Il valore del confronto tra “mondo libero” e “mondo ristretto” Il Mattino di Padova, 5 febbraio 2018 Il confronto tra “mondo libero e mondo ristretto” ha tanti aspetti diversi, fra i quali ci sembrano particolarmente significativi i messaggi e le lettere che arrivano alla redazione di Ristretti Orizzonti dopo gli incontri con gli studenti delle scuole o dell’Università. Sono spesso lettere che fanno capire quanto è importante aprire un dialogo continuo e profondo tra la società e chi ne ha violato le regole finendo in carcere. È la conoscenza che permette di “capire”, che è un verbo ben diverso dal “giustificare”. Nelle lettere che scrivono gli studenti ci sono curiosità, attenzione, desiderio di conoscere meglio una realtà complessa come quella delle pene, ma raramente si trovano banalizzazioni: e questo avviene grazie al fatto che le persone detenute, durante l’incontro con gli studenti, si mettono a disposizione dei loro interlocutori senza risparmiarsi. Continueremo a pubblicare alcune lettere, perché sono un esempio di quanto può essere ricco, e quanto ci permette di imparare, lo scambio tra società libera e mondo ristretto, se lo affrontiamo senza pregiudizi. Ho capito che chiunque può cambiare Per Bruno: Mi chiamo Beatrice, ho 17 anni e frequento l’istituto superiore “C. Marchesi”, la mia classe ha di recente visitato il carcere. Dei detenuti incontrati lei mi ha colpito più di tutti. La frase che mi ha lasciato senza parole è stata: “Probabilmente qualcuno di noi assomiglia a un vostro familiare”; ed è proprio così, lei assomiglia moltissimo a mio nonno. Non ho potuto fare a meno di dirgli questa cosa perché mi ha fatto riflettere molto. Mi sono immaginata come potrei sentirmi se mio nonno fosse nella sua situazione, le sensazioni che potrei provare. Prima di quest’esperienza ammetto che la mia mentalità nei confronti dei detenuti era piuttosto chiusa. Ero convinta che qualunque detenuto meritasse l’ergastolo. Secondo il mio parere chi commetteva un reato, non importa di quale genere, avrebbe dovuto pagare a vita perché, per come la pensavo, quell’uomo rappresentava un pericolo per la società e in ogni caso non sarebbe cambiato una volta uscito dal carcere. Attraverso le vostre testimonianze ho capito che chiunque può cambiare, a prescindere dal reato che ha commesso. Chiusi in una cella, soli per tutta la vita e senza nessuno con cui confrontarsi, nessuno potrà mai capire le proprie colpe. L’ergastolo è quindi, come avete detto voi, una pena senza speranza, una pena che non permette a nessuno di cambiare, non ti permette di fare progetti perché il tuo destino è già segnato e di conseguenza la voglia di cambiare non esiste. Avete detto che comunque finché c’è vita c’è speranza. Questa vita però, non riguarda azioni semplici e normali come respirare, pensare, ma si tratta di una vita che viene vissuta a pieno, nelle piccole cose di tutti i giorni. Ho capito che do per scontate molte azioni che compio in completa libertà. Nei giorni seguenti all’incontro, mentre tornavo a casa da scuola guardavo l’orologio e pensavo a cosa steste facendo, a cosa steste pensando e mi si stringeva lo stomaco al solo pensiero che ogni giorno lì dentro succedono sempre le stesse cose, mai nulla di diverso o di nuovo, un’esistenza scandita da orari. Nei vostri occhi ho visto qualcosa di particolare quando ci siamo salutatati: forse la felicità o forse la speranza. La felicità nel vedere ragazzi giovani che rompono la monotonia di ogni giorno visitando il carcere e ascoltando le vostre testimonianze. O la speranza di poter essere, un giorno, liberi come noi, liberi di poter fare tutto ciò che volete, di poter camminare per strada, di poter stare con la vostra famiglia... tutte cose che noi ragazzi diamo per scontate, e a cui, invece, dovremmo dare molta importanza. Purtroppo il poco tempo a disposizione quella mattina non mi ha dato la possibilità di farle una domanda che mi tormenta da un po’: “Qual è la sua storia?”. Spero in una sua risposta. Grazie mille. Beatrice, studentessa Voi studenti ci aiutate molto a sentirci persone parte della società Ciao Beatrice, ti ringrazio per la bella lettera che mi hai scritto, mi hai fatto emozionare scrivendo che assomiglio a tuo nonno, sicuramente gli vuoi un gran bene se riesci a vederlo anche in altri. Questo mi aiuta a sentirmi sempre parte della società, come tutti gli altri uomini di questo mondo. Sono lieto davvero di averti aiutato, con i miei compagni, a rivedere le tue considerazioni sulle persone condannate. Anche voi studenti ci aiutate molto a sentirci persone parte della società, seppure momentaneamente privati della libertà. Per noi gli incontri con voi non significano semplicemente rompere la monotonia di ogni giorno, assolutamente. Voi siete una risorsa per aiutarci a ritornare nel mondo come persone restituite alla società. Questo è il modo migliore per poter tornare alle nostre famiglie. La tua riflessione sulla pena priva di senso, che non aiuta a comprendere i propri errori, e sull’ergastolo mi conferma che i nostri incontri con voi sono utili per entrambi, a voi per comprendere cosa accade davvero nel mondo, e come si può arrivare a fare delle scelte sbagliate, e a noi ci aiuta a ritornare in quel mondo come uomini cambiati, pronti al reinserimento nella società e nella nostra famiglia. Mi chiedi qual è la mia storia, non ho mi scritto la mia storia, la racconto anche io di tanto in tanto, ma io sono in redazione da molti anni e la raccontavo i primi anni che ero qui, poi succede che si lascia spazio anche agli altri che sono arrivati dopo di me. Capita, tuttavia, che la racconto anche adesso. Io ho cominciato quando ero un adolescente a fare delle piccole trasgressioni, come saltare la scuola per andare al mare. Io sono nato a Genova a poche centinaia di metri dal mare e ho iniziato ad avere questi comportamenti, ma piano piano cominciavo a fare cose sempre più gravi senza rendermi conto che i miei scivolamenti mi portavano a spostare i paletti del limite di sicurezza ogni volta. Così approfittavo del fatto che di sera frequentavo una palestra, dove facevo ginnastica artistica da qualche anno, e approfittavo della fiducia della mia famiglia saltando la palestra per andarmene in giro. Poi ho cominciato a rubare le moto per portarci le ragazze al mare in riviera, finché ho cominciato a rubare solo per avere soldi. Dopo qualche tempo mi hanno arrestato con una macchina rubata e ho fatto quindici giorni di carcere, quando sono uscito ho subito messo in pratica gli insegnamenti dei delinquenti più incalliti e ho iniziato a fare cose sempre più gravi e con il passare del tempo era diventato il mio mestiere. Mi arrestavano, ma poi uscivo in attesa di giudizio, finché un giorno mi sono ritrovato con le condanne definitive ed eccomi ancora qui, tra pochi anni avrò finito la pena e tornerò dalla mia famiglia. Qui durante questa carcerazione ho potuto studiare e arrivare a pochi esami dalla laurea in architettura. Non so se farò mai l’architetto, l’età è un po’ troppo avanti per iniziare una carriera seriamente, ma sicuramente tutto questo mi ha fornito gli strumenti per poter sfruttare le mie risorse in maniera più ottimale e vivere dignitosamente senza tornare più in carcere. In questo senso mi sento fortunato rispetto a tanti altri ai quali, in carcere, non è permesso di realizzare un percorso di rieducazione, risocializzante come ho potuto fare io. Il sovraffollamento non permette che ci siano queste opportunità per tutti, giacché le carceri in genere contengono molte più persone di quelle che possono ospitare dignitosamente e questo impedisce a molti di accedere a queste opportunità. Questi purtroppo diventano facile preda degli psicofarmaci e del tedio che assale le persone che vivono in tali condizioni. Beatrice spero di esserti stato utile e di aver esaudito la tua richiesta. La ritengo un tuo diritto. Ti ringrazio ancora per la bella lettera e ti prego di voler salutare tutta la tua classe e gli insegnanti. Siete stati in gamba a fare delle domande interessanti che ci hanno stimolato a condurre una discussione profonda. Bruno T. La riforma delle carceri che non possiamo rinviare di Aldo Masullo Il Mattino, 5 febbraio 2018 Il 3 marzo si avvicina a grandi passi. Entro questa data, che segna la fine della legislatura, il Governo dovrebbe definitivamente approvare i decreti delegatigli dal Parlamento, tra cui la legge di riforma dell’ordinamento penitenziario. Se ciò non avvenisse, la legge stessa decadrebbe. Gli effetti sarebbero molto gravi. Il Governo resterebbe umiliato per la sua incapacità, il Parlamento beffato avendo invano espresso la “volontà popolare”. Lo Stato verrebbe esposto alle nuove condanne dei giudici comunitari per le sistematiche violazioni dei diritti umani nelle carceri, il lungo e serio lavoro di molte persone cancellato. Ma il peggio sarebbe il colpo morale inferto al mondo carcerario in ogni sua parte, dai detenuti a tutti coloro che, a vario titolo operandovi, ne condividono le tribolazioni. Dinanzi a questa deprecabile prospettiva la società italiana non presenta che due posizioni. Da una parte occupa la scena un pieno d’indifferenza, quasi si volesse seppellire il problema sotto la completa assenza d’informazione. Dall’altra parte invece vive non una preoccupata e inerte attesa, ma una forte e pacifica mobilitazione della popolazione carceraria, che ancora una volta mostra di saper assumere un ruolo di soggetto civile: essa non protesta ma esige il rispetto dei diritti ed esercita una funzione di pedagogia sociale. Questo inaudito corso della vita carceraria è l’esito di una lunga marcia del radicalismo di Marco Pannella che, pur estremamente minoritario, è riuscito a introdurre nella nostra pigra società politica il fermento di uno spirito di lotta non per il potere, ma per l’affermazione dei diritti di libertà dell’individuo e per un più rigoroso Stato democratico di diritto. Oggi questo fermento liberale sembra trovare il più propizio campo di sviluppo nel dolente mondo carcerario, cioè paradossalmente nel mondo della massima compressione legale della libertà, tra le maglie di un sistema che, nonostante l’evoluzione della cultura e il chiaro fondamento costituzionale, è ancora impigliato in vecchie pratiche d’ispirazione sterilmente punitiva. L’odierna mobilitazione non è la solita “rondine solitaria che non fa primavera”, ma un’azione consolidatasi dopo una prima prova esemplare. Due anni fa, in parallelo con il “giubileo della misericordia”, proclamato da papa Francesco, si svolse la marcia per reclamare la riforma carceraria. Molte migliaia di detenuti vollero parteciparvi idealmente con il loro digiuno, proclamato non, si badi bene, in segno di protesta, ma a “sostegno” morale delle ragioni di quella iniziativa. Sottolineai allora su queste colonne l’importanza del salto culturale compiuto da una larga parte della popolazione carceraria. Lasciandosi alle spalle la mortificazione del proprio stato e lo scoraggiato abbandono alla passività, per associarsi invece attivamente nel digiuno collettivo, molti detenuti assunsero, insieme con una più chiara coscienza degli errori commessi e delle ingiustizie talvolta subite, la piena consapevolezza dei loro insopprimibili diritti di uomini. Questa straordinaria maturazione civile di persone, la cui condizione sembrerebbe la meno adatta a favorirla, fu il risultato dell’opera assidua, ostinata, del gruppo di punta dei pannelliani storici, in particolare dell’intelligente e infaticabile impegno di Rita Bernardini. È comprensibile come ora questo gruppo si stia attivando al massimo perché la riforma del nostro sistema penitenziario, sul punto di tagliare il traguardo, non venga fatta fallire per l’intempestività operativa del Governo. Ho definito “ostinata” l’azione radicale. Non a caso. Anche questa volta l’iniziativa politica viene proclamata col nome di “satyagraha”, parola che viene gandhianamente usata per indicare un atto di “resistenza passiva”, non violenta, ad una ingiusta pretesa del Potere. La parola più letteralmente significa “insistenza per la verità”. Certo non si tratta di verità religiosa o metafisica e neppure scientifica, ma di verità politica, intesa non come ideologia dominante o ideale di un movimento oppositivo o visione solitaria di un grande statista, ma della piena evidenza di un diritto individuale, non confliggente, anzi solidale con gli altri diritti che spettano senza eccezione a tutti i cittadini della nazione umana. Per il riconoscimento di un tale diritto nessuna “insistenza” è troppa, nessuna ostinazione è eccessiva. Tutti gli scioperi della fame di Rita Bernardini e dei suoi compagni radicali, e delle migliaia di detenuti che si uniscono a loro senza esitazione, con l’entusiasmo del sentirsi, pur carcerati, di nuovo dentro la vita sociale attiva, rappresentano il bellissimo fiore politico dell’ “insistenza per la verità”. I grandi mezzi d’informazione, dinanzi a questo sorprendente protagonismo civile di larga parte della popolazione carceraria, che funziona come opera di pedagogia politica ed esercizio di democrazia attiva, stanno ammutoliti. Fanno eccezione solo il piccolo ma combattivo quotidiano “Il dubbio” e naturalmente l’inarrestabile “Radio radicale”. Per il resto giornali, radio, televisione, web, oltre che di solita cronaca, sempre più nera, e di non meno solito chiacchiericcio politico, rigurgitano in queste settimane di mirabolanti e stucchevoli promesse degli esponenti di partiti e fazioni, mobilitati per la gara elettorale. Di uno dei pochi pezzi forti della stagione riformatrice di questi ultimi anni, e del suo destino sospeso a un filo, nel gran vociare della piazza non si fa parola. È come se fosse in atto una ferrea congiura del silenzio. Che i decreti delegati non siano completi, e ancora ne manchino, come quelli sul lavoro e sull’affettività, decisivi per il risultato civile della riforma, e che perfino il primo decreto, finalmente presentato per il necessario parere alla Commissione parlamentare competente, corra il rischio di cadere nell’inesorabile tagliola di fine legislatura, sembra proprio che non importi a nessuno, salvo che ai radicali, alle migliaia di detenuti e a poche altre persone culturalmente coinvolte. Eppure, con le sue imperfezioni e i suoi limiti, inevitabili in qualsiasi modello astratto da mettere