Cari partiti, perché avete dimenticato le condizioni delle nostre carceri? di Iuri Maria Prado Il Dubbio, 3 febbraio 2018 Leggendo i programmi elettorali è evidente l’assoluto disinteresse per chi vive in cella. Si parla solo di “certezza della pena”, “processo giusto” e giustizia veloce. Chi si prendesse la briga di spulciare i programmi dei partiti politici che tra poche settimane chiederanno il voto degli italiani apprenderebbe che l’ignobile situazione delle carceri nel nostro Paese non costituisce un problema per nessuno di quei partiti. Si può star certi che in tutti quei partiti militano persone che hanno a cuore il problema, e che magari - anzi sicuramente - si impegnano in cose buone, visitando i carcerati, promuovendo iniziative di miglioramento delle loro condizioni. Ma si tratta quasi di opere di carità, pur lodevoli; una specie di assistenza sociale e umanitaria dopotutto episodica e che, anzi, denuncia proprio l’assenza di azioni collettive e di politiche vogliose di sistemare la faccenda in modo diverso e risolutivo. E appunto leggendo i programmi dei partiti politici che ora ci chiedono il voto ti accorgi che l’immonda condizione delle carceri non costituisce un problema per nessuno. Dice: vabbè, non sarà in cima alla lista delle loro priorità. No, invece: sembra proprio che il problema non esista. Certo, trovi pressoché dappertutto, in quei programmi, che bisogna garantire la “certezza della pena”. Ma il so- spetto che il nostro sistema garantisca perfettamente una pena certissima, quanto certamente ingiusta, per i carcerati innocenti evidentemente non sfiora i redattori di quei programmi. Dice: ma ci sono anche i colpevoli, in carcere. Già, ma si domanda: siccome sono colpevoli bisogna tenerli uno sull’altro, senza cure adeguate se sono malati, costretti in luoghi che sarebbero giudicati insalubri perfino per delle bestie? Tu sai che il carcere è questo, in Italia, e metti in cima alla lista che ci vuole la “certezza della pena”? Semmai dovresti augurarti che la pena non sia inflitta, se non sei capace di garantire che non si risolva in una simile tortura. Dappertutto, in quei programmi, trovi ovviamente che ci vuole un “processo giusto”. Ma altrettanto ovviamente non significa nulla, perché è giusto (figurarsi se vogliamo negarlo) reclamare un processo giusto, e Dio sa quanto bisognerebbe lavorare affinché nel nostro Paese si possa sperare in una amministrazione della giustizia più attenta ai diritti di chi ne è vittima (sì: vittima): ma non ce ne facciamo proprio niente di un processo giusto se è la premessa per finire nelle carceri che abbiamo. Si può mandare al rogo qualcuno all’esito di un processo giustissimo. Si può condannare alla tortura alla fine di un processo regolato da garanzie perfette. Ma forse un dubbio sulla giustizia del sistema dovrebbe pizzicarci ugualmente, visto che il rogo resta un rogo e la tortura resta una tortura anche se queste pene deliziose sono irrogate dopo un procedimento rispettosissimo del contraddittorio e dei diritti di difesa. Trovi poi dappertutto, in quei programmi, che bisogna avere processi più veloci. Che sarà anche vero, ma ancora una volta il problema resta: processi più veloci per fare che cosa, infatti? Per mandare all’inferno più velocemente i condannati? Dove c’è un poco di sensibilità in più, trovi che bisogna aumentare le occasioni di pene alternative (lavori utili, attività tese al reinserimento, eccetera). Benissimo, naturalmente. Ma si tratta di intendersi. Bisogna tirar fuori dal carcere chi vi sta inutilmente; far uscire quelli che - non pericolosi - più utilmente per la società potrebbero dedicarsi ad attività di riparazione e risarcimento. Ma bisogna farlo perché è meglio per tutti che sia così: non perché, altrimenti, quelli sono costretti nell’ignominia delle malattie, del sovraffollamento, della mancanza di cure e di igiene, dell’omosessualità coatta. Anche nella prossima legislatura avremo qualche manipolo di parlamentari meritoriamente impegnati a visitare le carceri. Ma serve a poco, e alla fine non è meglio del prete che fa il segno al condannato a morte. E un partito politico che metta non si dice al primo posto, ma almeno in una nota a piè di pagina del proprio programma, una dichiarazione di impegno forte, chiaro, irrinunciabile a far cessare la situazione di intollerabile inciviltà che governa il sistema carcerario italiano, semplicemente non c’è. Al prossimo suicidio, alla prossima morte “per carcere”, ricordiamocene. Ricordiamoglielo. Da spazio di detenzione a luogo di relazione di Fabrizio Pesoli Il Dubbio, 3 febbraio 2018 Ricerca del Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano sul carcere. C’è speranza se gli architetti entrano in carcere. Un contraltare alle drammatiche cronache delle patrie galere è il lavoro del Dipartimento di Architettura e Studi Urbani (Dastu) del Politecnico di Milano, che il 1° febbraio ha discusso lo stato di avanzamento della propria ricerca sul carcere, insieme ad operatori di varie discipline, tra cui i direttori dei tre istituti di pena milanesi e il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute, Mauro Palma. “Da spazio di detenzione a luogo di relazione”: nel titolo sta il senso del progetto che, spiega Andrea Di Franco, “mira a ribaltare la natura del carcere. Se dentro le mura i suicidi sono 20 volte più numerosi che fuori e la recidiva è al 70%, vuol dire che questo modello non è efficace”. Puntando quindi non a nuove realizzazioni ma alla modifica delle strutture esistenti, la ricerca si è sviluppata in un’ottica interdisciplinare, tenendo fermo l’obiettivo fissato dalla Costituzione: la “rieducazione” del condannato. Il progetto, finanziato dal Fondo di Ateneo per la Ricerca di Base, ha fatto tesoro anche degli esiti degli Stati generali dell’esecuzione penale. “Partendo proprio dai rapporti del ministero della Giustizia e dell’associazione Antigone e dai colloqui con gli operatori, abbiamo mappato le attività e i luoghi della socialità in carcere e la loro intensità d’uso e realizzato un database che verrà messo a disposizione”, dice Antonella Bruzzese. Oggetto degli interventi progettati non sono infatti le “camere di pernotto”, ossia le celle, ma gli spazi comuni, più immediatamente convertibili ad altri usi. “Ad Opera” spiega Lorenzo Consalez, “abbiamo tracciato un diagramma dei movimenti delle persone da cui emerge una struttura a fasce, con una permeabilità via via minore dei flussi. Pensiamo a trasformarla in una struttura a scacchiera, per mescolare le funzioni. Un’altra idea è rendere gli spazi aperti, come i giardini interni, accessibili a tutti. Certi detenuti ci hanno detto: sono tanti anni che non mettiamo i piedi su un terreno morbido”. Il progetto ha riguardato anche il rapporto carcere- città. “Il penitenziario è quasi sempre relegato nella periferia”, dice Francesco Infussi, “e se è in centro, come nel caso di San Vittore, segna una discontinuità nel tessuto urbano”. Si tratta quindi di ripensare l’aspetto più iconico del carcere, il muro di recinzione, riformulandolo ad esempio in funzione abitativa, pur preservando la sicurezza. Esempi di innovazione, storici o recenti, non mancano. Si citano le opere di Sergio Lenci, di Mario Ridolfi e di Giovanni Michelucci, autore del Giardino degli incontri a Sollicciano. Ma cosa pensano gli operatori della giustizia? “Il prefisso "ri-" mi piace. Non dobbiamo costruire nuovi penitenziari: meglio risistemare e ristrutturare”, sorride Mauro Palma, che però non ama il lavoro di Ridolfi: “L’ho difeso a lungo, ma ora come Paolo Villaggio dico: il carcere di Nuoro è una boiata pazzesca. Tutto imperniato sulla chiesa centrale e sul ruolo dell’espiazione. Diffido dei progetti monocentrici, preferisco il policentrismo dei padiglioni nel verde di certi vecchi manicomi”. Attenzione anche alla visibilità troppo esibita: “L’istituto di Pontedecimo sta come un vecchio maniero su una collina, con le finestre sbarrate in bell’evidenza. Ma se all’esterno si esibisce il valore simbolico della punizione, all’interno non si crea nessuna relazione umana”. Alessandra Naldi, garante milanese dei diritti dei detenuti, invita a valorizzare le funzioni che permettono lo scambio con l’esterno. Mentre per Giacinto Siciliano, già direttore ad Opera ed ora a San Vittore, il fattore tempo è essenziale: “Mi è appena giunto un sms. Dice che abbiamo finito i posti: ci sono quattro detenuti da ricollocare. Realizzare la vostra bozza vuol dire risolvere anche questi problemi”. Se discipline diverse riescono a dialogare, forse lo schema a raggiera del panopticon - simbolo, per Foucault, del potere invisibile che sorveglia tutti - può diventare metafora del suo opposto. Non più centrale del controllo, ma crocevia e agorà dei saperi e dell’umanità. Il Seac lancia un progetto per favorire l’inserimento sociale dei detenuti di Patrizia Abello felicitapubblica.it, 3 febbraio 2018 È nato il progetto “Volontari per le misure di comunità” promosso da Seac (Coordinamento Enti ed Associazioni di Volontariato Penitenziario), sostenuto da Fondazione con il Sud per favorire il reinserimento sociale di coloro che, a vario titolo, sono sottoposti a misure di comunità. Il progetto Seac coinvolge cinque associazioni di volontariato di Sicilia, Campania, Sardegna e Calabria e prevede la formazione dei volontari, il rafforzamento della rete tra le associazioni che si occupano di volontariato carcerario e, con iniziative varie, si impegna a sensibilizzare gli