro attacchi alla provincia di Idlib, dove resiste una sacca di ribelli anti- Damasco proprio sull’asse che collega la capitale ad Aleppo. Anche Iran e Iraq hanno protestato con Ankara per i combattimenti ad Afrin, ma a loro volta non sembrano interessati a fornire un qualche tipo di supporto concreto. Così la massiccia operazione turca avviata il 20 gennaio scorso prosegue senza sosta. Il presidente Erdogan ha annunciato che i suoi militari sono ormai vicini al centro di Afrin. Secondo lo Stato maggiore turco ieri le Forze armate hanno ucciso altri militanti, portando così quasi a mille il numero di combattenti uccisi dall’inizio della battaglia. I turchi fino adesso hanno perso più di dieci uomini, cinque dei quali nella distruzione di un carro armato, cosa che ha fatto infuriare Erdogan. Il presidente ha detto che saranno fatti attenti accertamenti sul paese che ha fornito i mezzi per uccidere soldati turchi. Se- condo indiscrezioni provenienti da Ankara, il razzo anticarro in questione potrebbe essere di fabbricazione russa. Però proprio i curdi di Afrin hanno accusato Mosca di complicità nell’attacco turco, dato che soldati russi che erano presenti nella zona sono stati ritirati subito prima dell’inizio dell’offensiva turca. Intanto le Forze armate turche e gli alleati dell’Esercito siriano libero (Fsa, i ribelli anti- Assad alleati della Turchia in modo sempre più stretto e operativo) hanno conquistato il villaggio di Sourkeh, circa cinque chilometri dal confine turco- siriano a ovest di Afrin. Inoltre è stato conquistato il Monte Darmiq, da cui l’artiglieria può tenere sotto tiro le forze avversarie. I nemici sono le forze Ypg, le milizie del partito dell’Unione democratica (Pyd), formazione di curdi siriani parte dell’opposizione al governo di Damasco. Le autorità turche giudicano Pyd e Ypg, appoggiati dagli Usa, gruppi terroristici per i loro legami con il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), impegnato da anni in una lotta separatista contro la Turchia. Ma le Ypg sono state invece fedeli alleate delle forze occidentali nella guerra contro lo Stato islamico, e sono protette dagli Stati Uniti. Ma non abbastanza, in quanto anche l’opposizione di Washington alle azioni militari turche sembra piuttosto blanda. Anzi, Ankara ha avvisato gli americani che l’operazione ad Afrin, già estesa ad Azaz potrebbe raggiungere Manbij, arrivando a est dell’Eufrate, a meno che i curdi non si ritirino da quei siti. Il vice premier turco Bekir Bozdag ha specificato che “non vogliamo alcuno scontro con gli Stati Uniti a Manbj né ad est dell’Eufrate o in nessun’altro posto, ma gli Usa devono capire i punti sensibili per la Turchia. Se i soldati Usa indossano gli abiti dei terroristi e sono tra loro quando avviene un attacco contro il nostro esercito, allora non ci sarà possibilità di distinguere tra loro e i combattenti curdi”. Le truppe americane infatti non hanno una presenza dentro e intorno ad Afrin, ma sono presenti a Manbij e ad Est dell’Eufrate, dove hanno assistito le unità Ypg nella lotta contro l’Isis. Iran. Le manifestazioni continuano nel silenzio generale di Elisabetta Zamparutti* Il Dubbio, 6 febbraio 2018 Tra gli arrestati vi sono 29 donne che con un coraggio esemplare si sono tolte in pubblico quel velo che la teocrazia misogina ancora impone loro. Le manifestazioni in Iran, nonostante gli arresti di oltre 8.000 persone, la morte di 50 ed il ferimento di centinaia, continuano in diverse città: giovedì sera cittadini sono scesi in piazza in 8 città, la manifestazione più grande è stata quella a Bandar Abbas e anche a Teheran sono continuati gli slogan contro il regime. Alcuni detenuti sono stati liberati ma non esiste una cifra precisa su quanti siano mentre 10 sono quelli deceduti in carcere per le torture subite. Tra gli arrestati vi sono 29 donne che con un coraggio esemplare si sono tolte in pubblico quel velo che la teocrazia misogina ancora gli impone. Per la loro liberazione l’Iran chiede una cauzione di 90 mila dollari. Il mullah Khatami nella preghiera del venerdì a Teheran ha detto che bisogna giustiziare tutti