Quel colpevole silenzio della politica su una riforma penitenziaria incompiuta di Michele Passione* Il Dubbio, 2 febbraio 2018 Oltre che sul lavoro e sull’affettività, le Commissioni di studio avevano presentato proposte su giustizia minorile, Opg, misure riparative, pene accessorie: perché perdere tutto? Il 19 luglio 2017 sono state costituite tre Commissioni di studio per l’elaborazione degli schemi di decreto legislativo: una per la riforma dell’ordinamento penitenziario nel suo complesso, un’altra per la riforma in tema di ordinamento penitenziario minorile e modelli di giustizia riparativa in ambito esecutivo, ed una per la riforma del sistema normativo delle misure di sicurezza personali e dell’assistenza sanitaria in ambito penitenziario, specie per le patologie di tipo psichiatrico, e per la revisione del sistema delle pene accessorie. Le tre Commissioni hanno lavorato alacremente per cinque mesi, con continue sedute e riunioni nella Capitale e produzioni di diffusi articolati, poi trasmessi al- l’ufficio Legislativo del ministero della Giustizia. Com’è noto, in ossequio alla legge 103 del 2017, il maxi provvedimento di riforma del processo penale, il governo ha esercitato la delega, e il 22 dicembre 2017, poco prima dello scioglimento delle Camere, il Consiglio dei ministri ha adottato lo schema di decreto legislativo, oggi all’esame delle competenti commissioni Giustizia di Montecitorio e Palazzo Madama, per il necessario parere, non vincolante. Occorre evidenziare come la delega conferita al governo per il varo della riforma consenta all’esecutivo di intervenire nell’arco di un anno dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, ma è lecito chiedere, discostandosi dall’esergo, quali siano le ragioni dell’esercizio parziale delle indicazioni parlamentari, che sembra offrire poche chances per un futuro completamento del cammino intrapreso. Si è evidenziato da più parti, non senza ragioni, come la scotomizzazione del tema dell’affettività e del lavoro in carcere dal testo in esame costituisca un vulnus profondo alla vita detentiva, che secondo le regole penitenziarie dovrebbe avvicinarsi quanto più possibile a quanto avviene all’esterno; in fondo, si va in carcere perché si è puniti, non per essere puniti. Conosciamo la risposta: poiché la delega si conclude con la ormai (desolante) previsione dell’invarianza finanziaria, occorreva attendere la copertura di spesa per le voci previste in legge di stabilità. E però. È lecito chiedersi quale sia la ragione (?) del silenzio della Politica, in ordine ai tanti altri temi trattati dalle Commissioni di studio ed alle soluzioni proposte. Perché, ad esempio, non si è provveduto alla riforma dell’ordinamento minorile, attese le specifiche esigenze sottese ad un settore così delicato, a tutt’oggi privo di normativa specifica? Per quale ragione si è trascurato il settore della Giustizia Riparativa, quale strumento capace, nella sua complementarietà al Diritto penale, di offrire percorsi inclusivi e utili a ricucire la lacerazione prodotta dal reato alle vittime e alla Società? Che senso ha prevedere una riforma dell’affidamento che contempli “percorsi di giustizia riparativa” se non se ne disegna lo statuto, pur nella sua flessibilità, affidandolo alla prassi? Perché, ancora, tradire le attese di chi ancora attende il completamento della riforma, cominciata con la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, e non introdurre nell’ordinamento una complessiva riforma delle misure di sicurezza per i non imputabili? Perché, ancora, mantenere in vita un armamentario obsoleto per quanto riguarda i soggetti imputabili e le pene accessorie? Com’è giusto che sia, sta alla Politica compiere scelte; chi scrive, con tanti altri, ha solo prestato un servizio, ma quando si governa si ha il dovere di spiegare alla collettività le ragioni delle proprie azioni ed omissioni, ché altrimenti il silenzio affida a possibili retro-pensieri, come accaduto per lo ius soli. *Avvocato Ok dalla Conferenza Stato-Regioni alla riforma penitenziaria di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 febbraio 2018 Sollevate osservazioni sul rafforzamento dei servizi sanitari. La conferenza Stato-Regioni ha dato parere positivo allo schema dei decreti attuativi della riforma dell’ordinamento penitenziario, ma a condizione che vengano prese in considerazione le osservazioni poste da alcune Regioni circa l’incertezza degli oneri finanziari, indispensabili per il rafforzamento dei servizi sanitari regionali. Le Commissioni giustizia di Camera e Senato, dove c’è l’iter in corso per l’approvazione dei decreti, attendevano il parere della conferenza unificata, altro passaggio obbligato per approvare definitivamente la riforma. Mercoledì scorso, la conferenza delle regioni, sotto la guida della presidente della Regione Friuli Venezia Debora Serracchiani, ha svolto i lavori e in maggioranza c’è stato un parere favorevole, condizionato, però, all’accoglimento di alcune osservazioni, perché su determinati aspetti, in particolare la tutela dei detenuti che hanno problemi di salute mentale, c’è un’incertezza finanziaria. La Campania, Liguria, Lombardia e Veneto, sono state le Regioni che hanno sollevato il problema. Tutti i rappresentanti delle regioni hanno convenuto che le intenzioni ispiratrici del decreto in questione sono quelle di migliorare la qualità delle attività sanitarie e dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive. In particolare, si pongono le basi per equiparare il diritto alla cura per le persone con patologie psichiatriche a quanto previsto