individui della società verso l’accoglienza di persone che si trovano in esecuzione penale esterna. Le associazioni partner del progetto sono davvero tante: AsvoPe di Palermo, Oltre le sbarre di Cagliari, Liberamente di Cosenza e I Giovani della Carità di Isola Capo Rizzuto oltre alla Caritas di Avellino. Fanno, inoltre, parte della rete Controluce di Pisa, Sesta Opera San Fedele di Rieti, Sesta Opera San Fedele di Milano e VoReCo Volontari Regina Coeli di Roma. Un primo ciclo formativo a Cagliari, Palermo e Avellino si è già concluso e nel mese di gennaio ne è partito un altro a Cosenza e Isola Capo Rizzuto, coinvolgendo circa 150 aspiranti volontari. Purtroppo nel nostro Paese è molto diffusa l’idea che la società sia tanto più sicura quanto più gli autori dei reati restino in carcere. Niente di più sbagliato, poiché il tasso di recidiva delle persone che scontano in carcere la pena detentiva è molto più alto di quello relativo a persone che non vengono detenute: addirittura il 70% dei soggetti detenuti diventa recidivo, mentre solo il 19% dei condannati in esecuzione esterna commette nuovi reati una volta estinta la pena. Riguardo all’iniziativa, la presidente Seac Laura Marignetti dichiara: “Il progetto comporta la definizione di un ruolo inedito del volontariato quale facilitatore dell’inclusione sociale. È previsto, infatti, che a ciascuno dei cicli formativi segua una fase di impegno attivo nell’accompagnamento di soggetti in esecuzione penale esterna, al fine di offrire ai volontari competenze non solo teoriche. Ma soprattutto il progetto prevede, in conformità alle direttive europee, un massiccio intervento di sensibilizzazione del tessuto sociale, volto ad incrementare nell’opinione pubblica la fiducia nei confronti delle pene non detentive, anche con riferimento al tema della sicurezza intorno al quale fioriscono, spesso, le peggiori speculazioni”. Non solo: i corsi di formazione sono stati organizzati anche grazie al contributo di magistrati e avvocati, segno che la rete per l’attuazione delle misure di comunità si sta avviando davvero e che il volontariato, in questo percorso, riveste un ruolo da protagonista. “Ovale Oltre le Sbarre”: i detenuti potranno partecipare al Campionato Rugby Serie C varese7press.it, 3 febbraio 2018 La Federazione Italiana Rugby, attiva da anni attraverso i propri Club e con un impegno diretto all’interno di numerosi istituti di pena di tutta Italia, ha sottoscritto un protocollo d’intesa con il Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria (Dap), denominato “Ovale Oltre le Sbarre”, che porterà ad ampliare ulteriormente la presenza del gioco nelle strutture di detenzione del Paese. Lo sport è un importante strumento di trattamento rieducativo e di crescita personale per le persone detenute, per re-integrarsi nella società civile, acquisire o ritrovare l’abitudine al rispetto delle regole e dell’avversario. Oggi, il progetto di Fir legato alle case circondariali vede due Club direttamente collegati agli istituti penitenziari per partecipare al Campionato Italiano di Serie C, grazie a una apposita normativa garantita dal Consiglio Federale, mentre numerose altre Società sono impegnate a diffondere il gioco ed il modo di essere tipico della palla ovale in numerosi istituti per adulti e minorili di tutta Italia. L’impegno nelle carceri ha un ruolo centrale nel programma di responsabilità sociale della Federazione Italiana Rugby, un impegno a cui oggi si affianca in via formale anche quello del Dap: a sottoscrivere il protocollo presso il Centro di Preparazione Olimpica del Coni di Roma, alla presenza del Presidente del Coni Giovanni Malagò, il Capo Dipartimento del Dap, Santi Consolo e il Presidente della Federazione Italiana Rugby Alfredo Gavazzi. Presenti all’appuntamento anche il Consigliere Federale Stefano Cantoni, coordinatore di “Ovale oltre le sbarre” per la Fir, gli Azzurri Carlo Canna e Giovanni Licata in rappresentanza della Nazionale, l’ex internazionale Walter Rista e Stefano Cavallini in rappresentanza de La Drola di Torino e La Dozza di Bologna, due delle squadre di Serie C direttamente collegate ad istituti carcerari. “Il rugby è uno sport straordinario, capace come nessun altro di appianare ogni differenza sociale, di far percepire a chi lo pratica il senso di rispetto per il regolamento. Non è un caso che il nostro sport, nonostante le sue nobili origini, rappresenti oggi un formidabile strumento per agevolare il percorso di recupero dei detenuti. Siamo fieri del nostro progetto ‘Ovale oltre le sbarre” - ha dichiarato il Presidente della Fir, Alfredo Gavazzi - e felici che il Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria vi abbia aderito con entusiasmo, conferendogli una legittimità ancora maggiore. Il Consiglio Federale è l’organo eletto dalle Società di tutta Italia non solo per amministrare il nostro sport, ma per promuovere i valori istituzionali su cui il rugby italiano si fonda, e siamo orgogliosi del percorso avviato e delle determinazioni assunte per far sentire a pieno titolo le squadre degli istituti di pena parte integrante del nostro movimento”. “Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sostiene e promuove i progetti sportivi nelle carceri italiane ed è impegnato in un attento recupero degli impianti affinché in tutti gli istituti penitenziari in modo che lo sport possa diventare una pratica diffusa e occasione di una sempre maggiore partecipazione della società alla vita detentiva” ha dichiarato Santi Consolo, Capo Dipartimento Amministrazione Penitenziaria. “Lo sport in carcere offre alle persone detenute la possibilità di curare il benessere psico-fisico e di apprendere il rispetto per le regole e per l’avversario. Grazie al contributo di società e associazioni sportive, del Coni e delle Federazioni, nelle carceri italiane nel tempo si sono costituite vere e proprie squadre sportive, dal calcio, al volley al rugby, che partecipano a campionati ufficiali e che gareggiano con squadre esterne nelle strutture sportive degli istituti penitenziari. La sottoscrizione del protocollo con la Fir conferma e rafforza l’impegno per rendere il tempo della detenzione un’opportunità di cambiamento”. “Toglieteci i figli o saranno mafiosi” la scelta d’amore di venti mamme calabresi di Fabio Tonacci La Repubblica, 3 febbraio 2018 In Calabria l’operazione per salvare i ragazzi. E ora l’esperienza diventa un protocollo nazionale grazie a governo, procura antimafia, Libera e Cei. Sono tua madre e per il tuo bene ti dico di stare lontano da me. Rinnega il padre e anche la madre. Rinnega la mafia che ha nutrito i tuoi genitori. Vai via, vai lontano. Ti abbandono e lo faccio per te. Un giorno ci rivedremo e capirai. Forse. Chissà quali corde altissime dell’animo umano arriva a toccare la scelta meditata di una madre che va da un giudice a chiedere di toglierle il figlio. Di separarlo dalla famiglia mafiosa dove è nato. Di allontanarlo dal paese in cui sta crescendo male. E di trovare per lui un’altra mamma e un altro papà, almeno fino a quando non sarà maggiorenne. Venti donne l’hanno fatto. Venti mamme hanno trovato il coraggio. Sono mogli di mafiosi, figlie di mafiosi, sorelle di mafiosi, nipoti di mafiosi. In alcuni casi mafiose anch’esse, condannate per il 416bis e in attesa della sentenza definitiva. Un giorno sono andate dal presidente del tribunale dei minorenni di Reggio Calabria, Roberto Di Bella, e gliel’hanno detto, con le parole più semplici che avevano. Signor giudice sono pronta, prendetevi mio figlio. Salvatelo. Le loro voci, che Repubblica ha raccolto grazie all’associazione antimafia Libera, sono necessariamente senza volto. Quello che portano è cognome di clan, ossia il macigno precipitato sul futuro. Per come è fatta la legge, non riescono a toglierselo di dosso perché non sono collaboratrici né testimoni di giustizia quindi non hanno diritto a un’identità protetta. Lo stesso vale per la prole che chiedono allo Stato di portare altrove. Ecco Paola, 35 anni. “Mio padre era stato ucciso dalla mafia, lo stesso mio fratello e i miei zii. Tre anni fa guardavo i miei due figli di 15 e 12 anni: il grande andava su Internet per cercare informazioni sul nostro clan, aveva il mito dello zio ergastolano e si era convinto che andare in carcere fosse una tappa obbligata per ottenere rispetto. Il piccolo era fissato con i fucili a pompa, conosceva il nome di ogni pezzo. Ero tormentata ma alla fine ho detto a Di Bella “li do a voi, portateli via da qui”“. Adesso il piccolo si trova in una comunità in Calabria, non parla più di fucili a pompa e frequenta corsi di judo. Il grande lavora in una pasticceria del Centro Italia. Questa invece è Daniela, 37 anni: “Mio marito fu ammazzato nel 2008 dalla stessa sua sostanza, la mafia. Mi ha lasciato sola con tre figli e solo così ho capito che ci aveva costretto a vivere come schiavi. Ho abbandonato il clan insieme ai miei figli, oggi viviamo ma ci tocca nasconderci per colpa del nostro cognome”. Poi c’è Rita, che la scelta la fece già nel 1994, e oggi arrotonda i suoi discorsi attorno alle parole “rinascita” e “ricostruire”. “Si può avere un altro futuro anche se si è nati in una ndrina, basta avere coraggio...alle donne calabresi dico che la forza di una mamma vince su tutto”. È dal 2012 che il giudice Di Bella lavora per togliere i figli della ‘ndrangheta all’asfissia dell’educazione del clan. Lo strumento è giurisprudenziale, si chiama “provvedimento di decadenza (o di limitazione) della