quelli che manifestano perché commettono Moharebeh (guerra contro Dio) e che bisogna aumentare la costruzione di missili e il sostegno a Hezbollah. Perché nella teocrazia iraniana si può certo manifestare purché non si metta in discussione il principio della Guida Suprema. Lo stesso Khatami, il 9 gennaio in un discorso pubblico ha attribuito la responsabilità delle manifestazioni ai mujaheddin del popolo iraniano, precedentemente definita come organizzazione insignificante salvo poi considerarla la principale fomentatrice della rivolta. Ed il 3 gennaio Rouhani, secondo l’Agence France Press, in una telefonata a Macron ha chiesto un intervento contro questa organizzazione e la loro leader Maryam Rajavi che risiede a Parigi, richiesta declinata dal Presidente francese. Maryam Rajavi, per intenderci, lotta per un cambio di regime sulla base di un programma in dieci punti ispirato ai principi dello Stato di Diritto. I rapporti con l’Iran sono un punto dirimente della politica estera di un Paese che ne connota anche le caratteristiche. L’Italia ha steso tappeti rossi all’arrivo dei Mullah e incoraggia investimenti verso questo Paese corrotto e destabilizzatore dell’intera area Medio Orientale. E l’Unione Europea emette silenzio. Quello che serve invece è un’azione seria per la liberazione delle persone arrestate durante le manifestazioni, per la liberazione di quelle donne che, giustamente, si tolgono la hijab, per condannare le morti avvenute in carcere e scongiurare ulteriori condanne a morte. E serve a livello internazionale un’inchiesta sul massacro del 1988 in cui sono stati ammazzati oltre 30.000 oppositori politici, molti dei quali appartenenti all’organizzazione della Rajavi, con i responsabili di quel massacro che ancora ricoprono massimi incarichi istituzionali nell’attuale Governo del “moderato” Rhouani. *Nessuno Tocchi Caino Maldive. Stato di emergenza, arrestati l’ex presidente e i giudici della Corte suprema La Repubblica, 6 febbraio 2018 Il primo presidente democraticamente eletto del Paese, Mohammed Nasheed, cacciato da Yameen, ha chiesto l’intervento dell’India e degli Stati Uniti per mettere fine al caos. È caos in Paradiso. Il braccio di ferro fra il presidente della Repubblica e la Corte suprema ha portato allo Stato di emergenza alle Maldive: il presidente della Corte Suprema delle Maldive e un altro giudice di alto rango sono stati arrestati durante un raid della polizia all’alba. L’operazione fa parte del giro di vite voluto dal presidente Abdulla Yameen per chiudere il contenzioso con la la Corte che gli aveva ordinato di rilasciare i detenuti politici imprigionati qualche settimana fa, fra cui i suoi principali oppositori. Per tutta risposta il governo ha lanciato una serie di operazioni di polizia per mantenere il controllo della situazione e ha dichiarato lo Stato di emergenza per un periodo di quindici giorni. Si offusca così l’immagine di questa meta del turismo di lusso che da anni vive in uno stato di costante crisi politica. Poco prima dei giudici era stato arrestato anche il leader d’opposizione ed ex presidente Maumoon Abdul Gayoom, accusato di corruzione e tentato colpo di Stato. I due giudici arrestati sono Abdulla Saeed e Ali Hamid; le accuse contro di loro nono sono state specificate. Gayoom aveva guidato il Paese con il pugno di ferro per 30 anni, fino alle prime elezioni democratiche del 2008, ma recentemente si è trasferito nel campo dell’opposizione. “Non ho fatto nulla per essere fermato”, ha detto Gayoom in un messaggio video postato su Twitter ai suoi sostenitori poco prima del suo arresto. “Vi chiedo di rimanere fermi e determinati, e non abbandoneremo il lavoro di riforma che stiamo facendo”, ha aggiunto. Intanto il primo presidente democraticamente eletto del Paese, Mohammed Nasheed, cacciato da Yameen, ha chiesto l’intervento dell’India e degli Stati Uniti per mettere fine al caos. Con mille isole e 400mila abitanti che dipendono principalmente dal turismo, le Maldive sono una delle mete più gettonate dai visitatori benestanti di tutto il mondo. Ma ora il caos politico mette a rischio il loro arrivo.