per tutte le altre tipologie. Le Regioni hanno condiviso questa impostazione, perché si pone in diretta continuità con la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. Tuttavia, durante la conferenza, hanno fatto notare che le previsioni non possono essere certamente a costo zero per il servizio sanitario nazionale, perché si tratta infatti di impostare un rinnovato sistema di trattamento delle patologie psichiatriche, con una forte accentuazione delle misure alternative. Quindi si richiedono più soldi. Ma non solo. È emerso il disaccordo a creare strutture all’interno degli istituti penitenziari ad esclusiva gestione sanitaria, perché, a detta delle Regioni, risulterebbe troppo complesso, rischioso ed oneroso. Ora tutte queste osservazioni finiranno sui tavoli delle commissioni giustizia di entrambe le camere che si riuniranno mercoledì prossimo. Verosimilmente, salvo intoppi e altri rinvii per ulteriori approfondimenti, dovrebbero concludere l’iter di approvazione. Incerto è l’iter della commissione giustizia del senato visto che, sempre mercoledì prossimo, dovranno sentire i pareri di alcune personalità, tra i quali Sebastiano Ardita, per anni direttore dell’Ufficio detenuti del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (audizione richiesta dal senatore del Movimento Cinque Stelle Michele Giarrusso) e Roberto Piscitello, attuale direttore generale dell’ufficio del Dap. Nel frattempo cresce la mobilitazione del Partito Radicale. Sono più di 5.600 i detenuti e i loro familiari che fino ad ora hanno aderito allo sciopero della fame, promosso dall’esponente radicale Rita Bernardini, per chiedere alle commissioni Giustizia di Camera e Senato di approvare in tempi rapidi la riforma sull’ordinamento penitenziario. “Una mobilitazione spiega Bernardini che è in sciopero della fame da dieci giorni che ha come obiettivo anche quello di chiedere al governo Gentiloni di recuperare con dei decreti integrativi alcune parti fondamentali della riforma che ancora non sono state approvate, come quella sul lavoro, sull’affettività e sui minori”. Oggi, Rita Bernardini, parteciperà alla tavola rotonda dal titolo “la Riforma Penitenziaria: il lungo viaggio di ritorno alla Costituzione”, organizzata a Firenze dall’Unione delle Camere Penali in occasione dell’anno giudiziario dei penalisti italiani. Carceri affollate e più madri detenute, ma i malati psichiatrici ora sono curati di Fausta Chiesa Corriere della Sera, 2 febbraio 2018 I numeri dell’associazione Antigone sul 2017: in 12 mesi i detenuti sono circa 3.000 in più rispetto alla fine del 2016. Il tasso di affollamento ha raggiunto il 115%. “La riforma dell’ordinamento penitenziario crea aspettative positive per il futuro”. Un ritorno del sovraffollamento delle carceri e la riforma dell’ordinamento penitenziario che, seppur ancora non conclusa, crea aspettative positive per il futuro. Si può fotografare così il 2017, secondo l’associazione Antigone. “È stato un anno di luci e nuove ombre per il sistema penitenziario italiano - spiega il presidente Patrizio Gonnella - perché da un lato c’è la riforma dell’ordinamento penitenziario il cui iter non è ancora completamente concluso e che speriamo porti a un maggior rispetto della dignità delle persone recluse, siano esse adulte o minori, nonché a una estensione dell’uso delle misure alternative al carcere. Ma ci sono anche le ombre di una crescita della popolazione detenuta che, se non controllata, potrebbe nel giro di qualche anno riportarci alla situazione che determinò la condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 2013 per il trattamento inumano e degradante nelle carceri”. Dopo alcuni anni in cui si era assistito a una contrazione dei detenuti, il ricorso al carcere è tornato ad aumentare. In 12 mesi i detenuti presenti sono circa 3.000 in più rispetto a quelli che si registravano alla fine del 2016. Al 31 dicembre 2017 erano detenute in Italia 57.608 persone. Il tasso di affollamento ha raggiunto il 115%, mentre solo un anno fa era di poco superiore al 108 per cento. In aumento è anche il numero di coloro che si trovano in carcere in custodia cautelare, che attualmente sono circa il 35 per cento. Una percentuale che si alza nel caso degli stranieri. Tra questi a essere detenuti senza condanna definitiva sono il 41 per cento. Per quanto riguarda la custodia cautelare, al 31 dicembre 2016 invece il tasso di detenuti era del 34,7% (gli stranieri in custodia cautelare erano il 41,7%), a ogni modo sempre molto al di sopra della media europea del 22 per cento. A fronte dell’incremento della percentuale di affollamento e di quella relativa alla custodia cautelare, che interessa in misura ancor maggiore gli stranieri, la percentuale di detenuti non italiani è praticamente stabile, aggirandosi attorno al 34,2%, mentre era del 34% a fine 2016. In entrambi i casi molto al di sotto di quella che si registrava nel 2009 quando questi rappresentavano il 37% del totale dei reclusi. “Un dato importante da sottolineare - conclude Gonnella - è quello dei detenuti stranieri. Nonostante il clima di intolleranza e di odio che si respira c’è, rispetto a 10 anni fa, una riduzione in termini percentuali del numero degli stranieri reclusi nelle carceri italiane”. Un’altra buona notizie è la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), avvenuta a marzo. “Sono stati sostituiti dalle Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) - spiega l’associazione nata nel 1991 - che non dipendono dal ministero della Giustizia ma dalla Sanità e ogni Regione ha le sue: sono luoghi dove le persone - che hanno commesso reati - sono realmente seguite a livello psichiatrico”. Oggi sono 600 le persone nei Rems. A crescere, purtroppo, è anche il numero delle madri detenute con i loro figli. “Una situazione per la quale, nonostante la casa protetta inaugurata a Roma, non si riesce a trovare una soluzione definitiva anche a fronte di numeri molto contenuti”, dice Antigone. Un anno fa le madri erano 34 con i loro 37 bambini, oggi sono 50 con 58 figli. Altri dati da sottolineare sono quelli che arrivano dalle visite effettuate dal nostro osservatorio in 78 carceri italiane dalle quale emerge che in 7 di esse (9%) c’erano celle senza riscaldamento, in 36 (46%) senza acqua calda, in 4 (5%) il wc non è in un ambiente separato, in 31 (40%) l’istituto non ha un direttore tutto suo in 37 (47%) non ci sono corsi di formazione professionale e che in 4 (5%) non è garantito il limite minimo di 3mq a detenuto. Il rapporto completo sarà pubblicato il 20 aprile. Giustizia: i numeri di una Caporetto di Valter Vecellio lindro.it, 2 febbraio 2018 Errori giudiziari: è boom, ma nessuno paga perché il giudice si assolve. All’attenzione del ministro della Giustizia Andrea Orlando: siamo già alla quinta “evasione” definitiva dall’inizio dell’anno: una donna si è tolta la vita nel carcere romano di Rebibbia, a Roma, dov’era detenuta perché imputata di omicidio. Negli ultimi 20 anni la Polizia penitenziaria ha sventato, nelle carceri del Paese, più di 18mila tentati suicidi ed impedito che quasi 133mila atti di autolesionismo potessero avere tragiche conseguenze. Il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Mammone, nella relazione per l’apertura dell’anno giudiziario sottolinea che nelle carceri italiane “si registrano nuovamente casi di sovraffollamento”: 57.608, la capienza regolamentare è di 50.499. Errori giudiziari: aumentano in Italia i casi di ingiusta detenzione, dai 989 registrati nel 2016 ai 1.013 dello scorso anno: a dirlo è il sito ErroriGiudiziari.com, che da tempo tiene un archivio dei casi di “malagiustizia”. La città con il maggior numero di casi indennizzati è stata Catanzaro, con 158. Subito dopo ci sono Roma (137) e Napoli (113), che per il sesto anno consecutivo si conferma nei primi tre posti. Nella classifica per il numero di casi di ingiusta detenzione si registra una prevalenza delle città del sud, che occupano 8 delle prime 10 posizioni. Secondo la Onlus Antigone, che si occupa di tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale, i risarcimenti per ingiusta detenzione dal 1992 al 2016 ammontano a 648 milioni di euro, mentre ErroriGiudiziari.com riferisce che sono 26.412 le persone ad aver subito un’ingiusta detenzione dal 1992 a oggi. La classifica - Dopo Catanzaro, Roma e Napoli, la classifica stilata da Errorigiudiziari.com sull’ingiusta detenzione vede al quarto posto Bari, con 94 casi, poi Catania con 60, Palermo con 43, Milano con 40, Salerno con 38, Messina con 36 e Lecce con 28. E a parte Roma e Milano, il resto sono, appunto, città del sud. Quanto alle città dove lo Stato ha speso di più in risarcimenti, a guidare la classifica è sempre Catanzaro con 8.866.154 euro, seguita da Roma (3.924.672 euro), Bari (3.561.375 euro), Napoli (2.871.066 euro), Catania (1.977.926 euro), Palermo (1.539.597 euro), Salerno (1.510.925 euro), Messina (1.503.649 euro), Reggio Calabria (1.039.051 euro) e Milano (1.003.029 euro). Oltre 26mila casi negli ultimi 25 anni, dal 1992 a oggi, secondo il sito 26.412 persone hanno subito una ingiusta detenzione, cioè una custodia cautelare in carcere o agli arresti domiciliari prima di essere riconosciute innocenti con sentenza definitiva. Per risarcire le vittime, lo Stato ha versato complessivamente poco meno di 656 milioni di euro. Una cifra in linea con le stime della Onlus Antigone, secondo cui i risarcimenti ammonterebbero a circa 648 milioni. Il numero di casi sale se si includono anche gli errori giudiziari in senso tecnico, ovvero quelli relativi a persone condannate con sentenza definitiva e poi assolte in seguito a un processo di revisione perché emergono elementi che li scagionano o si scopre il vero autore del reato. Contando anche questi casi, il numero sale a 26.550, per una somma totale di 768,3 milioni di euro in risarcimenti versati dal 1992 a oggi. La verginità giudiziaria, un equivoco della politica di Carlo Nordio Il Messaggero, 2 febbraio 2018 George Clemenceau diceva che non si raccontano mai tante frottole come prima delle elezioni, durante la guerra e dopo la caccia. Trascurando qui i bollettini dei generali e le fanfaronate dei cacciatori, è vero che i partiti, nell’imminenza delle urne, fanno a gara per sparare promesse metafisiche. E in effetti, nei giorni scorsi, ne abbiamo sentite di tutti i colori. Vi è tuttavia una buona notizia in questa confusione: che finalmente le candidature non sono più condizionate (o almeno lo sono molto meno di una volta) dalle inchieste giudiziarie. I partiti infatti hanno presentato liste con persone indagate o addirittura imputate. Ed anche quelli che hanno detto di non farlo, come i pentastellati, hanno già di fatto riconosciuto il contrario, mantenendo al proprio posto anche sindaci rinviati a giudizio. Il caso di Virginia Raggi a Roma insegna. Questa, ripetiamo, è una buona notizia. Non perché sia giusto e utile farsi beffe della giustizia, e tantomeno perché i nostri rappresentanti debbano essere privi di onestà e rigore morale. Ma perché molte di queste inchieste sono destinate a svaporare, siccome inconcludenti ed inutili. Ripetiamolo ancora una volta: in Italia l’azione penale