responsabilità genitoriale” e si può attivare quando l’incolumità psico-fisica dei minori è in pericolo. In sostanza, si tratta di strappare fisicamente i ragazzi alle famiglie mafiose e a un futuro già scritto, per provare a riscriverne un altro diverso in un altro luogo. Argomento delicatissimo anche quando i protagonisti sono padri e madri criminali, in ballo ci sono vincoli di sangue e diritti naturali. Di Bella si è sentito chiamare anche “ladro di figli”, proprio per questo. Non si è scoraggiato. La sua idea è diventata realtà per la Calabria, un sentiero alternativo intrapreso da una cinquantina di ragazzi e sette donne adulte. “Dieci di loro sono diventati maggiorenni - racconta il magistrato - di questi, cinque sono rimasti fuori dalla Calabria a lavorare, gli altri sono tornati ma solo uno è incappato nella giustizia e non per un reato di mafia. Altre mamme ci stanno pensando e per la prima volta anche un padre, dal carcere, ha apprezzato ciò che stiamo facendo. La rete delle diocesi e della Caritas ci sta dando una mano importantissima”. Spesso però le difficoltà spuntano dove non ti aspetti. “Ci sono comuni calabresi i cui assistenti sociali per paura si rifiutano di andare a prelevare i ragazzi, e anche le scuole non collaborano come potrebbero”, dice Di Bella. La sua idea è diventata un protocollo firmato tra governo, il Procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho, la Conferenza Episcopale italiana e il presidente di Libera Don Luigi Ciotti, per estendere l’iniziativa a tutto il territorio nazionale. Sono stati stanziati 300.000 euro, metà dal Dipartimento per le Pari Opportunità, metà dalla Cei, per il sostegno alle comunità, alle case famiglia e alla rete degli psicologi coinvolti. Il documento è stato siglato proprio nel giorno di apertura a Roma di “Contromafie”, quest’anno dedicata ai legami tra mafia e corruzione. “È in atto una rivoluzione tra tante mamme e donne che rompono i codici millenari e che per amore viscerale verso i propri figli cercano un’altra strada per non farli crescere nella cultura mafiosa”, ha detto Don Ciotti alla platea dell’Angelicum Congress. “Molte famiglie mafiose ci chiedono di costruire un percorso diverso per i propri figli, da un’altra parte”. Tribunale si riserva sulla scarcerazione di Dell’Utri, Pg da ancora parere negativo di Edoardo Izzo La Stampa, 3 febbraio 2018 I giudici del Tribunale di Sorveglianza di Roma si sono riservati ancora una volta sulla scarcerazione dell’ex senatore, Marcello Dell’Utri in carcere con le accuse di concorso esterno in associazione mafiosa. Su Dell’Utri si è espresso anche il procuratore generale che ha dato parere negativo alla nuova istanza di scarcerazione con cui i difensori di Dell’Utri hanno chiesto al tribunale di sorveglianza gli arresti domiciliari ospedalieri per il loro assistito. Già lo scorso 5 dicembre, a fronte dell’istanza di incompatibilità con il regime penitenziario inoltrata dai penalisti Alessandro De Federicis e Simona Filippi, i magistrati della “Sorveglianza” avevano negato la scarcerazione dell’ex senatore di Forza Italia, indicando nell’ordinanza delle soluzioni rivelatesi non concretamente percorribili per il paziente. Anche sulla base delle relazioni stilate dai medici di Rebibbia e data l’oggettiva impossibilità di dare seguito alla prima ordinanza, i giudici della Sorveglianza avevano aperto un nuovo procedimento d’ufficio, conclusosi in un nulla di fatto per Dell’Utri, che ha già scontato 5 dei sette anni di reclusione ai quali è stato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Il legale di Dell’Utri, l’avvocato De Federicis, ha tuonato in aula: “Ci avete chiamato voi, e con urgenza per discutere ancora una volta delle condizioni fisiche di Dell’Utri. Anche il garante de detenuti sostiene che sia il carcere sia il centro protetto sono strutture inadeguate per la detenzione del mio assistito. Nel centro protetto Dell’Utri non avrebbe contatto con altre persone, neanche avrebbe diritto all’ora d’aria, con una malattia come il tumore alla prostata questo sarebbe gravissimo in termini di depressione. Oggi voi ci offrite ancora una volta un’ipotesi impossibile: il ricovero nella struttura del Campus Bio Medico. L’amministrazione penitenziaria non può garantire 8 agenti al giorno per 3 mesi per piantonare Dell’Utri in ospedale. Dunque i domiciliari sono la soluzione naturale di questo caso”. “Papà è uno studioso e in questi giorni solo questo lo sta salvando. Spero che i giudici prendano una decisione con serenità dopo avere analizzato tutti gli aspetti di questa vicenda”, ha spiegato ai giornalisti Marco Dell’Utri, primogenito dell’ex senatore Marcello, a margine dell’udienza del tribunale di Sorveglianza di Roma che dovrà decidere sulla scarcerazione di suo padre. Venezia: detenuto morto nella sua cella, l’autopsia esclude il suicidio La Nuova Venezia, 3 febbraio 2018 Non sarebbe stato un suicidio, né ci sono i segni riconducibili a una morte violenta. L’ipotesi che più si fa largo per il decesso di G.V., 35 anni, detenuto da quest’estate per reati legati allo spaccio e trovato venerdì scorso senza vita nella sua cella a Santa Maria Maggiore, è che a cedere sia stato il cuore. Questo il primo riscontro dell’autopsia, disposta dalla pubblico ministero Elisabetta Spigarelli, che è stata effettuata ieri a Venezia dal medico legale Cristina Mazzarolo, alla presenza del collega Andrea Porzionato, nominato dai familiari del defunto che si sono affidati all’avvocato Ilenia Rosteghin. Nel corso dell’autopsia sono stati effettuati diversi prelievi su cui verranno effettuati i test tossicologici, in particolare finalizzati a capire se il detenuto avesse inalato il gas di una bomboletta come fosse un sostitutivo all’uso di stupefacenti. Gli accertamenti successivi dovranno anche chiarire l’eventuale presenza di malattie cardiache congenite. I risultati arriveranno non prima di qualche settimana sulla scrivania della pm. Napoli: allarme sanitario nel carcere di Poggioreale, sos dei familiari alle istituzioni puntovesuvianinews.it, 3 febbraio 2018 I detenuti parlano di un vero e proprio allarme per i ritardi nelle visite mediche, le attese per avere i medicinali, E molti chiedono di essere curati in strutture specializzate all'esterno dell'istituto. I tempi sono lunghi. Le lettere arrivano direttamente dalle celle di nuovo affollate. E ora scendono in campo anche i familiari dei reclusi, spalleggiati dalle associazioni. Sabato mattina un corteo ha sfilato davanti al carcere in via nuova Poggioreale, con bandiere e striscioni: al grido “tuteliamo la salute dei nostri familiari”. Un centinaio di persone armate di megafono hanno presidiato l'ingresso dell'istituto per oltre due ore. Ad aprire il corteo un furgone bianco con due grandi altoparlanti. La manifestazione a Poggioreale - Una manifestazione pacifica, con la quale i genitori dei detenuti hanno fatto sentire la loro voce. Chiedono più visite esterne, mancano i medicinali. Ora basta, serve un intervento urgente delle istituzioni. I reclusi aspettano mesi anche per un semplice controllo, o un ricovero in ospedale. I tempi spesso sono lunghi e la salute non aspetta. Negli ultimi mesi sono arrivate centinaia di lettere alle associazioni e al Garante per la Campania. Ora i detenuti nel carcere di Poggioreale sono preoccupati. Hanno scritto decine di lettere ai familiari: emerge uno spaccato sulla vita negli istituti di pena e si chiede un aiuto. Potenza: carenze igienico-sanitario in carcere, a rischio la salute dei detenuti internapoli.it, 3 febbraio 2018 Allarme da parte delle organizzazioni sindacali per il rischio igienico-sanitario nel reparto detentivo “giudiziario” della Casa Circondariale “Antonio Santoro” di Potenza. Una ristrutturazione generale dell’Istituto da parte dell’amministrazione viene puntualmente disattesa o differita da anni senza riscontri concreti. La situazione è preoccupante. Le camere di pernottamento dei detenuti, in particolar modo quelle poste al piano terra, sono quasi tutte invase da muffa, rendendo le pareti dei muri indebolite e corrose. La denuncia arriva in una nota congiunta del Sappe (sindacato Autonomo di Polizia penitenziaria), Uspp (Unione sindacale di Polizia penitenziaria), Cgil Fp (Comparto Sicurezza-Polizia penitenziaria) e Spp (Sindacato Polizia penitenziaria). La persistenza di funghi e muffa rendono gli ambienti insalubri e pericolosi per la salute. Anche le docce di tutti i piani detentivi sono invase da macchie di muffa e funghi. Proprio riguardo alle docce, e precisamente a quelle situate al secondo piano del giudiziario, il più delle volte non esce acqua calda. Queste condizioni comportano un grave carico di stress psicofisico da parte della Polizia Penitenziaria- sostengono i sindacati- Altri colleghi sono costretti a lavorare in ambienti attraversati dalla rete fognaria posta al piano terra della sezione, con il rischio che le esalazioni probabilmente inalate potrebbero compromettere gravemente la loro salute. Non da meno il posto di servizio “3° cancello” dove l’odore di gasolio sembra aver creato un vero e proprio distributore di carburanti a cielo chiuso, favorendo la probabile inalazione da parte dei frequentatori. Per tali motivi, le organizzazioni sindacali invitano “il Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria per la Puglia e la Basilicata Carmelo Cantone, il Direttore della Casa Circondariale Maria Rosaria Petraccone, il Magistrato di sorveglianza Paola Stella, le segreterie