Gli standard elementari per la detenzione degli adulti di Agnese Moro La Stampa, 4 febbraio 2018 Tutto il moderno sistema di controllo della qualità si basa sulla definizione di standard che riguardano materiali, strumenti e procedure e sulla possibilità di verificarne periodicamente il rispetto. Un sistema simile viene utilizzato per rendere materiale, verificabile e controllabile il rispetto dei diritti umani, assicurando quelle condizioni di vita che consentono un’esistenza dignitosa e la possibilità di esprimere pienamente se stessi. Cosa tanto più necessaria lì dove la collettività abbia, per motivi diversi, privato l’individuo della propria libertà. Un lavoro di questo tipo è stato intrapreso da diversi mesi dal Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale e presentato nei giorni scorsi con il testo “Norme e normalità. Standard per l’esecuzione penale detentiva degli adulti. Raccolta delle Raccomandazioni 2016-2017” (garantenpl.it). Scrive Claudia Sisti, coordinatrice della unità operativa che segue l’ambito penale: “Vengono presi in esame diversi aspetti della vita detentiva: le condizioni materiali e igieniche delle strutture, gli spazi comuni, le sezioni particolari e, quindi, quelle a regime speciale di cui all’articolo 41-bis dell’Ordinamento, la qualità della vita detentiva e il regime concretamente proposto all’interno degli Istituti, i modi con cui sono gestite le criticità e la loro regolare registrazione, la prevenzione e la gestione della radicalizzazione in carcere. Infine - ma, certamente non per minore importanza - il tema del rispetto dei diritti di chi in carcere è ospitato e di chi vi lavora”. E il presidente Mauro Palma sottolinea un punto qualificante: “Una precisazione è però importante: l’obiettivo non è definire standard minimi, come spesso accade per quelli internazionalmente stabiliti, bensì standard elementari. La distinzione tra minimo ed elementare non è secondaria. Uno standard minimo si limita a indicare la soglia al di sotto della quale un determinato aspetto della detenzione è inaccettabile e rischia di configurarsi come un “trattamento inumano o degradante” vietato in modo inderogabile dall’articolo 3 della Convenzione europea per i diritti umani: indica un obiettivo al ribasso. Uno standard elementare indica un obiettivo accessibile e al contempo in grado di far evolvere una situazione verso un progressivo miglioramento”. Da garantire ugualmente a tutti. Il Garante del Lazio Anastasìa: detenuti anziani in costante crescita Askanews, 4 febbraio 2018 “Serve più coraggio per alternative al penitenziario”. “Gli ultrasettantenni nelle carceri italiane sono in costante crescita, nonostante la legge preveda che - in via ordinaria - 70 anni sia il limite massimo per la privazione della libertà per motivi di giustizia. Nel complesso degli istituti penitenziari italiani alla fine dello scorso anno erano presenti 776 detenuti con più di 70 anni di età, più del doppio di quanti ce ne fossero dieci anni prima, nel 2007. Nella sola regione Lazio i detenuti ultrasettantenni sono 90”. Lo afferma in una nota Stefano Anastasìa, Garante delle persone private della libertà della Regione Lazio, a margine dell’incontro nella Casa di reclusione di Rebibbia per l’ottantesimo compleanno di un detenuto. “L’incontro di oggi, il festeggiamento del signor Gino, è l’occasione di una presenza di vicinanza e solidarietà nei suoi confronti e di richiamo dell’opinione pubblica e delle istituzioni alla grave situazione di cui lui è involontario esempio. Serve più coraggio, da parte del legislatore e della magistratura, nella concessione di misure alternative al carcere per le persone anziane, e serve maggior impegno da parte degli enti territoriali nella realizzazione di reti di accoglienza, anche alloggiativa, per anziani soli che altrimenti sono costretti a restare in carcere fino all’ultimo giorno della loro pena”. Giustizia, l’eterno cantiere dei partiti di Francesco Grignetti La Stampa, 4 febbraio 2018 Il Pd e Orlando rivendicano i risultati raggiunti sui diritti. Il M5S vuole proteggere i truffati dalle banche. Lega e Fi attenti ai bisogni delle forze dell’ordine. Grasso punta a combattere le infiltrazioni mafiose. La giustizia, tema perennemente in ebollizione. Il Pd arriva al voto avendo governato per cinque anni e quindi il suo orizzonte non può non comprendere il lavoro già fatto. “Sono state rafforzate - spiegava il ministro Andrea Orlando - le tutele delle vittime e dei soggetti deboli, all’interno di una “cifra” essenziale di una legislatura dei diritti”. Si citano perciò le leggi sulle unioni civili, il testamento biologico, contro il negazionismo e la violenza di genere. Ma anche l’omicidio stradale, gli eco-reati, il caporalato. Di contro, M5S e centrodestra escono da cinque anni di feroce opposizione e quindi promettono innanzitutto, se vinceranno, di riscrivere le leggi della sinistra che meno gli piacciono. Per i grillini, vanno innanzitutto inasprite le norme contro la corruzione e bloccate le prescrizioni. Per i berlusconiani, all’opposto, torna la separazione delle carriere e la riscrittura delle intercettazioni. Centrosinistra. Tempi dei processi da ridurre e lotta alla corruzione con l’Anac Parola d’ordine, informatizzare la giustizia: molto è stato fatto, ma non basta. Renzi, nel presentare il programma del Pd, usa lo slogan “Soddisfatti, ma non appagati”. E se quindi l’informatizzazione spinta della Pubblica amministrazione sarà uno dei cavalli di battaglia per i prossimi cinque anni, “simbolo di questa trasformazione è sicuramente il radicale cambiamento che il processo civile telematico ha impresso al mondo della giustizia”. E quindi c’è stata una “riduzione dei tempi del processo, non ancora sufficiente, ma segna un’inversione di tendenza attesa da decenni”, e però “il lavoro dovrà procedere nel solco tracciato”. Lo stesso per le politiche carcerarie. E per la cosiddetta microcriminalità “che tale non è, peraltro, per chi subisce un furto in appartamento o assiste a una rapina”. Con il che, senza dirlo, sembra proprio che il Pd auspichi un incremento di pene per i reati predatori. Infine la corruzione. Se la vulgata populista vuole che l’Italia sia allo sbando, Renzi rivendica l’intuizione di avere dato grandi poteri all’Anac presieduto da Raffaele Cantone, “decisiva nel successo di molte iniziative quali per esempio l’Expo”. E va oltre, rivendicando “una leadership italiana nella lotta alla corruzione che è stata riconosciuta più volte anche in sede di riunioni internazionali”. Centrodestra. Rivedere il nuovo reato di tortura e carriere separate per i magistrati Il programma del centrodestra non nasconde la sua ispirazione di Legge & Ordine, in arduo equilibrio con l’anima più schiettamente garantista. E perciò ai primi posti c’è una proposta che forse non scalderà la grande massa dell’opinione pubblica, ma è molto sentita da chi veste una divisa: il nuovissimo reato di tortura. In Parlamento gli eletti di centrodestra l’avevano frenato finché hanno potuto; ora garantiscono di smontare la legge nel senso che più desiderano agenti e carabinieri. Sempre rivolto a questo bacino tradizionale di voti, il centrodestra promette l’inasprimento delle pene per violenza contro un pubblico ufficiale. Quanto alle leggi che più risultano indigeste al popolo di destra, impediranno gli sconti di pena per reati di particolare violenza e efferatezza e porteranno avanti la riforma della legittima difesa, e cioè inseriranno nel codice penale il principio “che la difesa è sempre legittima”. Così come le regole sulla custodia preventiva, approvate nel 2015: troppo garantiste. Torna anche l’antico progetto di separare le carriere della magistratura inquirente e giudicante, di non permettere l’appellabilità delle sentenze di assoluzione in primo grado, del risarcimento agli innocenti. Infine le intercettazioni: la riforma appena rilasciata non va bene agli avvocati, denunciano che colpisce il diritto di difesa e vogliono riscriverla. Movimento 5 Stelle. Nuova procura per le banche e prescrizione più leggera Se il M5S fosse stato quello di qualche mese fa, raccontare il programma sulla giustizia sarebbe stato facile: si potevano prendere le proposte di Piercamillo Davigo e sovrapporre il logo del Movimento. Perciò era scontato che la prima delle proposte sarebbero state le intercettazioni informatiche per tutti, gli agenti sotto copertura contro la corruzione, una riforma della prescrizione per bloccare gli orologi e dare tutto il tempo necessario al processo, Daspo duro ai corrotti nei confronti della pubblica amministrazione. Allo stesso tempo ci sarebbe stato l’inasprimento delle norme antimafia, vedi una riscrittura del reato sul voto di scambio. Un programma di schietto orientamento giustizialista. Ma siccome il M5S ora è quello di Luigi Di Maio, oltre le proposte di cui sopra - che pure campeggiano nel volantino elettorale - ci sono molte altre cose. C’è la promessa di sburocratizzare le regole per le imprese e di abolire subito 400 leggi inutili. C’è una nuova Procura nazionale per i reati bancari e una riforma per ripristinare la legge del 1936 che teneva separate banche commerciali e banche d’affari (superata nel 1993). Evidenti i suggerimenti del candidato Elio Lannutti, di Adusbef, paladino dei truffati dalle banche. E per i tartassati da Equitalia si candida anche il presidente dell’Ordine degli avvocati di Roma, Mauro Vaglio, specialista di questa battaglia. Liberi e Uguali. Prioritaria la battaglia alle cosche, riabbassare la soglia sui contanti Per un partito imperniato sull’ex