alla prova della pratica, la riforma costituisce il richiamo oggi ineludibile a porre al centro del sistema penitenziario l’individuo con la sua dignità di uomo comunque “libero”. Se la legge cadesse, sull’immagine dell’Italia resterebbe un disonorevole segno di arretratezza civile. Carceri, la riforma al vaglio Camere: entro il 2 marzo atteso l’ok del Cdm ildenaro.it, 5 febbraio 2018 Va avanti l’iter parlamentare dello schema di decreto legislativo, approvato in via preliminare dal Consiglio dei ministri lo scorso 22 dicembre, sulla riforma dell’ordinamento penitenziario. La Commissione Giustizia della Camera dovrebbe votare il suo parere mercoledì prossimo, mentre a Palazzo Madama, la Commissione esaminerà il testo per tutta la settimana, convocando anche in audizione il direttore generale per il trattamento detenuti del Dap, Calogero Piscitello, il procuratore aggiunto di Catania, Sebastiano Ardita, e il docente di medicina e psicologia dell’università La Sapienza, Stefano Ferracuti. Il decreto deve essere approvato in via definitiva dal CdM entro il 2 marzo: “Lavoriamo per questo obiettivo”, aveva assicurato il ministro della Giustizia Andrea Orlando, interpellato in merito a margine dell’Anno giudiziario in Cassazione, il 26 gennaio scorso. La riforma, che si basa sui lavori degli Stati generali per l’esecuzione penale voluti dal Guardasigilli e conclusi nell’aprile 2016, prevede, in particolare, il rafforzamento e l’ampliamento delle misure alternative al carcere, superando automatismi e preclusioni, tranne che per i condannati per delitti di mafia e terrorismo. Si tiene conto delle statistiche secondo cui per chi espia la pena in carcere vi è recidiva nel 60,4% dei casi, mentre per coloro che hanno fruito di misure alternative alla detenzione il tasso di recidiva è del 19%, ridotto all’l% per quelli che sono stati inseriti nel circuito produttivo. Un’attenzione specifica viene dedicata al percorso riabilitativo del detenuto, attuando pienamente il dettato costituzionale. Per gli addetti ai lavori, il decreto sull’ordinamento penitenziario è un “passo in avanti”, nonostante non manchino criticità: a segnalarne alcune era stato, in audizione alla Camera, il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho, secondo cui si rischia “un indebolimento” e un “vulnus a un sistema che deve essere di rigidità”. Un punto critico, aveva rilevato il magistrato, è la possibilità di ammettere alla detenzione domiciliare anche le donne in carcere per mafia che hanno figli di età minore a 10 anni o disabili. “Va considerato che le donne nelle cosche stanno prendendo il posto degli uomini - ha detto de Raho - si tratta di soggetti pericolosi e violenti. Riportarle in famiglia per stare a fianco dei figli sembra un percorso inverso rispetto a quello che si sta facendo nei territori”. Lo schema di decreto contiene anche novità sulla sanità penitenziaria, con l’equiparazione tra infermità fisica e psichica, volta ad garantire adeguati percorsi rieducativi compatibili con le esigenze di cura della persona. Una previsione importante riguarda poi il regime di semilibertà, con la possibilità di accedere a tale istituto da parte dei condannati all’ergastolo (tranne che per mafia e terrorismo), dopo che abbiano correttamente fruito di permessi premio per almeno 5 anni consecutivi, nuovo presupposto alternativo a quello dell’espiazione di almeno 20 anni di pena. Attenzione particolare viene data alla socialità del detenuto, con attività comuni, studio, lavoro e anche lo svago, nonché all’alimentazione per i reclusi, estendendo i requisiti del vitto, rispetto a quanto attualmente previsto, in modo da soddisfare le esigenze delle diverse culture ed “abitudini” alimentari. I detenuti vengono tutelati anche da discriminazioni legate all’identità di genere e all’orientamento sessuale. In linea, inoltre, con le regole europee, si pone in risalto il diritto del detenuto ad essere assegnato ad un istituto prossimo alla residenza della famiglia “fatta salva l’esistenza di specifici motivi contrari”, come il mantenimento o la ripresa dì rapporti con la criminalità comune o organizzata. Viene consentito l’uso delle tecnologie informatiche all’interno del carcere, anche per i contatti con la famiglia, ad esempio, attraverso l’uso della posta elettronica e dei colloqui via Skype. Sulla riforma si attende ancora il parere che il Csm è chiamato a dare, mentre gli esponenti dell’Anm e della magistratura di sorveglianza hanno già rilevato la necessità di “un investimento forte per le strutture come gli Uffici dell’esecuzione penale esterna, la polizia penitenziaria, gli organici dei tribunali di sorveglianza”. Il Guardasigilli Andrea Orlando ha sottoposto all’esame del Garante nazionale per i detenuti anche altri schemi di decreto: i testi, inerenti il lavoro per i detenuti, la giustizia riparativa e l’ordinamento penitenziario minorile, sono già stati trasmessi da via Arenula a Palazzo Chigi, ma non sono stati finora esaminati dal Consiglio dei Ministri. Un punto della delega sulle carceri contenuta nella riforma del processo penale entrata in vigore la scorsa estate riguardava anche il “diritto all’affettività” del detenuto: questa parte, però, non ha trovato spazio nei decreti, data la clausola di invarianza finanziaria. Più ingiuste detenzioni. Nel 2017 oltre mille casi di innocenti finiti in carcere di Marzia Paolucci Italia Oggi, 5 febbraio 2018 Più casi di ingiusta detenzione da un anno all’altro. Persone in carcere da innocenti che per tutta la vita pagheranno il peso della condanna giudiziaria e sociale in cui sono incorse per uno scambio di persona, una mala interpretazione di un’intercettazione o ingannevoli testimonianze oculari. Il 2017 si chiude con 1.013 casi di innocenti finiti in carcere contro i 989 registrati l’anno precedente. In aumento anche l’ammontare complessivo dei relativi risarcimenti pari a oltre 34 milioni di euro. È quanto riporta il sito errorigiudiziari.com, nato in seguito al caso Tortora, nel 1994, dall’idea di due giornalisti, Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, classe 1966. Si tratta dell’unico archivio online in Italia e in Europa che finora ha censito con un costante lavoro di ricerca e catalogazione 714 casi tra ingiusta detenzione ed errori giudiziari, all’attivo un libro, un docu-film e una collaborazione Rai a tema. Nella maschera del sito è possibile ottenere i risultati selezionando il nome dell’innocente, il luogo, il reato e il nome dell’avvocato. Ora, elaborando gli ultimi dati del Ministero dell’economia, la ricerca ha identificato Catanzaro come la città con il maggior numero di casi indennizzati, ben 158. Subito alle sue spalle c’è Roma con 137 e a seguire Napoli con 113 che per il sesto anno consecutivo si conferma nei primi tre posti. Segue Bari con 94, Catania con 60, Palermo con 43, Milano con 40, Salerno con 38, Messina con 36 e Lecce con 28 casi. Nella top 10 dei centri dov’è più frequente il fenomeno dell’ingiusta detenzione prevalgono le città del Sud: sono infatti otto su dieci, con le sole Roma e Milano a invertire la tendenza. Più innocenti finiti senza colpa in custodia cautelare, più soldi spesi dallo Stato in risarcimenti per ingiusta detenzione. E se Alessandro Galante Garrone, storico e magistrato, scriveva nel 1961 su La Stampa, in uno scritto a tema: “Gli errori giudiziari del passato devono indurre il giudice all’umiltà”, oggi si deve considerare come le sue parole siano state purtroppo sconfessate dalla realtà. In 25 anni di storia di ingiusta detenzione, il sito che ha tracciato dal 1992 a oggi, 26412 persone in ingiusta detenzione, cioè una custodia cautelare in carcere o agli arresti domiciliari, prima di essere riconosciute innocenti con sentenza definitiva. Per risarcirli, lo Stato ha versato complessivamente poco meno di 656 milioni di euro. Se poi si includono anche gli errori giudiziari in senso tecnico, persone condannate con sentenza definitiva ma poi assolte in seguito a un processo di revisione perché si scopre il vero autore del reato o un altro elemento fondamentale per scagionarli, il numero delle vittime sale a 26.550, per una somma totale di 768.361.091 euro in risarcimenti versati dal 1992 a oggi. Parliamo dunque di una media annuale di oltre mille casi, per una spesa superiore ai 29 milioni di euro l’anno. Catanzaro e Roma sono le città in cui lo Stato ha speso di più in risarcimenti liquidati alle vittime di ingiusta detenzione: nel capoluogo calabrese lo scorso anno si è fatta registrare la cifra monstre di circa 8 milioni e 900 mila euro, ben più del doppio di quanto si è speso per i casi della capitale (poco più di 3 milioni e 900 mila euro). Al terzo posto Bari, con indennizzi versati per oltre 3 milioni e 500 mila euro, scavalca Napoli, quarta in classifica con più di 2 milioni e 870 mila euro. Seguono nell’ordine Catania con oltre 1 milione e 900 mila euro, Palermo, Salerno, Messina, tutte con cifre pari a 1 milione e 500 mila euro assieme a Reggio Calabria e Milano che si attestano sul milione di euro. Niente sanzioni ai pm ciarlieri. C’è vuoto normativo, anche sull’uso dei social network di Claudia Morelli Italia Oggi, 5 febbraio 2018 I dati sul disciplinare dei magistrati nella relazione del Pg della Suprema corte. Il magistrato parla troppo? Usa impropriamente i social e soprattutto Facebook? Anche se questi comportamenti mettono in crisi la credibilità della giurisdizione è impossibile sanzionarli in via disciplinare. Perché “c’è un vuoto normativo”. A dirlo è uno dei titolari dell’azione disciplinare nei riguardi dei magistrati che sbagliano, cioè il procuratore generale della Corte di cassazione, Riccardo Fuzio, nella relazione di inaugurazione dell’anno giudiziario, che si è svolta a Roma il 26 gennaio scorso. “Molte condotte, tra cui sovente quelle che colpiscono l’opinione pubblica e pregiudicano l’immagine della magistratura, sfuggono a qualsiasi sindacato disciplinare”, rileva il pg. Sotto accusa le esternazioni dei magistrati, soprattutto pm. Le ipotesi di illeciti extra funzionali tipizzati dal decreto legislativo 109/2006 (uno dei decreti di attuazione della riforma dell’ordinamento giudiziario del governo Berlusconi) “non permettono di pervenire a un soddisfacente equilibrio tra la tutela della libertà di espressione del magistrato come cittadino e il suo ruolo istituzionale”. Insomma “c’è vuoto normativo”, soprattutto rispetto a due situazioni nelle quali “è forte il pericolo di compromissione della immagine di imparzialità del magistrato”: a) le dichiarazioni dal contenuto politico; b) le esternazioni autopromozionali che sostengono pubblicamente le ragioni e la bontà delle indagini di cui il magistrato è assegnatario. Pur avendo rilievo deontologico, non sono riconducibili ad alcun illecito tipizzato. Social network e toghe. Avere un profilo Facebook non assume “di per sé” una valenza negativa, avverte Fuzio. Anzi, è “mezzo di possibile arricchimento culturale se utilizzato bene”. Il punto è l’utilizzo che se ne fa, visto che spesso raccoglie dichiarazioni in violazione del generale dovere di riserbo a cui le toghe sono tenute. C’è da dire che i dati generali esposti nella relazione non evidenziano l’esistenza di “una questione disciplinare”. Vediamoli. Azioni disciplinari e condanne. Le notizie circostanziate di interesse disciplinare iscritte nel 2017 sono state 1.340 (in linea con la media di 1.335 nel quinquennio 2012- 2016). Però la Procura generale della Cassazione (che con il ministro della giustizia è titolare dell’azione disciplinare che presenta al Csm) ha definito con archiviazione 1.225 procedimenti (89,7%). “Il dato ribadisce l’attenta selezione dei casi per la tenuta di ogni possibile accusa disciplinare, anche a garanzia dell’ordine giudiziario da denunce ed esposti non di rado strumentali”, chiarisce Fuzio. Il numero di archiviazioni è stato sostanzialmente confermato dal ministero della giustizia, che ha deciso di discostarsi in soli due casi. In ogni caso nel 2017 sono state esercitate 149 azioni disciplinari di cui 58 da parte del guardasigilli e 91 per iniziativa del procuratore generale. Gli illeciti contestati sono stati 246 (si veda la tipologia in tabella). In linea generale i dati dicono che il 47% delle incolpazioni riguarda la violazione del dovere di correttezza, il 38% quello di diligenza, quelle relative al comportamento extra funzionale sono pari al 13%. Quanto ai procedimenti disciplinari inviati al Csm con la richiesta di giudizio sono stati il 65%. Quanto agli esiti finali davanti alla commissione disciplinare del Csm, le assoluzioni sono state superiori (28%), le condanne (24%). Quali magistrati sono “più scorretti”. Pubblico ministero, uomo, che presta servizio al Sud. Secondo i dati è questo l’identikit del magistrato che riceve più incolpazioni disciplinari. Tra i magistrati uomini, l’incidenza delle incolpazioni è del 70%, laddove ormai le donne in magistratura sono ormai il 52%. La maggiore incidenza delle violazioni disciplinari è al Sud (59%). Nel 2017 sono diminuite le incolpazioni per ritardo nel deposito di provvedimenti, e quelle in violazione del dovere di correttezza, ma sono aumentate le violazioni al di fuori dell’attività giudiziaria. Responsabilità civile. In questo caso attingiamo ai dati della relazione del ministro della giustizia. Le azioni sono state 49 nel 2017, ma insignificante il numero di condanne pari allo 0,01%. L’aver eliminato il filtro non ha comportato in realtà alcun appesantimento del numero dei ricorsi. Il giudice scivola su Facebook. Magistrati sotto esame per l’uso disinvolto dei social network di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 5 febbraio 2018 Sono tante, sono troppe, le segnalazioni di condotte “scorrette” da parte dei magistrati. E preoccupano, al di là del loro esito, perché testimoniano una generale sfiducia dell’opinione pubblica per l’operato di giudici e pubblici ministeri. Lo testimonia la relazione del Procuratore generale della Cassazione che mette in luce come nel corso del 2017 sono state segnalate ben 1.340 notizie di possibile rilievo disciplinare, in linea con l’anno precedente (1.363), e con sostanziale stabilizzazione nell’ultimo quinquennio (il numero medio delle notizie nel periodo 2012-2016 è pari a 1.335). A fronte di queste sopravvenienze, nell’anno decorso l’Ufficio