Generali/Nazionali Sappe-Uspp-Cgil- Spp, le segreterie sindacali Sappe-Uspp-Cgil-Spp, gli studi legali Sappe-Uspp-Cgil- Spp, ad assumere iniziative di propria competenza in merito ai rischi rappresentati e invita l’amministrazione a chiudere il reparto giudiziario della Casa Circondariale di Potenza nel rispetto delle normative vigenti in materia di prevenzione e salute pubblica”. Forlì-Cesena: rinnovati i protocolli per i laboratori per i carcerati di Francesco Forti Corriere Cesenate, 3 febbraio 2018 Fornire un'opportunità di riscatto. È questa la volontà alla base dei tre laboratori produttivi per i detenuti della Casa circondariale di Forlì, oggi rinnovati per tre ulteriori anni di attività. Rinnovati i protocolli per i laboratori per i carcerati di Forlì-Cesena. Fornire un'opportunità di riscatto. È questa la volontà alla base dei tre laboratori produttivi per i detenuti della Casa circondariale di Forlì, oggi rinnovati per tre ulteriori anni di attività. I laboratori sono quello di metalmeccanica Altremani, Manolibera, dove i detenuti producono carta artigianale e il Raee, centro di recupero di rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche. Nascono, rispettivamente, nel 2006, nel 2009 e nel 2011 con il contributo del Fondo sociale europeo. Il progetto ha come obiettivo quello di trasformare la giustizia punitiva in giustizia riparativa, dando ai detenuti l’opportunità per riscattarsi “restando in contatto” con la società, producendo materiali di alta qualità e coltivando la possibilità di avere un appoggio per tornare alla realtà fuori dal carcere, una volta terminata la pena. Al momento, il dieci per cento dei detenuti del territorio di Forlì-Cesena sono impegnati in un’attività lavorativa. Con il rinnovo odierno dei protocolli per i laboratori produttivi, la direttrice della casa circondariale di Forlì, Palma Mercurio, spera in futuro di poter aumentare il numero, implementando nuovi laboratori per potere includere più carcerati nel programma e di coinvolgere un numero maggiore di associazioni. Si parla già di una sartoria per le detenute e un laboratorio di biciclette. Roma: auguri del Papa per gli 80 anni in cella di Gino Baccani di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 febbraio 2018 Riceverà un telegramma del Pontefice per la festa del suo compleanno, organizzata dal Garante regionale. Oggi Gino Baccani, detenuto alla Casa di reclusione romana di Rebibbia, festeggerà gli 80 anni e il garante regionale dei detenuti della regione Lazio, Stefano Anastasìa, parteciperà al festeggiamento organizzato dal suo Ufficio, in collaborazione con i volontari della Caritas. In occasione del suo compleanno, Gino riceverà anche un telegramma di auguri da parte di Papa Francesco, sempre attento alla situazione dei detenuti. Un momento di festa che sarà, come dice il garante Stefano Anastasìa, “l’occasione di una presenza di vicinanza e solidarietà nei confronti del signor Gino e di richiamo dell’opinione pubblica e delle istituzioni alla grave situazione di cui egli è involontario esempio”. Sì, perché la grave situazione alla quale Anastasìa si riferisce è il fatto che gli ultrasettantenni nelle carceri italiane sono in costante crescita, nonostante la legge preveda che - in via ordinaria - 70 anni sia il limite per l’esecuzione penale in carcere. La vicenda di Gino Baccani è stata già denunciata da Il Dubbio. Classe 1938, Gino sta scontando a Rebibbia due condanne a 15 anni per traffico di sostanze stupefacenti commesso anni e anni fa. La sua avvocata Simona Filippi ha presentato un ricorso in Cassazione per fargli ottenere i domiciliari, secondo l’articolo 47 dell’ordinamento penitenziario. Non è socialmente pericoloso, ma non gli viene concessa la detenzione domiciliare. Parliamo di una persona anziana che in teoria ha tutti i requisiti per scontare la pena fuori dalla detenzione carceraria. Durante tutto questo periodo di pena ha dimostrato di rispettare le regole di disciplina della vita carceraria e ha rivalutato, in modo critico, le sue passate condotte criminose. Tutti gli operatori penitenziari, dagli educatori ai volontari che l’assistono, dicono che si è ravveduto. Ha dimostrarlo è anche l’ottima relazione dell’equipe di osservazione. Ma nulla da fare. È stata rigettata dal tribunale di sorveglianza la richiesta dei domiciliari, ben motivata dal suo avvocato difensore Simona Filippi dell’associazione Antigone. Eppure ha tutte le carte in tavola per poter espiare la pena fuori dalle sbarre. Infatti, nell’istanza rigettata, viene evidenziato che l’art. 47 ter, comma 1, dell’ordinamento penitenziario prevede che la pena detentiva inflitta ad una persona che abbia compiuto i settanta anni di età ' può essere espiata nella propria abitazione o in altro luogo pubblico di cura, assistenza ed accoglienzà. Questa ipotesi di detenzione domiciliare ha una finalità umanitaria dettata dalla circostanza che il superamento di una certa soglia di età comporta delle difficoltà maggiori per chi si trova in carcere. Vige un luogo comune secondo il quale si pensa che dopo una certa età non si vada più in carcere. In realtà non è così, anche se sulla carta dovrebbe esserlo. Le patrie galere creano disagi, malattie e turbe psichiche ai detenuti giovani, figuriamoci nei confronti di persone che superano i 70 anni. Eppure non sono pochi coloro che vi sono ristretti. Secondo gli ultimi dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, al 31 dicembre del 2017 risultano reclusi 776 ultrasettantenni. Se confrontiamo questo dato con l’anno 2016, gli anziani in carcere risultano anche in aumento. Al 31 dicembre del 2016, infatti, risultavano 715 anziani. Negli anni precedenti ancora di meno: nel 2006 ne risultavano 291. Un problema enorme, dove è chiaro che le persone anziane nono posso essere compatibili con il carcere. Alcuni ci muoiono anche come il caso dell’ottantenne soprannominato il ' ladro di biciclette”. Era recluso al carcere di Regina Coeli quando, nell’aprile dell’anno scorso, cadde accidentalmente nel reparto medicina dell’istituto penitenziario: trasportato in ospedale, le sue condizioni sono peggiorate ed è morto. Oggi anche Gino compie 80 anni e ci si augura che il prossimo compleanno lo festeggi fuori dalle mura carcerarie. Reggio Calabria: detenuti impegnati nel lavoro volontario sul Lungomare Falcomatà citynow.it, 3 febbraio 2018 “In corrispondenza della “Passeggiata culturale gratuita” organizzata dalle associazioni culturali “Giardino di Morgana” e “Meissa”, patrocinata dal Comune e dalla Città Metropolitana di Reggio Calabria, con i rispettivi settori di valorizzazione del patrimonio culturale, che si terrà il prossimo 4 febbraio, partendo dal Tempietto e risalendo dal Lungomare Falcomatà, fino al Castello Aragonese ed al Palazzo della Cultura, appare quanto mai significativo il contributo lavorativo di manutenzione del verde pubblico prestato a titolo volontario e gratuito da parte dei detenuti del carcere di Arghillà. In effetti, a seguito del Protocollo d’Intesa ideato e promosso dal Garante Comunale dei diritti dei detenuti, avv. Agostino Siviglia, sottoscritto il 7 giugno 2016, fra il Comune di Reggio Calabria, il carcere di Arghillà, il Tribunale di Sorveglianza e l’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna, i detenuti stanno svolgendo, quotidianamente, in modo oramai strutturale, attività di lavoro volontario e gratuito in favore della collettività. Particolarmente significativa e qualificante risulta oggi l’attività di salvaguardia dei beni archeologici della nostra Città, considerato che i detenuti a partire dal 2 di febbraio 2018 e fino al 31 dicembre 2018 svolgeranno, fra le altre attività, anche quella relativa alla manutenzione e pulitura del verde all’interno del Parco Archeologico delle Mura Greche del Lungomare Falcomatà. Per la concretizzazione di questa qualificante attività esplicitamente prevista fra quelle indicate dal Ministero della Giustizia quali attività di restituzione in favore di collettività, nel più ampio contesto della “Giustizia Riparativa”, va ringraziata la Direttrice dell’Istituto Penitenziario, Maria Carmela Longo, in uno con l’Area Pedagogica dello stesso istituto; la Magistratura di Sorveglianza; la Dirigenza dei settori Welfare e Ambiente del Comune di Reggio Calabria e l’Avr che segue i detenuti nello svolgimento delle attività lavorative. Così come l’Assessore Irene Calabró ed il Consigliere Delegato Filippo Quartuccio, che hanno pensato ai detenuti per lo svolgimento di questa particolare attività. Nella qualità di Garante dei diritti dei detenuti non posso che esprimere grande soddisfazione per questa ulteriore implementazione delle attività lavorative volontarie e gratuite da parte dei detenuti, sia per il valore simbolico che la salvaguardia del patrimonio culturale della nostra Città da parte di chi ha delinquito reca con sè sia perché i risultati sulla rivisitazione critica del proprio vissuto da parte degli stessi detenuti risultano davvero apprezzabili. Credo, profondamente, che il consolidamento dei servizi di Giustizia Riparativa che si stanno sempre più strutturando nella nostra realtà territoriale costituisca, davvero, uno degli strumenti più qualificanti ai fini della rieducazione e del reinserimento sociale di chi ha delinquito, con significativi riverberi sul fronte della legalità e della giustizia, che ancor più nella fase dell’esecuzione penale devono profondere i propri effetti benefici, nel solco del