magistrato Pietro Grasso è ovvio che la giustizia sia un tema dirimente. Perciò il programma è quantomai dettagliato. Efficienza, informatizzazione, personale. Per combattere i tempi lunghi nel processo civile vogliono imporre tempi certi e celeri per l’emissione della sentenza; nel processo penale, però, oltre che celere, occorre “una sentenza giusta”. La lotta alle mafie “deve essere una priorità e va continuamente alimentata”. Grasso non tradisce se stesso, infatti, e mette perfino nel programma elettorale la sua preoccupazione per “l’ampiezza delle infiltrazioni e la loro ramificazione”. Quindi, educazione dei giovani alla legalità e carcere duro per i mafiosi. Altra emergenza nazionale, la corruzione. LeU propone di reintrodurre la soglia più bassa all’uso del contante. “È essenziale intervenire sulla tracciabilità dei pagamenti”. Era stata una riforma del governo Renzi, l’innalzamento della soglia da 1000 a 3000 euro. Grasso vuole tornare all’antico. Infine, il reato di tortura. La legge come è uscita dalle interminabili discussioni nella scorsa legislatura a LeU non va bene. Il modello è scrivere un delitto di tortura secondo le indicazioni dell’Onu, che sia cioè un reato specifico per le forze dell’ordine. Giovanni Legnini (Csm): “interverremo sulle intercettazioni” di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 4 febbraio 2018 “Tra politica e magistratura si è chiusa una stagione di tensioni, ma altri fronti si possono aprire”. “Interverremo su intercettazioni e avocazione delle procure”. “Va data più attenzione alle performances dei capi degli uffici giudiziari. I rinnovi sono ancora troppo burocratici”. Il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, rispondendo alle domande del Sole 24 Ore al LexFest in corso a Cividale del Friuli, fa il punto sulle questioni aperte in questi ultimi mesi di consigliatura. Vicepresidente Legnini, le cerimonie di pochi giorni fa di inaugurazione dell’anno giudiziario, spesso esemplari degli scontri tra magistratura e politica, sono trascorse tutto sommato tranquillamente. Il segno di un cambio di clima? Direi di sì. Grazie al contributo di tutti si può oggi guardare alle indagini giudiziarie che investono la politica con maggiore serenità. Un avviso di garanzia non è più destinato, e lo ritengo giusto, a cambiare gli equilibri politici. Mi sembra, anche per merito delle diverse forze politiche che hanno provato ad autoregolamentarsi, che ci sia una minore drammatizzazione delle indagini. In questa ritrovata serenità ha pesato anche il Csm, spesso accusato di rappresentare un’impropria terza camera? Senza dubbio. E penso ad alcuni elementi concreti. Innanzitutto all’esercizio rigoroso del controllo disciplinare. Poi sostenendo una disciplina rigida delle candidature dei magistrati e, soprattutto, delle condizioni del loro ritorno alla funzione giudiziaria dopo l’esaurirsi dell’esperienza in politica. Nessun rischio quindi di un ritorno al passato? Spero di no, ma gli equilibri raggiunti su un fronte così delicato sono sempre instabili. Un rischio mi sembra più concreto di altri, quello di una riaccendersi delle polemiche per il ruolo di supplenza che la magistratura è troppo spesso chiamata a svolgere per la scarsa qualità della legislazione. Penso per esempio al rapporto tra giustizia ed economia. E a un’economia che ha una fisionomia sempre più globale con una giustizia che non sempre riesce a uscire dai confini dello Stato nazione. Quali i prossimi interventi del Consiglio? Di sicuro interverremo sulla recente riforma della disciplina delle intercettazioni, per cercare di rendere più fluidi i rapporti tra pubblici ministeri e polizia giudiziaria, chiamata quest’ultima a un primo filtro di rilevanza degli ascolti. E poi ci occuperemo anche della nuova disciplina dell’avocazione da parte delle procure generali, in caso di inerzia del Pm: ci sarà tra l’altro da evitare che la norma produca una sorta di automatismo dei pubblici ministeri nella richiesta di proroga dei termini delle indagini, allungandone quindi la durata. Avete affrontato tra l’altro un’imponente operazione di rinnovo dei vertici degli uffici giudiziari per effetto dell’abbassamento dell’età pensionabile deciso dal Governo. Sì, abbiamo effettuato 803 nomine tra direttive e semi-direttive. Con l’effetto di fare diminuire sia l’età media dei vertici sia di rafforzare la presenza femminile. La capacità organizzativa ha rappresentato un elemento fondamentale, con un minore peso invece dello storico criterio dell’anzianità senza demerito. Certo c’è ancora un po’ di strada da fare. Penso, per esempio, ai rinnovi dopo 4 anni: si procede ancora in maniera troppo burocratica e, quasi, automatica, fatti salvi casi eclatanti. Anche perché non sempre le performances degli uffici vanno di pari passo con la disponibilità di risorse. Cioè: cattivi risultati, a leggere i dati del ministero, arrivano anche in sedi a pieno organico. Il che chiama in causa direttamente le capacità dei responsabili. È possibile, tuttavia abbiamo avviato un lavoro di messa a punto di criteri di misurazione delle performances che ci potranno aiutare in una valutazione più aderente alla realtà. Quali le grandi incompiute di questa legislatura? Penso soprattutto alla riforma della legge sulla crisi d’impresa, al completamento degli interventi sul processo penale e alla revisione della procedura civile. Ora niente sia come prima di Antonio Polito Corriere della Sera, 4 febbraio 2018 Forse per la prima volta nella nostra storia recente vediamo materializzarsi anche da noi l’incubo del terrore razzista. Ma bisogna aprire bene gli occhi su tutto. Macerata, Alabama. Forse per la prima volta nella nostra storia recente vediamo materializzarsi anche da noi l’incubo del terrore razzista. Non c’era infatti altro criterio se non quello razziale, ieri mattina, nella scelta delle vittime di Luca Traini: sparare a chiunque non fosse bianco. A ragione si era inciso un simbolo neonazista sulla tempia, era lo stesso criterio con il quale le Ss rastrellavano gli ebrei, o il Ku Klux Klan impiccava e bruciava i neri: ripulire la società da esseri ritenuti inferiori e impuri per mettere a posto tutto ciò che non va, e ripristinare l’ordine di un passato mitico e immaginato. Dobbiamo esserne spaventati. È un salto all’indietro della nostra civiltà che forse si poteva temere, ma che fino a poco tempo sarebbe stato inimmaginabile. Ora è accaduto, e dunque può accadere ancora. Dobbiamo aprire gli occhi su che cosa sta diventando l’Italia. E non a senso unico. Abbiamo innanzitutto la colpa di aver accettato senza preoccuparcene troppo lo sdoganamento del discorso di odio come forma abituale di polemica culturale e politica.Le “parole ostili”, la terminologia di guerra, gli stupri e le decapitazioni virtuali, la contrapposizione amico-nemico dominano ormai pezzi interi del dibattito pubblico, senza reazioni, nell’acquiescenza generale. Ne è testimonianza l’uso che ormai si fa correntemente della parola “stranieri”: con essa un tempo si intendevano i turisti, oggi invece ingloba le categorie di “nero”, “islamico”, “immigrato”, “clandestino”, senza distinzione tra di loro ma esclusivamente in quanto opposte a “italiano”. Il criterio razziale si è insomma insediato tra noi, e ovviamente può sconvolgere la mente dei più deboli, dei più fanatici, eccitando una violenza da Taxi Driver tra i tanti “angry white men”, giovani bianchi incazzati, che vivono anche nelle nostre città e nella nostra provincia. Basta dunque scherzare col fuoco. La nuova destra leghista ha il dovere di separarsi radicalmente, più di quanto non abbia fatto in questi anni, dai residui dell’ideologia fascista e dalle farneticazioni sulla “razza” che hanno trovato nelle ondate migratorie l’habitat ideale per risorgere dalle ceneri della storia. Sappiamo benissimo che la felpa di Salvini non è l’orbace, ma il leader leghista deve sapere altrettanto bene che per lui non ci potrà mai essere nessuno spazio al governo di una grande nazione europea finché rimarrà la benché minima ambiguità sul tema del razzismo, nel suo movimento e in chi ci gira intorno. La coscienza democratica del Paese non lo permetterebbe, perché le ripugna quanto ha visto accadere ieri. Bisogna però aprire gli occhi anche su altro. E cioè sul fatto che il modo caotico, non controllato, illegale, con cui i flussi migratori hanno “invaso” pezzi delle nostre città e delle nostre terre, ha provocato risentimento e rancore anche tra la gente perbene, magari un po’ tradizionalista ma nient’affatto razzista; non abbastanza ricca da godere dei vantaggi della società multietnica che le “anime belle” spacciano come destino ineluttabile della nazione, ma abbastanza operosa per pretendere con buon diritto più ordine, più rigore, più rispetto, più decoro, più sicurezza su un treno regionale o nel giardino pubblico di fronte a casa. Macerata è la città dove una ragazza di diciotto anni che avrebbe potuto essere nostra figlia è appena stata uccisa e fatta a pezzi presumibilmente da uno spacciatore di origine nigeriana, ma è anche la città raccontata in un lungo reportage del Guardian come uno degli snodi cruciali in cui si combatte in Europa la battaglia per fermare lo sfruttamento delle ragazze africane vendute sulle strade. Tolleranza vuol dire anche tollerare questo? Ovviamente no. Bisogna allora che lo Stato per la sua parte e i media per la nostra lo dicano a voce talmente alta da farlo sentire anche a coloro che, lontani e frustrati, credono di essere stati traditi, si sentono soli, e perciò covano sentimenti di vendetta. Ecco perché