è obbligatoria; l’iscrizione nel fatale registro è un atto dovuto, l’informazione è spedita a garanzia del destinatario, e non è affatto una condanna anticipata. Di conseguenza è giusto, e doveroso, prescindere da questi impacci e consentire l’ingresso anche degli indagati nella competizione elettorale. Detto questo, speriamo (vorrei dire pretendiamo) che il prossimo legislatore, chiunque esso sia, si comporti con coerenza, e segua fino in fondo questa linea ora finalmente tracciata. In altri termini, che questa parentesi garantista non rimanga, appunto, una mera parentesi ad uso temporaneo, ma costituisca l’avvio di una strategia più generale, coerente e duratura: per esempio, rafforzando il principio di presunzione di innocenza fino alla sentenza finale; riducendo la portata delle intercettazioni e vietandone l’uso mediatico a fini di delegittimazione dell’avversario politico; e infine correggendo la cosiddetta decadenza automatica dalle cariche elettive, o almeno condizionandola alla definitività della decisione. Insomma, un “revirement” rispetto al funesto indirizzo vagamente moraleggiante che fino ad ora ha reso la politica subalterna alle iniziative della magistratura. Il paradosso è che di questa deformazione sono state vittime proprio i pentastellati, cioè quelli che, più degli altri, l’hanno patrocinata. A parte Virginia Raggi, che ha rischiato e rischia il posto per le note vicende, varrà la pena di ricordare che il sindaco di Livorno, Nogarin, ha annunciato di non volersi più candidare perché stanco e annichilito dalle inchieste penali e dalle cause civili piovutegli addosso. Ora, a noi non interessa nulla la permanenza o meno del sindaco di Livorno in quanto tale. Ma riteniamo stravagante per la logica e pernicioso per la politica che un amministratore, chiamato dal popolo, debba ritirarsi a causa delle vessazioni procedurali. Concludo. La cosiddetta verginità giudiziaria, da molti ritenuta una condizione alle cariche elettive, è un falso problema. Lo è quando è una condizione per l’accesso, perché limita la scelta dei cittadini, che possono benissimo ritenere meritevole un candidato anche se coinvolto in un’inchiesta. E lo quando è condizione di permanenza, perché qui un’iniziativa giudiziaria, magari del tutto infondata, si sostituisce e si sovrappone alla scelta dell’elettore. Il quale, già abbastanza frustrato dalle vociferanti polemiche e dall’incertezza dei programmi, rischia di perder la voglia residua di recarsi alle urne, sapendo che il suo rappresentante, da un giorno all’altro, può esser fulminato dal potere di una toga. Permettere questo sarebbe un’ ulteriore grave colpa della politica, perché se è brutto togliere al cittadino il diritto di voto, è ancora peggio fargli perdere la voglia di andare a votare. Femminicidi, più tutele per gli orfani. La reversibilità passa dall’imputato ai figli di Giovanni Galli Italia Oggi, 2 febbraio 2018 Nei femminicidi più tutele per gli orfani: pensione di reversibilità sospesa all’imputato e trasferita ai figli; gratuito patrocinio a prescindere dal reddito; se il cognome è quello del genitore condannato in via definitiva, il figlio può chiedere di cambiarlo; fondo per le vittime di mafia, usura e reati intenzionali violenti esteso anche agli orfani di crimini domestici con due milioni di euro in più all’anno per borse di studio e reinserimento lavorativo. Sono le principali novità introdotte dalla legge che tutela gli orfani dei femminicidi (legge 11 gennaio 2018, n. 4 recante “Modifiche al codice civile, al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in favore degli orfani per crimini domestici”) pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 26 di ieri e in vigore dal prossimo 16 febbraio. Le nuove tutele si applicano ai figli minorenni e maggiorenni economicamente non autosufficienti della vittima di un omicidio commesso dal coniuge o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva e stabile convivenza. Gli orfani di crimini domestici potranno dunque accedere al gratuito patrocinio a prescindere dai limiti di reddito. A tutela del risarcimento del danno a favore dei figli della vittima, il pm che procede per omicidio ha l’obbligo di richiedere il sequestro conservativo dei beni dell’indagato. Nei confronti del familiare per il quale è chiesto il rinvio a giudizio per omicidio viene sospeso il diritto alla pensione di reversibilità. Durante tale periodo la pensione, senza obbligo di restituzione, sarà percepita dai figli della vittima. In caso di proscioglimento o archiviazione, la sospensione viene meno e lo stato dovrà corrispondere gli arretrati. La condanna e il patteggiamento comportano automaticamente l’indegnità a succedere. Peraltro, fino ad archiviazione o proscioglimento, resta sospesa la chiamata all’eredità. Ai figli delle vittime è assicurata assistenza medico-psicologica gratuita fi no al pieno recupero psicologico ed è attribuita la quota di riserva prevista per l’assunzione di categorie protette. Baby gang figlie di un bullismo troppo tollerato di Carlo Valentini Italia Oggi, 2 febbraio 2018 Le baby gang sono figlie di un bullismo troppo a lungo tollerato. È sbagliato etichettare come ragazzate episodi di sopraffazione, salvo poi evocare drastici provvedimenti quando essi sfociano in fatti di sangue. Guai a criminalizzare il comportamento di chi non è ancora adulto ma è pure un errore sorvolare su questi fatti. Un processo di responsabilizzazione chiama in causa le famiglie, la scuola, le istituzioni. La famiglia, anche per la sua attuale parcellizzazione, spesso finisce per abdicare al