dettato costituzionale e della risposta più compiutamente democratica dello Stato di diritto”. Il Garante, Avv. Agostino Siviglia Savona: il candidato Pd alla Camera Vazio “il carcere in Val Bormida si farà” di Elena Romanato La Stampa, 3 febbraio 2018 “Il carcere in provincia di Savona si farà, in Val Bormida,. È già stata identificata l’area e l’iter è in fase avanzata”. Franco Vazio, parlamentare uscente e candidato alla Camera ha approfittato della conferenza stampa di presentazione dei candidati del Pd alle politiche per aggiornare sul futuro carcere. “Il ministero della Giustizia e quello e delle Infrastrutture hanno già individuata l’area più idonea per il nuovo carcere - ha detto Fazio - che sarà in provincia e sarà in Val Bormida. Sono in corso le ultime valutazioni di natura tecnico-formale, ma l’iter è ormai giunto ad una fase avanzata, anche dopo i colloqui con gli enti locali competenti. Se nel frattempo i dipendenti del Sant’Agostino devono lavorare altrove, quando il carcere sarà terminato torneranno a lavorare in provincia”. Il nuovo carcere dovrebbe essere sul modello di quello di Busto Arsizio, moderno e in grado di mettere in pratica programmi di recupero e reintegrazione dei detenuti nel tessuto sociale e lavorativo. A Vazio replica però, polemico, Donato Capece, segretario regionale del Sappe, sindacato che aveva proposto un’alternativa alla chiusura del carcere rimasta inascoltata. “Capisco che in occasione della campagna elettorale si facciano promesse su promesse- dice Capece -. Ma è singolare che anche il tema del nuovo carcere nel Savonese trovi appeal in vista delle elezioni di marzo. Chiudere il Sant’Agostino è stato un grave errore, che ha scontentato tutti - poliziotti, detenuti, familiari - e ha penalizzato il territorio savonese. Dov’era Vazio quando il ministro della giustizia suo collega di partito del Pd Orlando chiuse improvvisamente il Sant’Agostino? Non mi risulta che lui si sia opposto a quella scelta discutibile ed unilaterale. Avrebbe avuto un senso chiudere il Sant’Agostino se e quando fosse stata disponibile una nuova struttura detentiva, di almeno 300 posti letto, per la quale sembra da tempo esserci la volontà di individuarla in un’area della Valbormida. Ma chiudere il carcere così, dall’oggi al domani, senza alcun confronto con i sindacati, senza alcuna garanzia e certezza per poliziotti e detenuti, è stato un grave errore. E questo Vazio lo deve ammettere”. Torino: l’Icam intitolato all’agente di Polizia penitenziaria Maria Grazia Casazza lettera21.org, 3 febbraio 2018 Si è tenuta giovedì 1 febbraio 2018 la cerimonia di intitolazione dell’Icam di Torino a Maria Grazia Casazza. Agente di Polizia penitenziaria scomparsa, con una sua collega, durante l’incendio del 3 giugno 1989 dove trovarono la morte nel carcere delle Vallette nove donne detenute. Il 3 giugno 1989 nel carcere delle “Vallette”, trecento materassi circa erano ammassati sotto le finestre della sezione femminile dell’Istituto. “Arredi” infiammabili che presero fuoco, causando la morte di undici donne. Una pagina dolorosa dovuta “all’incuria e al modo in cui si gestivano, all’epoca, le carceri, luoghi inadeguati per espletare il mandato costituzionale della rieducazione del detenuto” come ha ricordato il Dott. Domenico Minervini - Direttore della Casa Circondariale di Torino “Lorusso e Cutugno”. Durante il rogo ad adoperarsi nel tentativo di aprire le celle furono le agenti Maria Grazia Casazza e Rosetta Sisca. Sforzo nel quale morirono insieme a nove detenute donne. Episodio tragico a cui sono seguiti “decenni prima che i cambiamenti intrapresi per rispettare il dettame costituzionale portassero a cercare di garantire sicurezza e vivibilità all’interno di un carcere” sottolinea il Dott. Minervini. Un’opera che il carcere di Torino persegue da tempo con l’obiettivo di umanizzare la detenzione attraverso numerosi progetti e trasformazioni. Come fatto ad esempio con il progetto “Spazi Violenti”, iniziativa che tra il 2015 ed il 2016 ha visto il coinvolgimento dell’Amministrazione Penitenziaria, del Politecnico di Torino, dell’Università degli Studi di Torino e di numerose realtà del terzo settore altre realtà per la riqualificazione di alcuni spazi. Tra questi la creazione di un’area verde per i colloqui tra detenuti e i familiari, in particolare i bambini. Anche in quell’occasione, in sinergia con l’associazione Sapereplurale e l’atelier Luparia, si è ricordato il 3 giugno 1989, realizzando un laboratorio con le “ospiti” della sezione femminile dell’Istituto torinese e ricavando dai dipinti creati dalle donne dei teli per l’ombreggiatura del giardino, in ricordo delle undici donne decedute. Una situazione quella delle carceri italiane che continua a presentare ”profili che vanno migliorati” ha ricordato durante la cerimonia il Direttore del Dap - Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - Santi Consolo, rivolgendosi ai Garanti delle persone private della libertà, regionale e del Comune di Torino, Bruno Mellano e Maria Cristina Gallo, intervenuti alla cerimonia “che in maniera puntuale segnalano questi profili collaborando con tutte le aree dell’Amministrazione impegnate”. Impegno quello dell’Amministrazione volto anche alla ricerca e realizzazione di idee innovative come nel caso dell’Icam. L’Istituto di Custodia Attenuata per Madri che per Santi Consolo rappresenta un’avanguardia italiana in Europa nonostante “le I.C.A.M. non siano presenti in tutte le regioni italiane, la disponibilità di posti è superiore alla presenza di donne madri detenute”. Un esempio sulle possibilità di “lavorare con nuove progettualità e le idee si possano realizzare anche in regime di spending review, come nel caso di Torino. “Questa una nuova Icam nasce infatti dall’idea di utilizzare gli appartamenti destinati al disciolto corpo dei marescialli, utilizzando in economia strutture già esistenti, riuscendo a realizzare una struttura bella, affidabile e sicura”, la conclusione del Direttore del Dap prima di svelare la targa in memoria di Maria Grazia Casazza e la consegna del decreto di intitolazione ai familiari della stessa. Livorno: l’ex carcere di Pianosa diventerà il museo delle scienze intoscana.it, 3 febbraio 2018 Firmata la convenzione tra Parco, Comune, Soprintendenza e Ministero, saranno ristrutturati i locali dell’ex direzione del carcere e allestite sale espositive. "Pianosa, viaggio verso l’isola scienza" è il titolo del progetto che vedrà l'ex carcere di Pianosa ristrutturato e trasformato in un museo delle scienze. Il consiglio direttivo del Parco ha dato il via libera alla firma della convenzione con il ministero dell’istruzione, la Soprintendenza archeologica di Pisa e Firenze, il Comune di Campo nell’Elba (proprietario degli immobili) e l’associazione per la difesa dell’isola di Pianosa. Sarà il Parco a dover pubblicare il bando per la riqualificazione della struttura e per l’allestimento del museo che, in ogni caso, difficilmente aprirà i battenti entro l’inizio della stagione turistica. L’intervento prevede un investimento di quasi 70mila euro, con un contributo del Miur di circa 56mila euro. Nei locali dell’ex direzione, infatti, saranno allestite delle sale espositive ma anche aree per le attività di laboratorio per gli studenti. "Saranno esposti - spiega il presidente del Parco - materiali archeologici e geologici di Pianosa, alcuni dei quali sono stati oggetto di mostre temporanee negli ultimi tempi". Gli immobili dell’ex direzione, situata a poche decine di metri dal punto ristoro dell’isola di Pianosa, sono attualmente inutilizzati. Trieste: incontro con Pino Roveredo presso la Casa circondariale Ristretti Orizzonti, 3 febbraio 2018 La determinazione di scartare un destino che sembrava segnato, l’avvio su una strada sbagliata per “dimenticare” la fatica del vivere quotidiano, della durezza della vita, delle “scarse” opportunità. Il 3 febbraio 2018 ad ore 10.00 Pino Roveredo - Garante Regionale dei diritti delle persone private della libertà personale per il Friuli Venezia Giulia - presenterà i libri “Mio padre votava Berlinguer” e “Ferro batte Ferro” presso la Casa Circondariale di Trieste a favore delle persone private della libertà alla presenza - anche - di un gruppo di persone provenienti dalla libertà. L’evento s’inserisce nel ciclo d’incontri letterari organizzati dal Garante Comunale dei Diritti dei Detenuti di Trieste - Elisabetta Burla. In “Mio padre votava Berlinguer” l’Autore rinsalda il rapporto padre figlio, riconcilia un’esperienza di vita complicata; nel libro si coglie “l’urgenza di scrivere” per mantenere ancorato e attuale il ricordo, la memoria; si colgono le difficoltà della vita, dei rapporti, delle privazioni sperimentate, l’importanza di avere ad esempio delle “brave persone” al di là dell’ideologia, al di là del ruolo sociale; il ripensamento per le azioni sbagliate, la consapevolezza che con tali azioni si è impartito dolore ai propri cari, dolore letto nello sguardo e nel portamento di un padre. Vite difficili, costellate da battute d’arresto, ma nonostante tutto vita vissuta con determinazione, con grandi sforzi. L’importanza di avere ad esempio una brava persona; l’augurio di essere una brava persona, forse la speranza di diventare l’esempio per altre persone al di là del ruolo, al di là del passato, al di là delle scelte effettuate. L’importanza di trovare dentro di sé la determinazione di cambiare. E così in “Ferro batte Ferro”, ripercorrendo l’esperienza detentiva