ci sembra infantile, oltre che pericoloso, cercare “mandanti morali” della tentata strage di Macerata in questo o quell’avversario, come ha fatto ieri lo scrittore Saviano incolpando Matteo Salvini. Chi condanna l’identificazione tra immigrato e delinquente dovrebbe saper anche discernere tra la polemica contro l’immigrazione e la violenza contro gli immigrati. Ed ecco perché abbiamo trovato le prime reazioni del mondo politico nettamente al di sotto della gravità di quanto è successo. Ognuno preoccupato di riaffermare le sue ragioni, di prendersi una rivincita polemica; nessuno disposto a riconoscere le buone ragioni dell’altro e a chiedere umilmente scusa per averle sottovalutate. Perché se siamo arrivati a questo punto non c’è un solo politico italiano che possa dire di aver avuto sempre ragione, o che oggi sappia dirci come uscirne. Chi fa finta di condannare di Massimo Giannini La Repubblica, 4 febbraio 2018 Prima o poi doveva succedere, in questa Italia del rancore. La “paranza dei razzisti”: un’automobile che sfreccia per le vie di una città, una mano che spunta dal finestrino e spara, spara su chiunque abbia la pelle di un colore diverso dal nostro. Siamo a Macerata, oggi. Non nel Mississippi di 50 anni fa. E nemmeno a Napoli, dove le “stese” le organizzano le baby gang per assicurarsi il controllo delle piazze dell’eroina, mentre qui invece l’ha organizzata un italiano di 28 anni, per consumare la sua atroce vendetta razziale. Qualcuno può pensare che Luca Traini, l’autore di questa agghiacciante “caccia al nero”, sia uno squilibrato. Di certo ha costruito con atroce freddezza la sua missione di “giustiziere”, proprio nei luoghi in cui uno spacciatore nigeriano è stato arrestato per un delitto mostruoso, l’assassinio della povera Pamela. Poco importa. Quello che conta è il clima in cui germoglia questo orrore. Il veleno inoculato nelle vene del Paese in questi anni dagli “impresari della paura”. Dalla destra sedicente “sovranista”, che specula sulle angosce degli uomini spaventati dalla crisi e dalla globalizzazione. La destra intollerante e xenofoba, che oggi come 70 anni fa indica il nemico nel “diverso”, e compra un pugno di voti con la falsa promessa di una finta “protezione”. La destra di Salvini, che urla “quando governeremo ne cacceremo 500 mila”. La destra di Fontana, che a Radio Padania grida “dobbiamo proteggere la razza bianca”. La destra di Forza Nuova, che occupa le sedi dei giornali e delle Ong impegnate nel soccorso ai migranti. “Macerata Burning”. Ma com’è successo a Macerata, ormai può succedere ovunque. E quello che sgomenta davvero è la reazione di questa destra, di fronte alla mostruosa banalità di tanto male. Stavolta nessuno può parlare di una “ragazzata goliardica”, come sempre fanno gli apprendisti stregoni del nuovo razzismo di Palazzo e gli opinionisti alle vongole che sdottoreggiano nei salotti televisivi. Questo è “terrorismo razziale”, punto e basta. Ti aspetteresti una condanna inequivoca, unanime e definitiva. E invece no. A conferma di quanto siano cinici, questi trafficanti di voti non condannano niente, ma in fondo giustificano. Giustifica Salvini, che blatera “la vera colpa è di chi apre le porte ai clandestini”. Giustifica Meloni, che denuncia l’Italia insicura “in mano alla sinistra”. Anche Berlusconi invoca a sua volta “più sicurezza nelle nostre città”. Il perché di questo giustificazionismo l’ha spiegato in un’intervista lo stesso Fontana, col suo terrificante candore: “Dopo la mia frase sulla razza bianca sono cresciuto nei sondaggi...”. Di fronte a questo abisso etico e politico non si può non dare ragione a Roberto Saviano, quando evoca la figura dei “mandanti morali”. E sgomenta quasi allo stesso modo che la sinistra non lo capisca, e balbetti frasi di circostanza: “Restiamo calmi”, “Non ci faremo dividere”. Parole certo responsabili, ma in fondo anche impalpabili. Quella di Macerata è stata una “azione esemplare” che ne rievoca altre del nostro passato remoto e recente. È il culmine di una escalation cominciata da tempo, con gli stabilimenti balneari ispirati al Ventennio, i preti perseguitati per un bagno in piscina con i profughi, le ronde e i pestaggi per le strade, i cartelli in cui si legge “non si affitta ai migranti”. Umberto Eco l’aveva chiamato “il Fascismo Eterno”. Non veste più in orbace. Indossa la felpa verde, o il giubbino nero. Ma è sempre quello. E c’è una destra politica che lo alimenta, o lo tollera, o non lo condanna mai abbastanza. Perché, come diceva Piero Gobetti, al fondo lo sente ancora come “una biografia della nazione”. Forse, a un mese dal voto, è il momento di dirlo in modo chiaro: una destra del genere non è degna di governare l’Italia. Gli imprenditori del rancore che diventa arma politica di Donatella Di Cesare Corriere della Sera, 4 febbraio 2018 Il fotomontaggio su Facebook con la testa insanguinata di Laura Boldrini oltre a essere un’immagine ripugnante è una minaccia e un insulto per tutti. L’Italia è squassata da un odio di bassa lega, abietto e maleodorante. Perché viene dalle viscere. Sembra caduto ogni ritegno. Come se fosse una conquista poter odiare liberamente, esternare ogni meschinità, vomitare ogni grettezza. E farlo ovunque, in privato e in pubblico: tra le pareti domestiche, sull’autobus e per strada, nei locali pubblici e nei talk show. Per non parlare del web, dove fantasie di violenza, intenzioni aggressive, commenti improntati al disprezzo si moltiplicano senza più neppure la copertura dell’anonimità. Il fotomontaggio comparso su Facebook che mostra la testa insanguinata di Laura Boldrini, esposta al pubblico ludibrio, oltre a essere un’immagine ripugnante, è una minaccia e un insulto per tutti. L’allarme deve essere alto. Perché dalle parole ai fatti il passo è breve. Lo prova il raid compiuto da Luca Traini, un fascista qualunque, in un Paese dove i fascisti qualunque sono ben più di quanto si voglia ammettere, un razzista qualunque, che ha sparato su persone di colore gridando “Viva l’Italia”. Ma quale Italia? Non quella di molti, moltissimi cittadini che, abituati al rispetto, al confronto, al dialogo, in questi ultimi tempi provano un senso crescente di disagio e una profonda vergogna. Sarebbero invece altri a doversi vergognare ammettendo le proprie responsabilità. E sono gli imprenditori dell’odio: quelli che lo istillano quotidianamente, lo fomentano con scaltrezza, lo coltivano con una pseudo-ideologia che indica nell’immigrato il colpevole di ogni male. Danno l’esempio in pubblico: con il gesto discriminatorio verso il presunto “nemico”, le parole di scherno e le immagini oltraggiose per chi non la pensa come loro. Mobilitano l’odio, lo convogliano, lo dirigono. Ne fanno un’arma politica - per impotenza politica. Perché nei loro slogan rozzi non c’è che frustrazione, fanatismo, risentimento. Cermis, vent’anni senza giustizia di Chiara Pizzimenti vanityfair.it, 4 febbraio 2018 Erano il 3 febbraio 1998 quando un aereo della marina militare americana ha tranciato i cavi della funivia del Cermis, in Val di Fiemme. 20 morti e nessuna giustizia, tranne un risultato. “Quando ci hanno detto che avevamo ucciso così tante persone ho pianto come un bambino. Mi sono chiesto perché noi siamo vivi e loro sono morti. Ho bruciato la cassetta. Non volevo che alla Cnn andasse in onda il mio sorriso e poi il sangue delle vittime”. L’aver bruciato la cassetta di cui racconta nell’inchiesta del National Geographic del 2012 è l’unica cosa per cui Joseph Schweitzer è stato condannato. Non per aver causato la morte di 20 persone vent’anni fa sul Cermis in Trentino. Erano le 15 e 13 del 3 febbraio 1998 quando un aereo della marina militare americana, ufficialmente in volo di esercitazione dalla base di Aviano sopra le Alpi del Trentino, ha tranciato i cavi della funivia del Cermis, in Val di Fiemme. Una delle cabine è caduta nel vuoto. Nessuna delle venti persone all’interno si è salvata. L’aereo era guidato dal capitano Richard Ashby, il navigatore era Joseph Schweitzer e con loro c’erano l’addetto ai sistemi di guerra elettronica William Rancy e l’addetto ai sistemi di guerra elettronica Chandler Seagraves. Un addestramento in vista dell’intervento Nato in Kosovo che si trasformò in tragedia. L’aereo volava a velocità elevata e a quota troppa bassa. I militari avevano anche una videocamera, volevano farsi un video souvenir delle Alpi. Uccisero venti persone: tre italiani, sette tedeschi, cinque belgi, due polacchi, due austriaci e un olandese. Mauro Gilmozzi era allora sindaco di Cavalese e quella strage associa oggi quattro parole: “Cordoglio, giustizia, ricostruzione e memoria attiva”. Il primo fu immediato. “Il sindaco è fra le prime persone chiamate in un caso del genere. Si attivarono tutti: la protezione civile, i soccorsi di tutta la provincia”. L’impegno doveva andare soccorso e aiuto. “Con vittime da tutta Europa bisognava dare sostegno ai familiari delle vittime Ricordo benissimo la grande capacità della comunità di Cavalese di aver dato accoglienza e cordoglio ai familiari delle vittime”. Subito dopo viene però la parola giustizia, una giustizia che non c’è stata. La magistratura italiana chiese di processare i quattro marines in Italia, ma per la Convenzione di Londra del 1951 il processo penale toccava agli Usa, alla procura militare. Rimaneva in Italia il processo civile. “La richiesta di giustizia è stata subito forte - dice Gilmozzi - e non è arrivata. Hanno assolto i piloti per il fatto e li hanno condannati per aver cancellato le prove. In Italia la commissione parlamentare di inchiesta è arrivata a