proprio compito educativo, delegando la scuola senza neppure supportarla. Una ricerca compiuta in Francia ha registrato che il danaro è al primo posto tra gli argomenti che i genitori affrontano con i loro fi gli, mentre i sentimenti occupano l’ultimo. Da parte sua la scuola non è purtroppo più strutturata per una funzione di educazione civica (non riesce ad inculcare la distinzione del buono dal cattivo, del giusto dallo sbagliato) e quando ci prova non trova collaborazione da parte delle famiglie. Quanto alle istituzioni, sembrano incapaci di risposte: al di là delle belle parole la riqualificazione delle periferie non viene compiuta, il sostegno ad attività di socializzazione è assai carente, l’assistenza agli indigenti si concretizza con qualche aiuto economico e nulla più. Quei quartieri rimangono anonimi e deserti, per sfuggire all’abbandono non ci sono più gli oratori o le sezioni di partito ma le sale giochi e le discoteche assordanti, col risultato di una tremenda e disperata solitudine. C’è da meravigliarsi se dal bullismo si è passati alle baby gang, che magari sentono il richiamo di talune fiction televisive nelle quali spiccano gli eroi della malavita, al di là del finale ecumenico? È venuto il momento che nell’ordinamento giudiziario sia prevista la punibilità dei minori e che i comitati per l’ordine pubblico, operanti in gran parte dei comuni italiani, si occupino di questo fenomeno. Vanno adottati provvedimenti di tolleranza zero sul controllo del territorio. Il che non significa la cella, in prima istanza, per chi compie azioni illegali, ma l’avvertimento che infrangere la civile convivenza, e la legge, comporta sanzioni, magari una momentanea permanenza in comunità. Quindi pene alternative al carcere, ma da scontare. Già potrebbero essere individuate strutture che in qualche modo riescano a supplire alle carenze di famiglie, scuola e istituzioni. Salviamo questi ragazzi prima che sia troppo tardi. Reati tributari: il pagamento parziale esclude la confisca sull’intero debito di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 2 febbraio 2018 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 1 febbraio 2018 n. 4733. Sbaglia il giudice che dispone la confisca sull’intero ammontare del debito tributario in presenza di un parziale pagamento, come documentato con l’istanza di applicazione di pena su richiesta delle parti. La Cassazione con la sentenza 4733 accoglie il ricorso contro l’applicazione della misura su tutta la somma dovuta per dichiarazione infedele, malgrado la totale estinzione del debito fosse arrivata prima della sentenza di patteggiamento. Il giudice, a parere della difesa, era partito dall’errato presupposto che si trattasse di un adempimento solo parziale. Il ricorso è fondato. Per i reati tributari, infatti, la confisca diretta o di valore nei confronti dei beni profitto o prodotto del reato, non “opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all’erario anche in presenza di sequestro” (articolo 12-bis, comma secondo Dlgs 74/2000, introdotto dal Dlgs 158/2017). La Suprema corte ricorda che la locuzione “non opera” non significa che, a fronte dell’accordo sulle rate la misura non possa essere adottata, ma che non è efficace per la parte coperta dall’impegno, salva la possibilità di disporla se il “patto” non viene rispettato e il versamento non arriva. Il profitto che può essere sottoposto a confisca - chiariscono ancora i giudici - equivale all’ammontare dell’imposta evasa, e il pagamento di questa annulla l’indebito vantaggio da aggredire con il provvedimento ablatorio. Per questo un provvedimento successivo comporterebbe un’inammissibile duplicazione della sanzione. Né si può affermare che in caso di patteggiamento la misura debba comunque essere adottato malgrado il pagamento anche se tardivo. L’assenza di beni non blocca la confisca di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 2 febbraio 2018 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 1 febbraio 2018 n. 4750. Il giudice non può escludere la confisca per il reato di omesso versamento delle ritenute certificate, solo perché l’imputato non ha alcuna disponibilità di beni. La Corte di cassazione, con la sentenza 4750, accoglie il ricorso della Pubblica accusa contro la scelta del tribunale di condannare l’imputato a quattro mesi di reclusione, in seguito a patteggiamento, per la violazione dell’articolo 10-ter del Dlgs 74/2000, evitandogli però la confisca per l’insussistenza dei mezzi. Per la Suprema corte il ricorso del Pm, secondo il quale la confisca, in quanto preciso obbligo di legge, sfuggiva a qualunque considerazione da parte del giudice. Ed era dunque ininfluente la disponibilità di mezzi potendo essere colpiti anche beni futuri. La Cassazione ricorda che il nuovo articolo 10-bis, introdotto dal Dlgs 158/2015, stabilisce che in caso di condanna su richiesta delle parti (articolo 444 del Codice di procedura penale) per uno dei delitti previsti dal decreto 74, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, tranne quando appartengono a persone estranee al reato. Una misura di sicurezza patrimoniale, dunque, la cui applicazione è sottratta alla discrezionalità del giudice. Resta confinata nella fase esecutiva, la cui iniziativa spetta al Pm, la soluzione di eventuali problemi (come l’assenza di beni) sulla possibilità di mettere effettivamente in atto la misura. La Cassazione, esercitando una facoltà che gli deriva dal nuovo codice di rito (legge 103/2017), annulla senza rinvio la sentenza impugnata, limitatamente alla mancata confisca, che viene disposta direttamente dalla Suprema corte. Lazio: 400.000 euro dalla Regione per la mediazione linguistica e culturale in carcere ilcaffe.tv, 2 febbraio 2018 Il Garante Anastasìa: un fatto molto importante, cui spero possano seguire rapidamente gli adempimenti conseguenti. Sono arrivati a destinazione i 400.000 euro stanziati dalla Regione Lazio per lo svolgimento di attività di mediazione culturale a beneficio dei cittadini stranieri detenuti nelle carceri del Lazio. I fondi sono stati ripartiti tra i Comuni e gli Enti capofila dei Distretti socio sanitari sede di istituti penitenziari ai quali ora spetta la responsabilità di stipulare specifici protocolli con le singole direzioni carcerarie, così da regolamentare le attività secondo le indicazioni regionali. 