vissuta in giovane età, si legge della capacità del riscatto trovando la forza e l’ispirazione nella scrittura che sempre, anche nel corso della detenzione, si era dimostrata efficace strumento per “sopravvivere” in un ambiente caratterizzato dagli equilibri precari, complicati, difficili; dove il tempo è immobile, “è una penitenza”. La scrittura che nel corso della privazione della libertà (fisica) permette, comunque, di sentirsi liberi: si è liberi di fantasticare, di progettare, di elaborare pensieri, di metabolizzare e superare le difficoltà. E l’Autore sottolinea anche l’aspetto importante della lettura: “nelle carceri, spesso si legge molto più che nel mondo dei liberi perché permette di snobbare il tempo”. Scrittura e lettura due strumenti terapeutici, non solo evasione ma anche evoluzione e crescita. Un’opportunità per sperimentare le proprie potenzialità anche in uno spazio limitato. Un messaggio importante quello che si legge nei libri di Pino Roveredo, fondamentale: ovunque ti abbia condotto la vita sta in ciascuno di noi trovare la giusta strada e diventare “brave persone”. Un importante messaggio anche per chi il carcere lo vede da lontano, lo immagina e lo fantastica: si è brave persone anche perché si ha ben in mente “il rispetto della persona”, si cercano di superare le diffidenze, si comprende che scontata la pena c’è la necessità di riconoscere il diritto alla persona “di vivere senza il marchio ignorante di una distinzione”. Il Garante comunale dei diritti dei detenuti di Trieste, Elisabetta Burla La fine degli esperti e l'odissea contemporanea del concetto di libertà di Giovanni Maddalena Il Foglio, 3 febbraio 2018 A "Radio anch'io" di giovedì 1 febbraio Marco Cappato illustra le proprie ragioni e prospettive sulla legge sul biotestamento appena entrata in vigore. La sua chiarezza aiuta a capire nel frattempo altri aspetti dell'odissea attuale del concetto di libertà. Nell'augurarsi che la prossima legislatura introduca il suicidio assistito, infatti, Cappato spiega che la legge non indebolisce la cosiddetta alleanza terapeutica ma impedisce che i medici possano praticare delle cure "contro la volontà del paziente". Sulla vicenda del biotestamento e sui suoi fondamenti nella concezione problematica di libertà come pura autodeterminazione si è già detto. Nelle parole di Cappato, però, emerge un secondo aspetto culturalmente significativo, che va al di là della legge in questione. L'idea che il medico non possa praticare cure contro la volontà del paziente sembra pacifica ma non lo è. Certo, esclude casi estremi di accanimento terapeutico. Tuttavia, che il medico ne sappia più del paziente e che possa indicargli il suo bene anche quando quest'ultimo, non capendo, sia in disaccordo era un'esperienza comune e accettata. L'esperto, il medico in questo caso, conosce di più la situazione e può quindi vedere il bene del paziente al di là del momento doloroso e delle considerazioni immediate. Lo stesso valeva per i maestri, i professori, gli allenatori e anche i politici, cioè per tutti coloro che avevano in mano elementi di sapere che dovevano far valere per il bene altrui, a scapito dell'apparenza e della volontà che troppo spesso solo su di essa si basa per giudicare. Come le scelte del medico potevano sembrare contro la volontà del paziente, così i pesanti compiti erano senz'altro avvertiti come contrari alla volontà dello studente, le decisioni dell'allenatore contro quella dei giovani giocatori, il faticoso cammino di una linea politica che richiede sacrifici contro l'immediato benessere. Si pensava però che l'esperto potesse portare a realizzazione il vero desiderio del suo "paziente", potesse cioè indicare la strada che, attraverso qualcosa di apparentemente contrario alla volontà e al gusto, potesse alla fine portare a un bene maggiore. In effetti, la concezione della libertà come pura autodeterminazione che sta alla base delle frasi di Cappato e di buona parte della mentalità dominante ha alterato profondamente questo senso comune. La pura autodeterminazione richiede di togliere gli intermediari esperti, che sono sempre un pericolo in quanto diversi da me e potenzialmente opprimenti, e la disintermediazione sembra facile ai tempi di internet. Quasi tutti, con un'occhiata a internet, possono mettere in dubbio il parere del medico e anche, come nel caso dei vaccini, di un'intera tradizione medica. Contrariamente a quanto avveniva un tempo, spesso i genitori a scuola contestano i professori in nome del benessere dei figli studiato su qualche fonte alternativa, per non parlare dell'assalto nei confronti degli allenatori delle squadre giovanili di calcio. Siamo tutti medici, tutti professori, tutti allenatori e, ovviamente, tutti politici. L'idea della politica senza gli esperti della politica è ormai diffusa e apparentemente giustificata - fino agli estremi del partito senza alcuna intermediazione, costruito solo utopicamente dalla rete - salvo poi lamentarsi del fatto che i politici non sono statisti e non riescono ad avere visioni a lungo termine. Certo, gli esperti spesso si sono rivelati deludenti e fallibili, ma l'idea che se ne possa fare a meno è ingenua e dannosa, come dimostrano l'attuale impoverimento culturale e le difficoltà sociali a esso connesse. Alla base di questa disintermediazione dai saperi esperti, però, c'è sempre la stessa riduzione del concetto di libertà: la libertà senza un fine, senza il bene a cui aderire, senza una comunità o una società da servire, tende ad affermare solo se stessa e diventa progressivamente sempre più isolata e solipsista. Sospettosa ormai di ogni rapporto, essa tende a combattere per una sola cosa: la norma, la legge che renderà la vita come quella delle mummie leopardiane, "lieta no, ma sicura". Migranti. Dopo le elezioni serve una nuova “rotta” di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 3 febbraio 2018 È sulla terraferma che ci sarà da cambiare perché il sistema d’accoglienza è a pezzi. Ripensarlo sarà un impegno serio: potrebbe almeno essere bipartisan. L’hanno chiamata come la dea della giustizia. Ma è alquanto improbabile che Themis, la nuova missione navale europea dell’agenzia Frontex, renda più giusto l’infernale braccio di Mediterraneo tra Lampedusa e il Nord Africa nel quale naufragano le vite di tanti migranti e il buonsenso di tanta politica nostrana, specie in prossimità del 4 marzo. Dal punto di vista italiano è lecito, forse, un sospiro di sollievo, ma assai lieve: saremo meno soli, la linea “indicativa” di pattugliamento delle nostre navi (al netto delle emergenze) arretra alle 24 miglia e, soprattutto, si dice, i migranti soccorsi dovranno essere condotti nel porto europeo più vicino (non più necessariamente italiano, come finora è stato). Tuttavia la convenzione di Amburgo del 1979 e le successive norme sul soccorso marittimo prevedono lo sbarco nel primo “porto sicuro” (con attenzione alla geografia ma anche al rispetto dei diritti umani): e l’Italia resta, con la Grecia, il Paese più vicino e attrezzato a gestire questi sbarchi. Inoltre al largo della Libia le navi delle Ong (le organizzazioni non governative al centro delle polemiche dell’ultimo periodo) continuano a operare e a trasportare profughi da noi. Insomma, è verosimile che poco cambierà nei nostri affanni correnti. Gli sbarchi peraltro sono ripresi nonostante l’inverno, a causa di un quadro politico libico in nuovo peggioramento: i 3.935 arrivi dall’inizio dell’anno al 30 gennaio sono meno dei 4.467 del gennaio 2017 ma segnano un incremento preoccupante rispetto al più recente passato (con una media di 113 sbarchi al giorno contro i 75 di dicembre). A fronte di un grave problema congiunturale impacchettato in un disastroso problema epocale (nei prossimi 40 anni c’è chi prevede un miliardo di sfollati nel mondo), la risposta della nostra politica è la solita rissa. Eppure la questione migratoria starebbe, in fondo, dentro una forbice pragmatica: non si possono non salvare i profughi in mare, non si può non garantire la sicurezza degli italiani in terraferma; a seconda dell’orientamento di chi governa (e prescindendo da motivazioni etiche), può variare la percentuale d’applicazione di questi due postulati ma nessuno dei due può essere ignorato, per ovvie ragioni legate tanto al consesso internazionale quanto alla tenuta del patto sociale interno. Di fatto, insomma, la forbice pragmatica finisce per tagliare le posizioni più estreme. Che tuttavia riemergono suggestive, avvelenando l’opinione pubblica. Così, nelle pieghe del dramma costato la vita alla giovane romana Pamela forse per mano di uno spacciatore nigeriano richiedente asilo, ecco che la destra sovranista torna a invocare un “blocco navale”. Sarà il caso di rammentare che il blocco navale è un’azione militare (disciplinata anche dallo statuto Onu); gli Usa, per dire, bloccarono Cuba durante la crisi dei missili: noi chi dovremmo bloccare? Barconi con fuggiaschi agonizzanti? Gommoni con bimbi in fasce? Può essere plausibile? Non più dei “cento rimpatri al giorno” promessi da Salvini in tv, come se i rimpatri fossero possibili senza accordi bilaterali (ne abbiamo solo quattro con l’Africa maghrebina più una discussa “cooperazione giudiziaria” col Sudan). Rimpatriare 29 tunisini a maggio, ricordava Emma Bonino, ha peraltro implicato “una gara d’appalto per trovare un charter, 71 poliziotti, un medico, un assistente sociale e un interprete”. Non meno declamatorio è del resto l’atteggiamento di certa