stabilire la dinamica, ma è servito per gli accordi per i risarcimenti”. Il governo americano li aveva fissati a 40 milioni di dollari rimborsati però solo per il 75% allo Stato italiano e alla provincia autonoma di Trento che se ne erano presi carico. Un successo si può contare, l’aver ottenuto la regolamentazione del volo a bassa quota. Per il sindaco è arrivato subito dopo il problema della ricostruzione. L’impianto era necessario per l’economia del paese. Ne è stato fatto uno nuovo per il Cermis. Anche se quella funivia non funziona più il ricordo non si è cancellato. “Abbiamo bisogno sempre di far memoria attiva - spiega Gilmozzi - perché l’incoscienza che ha portato a questo incidente è questione di etica e di responsabilità delle proprie azioni nei confronti degli altri. Vale sempre. Non è solo il caso dell’aereo che colpisce la funivia, ci sono molti altri incidenti causati da chi ha la responsabilità di garantire la sicurezza e che invece, violando norme anche solo di buon senso, è causa di disastri”. La confessione nell’inchiesta del National Geographic smentisce l’intero processo fatto a pilota e navigatore a Camp Lejeune, nella Carolina del Nord. Il video non c’era più, distrutto il giorno stesso dell’incidente. Altre prove non furono tenute in conto e prevalse la tesi della difesa secondo cui la funivia non era sulle mappe, l’altimetro aveva problemi e i piloti non conoscevano le restrizioni alla velocità. Assolti nel marzo 1999 per i fatti e condannati due mesi dopo per aver distrutto, intralciando la giustizia, le prove della manovra fatta. Cosa era successo apparve subito chiaro ai primi soccorritori. Il capo dei vigili del fuoco di zona ha raccontato che si aspettava un piccolo aereo, un piper andato magari contro un pilone e invece trovò un pezzo d’ala con una scritta in inglese. Lecce: detenuto marocchino si suicida in cella impiccandosi alla finestra leccenews24.it, 4 febbraio 2018 Un altro decesso si è verificato questa notte nel carcere di Lecce. A togliersi la vita nella propria cella un detenuto di nazionalità marocchina. Per il coordinamento sindacale penitenziario, la lista delle morti in carcere richiede una totale revisione del sistema penitenziario. Nuovo dramma nella notte tra le celle di “Borgo San Nicol”, dove si è registrato un altro decesso nel carcere di Lecce. A togliersi la vita nella propria cella un detenuto di nazionalità marocchina. L’uomo 59 anni, si è impiccato con un lembo di tessuto elastico legato alle sbarre di una finestra della cella”. Vani i tentativi di soccorso da parte prima del personale di Polizia Penitenziaria, poi del 118. Si tratta questo di un nuovo episodio suicida tra le mura della casa circondariale del capoluogo salentino, luogo in cui non si registrava un episodio del genere dall’ottobre 2016. Si tratta però di un vero a proprio allarme a livello nazionale e sul caso interviene adesso il coordinamento sindacale penitenziario, per il quale la lista delle morti in carcere richiede una totale revisione del sistema penitenziario italiano. “Qualsiasi decesso nelle prigioni italiani - si legge in una nota - è sempre una sconfitta dello Stato,una vita in meno, un fallimento sul piano della sicurezza detentiva”. Lo sottolinea il Segretario generale nazionale del sindacato autonomo Co.s.p Domenico Mastrulli. Si allunga così l’elenco dei suicidi nelle carceri italiane, con oltre dieci casi dall’inizio dell’anno. “Alla base di ogni decesso negli istituti di pena italiani che contano oltre 58mila detenuti c’è il sovraffollamento. In Puglia abbiamo superato la soglia dei 3mila 400 ristretti contro una capienza di 2.300 posti letto e un organico insufficiente a garantire la sicurezza. Secondo Mastrulli l’episodio di Lecce deve far riflettere sulle pessime condizioni in cui versa il sistema carcerario nazionale, l’inadeguatezza delle strutture con dotazioni organiche insufficienti. Perplessità sull’utilizzo dei metodi di “vigilanza dinamica”, un sistema inappropriato se non accompagnato da un potenziamento di risorse, sia umane che tecnologiche. Il sindacato Co.s.p. auspica che la tragedia consumatasi la notte scorsa nel carcere di Lecce sia l’ultima da scrivere nella pagina nera delle prigioni italiane e pugliesi”. Forlì: laboratori produttivi per i detenuti, Protocollo operativo rinnovato corriereromagna.it, 4 febbraio 2018 Con la firma dei rappresentanti di enti locali, associazioni ed aziende, ieri mattina è diventato ufficiale il rinnovo dei protocolli per i laboratori produttivi interni ed esterni al carcere. Si tratta dei laboratori “Altremani”, laboratorio di metalmeccanica interno al carcere, “Manolibera” laboratorio interno al carcere di cartiera, e quello esterno di “Recupero Raee” (rifiuti di apparecchiature elettroniche). Nati col contributo del Fondo Sociale Europeo attraverso la Provincia di Forlì, i laboratori sono stati coordinati da Techne. Attualmente il carcere di Forlì ospita 120 detenuti, e presto aprirà una nuova sezione che ne ospiterà un ulteriore quarantina, mentre al 30 novembre erano 350, complessivamente le persone del territorio provinciale sottoposte a misure alternative al carcere. “Veniamo da anni di esperienze positive - ha esordito l’assessora Simona Benedetti - che trovano conferma in questo rinnovo dei protocolli. Esperienze di avviamento al lavoro e di inclusione sociale attraverso lo strumento della formazione professionale, che in questo territorio abbiamo cominciato ad usare prima che la regione decidesse di andare in questa stessa direzione. La qualità del lavoro fatto in questi anni ha fatto sì che all’istituto carcerario di Forlì si avvicinassero enti e associazioni del più ampio territorio provinciale”. “Stata la lungimiranza e la determinazione dell’ex cappellano don Dario Ciani e dell’allora direttrice Risa Alba Casella a segnare la svolta - ha ricordato il presidente della provincia e sindaco di Forlì Davide Drei - Furono loro per primi a credere nella necessità di un coinvolgimento più ampio della città e del territorio”. Fondamentale al successo di questo genere di iniziative, hanno sottolineato Palma Mercurio, direttrice del Casa circondariale di Forlì, e Anna Giangasparo, direttrice di missione Uepe, è la risposta del territorio, e da questo punto di vista Forlì-Cesena e la Romagna in generale rappresentano un caso fortunato e tutt’altro che scontato. “Quando sono arrivata ho avuto la fortuna di poter camminare su un sentiero già tracciato - ha confermato l’attuale direttrice della casa circondariale di Forlì Palma Mercurio - Non è facile, perché affinché queste esperienze abbiano successo occorre una cura costante”. I laboratori sono realtà produttive a tutti gli effetti, che stanno nel mercato e dove non si fanno sconti su temi come gli adempimenti in termini di sicurezza sul lavoro e in materia contrattuale. “Questo genere di attività, riducono drasticamente il rischio recidiva, rischio che cala ulteriormente quando questi percorsi si combinano con il ricorso a misure alternative al carcere - ha detto Giangaspero. Strumenti come la semilibertà o la messa alla prova sono ancora troppo poco utilizzati, nonostante la loro efficacia sia provata, per questo è importante sensibilizzare associazioni enti e privati, perché aumentino le possibilità di inserimento lavorativo”. Brindisi: borse lavoro a ex detenuti, i cittadini contro il sindaco di Alberta Esposito brindisioggi.it, 4 febbraio 2018 Il Comune di San Vito dei Normanni bandisce l’avviso pubblico di 6 borse lavoro per gli ex detenuti con l’obiettivo di includerli nella società e i cittadini si ribellano su Facebook. Il 24 gennaio scorso sulla bacheca del Comune di San Vito dei Normanni è apparso nella sezione “Avvisi” il bando delle sei borse lavoro destinate agli ex detenuti che abbiano ottenuto la libertà da massimo 5 anni con lo specifico intento di dare loro la possibilità, qualora fosse loro intenzione, di essere inclusi nuovamente nella società. Sulla pagina istituzionale su Facebook del sindaco Domenico Conte, utilizzata per poter meglio veicolare i contenuti dell’amministrazione pubblica ai cittadini, è stato pubblicato il bando che però ha scatenato un putiferio. I commenti sono stati molti e nella maggior parte di protesta. Tra i commenti un utente ha scritto: “Conviene essere detenuto a questo punto… iniziative di”; un altro risponde “Perché non pensiamo ad aiutare prima le persone oneste?” ed ancora: “Niente togliere a nessuno ma è inutile le persone oneste non andranno mai avanti”. Poi ancora un altro utente preoccupandosi dell’avvenire dei propri figli commenta: “Non ho parole, ma come si fa ad andare avanti così, ai nostri figli che cosa dobbiamo insegnarli a fare i delinquenti? E sì perché questo è il solo modo per andare avanti visto che i politici di casa nostra preferiscono aiutare un delinquente piuttosto che un padre o madre di famiglia onesto.. oggi se non sei un delinquente non vai da nessuna parte”. A questo punto il sindaco ha ritenuto opportuno intervenire cercando di fare chiarezza sulla situazione. “È importante sottolineare che i soldi che verranno utilizzati per le sei borse lavoro non potevano essere investiti diversamente, in quanto - spiega Conte - nell’ambito del terzo piano sociale di zona si prevede l’assegnazione di queste borse lavoro della durata di sei mesi ai soli soggetti ex detenuti. Se noi non avessimo accettato questa proposta i soldi sarebbero stati persi e non reinvestiti come ha creduto qualche cittadino”. Il primo cittadino ha cercato di spiegare l’importanza morale di questa scelta: “Assodato che ai cittadini sanvitesi