2625 erano gli stranieri detenuti nelle carceri del Lazio il 31 dicembre scorso, pari al 42% della popolazione detenuta, con punte del 58% a Rieti, del 59%a Civitavecchia, del 50% a Rebibbia femminile, del 53% a Regina Coeli, del 56% a Viterbo. “Quando il Consiglio regionale mi ha affidato il compito di Garante delle persone private della libertà nel Lazio, nel mio primo giro di visite negli istituti, la prima necessità che mi è stata rappresentata da operatori e volontari, e che ho potuto riscontrare in decine di colloqui con detenuti stranieri, in particolare con quelli appena arrestati, era soprattutto questa: di far comprendere ai detenuti perché si trovassero lì e con quali diritti, e di far comprendere agli operatori quali fossero le loro necessità. Lo stanziamento deliberato dalla Giunta, dunque, è un fatto molto importante per migliaia di detenuti della Regione, cui spero possano seguire rapidamente gli adempimenti conseguenti, affidati agli enti locali nei cui territori si trovano gli istituti penitenziari”. Toscana: i figli dei detenuti possono entrare in carcere con il cane La Nazione, 2 febbraio 2018 Un progetto innovativo che riguarda che riguarda Firenze, San Gimignano (Siena), Siena, Massa, Massa Marittima (Grosseto) e Livorno. Sollicciano, novità per i figli dei detenuti: grazie a un’iniziativa, unica in Italia, lanciata in Toscana dal Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria, potranno visitare i genitori con l’accompagnamento di un cane. In questo modo l’ingresso in carcere diventa meno traumatico. Il progetto coinvolge, oltre al carcere di Sollicciano a Firenze, quelli di San Gimignano (Siena), Siena, Massa, Massa Marittima (Grosseto) e Livorno. Complessivamente, sono coinvolti dodici cani. Oscar e Luna vengono da Milano, Cloe e Madama Dorè vengono da Piombino, Brigitte dal Monte Amiata, Willy da Roma, Margot da Livorno. Sono labrador, terranova, bovaro del bernese, alaskan malamute, golden, bastardini. Grazie alla sensibilità dei loro proprietari, sono stati formati alla pet therapy, al soccorso, alla cura degli anziani. I cani entrano in carcere insieme a un agente penitenziario e al proprietario. Il primo approccio tra il cane e i figli dei reclusi avviene all’ingresso per prendere confidenza con l’animale. “È un progetto che abbiamo realizzato per rendere meno traumatico l’impatto dei bambini con la realtà penitenziaria- spiega Monica Sarno, funzionario giuridico-pedagogico del Provveditorato toscano - I bambini e le bambine, all’uscita del carcere, spesso ci ringraziano per l’esperienza vissuta, è bello vederli uscire col sorriso sulle labbra”. Lodi: in carcere il doppio dei detenuti, è tra i dati più alti della Lombardia Il Cittadino, 2 febbraio 2018 La capienza regolamentare è di 45 ospiti, in realtà sono 90, per la metà stranieri. La Casa circondariale di via Cagnola a Lodi al 30 settembre scorso aveva una capienza regolamentare di 45 detenuti ma contava una presenza di 90, esattamente il doppio, di cui la metà stranieri: sono i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria resi noti nei giorni scorsi dalla presidente della Corte d’appello di Milano Marina Anna Tavassi, nella sua relazione sull’amministrazione della giustizia nel distretto di Milano (che comprende mezza Lombardia, quella occidentale, lasciando l’orientale al distretto di Brescia). A fronte di un sovraffollamento medio nel distretto che è del 30 per cento, e del dato nazionale del 14 per cento, pari a 57.661 detenuti (più 4 per cento rispetto a un anno prima) a fronte di una capienza regolamentare totale di tutti gli istituti di pena italiani di 50.508, emerge quindi che la casa circondariale di Lodi è tra le più sovraffollate della Lombardia. Elevato anche il dato registrato al 30 giugno scorso dal procuratore della Repubblica di Lodi Domenico Chiaro e anch’esso reso noto in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2018: 87 presenze a fronte di una capienza regolamentare che allora era data a 56 unità e a una capienza massima tollerabile di 96. Di questi, 34 stavano scontano condanne definitive, 21 risultavano in attesa del giudizio di primo grado, 15 dell’appello e altri 7 della Cassazione. Eppure chi lavora in via Cagnola ritiene che, rispetto ad altre strutture, sia ancora un carcere in cui le condizioni restano accettabili. Catanzaro: detenuto dell’Ipm di origine magrebina si è dato fuoco su tutto il corpo strill.it, 2 febbraio 2018 Un detenuto di origine magrebina si è dato fuoco su tutto il corpo con del liquido infiammabile. È accaduto, nel pomeriggio di ieri, nel carcere minorile di Catanzaro. A darne notizia oggi sono Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del sindacato di polizia penitenziaria Sappe e Damiano Bellucci, segretario nazionale dello stesso sindacato. “Solo grazie all’immediato intervento