ha archiviato con decreto motivato l’89,7% del totale dei procedimenti definiti. Una sfiducia che, per il neo procuratore generale Riccardo Fuzio “può essere la conseguenza dei difficili rapporti tra politica e giustizia, in parte, può essere l’effetto delle soventi delegittimazioni o denigrazioni provenienti da parti o imputati “eccellenti”, ma può essere anche il sintomo che, a fronte di una quantità abnorme di processi che gravano su tutte le sedi giudiziarie, non sempre vi è una risposta qualitativamente adeguata di chi è tenuto a rendere giustizia”. E, se è improprio chiedere alla giustizia disciplinare di risolvere il problema di un’immagine incrinata della magistratura, con altrettanta sicurezza si può però affermare che molte condotte, tra quelle che colpiscono l’opinione pubblica, sono prive di sanzione, non essendo agevolmente riconducibili ad alcun illecito tipizzato. Quando poi era proprio la tipizzazione delle condotte illecite a rappresentare uno dei punti più innovativi del nuovo ordinamento giudiziario. E il caso delle esternazioni extra-funzionali di magistrati, sempre più frequenti attraverso i numerosi social network, “particolarmente, attraverso Facebook - afferma la relazione del Pg - che, tra i social network, è il più diffuso e utilizzato da tutti, compresi politici, giornalisti e magistrati”. Il problema è che anche Facebook, come ogni altro strumento di comunicazione, televisione, stampa, blog, si presta, nella lettura del procuratore, a diventare mezzo attraverso il quale possono consumarsi reati, illeciti disciplinari, dichiarazioni improprie. Gli esempi? Diversi e anche assurti a loro modo all’onore delle cronache: dalla Pm che sul suo profilo commenta l’avvenenza di un noto attore (Gabriel Garko) coinvolto in un’indagine da lei condotta o al pubblico ministero che aveva diffamato su Facebook l’ex sindaco di Roma Ignazio Marino. Nel 2017 sono state esercitate in totale 149 azioni disciplinari (erano 156 nel 2016), di cui: 58 per iniziativa del Ministro della giustizia (in diminuzione del 22,7% rispetto al 2016, in cui erano 75); 91 per iniziativa del Procuratore generale (erano 80 nel 2016, in aumento quindi del 13,8%). I procedimenti disciplinari definiti nel 2017 si sono conclusi nel 65,6% dei casi, con la richiesta di giudizio; nel 28,9% dei casi, con richiesta di non farsi luogo al giudizio; nel restante 5,6%, con riunione ad altro procedimento. Resiste un tasso specifico di incolpazioni disciplinari più elevato per i magistrati requirenti rispetto a quelli giudicanti, in relazione all’organico dei magistrati in servizio (20 incolpazioni ogni 1.000 requirenti, rispetto a 17 ogni 1.000 giudicanti). La Sezione disciplinare del Csm ha pronunciato in 35 casi sentenze di condanna (24 censure, 4 ammonimenti, 4 perdite di anzianità e 3 rimozioni). Come negli anni precedenti è nelle regioni del meridione che si concentra il maggior numero di magistrati soggetti ad azione disciplinare. Nelle sole regioni Sicilia e Campania, presta servizio il 30,8% dei magistrati incolpati. Nel 2017, il numero totale di illeciti contestati diminuisce rispetto al valore di picco del 2016, passando da 268 a 246, soprattutto per effetto del più moderato numero di azioni disciplinari richieste da parte del Ministro. Il 47,6% delle incolpazioni riguarda le violazioni del dovere della correttezza, il 38,6% della diligenza e quelle relative al comportamento al di fuori dell’attività giudiziaria rappresentano il restante 13,8%, più del doppio rispetto a quelle rilevate nel 2016. Tra le violazioni al dovere della diligenza, il tipo di illecito più contestato è rappresentato dalla violazione di norme processuali penali e civili (16,7%) e a seguire il ritardo nel deposito di provvedimenti, che rappresenta il 9,8% del totale delle incolpazioni. Sono invece violazioni del dovere della correttezza e dei comportamenti al di fuori dell’esercizio dell’attività giudiziaria gli illeciti disciplinari come la scorrettezza, atti e comportamenti pregiudizievoli, vantaggiosi e ingiuria o diffamazione e/o altri reati. Esse nell’anno decorso rappresentano complessivamente il 35,8% del totale degli illeciti disciplinari. Caso Macerata, il fantasma dell’uomo bianco di Ezio Mauro La Repubblica, 5 febbraio 2018 Ritagliando dentro l’umanità le razze, identificando nella molteplicità lo straniero da espellere, additando nella comunità il diverso da bandire, era prevedibile che si arrivasse fin qui, alla tipizzazione dell’indigeno italiano, trasformandolo in prototipo sociale, esperimento culturale, infine in soggetto politico. L’uomo che in piena campagna elettorale spara contro gli immigrati è colui che invoca i muri contro gli altri, poi dentro quei muri si ritrova prigioniero, nell’egoismo di una storia nazionale mutilata soltanto per sé, di una tradizione privatizzata a proprio uso e consumo, di una cultura svilita a strumento esclusivo di selezione e di separazione. Siamo noi che lasciandoci rinchiudere nel guscio psicologico e ideologico delle nostre paure ci trasformiamo come dei mutanti, fino a regredire nell’identità primitiva biologica e corporea, che a Macerata risveglia l’ultimo spettro italiano, il fantasma dell’uomo bianco. Era l’unico protagonista che ancora mancava, nel racconto del grande risentimento italiano. Costruito quasi in alambicco. Prima con la separazione crescente tra rappresentanti e rappresentati, poi con il rifiuto della politica come strumento per garantire sicurezza nella democrazia, quindi con il venir meno dello scambio tra tutela e libertà, che era all’origine del patto tra il cittadino e lo Stato moderno. Infine, lo smarrimento di fronte alle emergenze dell’immigrazione, della crisi del lavoro, del terrorismo islamista, un’onda congiunta troppo alta per essere controllata dai governi nazionali, perfetta invece per allargare l’inquietudine, disperdere il sentimento repubblicano in tante solitudini isolate, trasformare il cittadino in individuo, dimenticato. Su questa dispersione solitaria, agisce la predicazione della paura, che trasforma la crisi economica in una rapina delle élite, l’immigrato nel nuovo nemico di classe, arrivato per invaderci, per occupare le nostre città spezzando il filo di esperienze condivise, per contenderci il salario e per impoverirci il welfare, mentre Chiesa, democrazia e cultura sono i nuovi colpevoli di un destino di sottomissione già segnato. L’unico modo di reagire è armare la paura: ingigantendo i fenomeni a dispetto dei numeri, associando immigrazione a devianza, rinnegando l’integrazione e il multiculturalismo in nome di una politica della forza capace di fare da sé, con ruspe, affondamenti, muri, respingimenti, fili spinati. Finché qualcuno prende il fucile, com’era accaduto qualche anno fa a Rosarno contro i raccoglitori di pomodori e condensa tutto questo in una caccia al nero trasformato in bersaglio, radicalizzando in una prova estrema un clima sociale e politico che produce legittimazione, copertura e consenso. Dicono i coltivatori dell’odio (mentre i grillini tacciono, prigionieri di un’ambiguità politica costante e di una povertà culturale scandalosa) che tutto questo è frutto dell’esasperazione dei cittadini insicuri, e dunque di un’escalation che mescola impotenza e onnipotenza, fino alla caccia all’uomo fai-da-te. In realtà è esattamente il contrario. È il segno di una regressione evidente, che porta il cittadino a rinunciare a tutti gli strumenti d’intervento costruiti in decenni di democrazia e di storia nazionale della convivenza, per precipitare nel pozzo primordiale della pistola e dell’agguato, del gesto estremo dell’uomo contro l’uomo fuori da ogni cornice di legalità e da ogni tradizione di civiltà. Non è un gesto di follia, ma di terrorismo: che come tale stravolge la politica, inventata come mezzo di regolazione dei conflitti, svilita per anni in concimazione delle paure e infine ridotta a progetto omicida. Un gesto isolato, fortunatamente. Ma che non nasce per caso e non viene dal nulla. Al contrario, può contare su un clima di legittimazione strisciante, su una banalizzazione quotidiana dei troppi episodi di intolleranza razziale, sul disprezzo dei principi costituzionali, sul dileggio di chi predica e pratica la tolleranza e la convivenza. Condanne a mezza bocca, giustificazioni subito pronte, la consapevolezza di un mainstream parallelo, che si muove dentro la forma democratica ma è sempre più estraneo ai valori dell’occidente europeo in cui viviamo, alle istituzioni repubblicane vilipese e disprezzate come pratica quotidiana, nel silenzio della cultura che assiste passiva. È come se la cultura democratica fosse già finita in minoranza: se non nei numeri, certamente nella capacità di contare e di convincere, di credere in se stessa, e cioè di produrre egemonia. La mutazione in corso, infatti, è prima di tutto culturale. Perché il fantasma dell’uomo bianco evoca ciò che certamente noi siamo, ma che non ci è mai bastato per definirci, tanto che abbiamo aggiunto a questa identità primitiva e basica le sovrastrutture che nelle diverse vicende nascevano dalla storia, dalle relazioni, dagli scambi, dalla politica, dalla cornice della civiltà europea, dalla coscienza dei diritti nostri e altrui, dal divenire della nostra forma associata di vita. Per questo l’apparizione dell’uomo bianco come soggetto sociale e politico è un ritorno al passato, una spoliazione. Come avviene in parallelo per il suo bersaglio, l’uomo inquadrato nel mirino della sua pistola, che perde non solo ogni diritto ma qualsiasi universalità, ridotto a pura espressione razziale, ingombro materiale, simbolo di diversità per i due elementi - anche qui primordiali - dell’odio razzista: il colore della pelle, e il peccato d’origine. A unire i due pregiudizi (quello su di sé, suprematista, e quello sullo straniero, come inferiore) è il ritorno alla sostanza primitiva, la pelle e il sangue, come negli anni peggiori della nostra vita. Nella pelle bianca e nell’odio per la pelle nera si ritorna a cercare inconsciamente la conferma di una sopravvivenza, quell’immortalità mitologica che il culto del sangue assicura nel passaggio delle generazioni, portando l’elemento biologico fuori dal tempo, trasformandolo nella sostanza sacra e pagana di una comunità impaurita proprio mentre esercita la forza: spaventata dalla fragilità di quel principio germinale a cui è affidata l’identità simbolica, fuori dalle responsabilità della storia, della politica, della cultura. È dunque la paura che fa prendere la pistola, anche se per sparare a un uomo, allo straniero, bisogna armarsi di un malinteso senso della supremazia, della gerarchia razziale, sociale, umana. Tutte cose che purtroppo abbiamo già visto. E che l’uomo bianco di Macerata ha radunato su di sé: la pistola, l’odio razziale, la bandiera per coprire il nuovo sovranismo, il saluto romano. Cosa resta da capire? Caso Macerata, troppo facile passare dalle parole alle armi di Guido Olimpio Corriere della Sera, 5 febbraio 2018 Quanto è accaduto è stato un atto di terrorismo, inutile cercare altre definizioni. Un’esplosione di violenza in parte attesa, diretta conseguenza dell’epoca che viviamo. La tentata strage di Macerata è forse un punto di inizio per l’Italia e il proseguimento di quanto visto prima negli Usa e quindi in Europa. Un sentiero marcato da alcuni segnali. Primo. È un atto di terrorismo, inutile cercare altre definizioni. Un’esplosione di violenza in parte attesa, diretta conseguenza dell’epoca che viviamo e delle parole che girano. Dimostra quanto sia facile passare dalle parole alle armi. Basta avere una pistola ed esser pronti a usarla. Secondo. È anche una forma di terrorismo “personale”. Il gesto ha una base ideologica ben chiara - saranno i magistrati a chiarire quanto profonda - ma ci sono aspetti legati al profilo del protagonista. Vita complicata, molti lavori segnati da fallimenti, instabilità. Possibile che le seconde abbiano fatto da detonatore contingente. È avvenuto in molti casi di stragisti di massa statunitensi e simpatizzanti del Califfo. Prevengo le eventuali riserve di qualcuno: non intendo dare alcuna attenuante al “tiratore”, solo cercare di inquadrare meglio la figura. Le generalizzazioni non aiutano a stoppare i criminali. Terzo. L’Italia in pochi mesi ha già registrato due eventi drammatici. Oltre al raid a colpi di pistola di sabato contro i cittadini africani, c’è stato l’attacco a bordo di un mezzo contro un mercatino di Natale a Sondrio. Il responsabile era sotto l’effetto dell’alcol però era deciso a compiere un massacro copiando i metodi dello Stato Islamico. Per fortuna non c’è riuscito, ma ha confermato l’emulazione, favorita dal messaggio mediatico che passa attraverso i canali tradizionali e i social. Quarto. L’Isis è una minaccia continua, ha fatto centinaia di vittime. Non va però sottovalutato il pericolo di neonazi e xenofobi. Hanno colpito facendo vittime una moschea in Canada e un’altra a Londra, è stata assassinata la deputata britannica Joe Cox, ci sono stati episodi gravi negli Stati Uniti. Temo non siano fatti isolati, bensì l’emergere di una tendenza che cavalca paure e alza la testa mentre prima se ne stava in angoli nascosti. Se esce allo scoperto è perché sa di poterlo fare trovando consensi. Cassazione: è inammissibile il 69% dei ricorsi penali Italia Oggi, 5 febbraio 2018 Sessantamila ricorsi di legittimità penali all’anno. Sotto la mannaia della inammissibilità, che ne ha falcidiati quasi 39 mila sui 56.760 esauriti nel 2017. Il legislatore ha scelto anche questa strada per recuperare l’efficienza della Corte di cassazione e la sua funzione nomofilattica. È dunque rilevante la quota di ricorsi penali per Cassazione (ma il discorso è omologo per quelli civili) che vanno incontro alla declaratoria di inammissibilità sia da parte della sezione filtro (26.353) sia da parte delle altre sezioni (12.614). Circa il 69% dei ricorsi, soprattutto se il ricorrente è parte provata (71,3% contro il 30% dei casi se il ricorrente è il pm). Un “lavoro defatigante”, che potrà beneficiare della semplificazione, introdotta con la legge 103/2017, della declaratoria di inammissibilità del ricorso senza formalità di procedura in alcuni casi indicati dalla legge. Alle parti la inammissibilità costerà cara, non solo perché la legge Orlando prevede la possibilità di aumentare fi no