non è stato tolto nulla, bisogna anche comprendere che questa problematica esiste nel nostro territorio. Molti sono gli ex detenuti pentiti che vorrebbero avere una seconda possibilità, quindi perché perdere questa occasione? Perché non permettere loro di avere un compenso mensile di 500 € che possa darli la possibilità di guadagnarsi il pane onestamente? - conclude - io questa occasione gliela voglio dare!” I vincitori di questo bando saranno impiegati in attività di tirocinio presso lo stesso Comune di San Vito dei Normanni o in aziende private, cooperative o enti pubblici convenzionati con l’Amministrazione Provinciale. L’ufficio dei Servizi Sociali ha pensato per i sei vincitori ad un percorso di sensibilizzazione rispetto alle fasce deboli, quindi verranno messi al servizio dei poveri, anziani o disabili, si occuperanno di salvaguardare l’ambiente attraverso attività di riciclaggio o mantenimento del verde attorno ai locali del Comune, saranno impiegati in progetti di cittadinanza attiva e ristrutturazione dei locali in rovina nel territorio sanvitese. Salerno: “detenuto in condizioni disumane”, vinto il ricorso di Petronilla Carillo Il Mattino, 4 febbraio 2018 Trentasette giorni di riduzione di pena e otto euro a titolo di risarcimento perché riconosciuto vittima del sovraffollamento carcerario. Lo ha deciso il giudice Maria Siniscalco dell’ufficio di Sorveglianza di Salerno accogliendo il reclamo di A.R., un detenuto calabrese, in cella a Fuorni. Una bella vittoria per il suo legale di fiducia, l’avvocato Francesca Vista, che ha avuto accolto il reclamo del proprio assistito mentre altri otto sono stati respinti. Secondo il magistrato, dopo aver personalmente ascoltato anche il ricorrente, l’uomo ha diritto ad un giorno di liberazione anticipata per ogni dieci giorni trascorsi in condizioni disumane e degradanti. La maggior parte della detenzione “disumana” è stata accertata quando l’uomo era in carcere in Calabria ma il magistrato che ha ritenuto che “in determinati periodi” i parametri stabiliti dalla Corte europea per i diritti umani siano stati violati anche a Salerno. Secondo il magistrato A.R. avrebbe goduto di uno spazio, in alcuni periodi, compreso tra i tre ed i quattro metri quadrati e, durante la permanenza in Calabria, anche inferiore ai tre metri quadrati. Il tutto, sottolinea il magistrato, per “periodi di durata significativa che non possono ritenersi occasionali”. La sentenza emessa dal tribunale di Salerno, comunque, rappresenta l’apripista ad una riconsiderazione dei principi che sanciscono i diritti del carcerato. “Non posso che esprimere viva soddisfazione per questo provvedimento - commenta l’avvocato Francesca Vista - e la sensibilità umana che ha ispirato il magistrato perché, per la prima volta, vengono accertate le condizioni detentive all’interno della casa circondariale di Salerno, in violazione dell’articolo 3 della Corte europea per i diritti umani. Auspico, pertanto, un intervento del legislatore sul delicato tema del sovraffollamento carcerario affinché vengano individuati con chiarezza i criteri per il calcolo dello “spazio minimo vitale” e sull’interpretazione evolutiva della giurisprudenza di legittimità nazionale”. Infatti il magistrato salernitano non ha considerato soltanto la grandezza della cella e il numero di persone che vi soggiornano ma ha valutato, nella sua decisione, anche la disposizione degli arredi e degli oggetti personali che tendono a ridurre lo spazio vitale degli occupanti. Una sentenza che, almeno a Salerno, farà giurisprudenza. Brindisi: convegno dei Giovani Avvocati sulla giustizia e la sua crisi brindisireport.it, 4 febbraio 2018 Venerdì 9 febbraio alle 15,30 presso la biblioteca del Tribunale di Brindisi formativo: verrà presentata l’opera Caringella. L’Aiga (Associazione Italiana Giovani Avvocati) sezione di Brindisi, con il patrocinio della Camera Civile di Brindisi e della Camera Penale di Brindisi, ha organizzato per venerdì 9 febbraio alle 15,30 presso la Biblioteca “Monticelli” del Tribunale di Brindisi un evento formativo nel quale verrà presentata l’opera “10 lezioni sulla giustizia, per cittadini curiosi e perplessi” di Francesco Caringella, Presidente di Sezione del Consiglio di Stato, che interverrà personalmente. Francesco Caringella, già commissario di polizia e magistrato penale a Milano durante “Mani pulite”, attualmente presidente di Sezione del Consiglio di Stato, inoltre, è presidente della Commissione di garanzia presso l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e giudice del Collegio di garanzia dello sport presso il Coni. Autore di molte opere giuridiche e da decenni impegnato nella formazione di futuri magistrati e avvocati, ha pubblicato tre libri di narrativa: Il colore del vetro (2012), Non sono un assassino (2014; vincitore del Premio Roma), Dieci minuti per uccidere (2014) e, con Raffaele Cantone, il saggio La corruzione spuzza (2017). Si discuterà nel corso dell’evento dello stato di crisi della giustizia italiana alla presenza di ulteriori illustri relatori. L’incontro verrà introdotto e moderato dall’ avv. Francesco Monopoli, Presidente Sezione Aiga Brindisi, e dopo i saluti del dott. Alfonso Pappalardo, Presidente Tribunale Brindisi, e dell’avv. Carlo Panzuti, Presidente Ordine Avvocati Brindisi, interverranno il dott. Antonio De Donno, Procuratore Capo della Repubblica Tribunale di Brindisi, il prof. avv. Francesco Fabrizio Tuccari, associato di Diritto Amministrativo Università del Salento, il prof. Antonello Denuzzo, ricercatore Diritto Costituzionale Università del Salento, l’avv. Roberto Fusco, Presidente Camera Civile Brindisi e Coordinatore Camere Civili Puglia, l’avv. Fabio Di Bello, Presidente Camera Penale Brindisi, e l’avv. Domenico Attanasi, Coordinatore Nazionale Aiga Area Sud. L’evento è gratuito ed è aperto a tutta la cittadinanza, ed è valido per la formazione professionale continua degli Avvocati per 3 crediti formativi. Per info e prenotazioni inviare email all’indirizzo: segretario@aigabrindisi.it Sempre più suicidi tra i militari, ma parlarne resta un tabù di Carmine Gazzanni La Notizia, 4 febbraio 2018 L’ultimo incredibile dramma è avvenuto giovedì alla stazione metro Barberini, nel centro di Roma: un militare dell’esercito in servizio di punto in bianco è andato in bagno. Ha chiuso la porta, impugnato la pistola in dotazione e se l’è puntata alla testa. Un colpo. Così è morto il caporalmaggiore di soli 29 anni, con una moglie e un figlio che attendevano il suo ritorno. L’ennesimo dramma che lascia attoniti. Secondo i dati dell’Osservatorio dei suicidi all’interno delle forze dell’ordine, dal 2010 al 2016 si contano 315 suicidi; 36 solo nel 2016. Eppure, al di là delle puntuali frasi di circostanza, resta incomprensibile la ratio di un tale gesto. “C’è una discrepanza abbastanza rilevante rispetto agli altri Paesi dell’Unione europea - sottolinea a La Notizia la psicologa e criminologa, Margherita Carlini. E questo credo non sia dovuto al fatto che in Italia ci siano meno fenomeni, quanto al fatto che questa problematica ancora è un tabù”. Il punto, infatti, è che “di studi rispetto alla qualificazione e quantificazione del fenomeno, ce ne sono pochi”. Aspettative infrante - Ma quali le ragioni che spingono militari e poliziotti a oltrepassare la soglia? “In realtà - precisa ancora la dottoressa Carlini - in questi casi si parla sempre di multifattorialità; certo è che spesso può essere determinante la sindrome post-traumatica da stress”. Ed è qui che entra in campo il tabù politico: “Prendiamo i nostri militari - spiega la psicologa - partono per partecipare a missioni di pace, questa è la versione ufficiale. Se si dicesse che questi militari tornano con un disturbo post-traumatico da stress, significherebbe dire che vanno in guerra. Da qui la tendenza a minimizzare”. Determinanti, dunque, sono le situazioni cui le nostre forze dell’ordine si trovano a contatto, situazione che logorano anche emotivamente. Come nel caso degli agenti di polizia penitenziaria, che spesso “fanno una vita simile a quella dei detenuti”. E qui, inevitabilmente, lo stress raggiunge picchi inverosimili, senza dimenticare che “parliamo di persone che hanno a che fare tutti i giorni con la violenza e col tema della morte”. La soluzione - Ma non è tutto. Perché accanto allo stress c’è la sfera economica. Parliamo, d’altronde, della categoria più sottopagata della pubblica amministrazione: “La mancanza di stabilità economica crea sempre una condizione di crisi. Può andare a complicare un quadro magari già complesso o critico”, ragiona la Carlini. E allora? Quale la soluzione? Occorre un impegno concreto della politica, che stracci il velo di Maya oltrepassando il tabù, magari partendo da un osservatorio che sia “nazionale e riconosciuto”. “È necessario - continua la Carlini - studiare dettagliatamente il fenomeno. Alle persone vanno forniti sostegni validi, ma non solo quando si mostra il problema, ma in maniera costante dato che parliamo di persone costantemente a rischio, non solo fisico ma anche psicologico”. Occorre, dunque, un “piano di tutela che faccia prevenzione”. I diritti traditi dei profughi di Vijay Prashad* Internazionale, 4 febbraio 2018 Nel 1951 gli stati delle Nazioni Unite approvarono una convenzione sui profughi, con un obiettivo limitato: garantire che quelli della seconda guerra mondiale non subissero ingiustizie. Progressivamente il termine “profugo” si è allargato, e l’occidente ha cominciato a usare l’espressione per definire tutti quelli che fuggivano dall’Unione Sovietica e dall’Europa