della polizia penitenziaria - si legge in un comunicato - si è riusciti a salvare la vita al detenuto, il cui corpo era ormai diventato una torcia umana. Infatti, gli agenti, senza tenere conto del pericolo che correvano anche loro, rischiando di bruciarsi, sono riusciti a togliergli di dosso gli abiti in fiamme ed a salvargli la vita. È opportuno - scrivono ancora - che l’amministrazione riconosca al personale intervenuto le ricompense previste dall’ordinamento”. “Ogni anno, ricorda il Sappe, la polizia penitenziaria salva la vita in carcere a oltre 1000 detenuti che tentano di suicidarsi”. Non si conoscono le ragioni del gesto estremo compiuto dal giovane detenuto. Firenze: si fa arrestare per andare in cella con il padre malato di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 febbraio 2018 Si allontana dalla comunità dove era in affidamento in prova e si consegna in carcere per non lasciare da solo suo padre, 73enne con diverse patologie, condannato all’ergastolo in primo grado. Una storia difficile, disperata, in un contesto familiare disastrato, dove prevale anche un atto d’amore di un figlio che si sente in colpa per la condanna che ha ricevuto il padre. Sì, perché Riccardo Vignozzi - così si chiama il figlio, un ragazzo di 33 anni con problemi di tossicodipendenza, ha confessato i furti commessi cinque anni fa nelle scuole. Furti che consistevano nel rubare i soldi alle macchinette delle merendine che gli servivano per procurarsi le dosi. Si era dato anche il nome d’arte di Diabolik, firmava così i suoi bigliettini per scusarsi del disagio. Non era stato però l’unico reato. Riccardo era tossicodipendente così come l’altro fratello, condannato a sei mesi per piccolo spaccio - ed era già stato condannato per un altro reato legato alla droga. Quest’ultimo fatto - l’origine della tragedia che portò il padre a commettere un omicidio - avviene nel comune di Carrara, in Toscana. Riccardo era stato sorpreso dai carabinieri con delle dosi di hashish, dopo una perquisizione in casa avevano trovato altre quantità. Non lo arrestarono, ma fu denunciato a piede libero. Uno dei carabinieri, il maresciallo Antonio Taibi, con una operazione congiunta con la polizia, ha monitorato Riccardo - andava a trovarlo molto spesso in casa - fino a coglierlo a spacciare delle pasticche di ecstasy. Fu processato e condannato a tre anni. Il padre, a quel punto, individua il maresciallo Taibi come il principale responsabile dell’arresto. “Lui si era convinto - spiega l’avvocato Enrico Di Martino, difensore di entrambi - che il maresciallo Taibi, con tutte le sue venute in casa, avesse convinto il figlio a spacciare per individuare altri complici, promettendogli che non gli sarebbe stato fatto nulla”. Fu per questo che prese la decisione folle di sparargli. E gli sparò, dopo un colloquio sotto il portone dell’abitazione della vittima. Lo uccise. Era il 26 gennaio del 2016. A luglio dell’anno scorso è stato condannato in primo grado all’ergastolo. “Abbiamo fatto ricorso in appello - spiega il difensore Di Martino, per chiedere di togliere almeno le aggravanti che lo hanno portato a questa pena altissima”. In teoria, Vignozzi, in attesa della sentenza definitiva, potrebbe andare ai domiciliari. Ma una casa non ce l’ha più. “Purtroppo non ho potuto presentare l’istanza - spiega l’avvocato, perché nel frattempo sua moglie è stata sfrattata non avendo i soldi per pagare l’affitto”. Sì, perché la moglie, oltre a essere nullatenente, soffre anche di problemi psichiatrici e ora si ritrova sola, in mezzo alla strada e trova, quando può, rifugio nei dormitori dei senza fissa dimora tra Livorno, Pisa e Viareggio. Una situazione che crea problemi anche all’altro fratello di Riccardo, condannato a sei mesi di carcere per piccolo spaccio e, non avendo un domicilio, non può usufruire di nessuna misura alternativa. Nel frattempo Riccardo Vignozzi si ritrova a scontare un cumulo di condanne per un totale di quattro anni e qualche mese. Ne ha già scontati due prima al carcere di Massa e poi a quello di Sollicciano, sempre nella stessa cella con il padre. Riccardo è un detenuto modello, ha studiato e svolto con solerzia tutto il percorso trattamentale. Il magistrato di sorveglianza così l’ha premiato concedendogli l’affidamento in una comunità terapeutica. “Oltre al percorso trattamentale - spiega l’avvocato Di Martino, il ragazzo si era anche disintossicato e quindi siamo riusciti ad ottenere con facilità questa misura alternativa presso la comunità di recupero di Montecatini Terme”. Ma, la settimana scorsa, Riccardo ha deciso di allontanarsi volontariamente, per tornare in carcere a Sollicciano, dal padre malato. Non lo vuole abbandonare e ha deciso di rimanere in cella con lui. Belluno: nasce lo “Sportello Carcere”, aiuterà gli ex detenuti di Alessia Trentin Il Gazzettino, 2 febbraio 2018 Si chiamerà “Sportello Carcere” e sarà un luogo dove ex detenuti aiuteranno altri ex detenuti. Uno spazio di incontro dove fornire indicazioni e informazioni sui servizi attivi in città, su indirizzi, progetti e centri a cui rivolgersi. L’idea è dell’associazione Jabar, nata nel 2014 e finalizzata al sostegno e alla tutela dei diritti delle persone socialmente svantaggiate, che la concretizzerà grazie all’aiuto e al contributo del Csv. Non sono ancora noti i tempi per l’attivazione dello Sportello, le idee tuttavia sono già molto chiare. “Vogliamo cercare di creare una rete con le associazioni operative all’interno del carcere e con quelle esterne - spiega Elisa Corrà, presidente di Jabar - così da fare sinergia e ottimizzare le poche risorse