al triplo la somma da versare a favore della casa delle ammende in caso di declaratoria di inammissibilità e gli importi stabiliti saranno adeguati ogni due anni all’indice Istat. Ulteriori effetti deflativi sono attesi anche da altre previsioni della legge Orlando, soprattutto quelle che con riguardo alle modifiche alle impugnazioni prescrivono che appelli e ricorsi sia più specifici nella indicazione dei motivi così come lo dovranno essere le motivazioni delle sentenze. In linea generale, l’arretrato penale è pari a poco più di 30 mila ricorsi, con una diminuzione rispetto all’anno precedente dello 0,4%. I tempi medi di definizione sono di 200 giorni, anche questo dato in contrazione. Per quanto riguarda in generale l’andamento della giustizia penale, le pendenze a fi ne 2017 sono pari a poco più di 3 milioni di procedimenti con una diminuzione di iscrizioni del 10%. Poco più di 800 mila procedimenti hanno accumulato ritardi a rischio “Pinto”, cioè a rischio azione da risarcimento danno. Si sono consumate oltre 127 mila prescrizioni (ma con una riduzione dell’8,6%). Intercettazioni. Dai giudici le indicazioni per l’utilizzo del “trojan” di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 5 febbraio 2018 Nell’autorizzazione la verifica di presupposti e motivi. La Cassazione ha anticipato (e di fatto delineato) il Dlgs 216/2017. Il decreto legislativo 216/2017, che riforma la raccolta e l’utilizzo delle intercettazioni, contiene un’importante novità: la disciplina della possibilità, per la magistratura, di intercettare conversazioni tra presenti inserendo nel dispositivo elettronico portatile di un indagato (computer, tablet o smartphone) un virus informatico (noto come trojan horse) che ne attivi il microfono e la telecamera. È stata così attuata la riforma Orlando del processo penale (legge 103/2017), nella parte in cui ha delegato il Governo a disciplinare i presupposti e le modalità con cui la magistratura può utilizzare il trojan per ricercare le prove di un reato. Le nuove disposizioni si collocano alla fine di un articolato percorso giurisprudenziale che, partendo da un approccio restrittivo, è culminato nella sentenza 26889/2016 della Cassazione a Sezioni unite, che ha aperto le porte del nostro ordinamento al trojan. Di qui la necessità di disciplinare con legge quello che, a tutti gli effetti, è già un mezzo di ricerca della prova utilizzato dalla magistratura. Diversamente, la potestà legislativa su di un tema così delicato, per gli interessi costituzionali in gioco, sarebbe rimasta in mano alla funzione giudiziaria. Ecco come. Con la sentenza 27100/2015, la Cassazione ha ritenuto il trojan una tecnica di captazione di conversazioni tra presenti riconducibile alle “intercettazioni ambientali” indicate dall’articolo 266 del Codice di procedura penale, che trovano ostacolo nella Costituzione se non sono assoggettate a limitazioni di tempo e spazio: in poche parole, la ricerca di un reato non può superare il diritto dell’indagato a non essere intercettato in ogni momento e luogo della sua vita in cui ha con sé il tablet o lo smartphone. La stessa sentenza ha escluso la possibilità di fare ricorso al virus per effettuare videoregistrazioni nei luoghi di privata dimora, o comunque tali da imporre la necessità di tutelare la riservatezza personale. Nel 2016 le Sezioni Unite hanno stabilito che nei procedimenti di criminalità organizzata la magistratura può fare ricorso al trojan senza alcuna limitazione di tempo o di spazio. La nozione di criminalità organizzata individuata dalla sentenza è molto ampia: qualunque tipologia di associazione per delinquere, a prescindere dalla natura dei reati fine. Per le Sezioni unite, dunque, il trojan può essere utilizzato senza limiti nel procedimento relativo a un’associazione per delinquere anche finalizzata alla commissione di reati che, presi singolarmente, non consentono il ricorso alle intercettazioni “tradizionali”. La sentenza 48370/2017 ha precisato che l’attività di intercettazione tra presenti effettuata dal trojan non va confusa con l’acquisizione di dati già formati e conservati su di un dispositivo elettronico, che può essere effettuata con il virus - in relazione alla natura del dato/bersaglio - secondo le categorie processuali della perquisizione informatica, della prova atipica o dell’intercettazione di comunicazioni telematiche. Il decreto legislativo 216/2017 è intervenuto sull’articolo 266 del Codice di procedura penale prevedendo che, per i reati per cui sono consentite le intercettazioni telefoniche e ambientali, il giudice può autorizzare il trojan anche all’interno dei luoghi di privata dimora: a patto che vi sia fondato motivo di ritenere che vi si stia svolgendo attività criminosa. Il limite non vale per i reati di competenza delle Procure distrettuali (previsti dall’articolo 51, commi 3-bis e 3- quater del Codice di procedura penale): in questo caso le intercettazioni con il virus sono sempre consentite. Il legislatore, con il richiamo ai commi 3-bis e 3-quater dell’articolo 51 del Codice di procedura penale, ha individuato una nozione meno ampia di criminalità organizzata rispetto a quella identificata dalle Sezioni Unite: non più ogni associazione per delinquere, ma solo quelle dedite alla commissione di gravi reati come mafia, traffico di sostanze stupefacenti o psicotrope, terrorismo, immigrazione clandestina, prostituzione di minori e pornografia minorile. Il controllo del giudice sui presupposti per fare ricorso al trojan dovrà essere stringente e dovrà dare adeguato conto nel decreto autorizzativo delle ragioni che rendono necessaria questa invasiva modalità investigativa per lo svolgimento delle indagini. Il decreto legislativo 216 stabilisce che le nuove disposizioni si applicheranno dal 26 luglio prossimo (dopo 180 giorni dall’entrata in vigore del decreto stesso, avvenuta il 26 gennaio scorso), per garantire operativamente il rispetto anche tecnico delle nuove norme. Ma, alla luce della giurisprudenza, non si può escludere che anche prima di allora la magistratura possa continuare a ricorrere al trojan. Reati sessuali su minori: va sempre disposta la perizia sul bambino di Raffaele Gaetano Crisileo* Ristretti Orizzonti, 5 febbraio 2018 Nei procedimenti per reati sessuali su minori, specie se si tratta di bambini in tenera età, la valutazione della capacità a testimoniare e della credibilità della vittima riveste - a mio parere - un ruolo decisivo. In questi casi il giudice può decidere senza aver prima disposto una perizia psicologica sul bambino? Questa è la domanda che ci dobbiamo porre perché è una tematica molto dibattuta, specialmente in questi ultimi tempi e quindi attuale. Al quesito - secondo me - ha risposto di recente la Corte di Cassazione, Terza Sezione Penale, con la sentenza 2016/43245. I Giudici della Suprema Corte hanno affermato la necessità dell’utilizzo, in sede di processo penale, della perizia psicologica sul minore “presunta vittima” del reato per accertare la veridicità dei fatti da lui narrati e, poi, hanno affermato la possibilità di ricorrere in Cassazione quando manchi questo elemento. Ciò premesso debbo sottolineare che “il reato di atti sessuali con minorenne si caratterizza per un’attività di pressioni o di persuasione finalizzata a determinare la persona nel senso voluto dall’agente”. Per questo motivo, occorre, secondo me, nel caso di dichiarazioni del minore - vittima di reati sessuali - “ verificare la sua precipua attitudine psicofisica ad esporre le vicende in modo esatto, nonché la sua posizione psicologica rispetto alle situazioni interne ed esterne”. E ciò dove ci conduce ? Questo ci dobbiamo chiedere. Ebbene secondo me ciò ci porta a ritenere che “soltanto quando il Giudice disponga di concreti elementi per stabilire che il dichiarante sia assolutamente incapace di rendere dichiarazioni, opera il divieto di assumere le dichiarazioni”. In secondo luogo, debbo poi riportare alcune considerazioni del Giudice Carlo Crapanzano che, in un suo scritto giuridico, che ho avuto modo di leggere in questi giorni, scrive: “secondo quanto prevede il primo comma dell’art. 196 c.p.p., ogni persona ha la capacità di testimoniare e tale principio vale come riferimento di carattere generale anche per i minorenni”. A fronte di tale affermazione taluni hanno mosso critiche sostenendo che sarebbe invece “preclusa tale testimonianza dall’ art.120 c.p.p. dove si prevede che “Non possono intervenire come testimoni ad atti del procedimento: a ) i minori degli anni quattordici”. Ma, attenzione, osserviamo noi, la giurisprudenza di Cassazione ha - da tempo - interpretato e chiarito la norma secondo la quale “l’art. 120 c.p.p. non pone alcun divieto alla testimonianza dei minori, in quanto stabilisce solo che i minori degli anni quattordici e gli altri soggetti appartenenti alle categorie ivi indicate non possono intervenire come testimoni ad atti del procedimento”. Il Giudice Crapanzano conclude affermando che “si fissa in tal modo” solo una inidoneità generale della persone catalogate ad assolvere alla funzione di garanzia che la legge prevede per il compimento di determinate attività (ispezioni, perquisizioni ecc.)”. In altri termini, secondo l’Autore: “La minore età di un testimone non incide sulla capacità di testimoniare, che è disciplinata dal principio generale contenuto nell’art. 196, co. 1, del c.p.p., ma solo sulla valutazione della testimonianza e, cioè, sull’attendibilità”. In prospettiva, infatti “opera il regime ex art. 498, co. 4, del c.p.p. per l’esame del minore affidato al presidente del collegio giudicante e con l’ausilio di un un esperto psicologo”. Ciò implica, a parere dell’Autore, che per poter eseguire un esame testimoniale ben organizzato, sul minore - vittima di reato sessuale, vanno messe in atto, le linee-guida della “Carta di Noto” (1996/2002), che è entrata a far parte dei “criteri e valutazioni dei quali tengono conto i Giudici” per verificare “l’attendibilità dei testimoni”. Noi condividiamo in pieno questa tesi perché nella Carta di Noto si prevede che: “i professionisti formati a raccogliere le testimonianze dei minorenni debbano usare metodologie e criteri scientifici affidabili dovendo, però, al contempo, tenere presente che “la valutazione psicologica non può avere ad oggetto l’accertamento dei fatti per cui si procede...”. In conclusione - secondo noi “la valutazione (del minorenne) a rendere testimonianza può essere affidata ad un perito, mentre “la veridicità o meno del racconto del minorenne deve essere affidata al Giudice”. In buona sostanza - riteniamo correttamente che - in questi reati sia necessario predisporre particolare cautele processuali per tutelare la genuinità del processo e l’equilibrio psicofisico del minore. Muovendo da tali premesse, in buona sostanza, il Giudice Crapanzano analizza il requisito della capacità di testimoniare dei bambini. L’illustrazione dello studioso di diritto tiene conto, da ultimo, delle dinamiche processuali in ambito di perizia psicologica da effettuarsi nei confronti del minore vittima di abusi sessuali e prosegue la sua analisi evidenziando che “... anche i bambini in tenera età sono in grado di ricordare ciò che hanno visto e subito pur spettando al giudice di valutare la credibilità del dichiarante e l’attendibilità delle dichiarazioni...”. Per quanto concerne, invece, la capacità del minore di rendere testimonianza, il dott. Crapanzano evidenzia, con riferimento al ruolo del Giudice che: “l’inesistenza nel sistema normativo di preclusioni o limiti alla capacità del minore a rendere testimonianza (art. 196 c.p.p.) non affranca il giudice dal dovere di controllarne le dichiarazioni con impegno assai più solerte e rigoroso rispetto al generico vaglio di credibilità cui vanno sottoposte le dichiarazioni di ogni testimone... “, in quanto “in particolare nei reati a sfondo sessuale - dei quali il minore è frequentemente vittima e il suo contributo non è normalmente sottraibile alla ricostruzione del fatto - il Giudice deve accertare la sincerità della testimonianza del minore, con prudenza e con un esame rigoroso di tutti gli altri elementi probatori di cui si possa eventualmente disporre”. A tal proposito, afferma che “può rivelarsi necessario il ricorso agli strumenti dell’indagine psicologica per verificare la concreta attitudine del minore a testimoniare, la sua credibilità, la sua capacità a recepire le informazioni, a raccordarle tra loro, a ricordarle e a esprimerle in una visione complessa, da stimare in relazione all’età, alle condizioni emozionali che regolano le sue relazioni con il mondo esterno, alla qualità e alla natura dei suoi rapporti familiari”, anche al fine di “escludere che una qualunque interferenza esterna, talvolta collegata allo stesso ambiente domestico nel quale l’abuso sessuale non di rado si consuma , possa alterare la genuinità dell’apporto testimoniale”. In conclusione - secondo noi - in caso di mancato accertamento della sussistenza della capacità di testimoniare del minore, oppure dove manchino, ai fini di tale riscontro, elementi probatori, la testimonianza del minore è inficiata e passibile di ricorso in Cassazione. Scrivo questo articolo perché sposo in pieno la recentissima e innovativa giurisprudenza della Suprema Corte e le osservazione dell’illustre magistrato dott. Crapanzano in quanto ritengo utilissimo come strumento di ausilio del Giudice in un processo penale la perizia psicologica e i test Emdr essendo un cultore della psicologia giuridica nell’auspicio che la scienza psicologica venga sempre più applicata ed utilizzata nel processo penale essendo essa una branca della criminologia e ritenendo che diritto penale, processo penale e psicologia giuridica debbano camminare insieme non solo per l’accertamento della verità processuale, ma soprattutto per verificare se colui che ha compiuto um fatto - reato è stato mosso da una pulsazione criminale propria oppure perché era in stato di sudditanza psicologica. *Avvocato Penalista Cassazionista Frosinone: “dirigo il carcere di Paliano, ma vivo coi detenuti” di Chiara Daina Il Fatto Quotidiano, 5 febbraio 2018 “Hanno ricostruito tutto, dalle celle agli orti. La prigione ora è una casa”. Nadia Cersosimo ha 52 anni E da undici è a capo del penitenziario in provincia di Frosinone dove risiedono 89 collaboratori di giustizia. Possono