orientale, ma non quelli che fuggivano dalle guerre coloniali in Africa orientale e nel sudest asiatico. Un protocollo del 1967 ha cancellato le limitazioni di spazio e tempo, chiedendo che i profughi fossero riconosciuti “senza alcun limite geografico”. Secondo questa logica, chiunque sia costretto a lasciare la propria casa è un profugo. Attualmente al mondo ci sono 66 milioni di persone che sono state costrette a spostarsi. La maggioranza vive ancora nel proprio paese d’origine. Solo 22,5 milioni di persone sono ufficialmente registrate come rifugiate. Nel 2016 appena 189.300 hanno potuto stabilirsi in altri paesi. Il resto è rimasto nei campi o ai margini del sistema di protezione internazionale. Vale la pena ricordare che ogni giorno circa 30mila persone sono costrette ad abbandonare la loro casa. I paesi ricchi, ovvero i vecchi stati coloniali - dagli Stati Uniti all’Australia - hanno sviluppato un piano comune per affrontare la crisi dei profughi: costruiscono campi lontano dal loro territorio, “appaltando” il problema a stati che sono disposti, sotto pagamento, a costruire ostacoli alla libera circolazione dei popoli. Prendiamo in esame i casi di Manus Island (Papua Nuova Guinea), Peñas Blancas e Paso Canoas (Costa Rica), del Sahel e della Turchia. In ognuna di queste aree l’occidente ha finanziato la creazione di forze militari e campi di concentramento per bloccare i disperati in fuga dalla fame e dalle guerre. Dal 2013 il governo australiano ha trasferito i richiedenti asilo a Manus Island, a nord dell’isola principale della Papua Nuova Guinea. A Manus Island i migranti sono detenuti in campi dove esistono altissimi tassi di depressione e sindrome da stress postraumatico, come riportato dall’agenzia delle Nazioni Unite, Unhcr. Da un rapporto di Human Rights Watch del 2017 scorso si evince che nei campi la tortura è una pratica quotidiana. Quando il governo della Nuova Zelanda si è offerto di ospitare i migranti detenuti in questi campi, l’Australia ha respinto l’offerta sostenendo che in questo modo i migranti sarebbero potuti rientrare in territorio australiano “dalla porta sul retro”. Campi improvvisati e un centro della Croce rossa ospitano i migranti in Costa Rica. Le condizioni di vita in questi campi sono terribili, come ha riportato l’Organizzazione internazionale per le migrazioni. I migranti detenuti in Costa Rica vorrebbero raggiungere gli Stati Uniti, ma vengono bloccati alla frontiera con il Nicaragua. Perché il Nicaragua non gli permette di passare nonostante siano solo di passaggio sul suo territorio? L’ambasciatrice statunitense in Nicaragua Laura Dogu ha precisato che “ogni paese controlla le sue frontiere, come facciamo anche noi negli Stati Uniti. Il Nicaragua ha il diritto di farlo, e noi sosteniamo il suo governo. È una decisione politica”. Sono parole indicative. Gli Stati Uniti sostengono e incoraggiano il Nicaragua a sbarrare le sue frontiere ai migranti. Per gli Stati Uniti è molto più semplice lasciare che il Nicaragua agisca come una sorta di agente di polizia di frontiera che “costruire il muro” al confine con il Messico. L’Iniziativa G5 Sahel della Francia coinvolge cinque paesi africani (Burkina Faso, Ciad, Mali, Mauritania e Niger) in un progetto per bloccare i migranti che cercano di attraversare il deserto del Sahara e il Mediterraneo per raggiungere l’Europa. Il punto 6 dell’iniziativa - che si avvale anche di un drone statunitense di stanza ad Agadez (Niger) - stabilisce la necessità di fermare i migranti lontano dal confine europeo. Un nuovo studio dell’università di Cambridge firmato da Paolo Campana dimostra che la politica di fermare i migranti nel Mediterraneo si è rivelata inutile. Dato che le barriere nel Mediterraneo non producono risultati, i paesi europei hanno deciso di costruirne altre sulla sponda meridionale del Sahara. Nel corso del 2015 e del 2017, diversi paesi dell’Europa orientale hanno cominciato a costruire barriere e a rifiutarsi di lasciar passare i migranti sul loro territorio. L’Ungheria e la Slovacchia hanno portato in tribunale l’Unione europea accusandola di non aver permesso la chiusura delle frontiere. I paesi lungo la rotta balcanica che porta dalla Turchia alla Germania hanno assunto le posizioni più intransigenti contro le migrazioni, ma anche gli altri paesi europei non hanno certo aperto le porte ai migranti. La repressione delle autorità francesi nel campo migranti di Calais nell’ottobre del 2016 ha inviato un messaggio chiaro: i migranti non sono i benvenuti. L’Europa ha firmato un accordo con la Turchia in base al quale Ankara deve occuparsi di fermare i profughi e i migranti evitando che raggiungano l’Europa. L’Unione europea ha promesso in cambio tre miliardi di euro, ma i fondi non sono stati ancora inoltrati. In ogni caso la strategia generale è chiara: pagare un paese del perimetro occidentale affinché blocchi i profughi e i migranti. L’Europa, gli Stati Uniti e l’Australia hanno esportato i loro confini, allontanandoli dal loro territorio per garantire che lo spietato blocco dei migranti sia effettuato lontano dall’attenzione dei mezzi d’informazione. In sostanza l’occidente appalta la gestione della crisi dei profughi, in modo da portare avanti le sue crudeli politiche antimmigrazione e al contempo apparire innocente, mentre gli altri fanno il lavoro sporco. È arrivato il momento per i paesi del sud - il blocco G77 delle Nazioni Unite - di chiedere una nuova convenzione per i profughi. L’attuale struttura globale presenta troppi buchi e troppo spesso viene ignorata. Non possiamo più permettere che la crisi dei profughi sia appaltata e siano usate le forze armate per bloccare i migranti. Lo spirito della convenzione per i profughi del 1951 non è più rispettato. *Traduzione di Andrea Sparacino Turchia. Così l’industria bellica italiana arma le guerre di Erdogan di Giorgio Beretta Il Manifesto, 4 febbraio 2018 È uno dei maggiori clienti delle nostre aziende militari, soprattutto quelle a controllo statale come Leonardo (già Finmeccanica) e Fincantieri. Al quale l’Italia esporta un ampio arsenale bellico: dalle pistole ai fucili mitragliatori, dai veicoli terrestri agli aeromobili, dalle apparecchiature per la direzione del tiro fino a bombe, siluri, razzi e missili. È la Turchia di Erdoagan alla quale nel 2016 (ultimo dato disponibile) il governo Renzi ha autorizzato esportazioni di sistemi militari per oltre 134 milioni di euro. Una cifra, tutto sommato, modica che però fa di Ankara il decimo acquirente della nostra industria militare. Una cifra ben lontana dagli oltre 1 miliardo di euro per la produzione in Turchia di 51 elicotteri modello Mangusta (diventati 61 nel 2010) ribattezzati Tai T129 Atak. Licenza autorizzata nel 2007 ai tempi del governo Prodi per la quale le associazioni della Rete Italiana pe il Disarmo e Amnesty International avevano chiesto di sospendere considerata la possibilità di utilizzo di questi elicotteri d’attacco al suolo da parte dell’aeronautica militare turca nei territori curdi. Ma ufficialmente sono stati venduti - è questo il mantra ricorrente dei nostri ministri della Difesa - per contrastare il terrorismo internazionale e soprattutto l’Isis-Daesh di cui la Turchia è uno dei nostri principali alleati. Lo ha ribadito la ministra Pinotti lo scorso maggio quando si è incontrata a Istanbul col suo omologo Fikri Isik. In quell’occasione la Ministra ha rilevato come “in un momento in cui la guerra in Siria estende la minaccia terroristica anche alle Nazioni confinanti, l’Italia ha risposto positivamente alla richiesta della Nato di intervenire a rotazione con gli altri Paesi membri”. “L’Italia continua a sostenere con forza l’impegno della Nato sul fronte est e sud e in questo contesto rientra la cooperazione con la Turchia per la protezione dei confini con la Siria” spiegava la ministra Pinotti. “Nell’ambito delle rotazioni degli impegni assunti da diversi Paesi Nato, abbiamo offerto tempo fa la nostra disponibilità a sostituire la batteria missilistica spagnola che aveva finito il proprio periodo, e lo abbiamo fatto perché riteniamo che la Nato debba essere impegnata a 360 gradi sul fronte est e su quello sud”. Come sempre sono le missioni militari a fare da traino alle commesse di sistemi militari. E non a caso durante la permanenza a Istanbul la ministra Pinotti ha visitato il Salone IDEF 2017, la fiera internazionale dell’industria della difesa con cadenza biennale giunta alla tredicesima edizione, alla quale non mancavano i padiglioni delle maggiori aziende italiane. Ma mentre in Germania l’impiego dei carri armati Leopard da parte dell’esercito turco nella cosiddetta operazione “Ramoscello d’ulivo” scatenata in Siria settentrionale contro le milizie curde nel settore di Afrin ha suscitato forti rimostranze anche in parlamento, l’utilizzo dei Mangusta italiani per simili operazioni non ha mai sollevato troppa attenzione né nel nostro parlamento e nemmeno da parte dei nostri media. Così il sultano Erdogan arriverà oggi a Roma insieme alla moglie e alcuni ministri turchi che lo seguiranno nella visita. La capitale sarà letteralmente blindata: 3500 uomini, cecchini, manifestazioni vietate e per la visita a Roma è stata delineata un’ampia area di sicurezza denominata “Green Zone”. Inizialmente sembrava dovesse incontrare “solo” il Papa in Vaticano, ma alla fine Erdogan sarà accolto dal nostro paese con tutti gli onori del caso: incontrerà Gentiloni e Mattarella. L’Italia sarà il primo paese a stringere la mano sporca di sangue del presidente turco dopo l’inizio del massacro su Afrin. E potranno così