sinistra-sinistra che, in asse con Medici Senza Frontiere e altre organizzazioni umanitarie anche nobili, accusa il governo italiano proprio per il calo degli sbarchi (clamoroso durante il 2017 per effetto degli accordi tra il ministro Minniti e i capi delle comunità libiche). “Quel calo significa aumento delle torture”, ha detto Joanne Liu, presidente internazionale di Msf. Senza spiegarci tuttavia cosa avrebbe dovuto fare l’Italia, abbandonata dai partner europei e isolata ai confini, a fronte di 12 mila arrivi in un solo fine settimana lo scorso giugno: poiché questo era il trend, prima della svolta. Dopo le elezioni, chiunque vinca avrà davanti un sentiero assai lontano da slogan velleitari. Con tappe inevitabili. La prosecuzione del lavoro in Libia (ove sarà possibile) e in Niger, ovvero nei due crocevia del traffico di esseri umani. L’aumento della nostra presenza militare, assieme alla Ue e all’Unione Africana, in operazioni di nation rebuilding dei troppi Stati falliti o fantasma. Il ricollocamento dei profughi: finora i Paesi dell’Est europeo si sono fatti beffe di noi, ma il problema tocca anche la lentezza delle nostre procedure. Più che in mare, dove umanità e onore sono coordinate ineludibili, è sulla nostra terraferma che ci sarà da cambiare: il sistema d’accoglienza è a pezzi e dalle sue crepe sono usciti i 500 mila “invisibili” sparsi negli anni dentro le pieghe delle nostre periferie. Ripensarlo e rifondarlo sarà un impegno serio: potrebbe essere almeno bipartisan. In fondo, a urne chiuse, potrebbe convenire a tutti che la prossima divinità celebrata nel Mediterraneo sia Atena, dea della saggezza. Minniti: “Patto con gli Usa sulla Libia. Non diventi la base dell’Isis” di Paolo Mastrolilli La Stampa, 3 febbraio 2018 Il ministro dell’Interno a Washington: “Gli arrivi sono diminuiti, ma il dato non è strutturale. Il rischio è il ritorno dei foreign fighter dopo la disfatta dello Stato islamico”. Si rafforza l’asse tra Usa e Italia contro il terrorismo, per evitare che la Libia diventi la nuova base dell’Isis, sfruttando i flussi migratori per colpire l’Europa. Lo dice il ministro degli Interni Minniti, dopo gli incontri avuti a Washington con il segretario alla Giustizia Sessions, quello alla Homeland Security Nielsen, e il capo dell’Fbi Wray. Il ministro ha percepito la volontà di “fare affidamento sull’Italia”, Paese “imprescindibile per la sfida strategica del Mediterraneo”. Minniti ha smentito che sia in corso una ripresa strutturale degli sbarchi, ha confermato l’impegno dell’Italia a difendersi dalle interferenze russe nelle elezioni, e ha spiegato i piani per creare negli aeroporti di Malpensa e Fiumicino i primi due hub europei della “preclearence”, l’accesso facilitato agli Usa completando le operazioni doganali alla partenza, “entrato ormai nell’ultimo miglio di realizzazione”. I servizi di intelligence hanno stimato che in Iraq e Siria ci fossero tra 25.000 e 30.000 foreign fighter, e i sopravvissuti ora vogliono tornare a casa: “Prima del collasso militare del Califfato era difficile pensare che uno Stato terroristico in piena salute potesse utilizzare i flussi migratori per il trasferimento di risorse verso teatri d’attacco, in questo caso l’Europa. Un gruppo d’attacco è un bene nobile, e quindi non lo metti a rischio su percorsi abbastanza fragili. Invece nel momento in cui hai avuto una sconfitta militare, non è più un progetto, è una fuga. E la fuga si incanala verso le vie già aperte, che in questo caso sono quelle create dal traffico del flusso migratorio. Il problema non è solo che i terroristi possono transitare per la Libia, ma che si fermino per costituire piattaforme di attacco verso l’Europa”. Gli Usa hanno presenza e quindi “capacità di lettura e conoscenza del teatro di Raqqa, che è una miniera di informazioni; noi l’abbiamo in Libia”. La collaborazione è fondamentale per disinnescare questa minaccia. La linea comune per la stabilizzazione del Paese è “sostenere il piano Onu di Salamé, con l’obiettivo di tenere le elezioni entro 2018”. È un passo avanti importante, perché l’impressione iniziale era che l’amministrazione Trump puntasse piuttosto ad identificare l’uomo forte da sostenere, come il generale Haftar. Il ministro ha avuto l’impressione che gli Usa siano disposti a dare all’Italia “una delega”, che non significa il loro disinteresse, ma la fiducia nella competenza di Roma. Minniti ha definito la Libia “un Paese a instabilità controllata, dove comincia ad emergere in filigrana un possibile modello di gestione dei flussi migratori”, basato sul controllo del confine marittimo e quello meridionale, e la presenza delle organizzazioni dell’Onu. “L’Iom ha fatto più di 20.000 rimpatri volontari assistiti, poco tempo fa sarebbe stato impensabile. Roma ha aperto il primo corridoio umanitario con Tripoli. L’idea è identificare in Libia chi ha diritto alla protezione internazionale”. Anche sul piano dei diritti umani ci sono progressi: “È in costruzione un centro di accoglienza vicino Tripoli dedicato a coloro che hanno particolari fragilità, donne, anziani, bambini, per selezionarli in Libia e spostarli in Paesi terzi. Basta questo per dirmi soddisfatto? No. Prenderemo altre iniziative? Sicuramente sì. Però abbiamo accettato la sfida di non limitarci a denunciare una situazione inaccettabile, ma lavorare per cambiarla”. Minniti critica la superficialità con cui si lanciano gli allarmi sulla ripresa degli sbarchi: “Abbiamo chiuso l’anno con una riduzione del 34%, 62.000 arrivi in meno. È un dato importante, ma io stesso ho detto che non è strutturale. Se però non è strutturale un dato così imponente rilevato nel corso di mesi, come può esserlo quello di tre giorni?”. Il ministro ad esempio si chiede come l’arrivo di un solo barcone dalla Turchia possa essere interpretato come l’apertura di una nuova rotta. Ammette che un problema esiste con la Tunisia, che “tra dicembre e gennaio ha vissuto il periodo più difficile della sua storia recente. Ma parliamo ancora di numeri molto piccoli, il 3 o 4% del totale”. I cambiamenti importanti stanno nell’annuncio di Frontex, che ha chiuso la missione Triton e aperto Themis, e nell’atteggiamento dell’Europa: “Sei mesi fa si parlava solo di hot spot e porti. L’idea era è fosse impossibile governare i flussi: l’unica soluzione era che l’Italia si attrezzasse ad accogliere i migranti, senza movimenti secondari. Vi siete dimenticati che ad agosto discutevamo dei carri armati al confine con l’Austria? Vi immaginate come sarebbe ora il rapporto con Vienna, se non avessimo governato i flussi migratori?”. Minniti ha discusso anche l’allarme per le interferenze russe nelle elezioni: “Ci difendiamo col massimo dell’attenzione, sapendo che è un’attività preventiva, perché non abbiamo notizia di una minaccia specifica. Ne avevamo parlato al G7 dei ministri degli Interni, dove per la prima volta abbiamo incontrato i 4 grandi provider Microsoft, Google, Facebook e Twitter. C’è la condivisione di una strategia comune, che ha trovato conferme”. Turchia. Le attese tradite dal presidente Erdogan di Sergio Romano Corriere della Sera, 3 febbraio 2018 Occorre che Erdogan non lasci Roma senza sapere ciò che l’Italia pensa della sua politica. La politica, l’economia e la geografia hanno leggi a cui non è facile derogare. Negli incontri con Recep Tayyip Erdogan, durante la giornata romana del presidente turco, parleremo inevitabilmente di interscambio, delle industrie italiane che lavorano nel suo Paese, dei migranti siriani che la Turchia trattiene sul proprio territorio dopo l’accordo stipulato con la Commissione europea, dell’esistenza di un comune nemico (l’Isis) contro il quale è necessario condividere informazioni e coordinare strategie. Ma commetteremmo un errore se non ricordassimo all’ospite che l’Italia ha un particolare motivo per deplorare la svolta autoritaria del suo governo. Per parecchi anni abbiamo creduto nella evoluzione democratica della Turchia. Abbiamo detto a noi stessi e ai nostri partner in Europa che il nuovo Erdogan era alquanto diverso dal militante islamista e ribelle dei suoi anni giovanili (fece qualche mese di prigionie fra il 1998 e il 1999). Abbiamo fatto un investimento politico sulla speranza che il Partito per la giustizia e lo sviluppo (AKP), da lui fondato nel 2001, sarebbe divenuto l’equivalente musulmano di una Democrazia cristiana. Abbiamo constatato con piacere che le riforme di Erdogan sembravano avere una influenza positiva sulla evoluzione democratica di altri regimi musulmani del Mediterraneo. Quando ci siamo scontrati con le obiezioni e le perplessità di altri membri della Ue (Austria, Francia, Germania), abbiamo sostenuto che niente avrebbe favorito il riformismo turco quanto la prospettiva dell’adesione alla Unione Europea. Oggi, invece, siamo costretti a constatare che Erdogan ha tradito le nostre attese e le nostre speranze. Non mi spingo sino a pensare (come altri osservatori, fra cui Antonio Ferrari sul Corriere) che il colpo di Stato del luglio 2016 fosse soltanto una messa in scena per giustificare le incarcerazioni e le epurazioni dei mesi seguenti; ma devo riconoscere che Erdogan si è servito di quella vicenda per regolare i conti con i militari e con un vecchio alleato, Fethullah Gülen (oggi esule negli Stati Uniti). Non voleva limitarsi a punire i congiurati. Voleva cogliere l’occasione per instaurare un regime duramente repressivo e illiberale. Chi ha avuto occasione di visitare la Turchia prima del “golpe” ricorda che la rete di istituzioni scolastiche e associazioni professionali tessuta da Gülen nella società turca era una evidente anomalia; ma non tale da giustificare la brutalità con cui Erdogan, dopo essersi sbarazzato di avversari e concorrenti, sta impedendo alla stampa di fare il suo mestiere. Sapevamo che esisteva una questione curda e che ogni governo turco, indipendentemente dalla sua composizione, avrebbe difeso l’unità nazionale. Ma negli anni in cui il ministro degli esteri era Ahmet Davutoglu, una soluzione sembrò possibile. Dal carcere, in un’isola del Mar di Marmara, il leader curdo Abdullah Ocalan, lanciava segnali di pace che il suo partito sembrava pronto a raccogliere. Oggi, invece, Erdogan combatte i curdi anche là dove sono stati maggiormente utili alla guerra contro l’Isis. Occorre che Erdogan non lasci Roma senza sapere ciò che l’Italia pensa della sua politica. La diplomazia ha le sue leggi e vi sono circostanze in cui gli interessi possono prevalere su altre considerazioni. Ma il presidente turco deve ricordare che insieme agli interessi esiste nelle relazioni internazionali anche un altro fattore, non meno fondamentale, che ad Ankara, in questo caso, è stato completamente trascurato. Si chiama fiducia. Gran Bretagna. I "piccioli” e la lingua mafiosa della City di Marco Gambino La Repubblica, 3 febbraio 2018 Dove ci sono "piccioli" c’è la Mafia. Cosi dicono. E In Inghilterra, in particolare a Londra, di piccioli ce ne sono tanti, e si vedono. Se ne sente l’odore ad ogni angolo di strada. La città si veste di palazzi e grattacieli a ritmi frenetici. Da un giorno all’altro s’inaugurano bar e ristoranti vistosissimi. Prendono il posto di quelli c’erano fino a poche settimane prima oppure vanno ad insediarsi a decine in piazze lastricate di marmi pregiati disegnate apposta per loro. Si sventrano edifici storici per farcirli di lussuosissimi appartamenti alveare che spesso si vendono in blocchi. Gli affitti hanno costi impossibili. Il mercato immobiliare è tra i più insensati del mondo. Londra annega nei soldi. Per aprire una società in Inghilterra bastano 50 sterline. Si fa tutto online. Gestire qualsiasi tipo di business è un gioco da ragazzi. Burocrazia snella e assenza di regolamentazione fanno dell’Inghilterra uno dei paesi più corrotti del mondo. Una corruzione molto particolare di cui responsabili non sono né la politica né l'amministrazione. Londra è stata dichiarata la capitale mondiale del riciclaggio e la City, assieme a Wall Street, sono le più grandi lavanderie, a livello globale, per il denaro sporco proveniente dal narcotraffico. Il mio commercialista, indicandomi l’enorme edificio che sta crescendo vicino al suo ufficio, in zona Earl’s Court, mi spiega che quasi tutti gli appartamenti sono già venduti. Li hanno comprati i Cinesi. Nessuno ci verrà mai ad abitare. Alla sera si accendono luci che illuminano case disabitate e che rimarranno vuote per anni. I nuovi proprietari a volte dimenticano persino di ritirare le chiavi, che restano a lungo nei cassetti dei venditori. Lo scopo dell’acquisto è infatti l’aumento di valore degli immobili: viverci o farci vivere qualcuno non è quasi mai contemplato nei progetti di chi l’acquista. E chi l’acquista non è certo il gentleman in bombetta, ma una Società d’investimenti internazionale che incanala flussi finanziari provenienti dal traffico illecito. Quando arrivai a Londra oltre vent’anni fa, l’odore dei soldi non era certo prorompente come oggi, ma se ti capitava di passeggiare per la City dove già cominciavano a sorgere i primi grattacieli contemporanei, tipo quello dei Lloyds, sentivi che i soldi c’erano anche se non si vedevano. Con un aplomb tutto britannico la città rifuggiva da qualsiasi forma di ostentazione. Risale a quegli anni un fatto che mi coinvolse personalmente e grazie al quale scoprii quel particolarissimo “vizietto” molto British, consustanziale al carattere inglese, ma estremamente ben dissimulato. Avevo trovato un lavoro come assistente di negozio da un antiquario della città. Un giorno ricevetti una telefonata da un’amica che lavorava presso una famosa casa d’aste londinese che mi chiedeva se gentilmente potevo raggiungerla per aiutarla a capire cosa volesse quel Signore che si era presentato nel suo ufficio e non parlava inglese. “Il gentleman”, come lo chiamava lei, era “stuffed with money” imbottito di soldi nel senso letterale del termine. Li aveva tirati fuori dal cappotto, dalle tasche interne della giacca, perfino dai calzini. Arrivato sul posto fui presentato ad un uomo di una certa stazza che aveva depositato sul tavolo del ricevimento, svariate mazzette di soldi. Circa 300.000 pounds in tagli da 50. L’uomo mi disse che erano soldi buoni e mi chiese di spiegare alla signora che con quel danaro voleva comprare cose antiche per portarsele a casa. Il cassiere della casa d’aste dopo aver rapidamente esaminato le banconote, con un sorriso compiaciuto, disse - This is good money so where is the problem? (sono soldi buoni quindi dov’è il problema?). Quel Signore era quindi “welcomed” a spenderli presso la Casa d’aste e salutandoci con la frase “Money is money” (i soldi sono soldi) riprese a fare il suo lavoro. Da quel giorno capii che In Inghilterra i soldi purché “buoni” sono ben accetti e che anche fra un sorry e una cup of tea si possono infrangere regole e consumare crimini. In Inghilterra non ci sono cadaveri sulle strade, né sparatorie. Ciò nonostante la mafia a Londra esiste e parla. Non con il sangue, ma con i piccioli. Iran. La lotta delle donne contro il hijab spaventa il regime, ondata di arresti di Francesca Paci La Stampa, 3 febbraio 2018 In carcere sarebbero finiti anche diversi uomini, rei di aver postato online i propri selfie di solidarietà alle amiche e sorelle ribelli. Al principio fu Vida Movahed, la mamma trentunenne a chioma sciolta in piazza Enghelab arrestata durante le proteste contro il carovita e rilasciata solo pochi giorni fa. Poi, un po’ alla volta, man mano che i dimostranti iraniani venivano respinti e loro richieste silenziate, le immagini delle attiviste e degli attivisti con un fazzoletto per i capelli legato al bastone alla maniera di Vida si sono moltiplicate. La più potente è quella della signora velatissima che, in piedi su una cassetta delle lettere, sventola un chador ed espone il cartello “Amo il mio hijab ma sono contro il suo obbligo”. I social suggeriscono che potrebbe esserci anche lei tra le 29 donne arrestate nelle ultime ore in Iran con l’accusa di turbare l’ordine sociale e diffondere la protesta contro l’obbligo di coprirsi il capo. Se il regime degli ayatollah è riuscito per adesso a contenere la rabbia popolare per l’economia disastrata del Paese (con l’inflazione al galoppo), l’effetto collaterale di quelle rivendicazioni, esplose a Natale nella città conservatrice di Mashhad e diffusasi poi in cento provincie, sembra essere assai più pervasivo. Secondo Masih Alinejad, la giornalista in esilio ideatrice della campagna My Stealthy Freedom #WhiteWednesday (con cui da un anno, ogni mercoledì, le donne iraniane si fotografano senza chador), oltre a Shima Babaei, Narges Hosseini (immortalata in piedi sulla stessa cabina telefonica di Vida) e altre 26 coraggiose sarebbero stati portati in carcere anche diversi uomini, rei di aver postato online i propri selfie di solidarietà alle amiche e sorelle ribelli. La trincea del regime è blindata: il nemico è, come al solito, all’esterno, una cospirazione internazionale che infiltra la popolazione distorcendone esigenze e ambizioni. In realtà, al di là della temeraria avanguardia femminile, l’umore del Paese è confuso. Un recentissimo studio del Center for International and Security Studies at Maryland rivela che oltre due terzi degli iraniani sono insoddisfatti della condizione economica del Paese e se la prendono con la corruzione, ma, al tempo stesso, ritengono responsabili le sanzioni internazionali (alias gli States) e indicano il capo delle guardie rivoluzionarie generale Qasem Soleimani, l’icona del regime, come il politico più popolare (83%, una percentuale di consensi in crescita al contrario del gradimento del presidente Rouhani). Le donne, quantomeno le più risolute tra loro, tengono il timone fermo. Ogni arresto è assai piu di una intimidazione. Un avvocato dei diritti umani ha raccontato alla AFP che la liberazione di una delle ragazze arrestate perché irriducibile al chador è costata la bellezza di 80 mila euro di cauzione. Amnesty International denuncia che in queste ore mancherebbero all’appello anche le attiviste Dariush Zand, Saeed Eghbali, Leila Farjami, Mahmoud Masoumi e Behnam Mousivand. Il velo, imposto per legge dopo la rivoluzione del 1979 e sempre mal digerito dalla middle class femminile, sembra diventato il grimaldello del dissenso (complici le lievi aperture degli ultimi tempi, per cui le automobiliste riescono a tratti a guidare a capo scoperto accampando la dimensione chiusa della vettura). Azar Mansouri, membro del partito riformista Union of Islamic Iranian People party, spiega che il controllo dell’abbigliamento muliebre, dall’hijabai leggins, è fallito ed è il bersaglio della protesta già da molto tempo. Le galere si riempono ma le strade non si svuotano (almeno simbolicamente). Invano, in queste ore, l’ex candidato alle presidenziali Mehdi Karroubi, da anni ai domiciliari, ha scritto a Khamenei consigliandolo di fare un passo indietro. Vida e le altre paiono intenzionate ad andare avanti.