frequentare le scuole e hanno una biblioteca a loro disposizione. E tutti hanno un lavoro. “Ogni giorno - racconta la direttrice - imparo qualcosa da chi ha sbagliato”. Quando è arrivata nella fortezza di Paliano, nel 2006, erano rimasti 29 detenuti. L’unico carcere in Italia, in provincia di Frosinone, esclusivamente riservato ai collaboratori di giustizia da lì a poco sarebbe stato chiuso. Le celle erano fatiscenti e non c’era niente da fare tutto il giorno se non fissare il vuoto. Nadia Cersosimo ha 52 anni, di cui 23 passati a dirigere istituti penitenziari. Oggi, grazie alla sua tenacia, le mura della fortezza che fu della famiglia Colonna, nel cuore della Ciociaria, sono rinate e accolgono 89 criminali che hanno deciso di collaborare con la magistratura. “È stata una sfida - commenta. Pensavo di restare solo qualche mese ma sono diventati 11 anni”. E il carcere si è trasformato in una casa. “Da tre anni vivo nell’alloggio demaniale sopra il mio ufficio, con le finestre che si affacciano sul piazzale dell’istituto”, racconta. Al mattino scende un piano di scale e passando davanti al laboratorio di cucina dove lavorano alcuni prigionieri sente l’odore dei cornetti appena sfornati. Quando ha cinque minuti liberi entra e suggerisce ricette calabresi, come la pasta al forno con le uova sode, perché lei è nata nella provincia di Cosenza e la sua terra ce l’ha nel sangue. Capita che si metta anche ai fornelli quando ci sono ospiti. E tutte le domeniche va a messa con i detenuti nella cappella interna. Nadia si è portata anche i suoi genitori dentro il carcere. “Fin quando era in vita mia madre era lei che insegnava ai detenuti a preparare bignè, bocconotti e cannoli”. Tutti i parenti le hanno dato una mano. “Le mie nipoti hanno decorato le pareti della sala colloqui per renderle più accoglienti. Anche le mie sorelle mi hanno aiutato a sistemare il posto. Siamo una famiglia detenuta praticamente”. Sorride. Ma chi glielo ha fatto fare di mollare la città per isolarsi in un carcere di massima sicurezza che stava per cadere a pezzi, incastonato in cima a una collina e circondato da un borgo di un’altra epoca e di poche anime nelle campagne di Frosinone? “A volte me lo chiedo anch’io. Ma non mi sono mai pentita. I miei sforzi sono stati ripagati dai risultati e ogni giorno da chi ha sbagliato imparo qualcosa”. Non avendo abbastanza soldi per ristrutturare l’antico forte, la prima cosa che ha pensato Nadia è stata quella di mettere al lavoro i detenuti. “Senza la loro manodopera gratuita niente sarebbe stato possibile - sottolinea -. Hanno rifatto le celle, i corridoi, gli spazi comuni e l’area verde, e hanno messo in piedi un sistema di videosorveglianza che sembra assurdo ma in un luogo del genere fino a quel momento mancava ancora”. Ora a Paliano i detenuti possono frequentare le scuole e hanno una biblioteca a loro disposizione. E tutti hanno un lavoro. C’è chi si occupa dell’orto biologico e chi prepara le conserve di pomodoro. E poi chi bada agli animali. “Abbiamo 200 galline, 70 conigli, sei capre che tengono pulito il giardino lungo il muro di cinta, sei asini, due maiali, un cavallo e fra poco 30 pecore. Vorremmo creare una pensione per cani e un allevamento di fattrici di razze utili alle forze di polizia” spiega Nadia. Insomma dove prima c’erano solo terreni deserti adesso è sorta una piccola azienda. I prodotti sono in venduta nello spaccio interno, solo per i dipendenti della struttura al momento. Chi non lavora all’aria aperta è impegnato in uno dei laboratori. A infornare pizze e dolci. A realizzare piatti e vasi di ceramica. A dipingere icone o lavorare il legno. Mentre nel carcere di Paliano si compiva un miracolo, lo Stato investiva sempre di meno nella sicurezza e il personale è stato drasticamente tagliato. Fino ad avere meno della metà degli agenti in dieci anni (da 108 a 40). Ma Nadia (che dice che ne servirebbero almeno 30 in più) non si è mai persa d’animo. Direttrice visionaria e instancabile, che tante volte ha coperto il turno in portineria perché chi è andato in pensione non è stato sostituito, è una delle 89 donne a capo di un istituto penitenziario (contro i 56 direttori uomini). Una maggioranza rosa ormai da anni. Nadia è orgogliosa: “Abbiamo una marcia in più. Siamo più empatiche e anche più autorevoli. A noi non serve la voce grossa per farci ascoltare, ci basta uno sguardo. La differenza di genere, soprattutto in un carcere pieno di uomini, è un valore aggiunto. I pregiudizi sono subito vanificati dal lavoro che fai”. La scorsa primavera Papa Francesco è andato a Paliano (sopra) dopo aver ricevuto una lettera di Nadia. “Mi ha detto ‘lei è come una mamma per i detenuti”. Non ho sentito sminuito il mio ruolo, anzi. Il Santo Padre ha riconosciuto il valore morale di una madre per chi deve riemergere dalla delinquenza. I detenuti si rivolgono a me non solo come direttrice ma anche come persona. Spesso mi coinvolgono nelle loro questioni private, mi chiedono di mediare con le mogli e i figli”. Lei invece è ancora single. “Non perché ho messo al primo posto la carriera. Non è vero che devi rinunciare a tutto per fare bene il tuo lavoro. Io un uomo non ce l’ho perché non ho ancora trovato quello giusto, semplicemente. Ma alle mie nipoti dico sempre, mi raccomando siate autonome anche in coppia, non dovete mai dipendere da un uomo”. Frosinone: serial killer nel carcere, altre morti sospette di Angela Nicoletti frosinonetoday.it, 5 febbraio 2018 Daniele Cestra, accusato di aver assassinato, simulando un suicidio, due compagni di cella, potrebbe aver ucciso altri due uomini. Al via gli accertamenti del medico legale Daniela Lucidi sui resti di un cadavere riesumato di un pugliese di cinquantasei anni. Diventa sempre più certa la figura di un serial killer nel carcere di Frosinone. Daniele Cestra, il 45enne di Sabaudia, accusato di aver simulato il suicidio, per impiccagione, del suo compagno di cella, l’anziano Giuseppe Mari, di Sgurgola, dopo averlo invece strangolato, è sospettato di altre tre morti analoghe avvenute sempre nell’istituto penitenziario del capoluogo ciociaro. I sospetti - Le indagini della Procura proseguono senza sosta e il prossimo 12 febbraio a Roma saranno esaminati, dal medico legale Daniela Lucidi, i resti riesumati di un altro compagno di cella di Daniele Cestra, un 56enne di Bari. Il sospetto nutrito dal sostituto procuratore Vittorio Misiti, magistrato titolare delle indagini, è quello che Cestra abbia ucciso anche il detenuto pugliese, strozzandolo, e poi abbia inscenato la stessa farsa attuata con lo sfortunato compagno di cella originario del piccolo paese ciociaro. Un ulteriore colpo di scena è arrivato nei giorni scorsi quando gli agenti della Polizia Penitenziaria della casa circondariale di via Cerreto, hanno notificato all’uomo, detenuto nel carcere di Terni, altri due avvisi di garanzia. L’accusa è sempre la stessa: omicidio volontario. Si sta, infatti indagando, su altre due decessi, apparentemente per suicidio, avvenuti nel braccio dove Mari era rinchiuso e dove svolgeva attività assistenziale. I precedenti - Una sorta di impulso irrefrenabile quello di cui Mari è soggetto? Lo stesso è in carcere per scontare una condanna a 18 anni per aver ucciso, sempre dopo averla strangolata, un’anziana donna, Anna Vastola, che a 81 anni fu uccisa da Daniele Cestra che era stato sorpreso a rubare in casa. La reazione del ladro, alle urla della pensionata, fu terribile: la strangolò. A sfuggire alla sua furia mortale è stata, nel 2012 e solo per puro caso, un’altra anziana: Settimia Filosa di ottantadue anni. Daniele Cestra con la scusa di darle un passaggio in auto fino a Sabaudia si sarebbe poi appartato con la donna a Baia d’Argento, si sarebbe sbottonato i pantaloni, mostrandole parti intime e poi l’avrebbe rapinata della collana e dei due anelli in oro che indossava. A salvare la donna fu il tempestivo intervento di alcuni passanti che allertarono i carabinieri Sala Consilina (Sa): l’avvocato Paladino attacca i partiti sulla vicenda del carcere di Erminio Cioffi infocilento.it, 5 febbraio 2018 “Pd, Forza Italia e Movimento 5 Stelle non hanno fatto nulla per salvarlo”. Approfittare della campagna elettorale in corso per cercare di ottenere degli impegni seri da parte dei candidati per arrivare alla riapertura della Casa circondariale di Sala Consilina. È questo l’appello che l’avvocato Angelo Paladino, Presidente della sezione valdianese dell’Unione Giuristi Cattolici e componente della Camera Penale, ha rivolto all’amministrazione comunale ed all’Ordine degli avvocati di Lagonegro per evitare che il provvedimento di chiusura della casa circondariale possa diventare definitivo. La chiusura è stata disposta alla fine del 2015 dal Ministero della Giustizia e da allora il circondario del Tribunale di Lagonegro, il terzo in Italia per ampiezza di territorio, si è ritrovato senza un istituto penitenziario e conseguenza di ciò sono stati una serie di problemi che hanno finito per colpire non solo gli addetti ai lavori, magistrati ed avvocati, ma anche i detenuti ed i loro familiari. “Il Ministero di Giustizia - ha spiegato l’avvocato Paladino - con una sua nota ha detto chiaramente che non è sostenibile economicamente pensare alla riapertura del carcere di Chiaromonte o di Lagonegro, entrambi in provincia di Potenza. Il carcere di Lagonegro si trova inoltre su un territorio in frana e ci vorrebbe una spesa di oltre 6 milioni di euro, invece per Chiaromonte ci vorrebbe una spesa superiore a un milione di Euro”. Paladino sostiene che i principi di territorialità di prossimità della struttura carceraria “devono essere rispettati e, se la politica vuole, questi principi vengono rispettati. I detenuti devono stare quanto più vicini alle famiglie di origine e poter stare costantemente in contatto con il proprio avvocato. È assurdo che ci sia un tribunale che non ha un carcere circondariale”. Il presidente dei Giuristi Cattolici non risparmia una stoccata ai partiti politici perché “fino ad oggi - sottolinea - nessun partito si è occupato di questo problema, nulla ha fatto il Pd, nulla ha fatto Forza Italia e nulla ha fatto il Movimento 5 Stelle. I candidati dei nostri collegi se vogliono i nostri voti il 4 marzo devono impegnarsi seriamente e concretamente per ottenere la revoca del decreto di chiusura”. Per Paladino le strade da seguire restano soltanto due: “o quella di una nuova struttura o una ristrutturazione del carcere di Sala Consilina che è quello che più facilmente può essere ampliato per ospitare 51 detenuti e con una spesa di poche centinaia di migliaia di euro”. Potenza: Bolognetti (Radicali) “nel carcere non si rispetta la Costituzione” ufficiostampabasilicata.it, 5 febbraio 2018 Quanto sta avvenendo nel carcere di Potenza, l’illegalità di parte della struttura, denunciata dal corpo degli agenti di Polizia penitenziaria, dimostra, ove mai ce ne fosse stato bisogno, che le nostre carceri non rispettano il dettato costituzionale e quanto esse siano assurte da tempo a luoghi di tortura per l’intera comunità penitenziaria, detenuti e Agenti di polizia in primis. Luoghi di tortura senza torturatori, così le avrebbe definite Marco Pannella, e le sue parole risuonano, oggi più di ieri, come monito. È quanto sostiene Maurizio Bolognetti, segretario regionale dei Radicali Lucani, capolista al Senato per Insieme (proporzionale/Basilicata), secondo il quale “il caso Potenza, che assurge ad emblema del complessivo caso Italia, dovrebbe far riflettere tutti noi. Uomini e donne, che lavorano con spirito di abnegazione, messi nell’impossibilità di rispettare quella Costituzione a cui hanno giurato fedeltà; carceri dove non vive il rispetto del dettato costituzionale. A giugno scorso il nostro Parlamento - prosegue Bolognetti - ha approvato in via definitiva la legge delega di riforma dell’Ordinamento penitenziario; a distanza di 8 mesi non è stato ancora completato l’iter che dovrebbe portare alla piena attuazione di quella che è ormai legge dello Stato. Attraverso l’iniziativa nonviolenta in corso, chiediamo, con Rita Bernardini e l’intera comunità penitenziaria, che Governo e Commissioni competenti portino a termine, con “l’approvazione definitiva prima delle elezioni politiche del 4 marzo, l’iter dei Decreti Legislativi di riforma dell’Ordinamento penitenziario e che completino la riforma stessa con i decreti attuativi mancati, in particolare quelli riguardanti affettività e lavoro”. Più in generale, verrebbe da aggiungere - conclude il segretario regionale dei Radicali Lucani - che in questo nostro Paese occorre ripristinare il rispetto della Legge, della Costituzione, delle Convenzioni a tutela dei diritti umani. Vale non solo per il fronte giustizia-carceri, ma anche sul fronte della tutela ambientale, del lavoro e del sacrosanto diritto di tutti e di ciascuno a poter conoscere per deliberare. Intanto, Bolognetti prosegue lo sciopero della fame iniziato il 26 gennaio scorso per sollecitare la definitiva approvazione dei decreti delegati di riforma dell’Ordinamento Penitenziario che deve necessariamente avvenire prima del 4 marzo, giorno del voto per le elezioni politiche. “Il mio Satyagraha - dice a riguardo - prosegue e prosegue anche nel ricordo di una frase dell’antitotalitario Ernesto Rossi: “l’Italia non potrà essere diversa se non siamo noi capaci di volerla diversa. E volere è agire”. Insieme si può”. Caltanissetta: nasce in Sicilia l’associazione nazionale degli educatori nelle carceri lagazzettaennese.it, 5 febbraio 2018 Nasce in Sicilia, ma con un respiro nazionale, l’A.N.F.T., che riunisce gli educatori delle carceri, tecnicamente funzionari Giuridico-Pedagogici del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, con l’obiettivo di dare maggiore effettività alla funzione rieducativa della pena e rendere quindi l’esecuzione della pena in carcere più conforme al dettato della Costituzione italiana ed alle norme internazionali. Nell’associazione , che registra già centinaia di associati in tutta Italia, confluiscono le figure che curano l’osservazione scientifica della personalità degli autori di reato in esecuzione di pena in carcere e l’approntamento di percorsi trattamentali individualizzati finalizzati alla loro risocializzazione. Tra le richieste da portare avanti la creazione di un ruolo tecnico all’interno del Corpo di