riprendere gli affari per le nostre industrie militari. Turchia. Arrestata così, per i miei tweet contro la guerra di Nurcan Baysal Il Manifesto, 4 febbraio 2018 Era da poco passata la mezzanotte. Stavo guardando la tv, i miei figli giocavano accanto a me, il più piccolo con il Lego, il più grande con il telefono. Con noi c’era anche mio marito e un suo amico. Era una normale domenica sera. Improvvisamente ho sentito un rumore terribile. All’inizio ho pensato a un terremoto. Poi ho realizzato che il rumore proveniva dalla porta d’ingresso. Con i ricordi della guerra ancora presenti nella memoria, ho pensato che forse la nostra casa era sotto attacco, bombardata o bersagliata con le armi. Ho gridato ai miei figli di rimanere dov’erano, di non avvicinarsi. Abbiamo subito capito che gli uomini che stavano cercando di buttare giù la porta erano poliziotti. La nostra porta era troppo resistente e la parete intorno cominciava a sgretolarsi. Non riuscendo a entrare dalla porta d’ingresso, sono passati dal giardino e sono entrati dalla cucina. Circa 20 uomini dei corpi speciali della polizia con kalashnikov e altre armi in mano hanno fatto irruzione in casa puntandole verso di me, il capo della squadra mi ha chiesto se ero Nurcan Baysal. Quando ho risposto di “sì” mi ha detto che aveva un mandato per perquisire la casa. Ho chiesto se avevano il mandato anche per buttare giù la porta. Mi ha confermato che il procuratore li aveva autorizzati anche a buttare giù la porta. Ho risposto che era contro la legge e ho chiesto il nome del procuratore ma non ho ottenuto risposta. Questo è il modo in cui sono stata arrestata. Sono entrati in casa mia, una casa dove sanno che ci sono due bambini piccoli. Soltanto due giorni dopo il mio arresto ho saputo che ero stata fermata per cinque tweet che avevo scritto contro “la guerra di Afrin”. Questo il contenuto: 1 - Quello che portano i carri armati non sono “ramoscelli d’ulivo”, sono bombe. Quando le lanciano la gente muore. Ahmed sta morendo, Hasan sta morendo, Rodi sta morendo, Mizgin sta morendo… Vite che stanno finendo… 2 - Dare il nome di “ramoscello d’ulivo” alla guerra, alla morte. Questa è la Turchia! 3 - La sinistra, la destra, i nazionalisti e gli islamisti sono tutti uniti nell’odio contro il popolo curdo. 4 - Cosa pensate di andare a conquistare? Quale religione, quale fede sostiene la guerra e la morte? (Ho scritto questo tweet dopo che l’autorità religiosa turca aveva lanciato un appello alla “vittoria” in un sermone a sostegno dei militari) 5 - (Retweet di una foto di un altro giornalista di un bambino morto ad Afrin) Ho scritto: “Quelli che vogliono la guerra, guardino questa foto, un bambino morto”. È a causa di questi tweet che sono stata accusata di propaganda terroristica e di lanciare appelli provocatori. Come potete vedere, questi tweet non contengono nessuna propaganda terroristica e io non ho nemmeno fatto appello a provocazioni o alla violenza. Questi tweet dimostrano che sono contro la guerra e contro la morte, e sì, ho criticato la polizia e il governo turco. Sono cresciuta con la guerra nella città di Diyarbakir. Realmente non so cosa sia una vita normale. Ho trascorso i miei ultimi vent’anni lottando per pace, democrazia, giustizia e libertà. Mi sono adoperata con le istituzioni, le organizzazioni della società civile per trovare una soluzione pacifica alla questione curda. Anche nei giorni bui del 2015, durante i bombardamenti nel cuore del distretto Sud di Diyarbakir, stavo lavorando per aprire il dialogo tra il governo e il movimento curdo. Ho organizzato molti incontri nel mio ufficio tra esponenti del partito al governo, del movimento curdo e intellettuali, per cercare di porre fine alle morti nella regione. Come militante per la pace e per i diritti umani ho passato la mia vita trattando con le forze addette al controllo delle migrazioni, guardie di villaggi, vittime delle mine, della povertà, donne sequestrate dallo Stato islamico, con cadaveri abbandonati nelle strade, scrivendo reportage sui crimini di guerra e contro l’umanità. Dopo tre giorni nel dipartimento dell’anti-terrorismo sono stata rilasciata su cauzione, ma ho anche avuto il divieto di viaggiare. Nell’ultima settimana, altre 311 persone sono state arrestate per aver detto “no” alla guerra di Afrin. Lo stato sta cercando di far tacere le voci contro la guerra. Vogliono che tutti i settori della società, compresi i media sostengano la guerra. Come giornalisti, attivisti e intellettuali, la nostra responsabilità non è verso lo stato. Noi siamo responsabili verso il nostro popolo, verso l’umanità, verso la storia, verso la vita, verso la gioventù turca e curda che sta morendo, verso le loro madri. La scorsa settimana, il presidente Recep Tayyip Erdogan ha minacciato la popolazione dicendo che coloro che parteciperanno alle proteste contro la guerra pagheranno un caro prezzo. Sì, presidente, è vero, noi stiamo pagando un prezzo alto. Ma credetemi, questo prezzo ha un valore. Forse alla fine ci potrà essere la vita e la pace. Questo paese merita la vita e la pace. Afghanistan. Così la “guerra infinita” non scongiura il ritorno dei Talebani di Roberto Bongiorni Il Sole 24 Ore, 4 febbraio 2018 Vi sono luoghi in Afghanistan lontani da tutto e da tutti. Dove il tempo si è fermato. Come a Siah Choy, nel distretto di Zahri, provincia meridionale di Khandahar. Nove anni dopo l’attentato contro le Torri Gemelle, al seguito del battaglione americano del 1°/75° Cavalry, inquadrato nella 101ª divisione, si cercava di mappare quelli che il capitano del plotone Ryan Kort definiva i “villaggi fantasma”. Dove nessun soldato americano aveva mai messo piede e qualche anziano li confondeva con i “demoni”, i soldati dell’Armata Rossa. Trovare qualcuno che sapesse cosa era accaduto l’11 settembre 2001 era davvero difficile. Nei cinque villaggi da noi perlustrati solo una persona conosceva la risposta, e in modo approssimativo. D’altronde nessuno poteva vantarsi di avere un televisore. “Voi avete l’orologio, noi il tempo” - Questo era l’Afghanistan più remoto, la roccaforte dei Talebani, un’area liberata dall’élite delle truppe americane nell’autunno del 2010. Gli americani se ne sono andati alla fine del 2014. E i Talebani sono ritornati in diverse zone del Paese. “Voi avete l’orologio, noi abbiamo il tempo” amano ricordare i Talebani. I fatti sembrano dar loro ragione. La guerra più lunga mai combattuta nella storia degli Stati Uniti - e la più costosa dopo l’Iraq - è destinata a trascinarsi ancora a lungo. I più pessimisti la chiamano la guerra infinita. I pragmatici la guerra che non si può vincere. Chi è stato deluso la considera la guerra inutile. E si domanda: a cosa è servito il sangue versato? A quali apprezzabili risultati hanno portato i 3.529 caduti della coalizione militare della Nato (di cui 2.393 americani e 54 italiani) e i 35mila militari afghani? Il loro sacrificio ha certamente impedito ai Talebani di riconquistare tutto il Paese, instaurando le loro leggi oscurantiste. Come avevano fatto dal 1996 al 2001. Ma la guerra non è mai stata vinta. E da quando è stato completato il ritiro delle truppe internazionali, a fine del 2014, la situazione è peggiorata. Il caos controllato e i piccoli “califfati” dei Talebani - La lunga scia di attentati che sta colpendo tutto il Paese, inclusa la capitale, è un segnale inquietante. Per ben due volte in sette giorni commando di Talebani hanno portato a termine due gravissimi attacchi a Kabul. In Afghanistan regna ormai un “caos controllato”. Il governo del presidente Ashraf Ghani, sostenuto dalla Comunità internazionale, è ancora fragile e la sua autorità limitata. Mentre l’esercito afghano non è ancora così organizzato e addestrato per affrontare una guerra tanto insidiosa. Se non fosse assistito dalle truppe straniere, forse la perderebbe. E così si è creata una situazione di stallo. L’esercito afghano non è così forte da vincere la guerra. Ma grazie al sostegno degli Stati Uniti nemmeno così debole da perderla. I Talebani stanno tuttavia rafforzandosi. Il governo di Kabul fatica a controllare metà del Paese. Secondo uno studio diffuso dall’emittente britannica Bbc, sono ormai presenti nel 70% del territorio. In molte più aree rispetto al 2014 e con delle differenze. Nella provincia meridionale di Helmand, dove sono caduti quasi 400 soldati britannici, gli studenti del Corano hanno riconquistato buona parte del territorio. Oggi sono dei piccoli califfati, dove i Talebani amministrano il territorio imponendo il loro sistema giuridico. La liberazione di queste aree si è dunque rivelata solo una breve parentesi durata qualche anno. Il cambio di strategia di Trump: più soldati e raid aerei - Il presidente americano Donald Trump si trova ora in una posizione scomoda. In campagna elettorale si era disinteressato dell’Afghanistan, e quando ne aveva parlato, si era limitato a definire la missione “un disastro totale”, auspicando il ritiro delle truppe rimaste. Ma nessun presidente americano è riuscito a sottrarsi a questa crisi. Trump ha dunque deciso di cambiare strategia: più libertà ai bombardamenti aerei - con buona pace per le vittime civili uccise per errore - e più gruppi di forze speciali sotto copertura nelle regioni calde. Nel 2017 ha così aumentato il numero di militari nel Paese da 8.500 a 14 mila (in gran parte con compiti di addestramento). Ma pare che il Pentagono abbia chiesto un nuovo rinforzo di mille effettivi. Fino a quando? Per Trump fino alla “vittoria finale”. Un traguardo che sa di propaganda, a cui probabilmente nemmeno lui crede. A meno che