Polizia Penitenziaria destinato ad assorbire i funzionari Giuridico-Pedagogici i quali, finora sono stati dei dipendenti civili dello Stato al pari di tutti gli altri impiegati dell’Amministrazione Statale, nonostante la particolare specificità del ruolo, dei compiti espletati e del contesto carcerario dove operano. La prima uscita pubblica dell’ l’A.N.F.T. sarà a Caltanissetta, il prossimo 10 febbraio , alle ore 14.30, alla Cripta della Cattedrale, in un incontro dibattito dal tema “L’effettività della funzione rieducativa della pena ed il ruolo centrale degli operatori del trattamento” al quale parteciperanno magistrati, amministratori pubblici ed esperti in materia di esecuzione penale intramuraria. Roma: detenuti del carcere di Rebibbia, c’è chi ride di Agnese Malatesta Ansa, 5 febbraio 2018 Corso volontari di yoga della risata, “mi sembra di non essere qui”. “Una risata vi seppellirà” recitava uno slogan politico del passato. Una risata è comunque sempre benefica. E lo è soprattutto in circostanze negative della vita, in situazioni senza possibilità di fuga, anche solo mentali. Come può appunto essere la condizione carceraria. Nell’istituto penitenziario romano di Rebibbia, un gruppo di detenuti si sta affidando alla risata per “evadere”. Lo fa con lo “yoga della risata”, una pratica ideata una ventina di anni fa dal medico indiano Madan Kataria che induce a ridere senza motivo, ricorrendo ad esercizi di rilassamento con un’attenzione al respiro. Una dozzina di detenuti del G12 nel nuovo complesso del carcere, una volta la settimana, per due ore, si dedica a questa pratica guidata da due giovani volontarie del Vic (Volontari in carcere)- Caritas di Roma: Cinzia Perrotta, 24 anni romana, una laurea in scienza dell’educazione, e Eleonora Giannascoli, 27enne di Teramo, psicologa. A seguire questo percorso sono giovani e meno giovani, per lo più italiani, ci sono ergastolani ma anche detenuti la cui pena è in via di conclusione; il gruppo quindi si modifica, è dinamico condizionato dalle uscite e dalle entrate. “Il progetto - spiega Cinzia - è nato due anni fa. Una quarantina le persone che abbiamo incontrato in questo periodo. Con molte, anche quelle poi uscite dal carcere, abbiamo mantenuto un rapporto di amicizia. Sappiamo di legami che continuano fra gli stessi detenuti”. “Il principio dello yoga della risata - sottolinea Eleonora - è ridere senza motivo, senza lo stimolo di alcuna comicità. Si ride attraverso esercizi di risate, in gruppo, guardandosi negli occhi e tornando un po’ bambini, cioè recuperando entusiasmo e gioco. Inoltre, si recupera l’attenzione alla respirazione, in quanto la risata non è altro che un’espirazione molto profonda e continuata”. La risata contribuisce a produrre gli ormoni del benessere, tra cui le endorfine e la serotonina; gli ormoni dello stress, come il cortisolo, invece diminuiscono. “Sono processi fisiologici” affermano le due volontarie citando studi e ricerche che confermano questi meccanismi benefici. “Abbiamo riscontri continui dai detenuti che dopo una seduta di yoga della risata si sentono più leggeri, meno angosciati, le relazioni in cella tendono ad essere più serene. Qualcuno riesce anche a praticare da solo. Si tratta - dice Cinzia - di un esercizio mentale e fisico che aiuta l’autostima, rallenta le tensioni e migliora l’umore, riescono a dormire meglio. Anche gli agenti ci riferiscono di espressioni facciali più distese dopo la pratica”. Insomma, una tecnica che può aiutare a gestire la tristezza, l’ansia, la paura, emozioni presenti alla potenza in una cella. “Questo tipo di yoga - precisa Eleonora - allena tanto la resilienza. Cercare di ridere, e la risata è contagiosa, rappresenta una sorta di provocazione: ribalta il criterio della pena come punizione”. Per le sedute, sono sufficienti solo dei tappetini: ci si sdraia a terra, o si sta seduti oppure in piedi, ci si guarda negli occhi, si comincia a ridere, una risata autoindotta, piena di vita. “Alcuni detenuti affermano che hanno giocato più con noi in questi incontri che durante tutta la loro vita”. Quest’anno il progetto, alla terza edizione, si è arricchito di altre attività; non solo yoga della risata ma anche laboratorio visivo, lettura, scrittura creativa, improvvisazione teatrale. “Sono due ore settimanali che i detenuti vivono come una fuga dalle mura del carcere in cui ritrovano emozioni positive e ripetibili”. Uno di loro ha scritto una lettera a Cinzia ed Eleonora: “quando sto con voi a fare yoga della risata mi sembra di non essere qui ma di essere su un’altra galassia, dove c’è gioia, amore, e tutto quello che serve a un essere umano, perciò abbiamo bisogno di voi e che continuiate”. Livorno: il rugby si gioca anche nel carcere di Porto Azzurro di Roberto Marini stileliberonews.org, 5 febbraio 2018 L’A.S.D. Etruria Rugby di Piombino nasce nel 1969 per iniziativa di un piccolo gruppo di appassionati, tra cui David Hart, inglese d’origine ma Piombinese di adozione. Passano molti anni e la Società cresce in termini di iscritti, si passa infatti da poco più di 20 atleti nel 1969 ai circa 300 attuali, ai quali vanno aggiunti i membri del consiglio, tecnici, genitori fattivamente impegnati nella gestione societaria. Ad oggi vengono coinvolte circa 450 persone con squadre giovanili dalla under 6 alla under 20, 2 squadre seniores maschili e da questo anno anche una squadra femminile. Ma il movimento rugbistico locale non si esaurisce con l’impegno sportivo; dal rugby arrivano spesso messaggi educativi e di integrazione. L’ Etruria Rugby Piombino si è impegnata negli scorsi anni in alcuni progetti a favore del sociale che hanno interessato più di 800 ragazzi delle scuole medie della nostra città: “Rugby Scuola Alimentazione” e “Rugby Scuola Integrazione”. Il primo per educare i ragazzi ad una corretta alimentazione, il secondo per dare uno strumento ulteriore all’integrazione di ragazzi di origine non italiana . Dallo scorso anno è in atto nel carcere di Porto Azzurro il progetto “Palla difettosa” . Il progetto ha iniziato il proprio percorso dall’idea dell’educatore Paolo Madonni che, insieme a Massimo Mansani e Marcello Serra ex giocatori, ha cominciato, con la collaborazione della direzione del carcere, a spiegare le regole e a giocare a rugby con i detenuti. Il progetto è arrivato a coinvolgere 25/30 ragazzi di età compresa tra i 25 e i 35 anni. Lo scorso anno gli incontri erano limitati a uno a settimana, ma per la prossima stagione potrebbero diventare due. Spesso il concetto di carcere come riabilitazione viene dimenticato; Palla difettosa tende a dare una mano a uomini che hanno solo bisogno di un’altra opportunità per dimostrare la voglia di riscatto sociale. È uno sport, il rugby, che potrebbe apparire agli occhi di un profano, un guazzabuglio di botte e violenza, ma in realtà riesce ad offrire nuovi ponti di collegamento alla dignità umana. È sorprendente quanto l’onore di appartenere ad un gruppo che suda, soffre e gioisce insieme, unito dai valori di uno sport , possa donare speranza anche a chi vive il dramma del carcere. Il rugby è uno sport di grande agonismo, dove si gioca fino all’ultimo minuto, ma vincere e perdere hanno lo stesso significato, è uno sport dove le regole ferree impongono una disciplina esemplare, che impone essa stessa un comportamento leale. Il fair-play, inteso come amicizia, solidarietà, rispetto delle regole, delle decisioni arbitrali e della superiorità dell’avversario. fa parte delle regole e insegna a diventare uomini leali e cittadini migliori. Il rugby ha unito un paese come il Sudafrica, traghettandolo fuori dall’apartheid, può essere anche uno degli strumenti per ridare dignità ai detenuti, alleviare la vita carceraria e, per il futuro, favorire un miglior inserimento nella società civile. Le “piccole” bombe atomiche del Pentagono che preoccupano l’Italia di Stefania Maurizi La Repubblica, 5 febbraio 2018 Due giorni fa il Pentagono ha pubblicato il documento di “Revisione della Posizione Nucleare”: si tratta della prima riforma della dottrina nucleare degli Usa dal 2010. Nel documento sono illustrate le strategie americane per fronteggiare le minacce nucleari nei prossimi decenni. Cuore del progetto è lo sviluppo di armi atomiche di misura ridotta, che avrebbero un maggior effetto di deterrenza sulla Russia e sulla Corea del Nord perché di più rapido impiego. Il cambio di strategia può riguardare anche gli armamenti statunitensi che si trovano in Europa e in Italia. La Nuclear Posture Review, con cui l’Amministrazione Trump ha definito la sua politica in materia di armi nucleari, suscita reazioni e preoccupazioni tra gli esperti. L’Italia è il Paese europeo che ha il maggior numero di atomiche Usa sul proprio territorio e l’unico ad avere due basi nucleari: Aviano e Ghedi. Con la nuova dottrina Trump e con l’acquisto degli F35 con capacità nucleare, come cambiano le cose? A spiegare a Repubblica che cosa accadrà è l’americano Hans Kristensen, autorità in materia di armi nucleari americane in Europa e direttore del Nuclear Information Project della Federation of American Scientists. “Al momento, le mie stime mi portano a valutare che il numero di ordigni sul territorio italiano sia sceso intorno a 50 atomiche: 20 a Ghedi e 25-30 ad Aviano”, analizza Kristensen, spiegando che “la Nuclear Posture Review non cambierà questi numeri, ma si parla di incrementare, quando ce ne sarà bisogno, la loro prontezza, efficacia e capacità di resistere sul campo”. Fino a quattro anni fa, Kristensen stimava che in Italia fossero stoccate 70 atomiche di due tipi: la B61-3, che ha una potenza tra 0,3 e 170 kiloton - l’atomica di Hiroshima, che fece circa 200mila morti, aveva una potenza intorno ai 15 kiloton - e la B61-4, con potenza tra 0,30 e 50 kiloton. Si tratta, dunque, di due ordigni nucleari che possono avere un “low-yield”, ovvero quella bassa potenza che tanto fa discutere gli esperti: la dottrina Trump punta alla costruzione di atomiche “piccole”, che però rischiano di essere più pericolose delle grandi. Può sembrare paradossale, ma per questi armamenti vale il principio “less is more”: più le atomiche hanno una distruttività limitata più c’è il rischio che siano usate in combattimento, abbattendo per la prima volta il tabù nucleare, una regola che ha fatto sì che, dopo Hiroshima e Nagasaki, l’atomica non fosse mai più usata nei conflitti, ma fosse impiegata solo come deterrente. Le B61-3 e B61-4 che oggi si trovano ad Aviano e Ghedi saranno rimpiazzate con la nuova bomba B61-12, che entrerà in produzione nel 2020 e sarà stoccata nelle basi europee intorno al 2024. Si tratta di un’arma con una potenza che può variare da 0,3 fino a 50 kiloton e che può essere disponibile in una versione “piccola”. Gli esperti nucleari non capiscono quale possa essere la logica dell’Amministrazione Trump nel puntare a costruire nuovi ordigni di potenza limitata, dal momento che negli immensi arsenali Usa ce ne sono già mille esemplari disponibili. “La Nuclear Posture Review chiede un massiccio investimento nel ricostruire l’arsenale nucleare americano al prezzo di 1.200 miliardi di dollari”, scrive la prestigiosa rivista di controllo degli armamenti Bulletin of the Atomic Scientists. Kristensen crede che il fatto che Trump “proponga di sviluppare un missile nucleare Cruise lanciato dal mare suggerisce che gli Usa non vedano le bombe atomiche presenti in Europa come molto utili”. Quanto al passaggio dell’Italia ai nuovi caccia F35 capaci di lanciare ordigni atomici, Hans Kristensen fa notare che questa scelta non comporterà alcun cambiamento: “L’Italia passerà dai Tornado agli F35, per le missioni nucleari, ma questo era noto da tempo”. Il braccialetto di Amazon e il futuro di tutti noi di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 5 febbraio 2018 Non è escluso che andando a fare la spesa useremo un giorno la tecnologia che guida la mano del magazziniere, giustamente criticata in questi giorni. Nel primo supermercato AmazonGo, aperto il 21 gennaio scorso a Seattle, il cliente entra identificato dal suo codice QR, prende quello che vuole ed esce senza passare dalla cassa: sensori e immagini registrano i prelievi dagli scaffali e l’addebito è automatico. Chi ha fatto la spesa lì sostiene di aver visto solo due dipendenti: uno dà il benvenuto all’ingresso, l’altro controlla i documenti di chi compra alcolici (vietati, negli Usa, ai minori di 21 anni). Amazon che reinventa il negozio spaventa tutto il mondo della distribuzione. E c’è chi vede problemi di privacy e sfruttamento dei dati personali degli utenti, mentre altri temono la scomparsa di nuove categorie di lavoratori. Ma l’automazione ha anche i suoi vantaggi e, comunque, appare inarrestabile. I tecnici di Amazon hanno un solo cruccio, confessato al sito specializzato Geekwire: AmazonGo comporta “un lavoro computazionale intenso e costoso”. La nuova tecnologia del braccialetto a ultrasuoni appena brevettato dalla società di Jeff Bezos, aggiungono, è più semplice e ha vantaggi rispetto a quella di computer vision appena introdotta a Seattle. Insomma non è escluso che la tecnologia del braccialetto che guida la mano del magazziniere - giustamente criticata nei giorni scorsi in Italia con parole di condanna severa venute persino del presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, e della presidente della Camera, Laura Boldrini - la useremo un giorno anche noi andando a fare la spesa. In modo più o meno consapevole, magari sedotti da una versione raffinata e trasformata in bracciale virtuale. Giusto mettere sotto accusa una tecnologia che, se applicata, sarebbe in contrasto con le regole e la dignità del lavoro come l’abbiamo concepita finora in Italia. Ma forse, più che reagire in modo improvviso e accaldato quando viene approvato un brevetto (la tecnologia è stata presentata da Amazon nel 2006 e una discussione sulle sue implicazioni c’è già stata nell’autunno scorso, quando l’authority Usa ha avviato l’esame del caso) dovremmo occuparci un po’ di più, anche a livello politico, del vero problema sottostante: la tecnologia sta cambiando inesorabilmente il lavoro e in futuro, anche se la cosa non ci piace per niente, l’integrazione tra uomo e macchina sarà l’unica alternativa alla disoccupazione tecnologica di massa. È quello che ci spiega ogni tecnottimista quando viene espresso il timore che il meccanismo di sviluppi degli ultimi secoli - nuove tecnologie che demolivano vecchi lavori ma ne creavano anche altri, a livello più elevato, in nuovi settori - si sia inceppato perché l’intelligenza artificiale, invadendo anche l’area cognitiva, imparerà a fare tutto o quasi. Invariabilmente la risposta è che l’uomo non verrà sostituito dalla macchina ma si integrerà con lei. Il problema è come: la gamma è infinita e va dalla risonanza magnetica che consente al medico di diagnosticare un male che altrimenti non avrebbe scoperto, al microchip impiantato nel cervello ipotizzato da Elon Musk per tenere testa a un’intelligenza artificiale che potrebbe tentare di prendere il sopravvento sull’uomo. La battuta sul bracciale della leader della Cgil, Susanna Camusso (“mettono anche la palla al piede?”) è efficace, a patto che dietro non ci sia l’incapacità di confrontarsi con una realtà in continua evoluzione. I tecnici di Amazon difendono il braccialetto: il suo impiego ridurrebbe la fatica del lavoratore che, grazie al leggero impulso sul polso, non dovrebbe più scannerizzare gli oggetti nè tenere gli occhi fissi sul computer. Probabilmente è la visione idilliaca di ingegneri relativamente poco preoccupati degli aspetti umani e psicologici del lavoro nei centri di smistamento di Amazon. Alcuni ex dipendenti di questi depositi in Gran Bretagna hanno raccontato al New York Times: “Dopo qualche anno lì ci sentivamo una versione dei robot coi quali lavoravamo”. Giusto, quindi, porci il problema dei limiti etici dell’automazione sia dal punto di vista della dignità della persona che da quello della tutela dei suoi dati. Evitando, però, di ragionare con schemi ormai superati: dobbiamo tenere testa a una tecnologia profondamente cambiata e che continua a evolvere a grande velocità. In passato negli uffici sono state combattute battaglie contro i tornelli che registrano elettronicamente ingressi e uscite. Nei giornali, quando arrivarono le prime banche dati, si chiese di bloccare la capacità del computer di elencare il numero di articoli pubblicati in un anno da un singolo redattore. A ripensarci ora, sembrano storie dei tempi delle diligenze. Ma era solo ieri. E oggi non ce la dobbiamo vedere solo con telecamere e sensori di movimento già diffusi in molti uffici e con qualche azienda che propone ai suoi dipendenti l’applicazione di un chip sottocutaneo. È già al lavoro anche una nuova famiglia di aziende specializzate nell’uso dell’intelligenza artificiale per il controllo delle attività interne degli uffici. Come la britannica Status Today. Le cui innovazioni nella sorveglianza sono talmente sofisticate da aver attirato l’attenzione, e il sostegno, del Gchq, la torre di controllo dei servizi segreti inglesi. Immigrati, l’occasione perduta di Gianandrea Gaiani Il Mattino, 5 febbraio 2018 L’avvio dell’operazione navale Themis con cui l’Agenzia europea delle frontiere (Frontex) ha sostituito Triton, in atto dal 2014, è stata salutata in Italia con un ottimismo probabilmente eccessivo. La Ue schiererà le sue navi in due settori distinti davanti alle coste italiane: a sud per fronteggiare gli arrivi di immigrati illegali da Algeria, Egitto, Tunisia e soprattutto Libia, e a sud est per parare gli sbarchi da natanti provenienti da Turchia e Albania. Themis avrà quindi un mandato più ampio rispetto alla precedente missione ma continuerà ad occuparsi della ricerca e del soccorso dei migranti in mare anche se il governo italiano apprezza che sia stata accoltala richiesta formulata nell’estate scorsa di modificare il regolamento delle due missioni europee (quella di Frontex e l’Operazione Sophia che dovrebbe, in teoria, contrastare i trafficanti) che prevedeva che tutti i migranti illegali soccorsi venissero sbarcati in Italia. Una “regola capestro” che scatenò non poche polemiche a Roma non solo perché l’ex ministro degli Esteri, Emma Bonino, affermò che fu Matteo Renzi e il suo governo ad accettarla se non addirittura a caldeggiarla, ma soprattutto perché il diritto internazionale prevede che i naufraghi soccorsi vengano sbarcati nel primo porto sicuro. In questo caso è chiaro che i porti sicuri più vicini ai luoghi in cui vengono soccorsi i migrati illegali sono quelli libici, tunisini, maltesi e quello italiano di Lampedusa. Pare però altrettanto evidente che le decisioni di Frontex hanno valore solo in ambito europeo, quindi la Tunisia potrà continuare a rifiutarsi di accogliere clandestini africani ma, paradossalmente, non accetta neppure il rimpatrio dei suoi connazionali a cui in genere è sufficiente scatenare disordini a Lampedusa per indurre le autorità italiane ad accelerare il loro trasferimento a Porto Empedocle, non a Tunisi. Malta, che è membro dell’Unione, ha già protestato perle regole dell’operazione Themis e non sembra voler recedere dalla sua politica di totale rifiuto dell’accoglienza ai clandestini in arrivo dalla Libia. Del resto, se anche le pressioni italiane riuscissero a rendere i maltesi più flessibili, è indubbio che nel piccolo Stato insulare non potranno trovare ospitalità che poche centinaia o al massimo poche migliaia di migranti illegali che provocherebbero gravi disordini (come a Lampedusa) dal momento che tutti i clandestini puntano a raggiungere il continente. “In caso di incidente un centro di coordinamento di soccorso marittimo (Mrcc) ha l’obbligo di coordinare le operazioni e decide in ciascuno caso in quale porto i migranti saranno sbarcati” ha precisato una portavoce della Commissione Ue aggiungendo che “nella maggior parte dei casi è il centro italiano che deciderà dove inviare le imbarcazioni”. Difficile però ritenere che richieste di accoglienza dei migranti illegali formulate a Malta o Tunisia dell’Mrcc italiano possano venire accolte se non in casi sporadici. Inoltre, sul piano della deterrenza, come su quello politico e mediatico, non aiuta il fatto che al recente Forum di Davos Paolo Gentiloni abbia affermato davanti ai media di tutto il mondo che Roma “non chiuderà i porti ai migranti”. Anche il ridimensionamento dell’area di pattugliamento assegnata all’Italia previsto da Themis non ci offre in realtà reali garanzie poiché navi italiane, europee e delle Ong raccolgono molti clandestini di fronte alle coste libiche e solo la loro consegna alla Guardia costiera libica (che già attua i respingimenti e affida i migranti alle agenzie dell’Onu per il loro rimpatrio) garantirebbe lo stop ai flussi e permetterebbe di scoraggiare ulteriori partenze con la certezza che a nessuno verrà consentito di giungere illegalmente in Italia. Senza i respingimenti assistiti non sarà possibile fermare i flussi (al massimo si potrà rallentarli) né assumere iniziative risolutive che tutelino la legalità e la sicurezza. Themis invece, come le altre operazioni navali nazionali ed europee in atto, sottolinea che “le attività di ricerca e soccorso resteranno una componente cruciale ed essenziale del piano” anche se è prevista una componente di sicurezza, che includerà “la raccolta di intelligence e altre misure mirate a individuare i foreign fighters ed altre minacce terroristiche ai confini esterni”, come recita il documento di Frontex. Più che leciti quindi i dubbi poiché di informazioni di intelligence sui flussi illegali ne vengono raccolte dal 2013 in grande quantità da italiani, flotte Ue e persino dalla Nato. Abbiamo piena consapevolezza che i flussi arricchiscono criminali e terroristi, portando in Europa criminali, jihadisti e, nella migliore delle ipotesi, persone che provengono dalle società più violente del mondo (africane e del mondo islamico), puntano a sfruttare il nostro welfare e soprattutto non dovrebbero avere alcun diritto ad essere accolti in base alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951. Meglio poi non dimenticare che gli arrivi dei soggetti più pericolosi avvengono probabilmente coni cosiddetti “sbarchi fantasma”, che permettono ai clandestini di far perdere le loro tracce appena sbarcati in Sicilia. Un elemento riportato alla ribalta dal recente Rapporto di Interpol reso noto dal Guardian e che dovrebbe consigliare l’Italia e l’Europa a “sigillare” le sue coste intensificando i controlli marittimi con due filtri: uno a ridosso delle coste della Tripolitania libica e della Tunisia per attuare immediati respingimenti assistiti in collaborazione con le autorità di Tunisi e Tripoli e l’altro al limite delle acque territoriali italiane per intercettare eventuali natanti riusciti a infiltrarsi e a superare il primo schieramento navale. Una scelta impellente e non più rimandabile specie ora che le vicende di Macerata confermano i peggiori timori espressi da diversi osservatori che si occupano di difesa e sicurezza e che da anni paventano derive violente della crescente insofferenza degli italiani nei confronti di un’immigrazione che rappresenta una minaccia oggettiva a fronte di uno Stato che fa di tutto per tutelarla quasi nascondendone o rifiutandosi di riconoscerne il devastante impatto sociale. L’operazione Themis, che prende il nome di una figura mitologica greca che rappresenta la Giustizia, è quindi un’altra occasione perduta dalla Ue per dare un forte segnale di contrasto ai flussi di migranti illegali e alle infiltrazioni di migranti e terroristi che li accompagnano. Rispedire “a casa” 600mila migranti? Allo Stato costerebbe 2 miliardi di euro di Vladimiro Polchi La Repubblica, 5 febbraio 2018 “Rispedire a casa 600mila migranti? Facile a dirsi, molto meno a farsi”. Per i tecnici del Viminale, quella del leader di Forza Italia è semplicemente una “missione impossibile, oltre che incredibilmente costosa”. La verità è che la macchina delle espulsioni da anni non gira a pieno regime. Il complesso meccanismo di contrasto all’immigrazione irregolare, fatto di Cie, accordi bilaterali e rimpatri è infatti in stallo da tempo. Un sistema imponente che dà miseri frutti: nel 2016 i rimpatri effettivi sono stati 8.446. E i costi sono altissimi. Lo dimostra il racconto di quanto avvenuto il 19 maggio 2016: un rimpatrio forzato-tipo, fotografato in dettaglio da un rapporto del Garante dei diritti dei detenuti. L’aereo è un charter della Bulgarian Air affittato dal Viminale. Il piano di volo è da Fiumicino a Hammamet, con scali a Lampedusa e Palermo. I tunisini da espellere sono 29 e ben 74 gli accompagnatori: un funzionario della polizia di Stato, un medico, un infermiere, due delegati del Garante nazionale dei detenuti, 69 agenti di scorta non armati e in borghese. Fascette in velcro legano i polsi dei passeggeri. E poi: perquisizioni, carabinieri in tenuta anti-sommossa, riprese video, audizioni di due funzionari del consolato tunisino. Una spesa stimata in 115mila euro. Fanno quasi 4mila euro ad espulso. E moltiplicato per i 600mila di cui parla Silvio Berlusconi, fanno 2 miliardi e 400 milioni di euro. Per non parlare dei costi di trattenimento nei centri. Di Cie oggi ne sono rimasti sei, per un totale di 359 posti: Bari Palese, Brindisi, Caltanissetta, Crotone, Ponte Galeria a Roma e via Brunelleschi a Torino. Ebbene, se nel 2015 solo il 51,7% dei 5.371 migranti trattenuti è effettivamente rientrato nel proprio Paese, nel 2016 la percentuale è scesa al 48,3% e il numero dei trattenuti a 2.984. Anche per questo, nel febbraio 2017 è stato varato il decreto legge Minniti-Orlando, che prevede il potenziamento dei centri di identificazione e maggiori risorse per eseguire i rimpatri. Ma prima bisogna lavorare sugli accordi di riammissione, ossia i trattati con i quali gli Stati di provenienza dei migranti si impegnano a riaccogliere i propri cittadini. Pochi quelli stipulati a livello di Unione europea (solo 17). Negli altri casi ogni Paese fa da sé. L’Italia ne ha che funzionano bene con Tunisia, Nigeria, Egitto e Marocco. Ma, certo, non bastano. Turchia. Non credete al duce del mediterraneo di Can Dündar* La Repubblica, 5 febbraio 2018 Alle lezioni di Storia dell’Europa all’università abbiamo studiato anche l’Italia di Mussolini. Sui libri c’era scritto che aveva preso il potere tramite le elezioni e il supporto dei liberali. Spiegavano come in breve tempo aveva ridotto l’Italia in uno stato di polizia. Aveva cambiato il sistema elettorale in modo da favorire il proprio partito. I leader dell’opposizione furono arrestati. Assunse il controllo dei media, dell’educazione, della giustizia, dell’esercito, delle forze di polizia. Come se non bastasse fomentò contro gli oppositori milizie civili a lui legate. Oppresse le università che non gli obbedivano. Raccolse nelle proprie mani il potere di tutti i ministeri. Fomentando un nazionalismo aggressivo entrò in guerra, aggiungendo forza alla forza. Adesso nel rileggere quei libri resto stupito per come la Turchia odierna somigli incredibilmente all’Italia degli anni Trenta. Con gli slogan “un solo Stato, una sola bandiera, un solo Stato, una sola patria” il presidente Erdogan va verso “l’unicità del leader”, verso la “ducizzazione”. Grazie alla sua forte retorica tiene in pugno le folle, riempie le piazze. Ma non sono solo le piazze a riempirsi, con quelle si riempiono anche le carceri. Approfittando del tentato colpo di Stato del 15 luglio 2016, Erdogan ha dichiarato lo Stato di emergenza, cinquantamila persone sono state arrestate, oltre centomila rimosse dal proprio incarico. I due presidenti, dieci parlamentari e decine di sindaci appartenenti al secondo partito di opposizione del Paese sono tutt’ora in prigione. Il potere legislativo, l’esecutivo e il giudiziario sono completamente in mano a Erdogan. Secondo l’indice dell’applicazione della legge la Turchia è scesa al centunesimo posto su centotredici Stati. Nel Paese è stato costituito un regime di oppressione effettivo. Alla polizia e all’esercito Erdogan ha aggiunto le milizie civili. L’esercito turco è entrato in guerra nella vicina Siria, e nel Paese è stato proibito schierarsi in favore della pace e dichiararsi contrari alla guerra. Tutte le opinioni pacifiste sono state vietate, persino coloro che criticano la guerra con un tweet vengono prelevati dalle proprie abitazioni e arrestati. La Turchia, con 150 giornalisti in carcere, è la più grande prigione di giornalisti al mondo. Un terzo di questi provengono dal mio giornale Cumhuriyet: l’amministratore delegato del giornale Akin Atalay, il direttore generale Murat Sabuncu e il cronista Ahmet Sik