questa vittoria non significhi un onorevole ritiro. D’altronde nel 2010 il “surge” deciso da Barack Obama aveva portato le truppe americane, in gran parte da combattimento, sopra le centomila unità. Gli altri Paesi che partecipavano alla missione Nato (Isaf) avevano contribuito con oltre 40mila militari. Non si era vinta la guerra allora, non si comprende come possa essere vinta oggi con 15mila soldati, peraltro quasi tutti con compiti di addestramento. Bombardare dall’alto serve poco in Afghanistan, soprattutto nelle impervie regioni montagnose. È dunque probabile che Trump chiederà ai Paesi alleati, che già schierano oltre 5 mila militari, un maggior contributo. Ed è probabile che incontrerà resistenza. Per l’Italia, che vanta il secondo contingente per numero nella missione Resolute Support (seguita all’Isaf), significherebbe portare l’attuale contingente da 900 ad almeno 1.200 effettivi. Senza sapere per quanto tempo. Uno scenario che stride con le parole espresse in proposito dal ministro della Difesa Roberta Pinotti il 15 gennaio: “Pensiamo di diminuire l’impegno, chiedendo agli alleati di contribuire a compiti oggi affidati a noi. Vogliamo andare in riduzione”. I costi delle guerra - Il presidente che voleva “investire” solo laddove erano presenti interessi americani ora si trova impelagato in una guerra sporca, che risucchia ingenti risorse al bilancio. Le cifre sono discordanti. Ma secondo i rapporti più autorevoli dal 2001 gli Stati Uniti hanno speso 783 miliardi di dollari per la campagna militare in Afghsnistan. Il dispiegamento di un solo soldato per un anno incide per circa un milione di dollari sul bilancio. Ma tra costi diretti e indiretti, Neta Crawford, co-direttore del Cost of Wars Project alla Brown University, ha stimato che il conflitto, inclusi alcuni impegni vincolanti per il futuro, è costato finora 2mila miliardi di dollari. Certo è avvenuta una graduale e continua riduzione. Nel 2010 la spesa per la campagna afghana aveva toccato 112,7 miliardi di dollari. Nel 2016 erano scesi a 30,8 miliardi. Ma sarà difficile ridurre sensibilmente questo livello. Tenendo conto che comunque il capitolo Afghanistan sarà una zavorra sul bilancio ancora per parecchio tempo. I difficili negoziati - È forse necessario venire a patti con il nemico? Con chi semina stragi di civili? Dopo gli ultimi, brutali attentati Trump ha respinto l’idea: “Non vogliamo parlare con i Talebani. Un giorno potrebbe arrivare il momento per farlo. Ma dovrà passare molto tempo”. Eppure fino a poche settimane fa il team del presidente avevano riferito che le trattative erano vicine. È difficile da digerire, ma probabilmente non c’è altra soluzione. Il Governo afghano ci sta provando da tempo. Obtorto collo anche gli Stati Uniti sanno che la pace passa proprio, e forse soltanto, da questa strada. Anche se i precedenti non sono incoraggianti. L’ultimo serio round di “tentati negoziati” risale al 2015 in Pakistan. Ma fallirono ancora prima di iniziare. I contatti tra Kabul e gli insorti sono continuati nel tempo ma hanno sempre incontrato un ostacolo insormontabile. I Talebani non hanno mai rinunciato alla loro pre-condizione: prima tutte le truppe straniere lasciano il paese, poi ci si siede al tavolo per intavolare trattative. Vi è anche un altro fattore che non gioca a favore di un accordo duraturo e comprensivo: il governo di Kabul è profondamente diviso. Le crescenti tensioni tra diversi gruppi etnici e partiti politici rende difficile la formazione di un blocco omogeneo. Sull’altro fronte, i gruppi di insorti che agiscono sotto l’ombrello dei Talebani sono anch’essi divisi, spesso lontani tra loro geograficamente. La capacità del loro leader, Mullah Haibitullah, di controllare il feroce network degli Haqqani, un alleato con radici in Pakistan, determinato a proseguire la guerra a suon di attentati, appare compromessa. Sempre più interessata a rafforzare la sua sfera di influenza in Afghanistan, la Russia ha ribadito la scorsa settimana la necessità di un dialogo diretto e urgente tra Talebani e Governo afghano, offrendosi di ospitare le delegazioni dei due belligeranti. Al contrario degli americani, Mosca ha mantenuto contatti con i movimenti degli insorti. Talebani contro Isis, la guerra nella guerra - Ma l’ascesa in campo di un altra temibile formazione, l’Isis, rende lo scenario più complesso. In alcune regioni le rivalità con i Talebani sono degenerate in scontri armati. Negli ultimi giorni migliaia di civili sono fuggiti dalla regione settentrionale di Jawzjan a causa dei combattimenti. È una matassa che appare inestricabile. Ma è difficile contestare una considerazione: la campagna afghana non è una guerra che può essere vinta dal cielo. E nemmeno ricorrendo alla sola forza militare. Una via negoziale sarà prima o poi necessaria Lo ha ricordato di recente Nadir Naeem, il vice direttore dell’ente afghano preposto alle trattative, l’High Peace Council. “La pace non può essere raggiunta intensificando la guerra”. Cina. Migliaia di uiguri detenuti in “campi di rieducazione politica” di Chiara Romano sicurezzainternazionale.luiss.it, 4 febbraio 2018 Migliaia di uiguri musulmani sono attualmente detenuti in quelli che la Cina ha definito “campi di rieducazione politica”, nella regione occidentale del Xinjiang. Omer Kanat, il presidente del comitato esecutivo del World Uyghur Congress, un gruppo di supporto alla diaspora del popolo, ha spiegato che per ogni famiglia appartenente alla minoranza etnica degli uiguri, almeno 3 o 4 persone sono state portate via e che nei villaggi non ci sono più uomini per strada, ma solamente donne e bambini. Gli uiguri sono un’etnia turcofona di religione islamica che occupa il 46% della provincia nord-occidentale cinese del Xinjiang. Sin dagli anni ‘90, i membri dell’etnia avevano avviato un’attività indipendentista, che tuttavia è sempre stata respinta dalla Repubblica Popolare Cinese. Ultimamente, il governo del Paese ha altresì attuato azioni di soppressione culturale, repressione religiosa e discriminazioni contro la popolazione. Secondo un funzionario di sicurezza rimasto anonimo, il numero di uiguri confinati nei campi ammonta a 120 mila persone solo nella prefettura di Kashgar, nella parte nordoccidentale della regione. Da aprile 2017, i membri dell’etnia accusati di sostenere posizioni estremiste e politicamente errate sono stati incarcerati o trasferiti in campi rieducativi in tutto il Xinjiang. Il numero degli arresti degli uiguri è aumentato a ottobre 2017, in concomitanza con il XIX Congresso del Partito Comunista cinese a Pechino, e i campi rieducativi si sono riempiti di persone, costretti a vivere in condizione squallide. Un impiegato del governo locale, Erkin Bawdun, ha dichiarato che le strutture sono sovraffollate e i detenuti costretti vivere in situazioni pessime, dormendo senza cuscini in letti piccolissimi e obbligati a utilizzare abiti senza bottoni, chiusure lampo, cinture, lacci di scarpe e, in alcuni casi, privati anche della biancheria intima. Secondo quanto riportato da Bawdun, alcuni detenuti sono stati visti camminare scalzi, nonostante le temperature arrivino anche a -10 gradi. Il governo cinese sta portando avanti una campagna in Xinjiang contro quelle che sono state definite le forze di “terrorismo, separatismo ed estremismo religioso”. Diversi gruppi per i diritti umani hanno spiegato che tutte le persone che, secondo le autorità, potrebbero essere state influenzate dall’estremismo islamico, vengono sottoposte a una sorta di “lavaggio del cervello” all’interno dei campi. I detenuti sono costretti a elogiare il Partito Comunista, imparare il cinese mandarino, studiare il pensiero dell’attuale presidente cinese, Xi Jinping, e confessare le loro “trasgressioni”, quali ad esempio pregare in una moschea o viaggiare all’estero. La ricercatrice senior per la Cina di Human Rights Watch, Maya Wang, d’istanza a Hong Kong, ha dichiarato che tutto ciò è totalmente illegale. Inoltre, le autorità non forniscono alcun documento ufficiale alle famiglie e non viene definita la durata del periodo di detenzione. La Wang aveva pubblicato un resoconto dettagliato sulla questione degli uiguri a settembre 2017, chiedendo al governo di Pechino di liberare tutti i detenuti. La CNN ha dichiarato che le autorità del Xinjiang non hanno risposto alle richieste di ulteriori informazioni, ma i media del Paese hanno spiegato che questi campi sono efficaci per le attività di de-radicalizzazione. In quest’ottica, nel 2017 la regione ha approvato una legge contro l’estremismo, vietando la barba lunga, il velo in pubblico e la possibilità di far studiare a casa i propri figli, scatenando nuove proteste da parte dei gruppi per i diritti umani mondiali, tra le quali Amnesty International. Per contrastare la crescita del movimento indipendentista uiguro, il governo cinese aveva iniziato a inviare persone di etnia Han, che rappresentano la maggioranza del Paese, nella regione del Xinjiang. Questa decisione, tuttavia, ha peggiorato le tensioni nell’area, nonostante il governo abbia garantito di rispettare i diritti e gli interessi di ogni etnia, vietando discriminazioni e oppressioni contro qualsiasi minoranza. Tuttavia, secondo Rebiya Kadeer, l’ex leader del World Uyghur Congress, da tempo in esilio, le reali intenzioni del governo cinese riguardano l’eliminazione il gruppo etnico degli uiguri. “La repressione religiosa, le restrizioni culturali e il divieto di utilizzare la lingua uigura faranno sì che il popolo lotti in modo ancora più risoluto per mantenere la propria identità” aveva aggiunto Kadeer.