sono in carcere da oltre 400 giorni. Il reato compiuto: fare giornalismo. Due anni fa Erdogan ha detto: “Non abbiamo preso ispirazione né da Mussolini né da Hitler”, ma le sue azioni dimostrano chiaramente quali siano le sue fonti di ispirazione. Oggi l’Italia ospita questo leader. Due anni fa, mentre il primo ministro turco si recava a Bruxelles per un vertice tra la Turchia e l’Unione Europea, scrissi una lettera a tutti i leader europei dalla cella dove adesso sono rinchiusi i miei colleghi, specificando che in Turchia i diritti umani erano stati calpestati. Scrivevo che l’Europa non avrebbe dovuto stare tra le fila dell’autoritarismo ma dalla parte delle forze democratiche, laiche e libertarie che lo combattono. Di tutti i leader europei soltanto uno, l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi, mentre si recava al vertice disse di avere con sé la mia lettera. Purtroppo la paura scaturita dalla minaccia di Erdogan di aprire le frontiere dell’Europa ai rifugiati prevalse sui principi democratici dell’Europa stessa. E il continente della democrazia si è inginocchiato davanti a un regime autoritario che disconosce i valori fondamentali. Per coloro che portano avanti la lotta per la democrazia in Turchia quella fu una grande delusione. Oggi l’Italia riaffronta lo stesso esame. Purtroppo i miei amici in prigione oggi non hanno la possibilità di scrivere lettere ai dirigenti, perché anche questo diritto è stato revocato. Scrivo io a nome loro. Noi non vogliamo vedere la Turchia come il combattente islamico del Medio Oriente, ma come una parte egualitaria della grande famiglia della civilizzazione e lottiamo per questo. L’Italia sin dall’inizio è stata una forte sostenitrice dell’entrata della Turchia in Europa. Oggi il commercio e gli accordi sulle armi, l’alleanza Nato, il dialogo interreligioso, le restrizioni dei rifugiati prendono il posto di quella unione trasformatasi in un sogno lontano. Temo che questo genere di accordi che non offrono alcun contributo alla democratizzazione, alla laicizzazione e alla liberalizzazione della Turchia, al contrario contribuiscono alla sua trasformazione in un regime islamo-fascista, possano essere registrati come brutti ricordi nella memoria di chi studierà in futuro la storia politica dell’Europa. Sono convinto che l’Italia non sosterrà la nascita di un nuovo “duce” nel Mediterraneo. Al contrario, credo che resterà tra le fila di chi lotta per la pace, la democrazia e la libertà. L’Europa può esistere solo finché fa suoi i valori su cui è costruita. *Traduzione di Giulia Ansaldo Turchia. Le porte dell’Unione europea restano chiuse per Ankara di Marco Bresolin La Stampa, 5 febbraio 2018 “Possibilità di far avanzare i negoziati per l’ingresso della Turchia nell’Ue”. L’ennesimo appello di Recep Tayyip Erdogan - lanciato ieri con un’intervista a La Stampa - sbatte contro il muro di gomma di Bruxelles. La porta resta chiusa. Ieri la Commissione si è rifiutata di commentare ufficialmente le parole del leader turco, ma fonti qualificate fanno sapere che la linea resta la stessa. E annunciano che ad aprile l’esecutivo Ue produrrà un dettagliato rapporto-Paese sulla Turchia. “Sarà un documento molto severo - fanno sapere da Bruxelles - dal quale emergerà che Ankara non ha fatto alcun progresso dall’ultimo report (estate 2016, ndr). Anzi, dopo il tentato colpo di Stato e dopo il referendum costituzionale la situazione è persino peggiorata. Tutto sarà scritto nero su bianco”. I negoziati resteranno ancora congelati “de facto”. Il rispetto dello Stato di diritto, e in particolare l’indipendenza della magistratura, resta il punto più controverso. Soltanto tre giorni fa il commissario Ue all’Allargamento, Johannes Hahn, e l’Alto Rappresentante per la politica Estera, Federica Mogherini, avevano lanciato un messaggio congiunto per criticare apertamente la decisione di mettere nuovamente in carcere Taner Kilic, il presidente di Amnesty da otto mesi in detenzione cautelare, dopo che lo stesso tribunale ne aveva deciso la scarcerazione il giorno prima. Già nelle scorse settimane Hahn aveva chiuso la porta a possibili passi avanti sui negoziati per l’adesione: “Ciò che conta sono i fatti e i fatti non sono cambiati”. Ancor più diretto il presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker: “Finché ci saranno giornalisti in prigione, non potranno esserci progressi”. Frase scandita il 12 gennaio scorso a Sofia, accanto al premier bulgaro Bojko Borisov. Che però non la pensa così e per questo sta cercando di sfruttare il semestre di presidenza Ue per ammorbidire le relazioni tra Bruxelles e Ankara. Per esempio organizzando un vertice Ue-Turchia a Varna, sul Mar Nero, nel mese di marzo. Erdogan lo dà per scontato, ma da Bruxelles fanno sapere che l’incontro non è stato ancora confermato (anche se il via libera dato da Angela Merkel durante la sua visita a Sofia è la prova che si farà). “E comunque - precisa una fonte comunitaria - non si tratterà di un summit Ue-Turchia. Ma solo di un incontro tra leader, senza conclusioni ufficiali”. Sulla questione turca i governi europei non sono tutti sulla stessa linea. È opinione diffusa che non ci sono le condizioni per andare avanti, ma alcuni Paesi - tra cui Austria, Belgio e Olanda - vorrebbero marcare ulteriormente le distanze. In vista del Consiglio europeo di ottobre era stata ventilata l’ipotesi di dichiarare ufficialmente interrotti i negoziati. Anche la Germania sembrava su questa linea ma, una volta terminata la campagna elettorale, Berlino si è ammorbidita. “Sarebbe stato un gesto inutile e controproducente”, fanno notare fonti del governo italiano. Inutile, perché i negoziati sono già di fatto congelati: a oggi sono stati aperti solo 16 capitoli negoziali (su un totale di 35), uno dei quali è stato provvisoriamente chiuso, e i governi hanno già deciso di non aprirne di nuovi. Controproducente perché, come ha ricordato recentemente Borisov, “la Turchia resta un partner importante, con cui abbiamo un accordo decisivo sui migranti. Senza il quale ci sarebbe una nuova crisi in Europa”. A ottobre, la discussione sulla Turchia tra i capi di Stato e di governo Ue era durata più di tre ore, con un confronto serrato. Ma la formulazione scritta nelle conclusioni del summit non va oltre la riga: “Il Consiglio europeo ha tenuto un dibattito sulle relazioni con la Turchia”. Stop. Si è poi deciso di mandare comunque un segnale ad Ankara, con il taglio dei fondi pre-adesione (il budget 2018 è stato ridotto di 175 milioni di euro) “in risposta al deteriorarsi della situazione della democrazia, dello Stato di diritto e dei diritti umani”. Macron ha provato a buttare sul tavolo la proposta di una “partnership strategica” con Ankara, una via d’uscita per tenere aperti i ponti e al tempo stesso mantenere le dovute distanze. La soluzione trova ampio consenso in Europa. Ma nell’intervista a La Stampa, Erdogan ha rifiutato l’offerta: “Desideriamo la piena adesione all’Ue. Altre opzioni non ci soddisfano”. Israele. Al via le espulsioni dei migranti africani, l’alternativa è il carcere Il Mattino di Padova, 5 febbraio 2018 Ventimila saranno rimandati in Ruanda. In un clima di crescente radicalizzazione politica è cominciata ieri in Israele la campagna di graduale espulsione dei migranti africani, per lo più eritrei e sudanesi. Entro due mesi circa 20mila degli attuali 40mila migranti dovranno decidere se accettare di lasciare Israele (con un incentivo di 3.500 dollari a testa) per raggiungere “un Paese terzo” - il Ruanda, secondo la stampa - oppure rischiare il carcere a oltranza. Nelle ultime settimane in Israele si avverte un disagio crescente. Contro le imminenti espulsioni si sono espressi intellettuali, artisti, medici, sopravvissuti alla Shoah e anche piloti che preannunciano il rifiuto di guidare aerei con migranti che fossero ricondotti in Africa contro la loro volontà. Alcuni kibbutzim progettano di dare ospitalità a chi fosse colpito da ordini di espulsione e ricercato dalla polizia. Ieri il premier Benyamin Netanyahu ha però ribadito che non si farà intimidire da questi barlumi di disobbedienza civile. Dietro le proteste, ha sostenuto, ci sono l’uomo d’affari George Soros e Ong straniere. La campagna di “allontanamento” da Israele dei migranti ha preso ufficialmente il via ieri negli uffici di Tel Aviv del ministero dell’immigrazione con la consegna a circa 200 eritrei di ingiunzioni a lasciare il Paese entro due mesi. Quanti sono originari del Darfur per ora potranno restare, ma il loro futuro resta incerto. In questa fase non saranno espulsi nuclei familiari e persone gravemente malate. “Nel Paese Terzo” con cui Israele dice di aver firmato accordi - è stato detto ai migranti - potranno stabilirsi e riacquistare una esistenza normale. Secondo informazioni raccolte invece da alcune Ong il loro futuro in Ruanda sarebbe gravido di incognite. “Non possiamo mandarli alla loro morte” si legge in annunci di protesta pubblicati a pagamento sulla stampa. Su Facebook Netanyahu ha replicato: “Non l’avrete vinta. Oggi abbiamo iniziato la campagna di allontanamento degli infiltrati illegali, così come fanno altri Paesi moderni fra cui gli Stati Uniti. Così come abbiamo bloccato le infiltrazioni grazie a un barriera che ho fatto costruire lungo il confine con il Sinai, così manterrò la mia promessa di far uscire gli infiltrati”. Una promessa fatta in particolare agli abitanti dei rioni poveri di Tel Aviv - dove il suo partito Likud è radicato - che hanno molto sofferto in questi anni per la presenza dei migranti in aree già afflitte da problemi di povertà e di crimine. Mentre il duello politico fra destra e sinistra sulla sorte dei migranti si fa sempre più aspro, scendono in campo gli imprenditori. Anch’essi si schierano contro le espulsioni: perché, sostengono, la improvvisa partenza di una manodopera rivelatasi di importanza critica per il funzionamento di alberghi, ristoranti e ospizi rischierebbe di aver ripercussioni nocive per la economia del Paese. Da un Centro all’altro, stessa sofferenza e violenza per i rifugiati che l’Australia non vuole di Riccardo Noury Corriere della Sera, 5 febbraio 2018 In un nuovo rapporto Amnesty International ha accusato il governo australiano di aver abbandonato centinaia di rifugiati e richiedenti in Papua Nuova Guinea, lasciandoli in una situazione che somiglia più a una forma di punizione che di protezione. Dal 31 ottobre 2017, l’Australia ha via via sospeso tutti i servizi nel primo centro di detenzione dell’isola di Manus, dove dal 2013 aveva inviato centinaia di uomini nell’ambito della sua illegale politica di “esternalizzazione della procedura”. A seguito delle pacifiche proteste e del rifiuto di lasciare il centro di detenzione, la polizia di Papua Nuova Guinea ha sgomberato con la forza il centro e, alla fine di novembre, ha trasferito gli uomini in tre nuove strutture, sempre sull’isola di Manus e altrove nel paese. Le nuove strutture sono inadeguate e prive di servizi essenziali. I presidi sanitari non sono all’altezza di una situazione drammatica, che vede l’88 per cento dei rifugiati e richiedenti asilo soffrire di disordine da stress post-traumatico. La violenza da parte della popolazione locale rappresenta una minaccia costante. Negli ultimi anni parecchi rifugiati sono stati aggrediti da abitanti di Manus ma le autorità locali non hanno aperto alcun procedimento giudiziario. Molti rifugiati hanno detto ad Amnesty International di non uscire mai dai centri per paura di essere aggrediti o rapinati. A causa della mancanza di indagini sui precedenti casi e del derivante clima d’impunità, non hanno fiducia nelle autorità locali. Ancora una volta, dunque, il governo australiano aggira il diritto internazionale non fornendo protezione a persone che ne hanno disperato bisogno. Invece di spostare persone in grave condizione di vulnerabilità da un campo all’altro, dovrebbe portarle sulla sua terraferma o trasferirli in un paese terzo sicuro. Tailandia. L’italiano condannato a morte che lotta per dimostrare la sua innocenza di Elisabetta Di Carlo certastampa.it, 5 febbraio 2018 “Mi rendo conto solo ora che il destino possa riservare delle esperienze che vanno oltre ogni immaginazione. Prima di vivere tutto questo non avevo mai riflettuto a fondo sul concetto di giustizia e di punizione, o su come, spesso, si possa essere troppo facilmente giustizialisti di fronte a quello che potrebbe essere anche un errore giudiziario”. C’è un italiano che è stato condannato alla pena di morte. Si chiama Denis Cavatassi, è di Tortoteto e ha 50 anni, ed è rinchiuso nelle carceri tailandesi con l’accusa di essere il mandante dell’omicidio del suo socio, Luciano Butti, ucciso nel marzo del 2011 a Pukhet dove entrambi avevano un’attività di ristorazione. Questa è una delle lettere che in questi anni ha inviato in Italia, alla sua famiglia. Oggi il quotidiano La Repubblica pubblica la storia di Denis raccontata dalla sorella. Cavatassi si è sempre detto innocente. Arrestato subito dopo l’omicidio fu rilasciato su cauzione. Poteva scappare. Non l’ha fatto. Ha aspettato il processo convinto di un’assoluzione. E invece è arrivata la condanna a morte. Ora è in corso l’appello. Romina, sua sorella, sta conducendo una battaglia perché venga riconosciuta l’innocenza di suo fratello. Accanto a lei c’è ora l’avvocato Alessandra Ballerini (la stessa delle famiglie di Giulio Regeni e Andy Rocchelli, tra le maggiori esperte in Italia di diritti umani), che la accompagnerà domani, martedì 6 febbraio, con Amnesty International e il senatore Luigi Manconi in Senato per raccontare a tutta l’Italia cosa è accaduto a Denis. E cosa sta accadendo. “Le nostre speranze - spiega Romina a Repubblica - sono che venga assolto e dichiarato innocente, quale è. Speriamo e confidiamo nella serietà e professionalità della corte suprema, composta da tre giudici di esperienza. Speriamo che i giudici della corte suprema eseguano un esame attento della documentazione, dell’iter processuale e delle varie violazioni che ci sono state. Speriamo che gli si garantisca un processo equo che finora non c’è stato. Ci stiamo rivolgendo all’attenzione sociale e istituzionale perché vorremmo che il suo e il nostro inferno finisse, ma vorremmo anche che a tutti, colpevoli o innocenti che siano, venisse garantito un processo equo e un trattamento.