e le poche persone a disposizione”. Lo Sportello troverà sede in via del Piave all’interno dello stabile Csv dove Jabar divide una stanza con altre associazioni. Lì, un giorno a settimana e in una precisa finestra oraria, sarà presente un volontario per fornire a chi arriverà in cerca di informazioni tutte le dritte del caso. Il servizio sarà rivolto ad ex carcerati, uomini e donne tornati in libertà e messi davanti alla necessità di ricostruirsi una vita, di trovare lavoro e sostegno nella comunità da cui sono stati lontani, magari, diversi anni. “Il progetto prenderà il via con una prima fase di sensibilizzazione e di comunicazione alla popolazione - aggiunge Corrà, in modo da far sapere dell’esistenza dello Sportello e delle sue finalità. Vogliamo organizzare momenti di approfondimento aperti a tutti”. Dopo di che partirà il servizio, in cui si conta di impiegare i volontari soci dell’associazione ma anche ex detenuti vicini a Jabar. “Siamo già partiti con la campagna comunicativa - conclude la presidente -. La scorsa settimana c’è stato il primo incontro con le classi quarte e quinte del Catullo, ne seguiranno altri da qui ad aprile”. Vicenza: il mistero dell’ultrà in coma, ora un referto accusa gli agenti di Giuliano Foschini La Repubblica, 2 febbraio 2018 “Trauma cranico durante colluttazione con organi Ps”. Nei documenti del 118 di Vicenza è nascosto un pezzo che potrebbe cambiare la storia di Luca Fanesi, l’ultras della Sambendettese che, dopo gli scontri con la polizia all’esterno dello stadio di Vicenza, ha rischiato di morire e che ancora oggi rischia di lasciare una parte della sua vita ferma al 5 novembre scorso. Domenica pomeriggio: Fanesi lavora in un centro commerciale a Sambenedetto. Lascia a casa la moglie e i suoi due figli, di 7 e 13 anni, e come sempre monta a bordo di un pulmino e va a vedere la sua squadra del cuore. È ogni settimana sugli spalti della Nord quando la Samb gioca in casa. Nel settore ospiti quando si va in trasferta. Il 5 è il turno di, Vicenza, campionato di Lega Pro. La partita finisce 2-1 per i veneti, con tanto di rigore al 92esimo che ribalta la gara. Delusione. Massimiliano Fanesi è il fratello di Luca. Dal 6 novembre ha dedicato la sua vita a ricostruire cosa è accaduto quel pomeriggio. “All’esterno dello stadio - racconta - l’intera sistema di sicurezza era gestito da un vigile urbano”. Finita la partita, i tifosi della Samb montano sui pulmini per rientrare a casa. La strada è obbligata e passano accanto a un gruppo di tifosi avversari. “Vengono lanciati degli oggetti, fumogeni e qualcos’altro”. Una sassaiola. I bus proseguono per qualche centinaio di metri e si fermano. I tifosi ospiti scendono. L. è un amico di Luca e non si nasconde dietro un dito. “Siamo tornati indietro” dice. C’è uno scontro con i tifosi avversari, dura qualche minuto, non ci sono feriti. I tifosi della Sambenedettese fanno per rientrare ai pulmini, ma trovano il reparto celere di Padova che nel frattempo è intervenuto per sedare gli scontro. I video, recuperati nelle ore successive da Massimiliano e dagli amici di Luca, documentano uno scontro con la polizia. “Stavano cattivissimi” racconta uno dei tifosi. Nel video sembrano vedersi manganelli, un ragazzo per terra che cade, sembra di sentire anche il rumore di qualcuno che viene colpito. Luca non è mai inquadrato, o almeno così pare. “Io ne ho visti tre che picchiavano da dietro Luca. Ho visto una manganellata, è stata una cosa molto veloce” racconta un altro tifoso. Una versione sempre però smentita dalla Polizia che nelle ore immediatamente successive al fatto racconterà, seppur in maniera non ufficiale, che Fanesi ha sbattuto contro un cancello mentre correva via dalla carica. Fatto sta che Luca finisce a terra, nel sangue. Sul posto si precipita un’ambulanza che lo accompagna di tutta corsa al Pronto soccorso, dove arriva alle 17,07 in codice rosso. “Trauma cranico - scrivono - in corso di una colluttazione”. “Sono stato il primo ad arrivare in ospedale: non dimenticherò mai le parole dei medici. Mi hanno parlato di rischio vita enorme e di stato vegetativo” ricorda Massimiliano. Luca resta in coma per settimane. Subisce due interventi di neurochirurgia e al terzo si sottoporrà nelle prossime settimane. “Ci sono miglioramenti lenti, la situazione è delicata, sappiamo che per capire che conseguenze avrà tutto questo servirà ancora del tempo, ma per noi è già tanto, abbiamo fiducia nei medici e grande speranza. Detto questo, dobbiamo sapere cosa è successo a Luca. Vogliamo tutta la verità, senza nessuno sconto”. La famiglia Fanesi, assistita dall’avvocato Andrea Balbo, ha depositato una denuncia contro ignoti per lesioni dolose. La procura di Vicenza ha aperto un fascicolo: ieri ha ascoltato medici e infermieri come persone informate sui fatti, ha acquisito tutti i video disponibili disponendo una perizia tecnica, seppur pare che ci sia un buco temporale proprio nel momento in cui Luca cade. Fin qui la polizia ha negato ogni responsabilità. Ma il Questore, Giuseppe Petronzi, ha anche detto che se “ci sono responsabilità, qualcuno pagherà. Nessuno pensa di insabbiare nulla”. In queste ore però qualcosa è successo. È spuntata infatti la scheda del 118, i primi a intervenire - di cui Repubblica è in possesso - nella quale per la prima volta si parla di poliziotti. “Trauma cranico - appunta infatti l’operatore - durante colluttazione con organi Ps”. Così come di “colluttazione” parla anche il Pronto soccorso, seppur riferite “dagli astanti”. “Noi ci aspettiamo giustizia” dice Massimiliano, “e che mio fratello stia meglio. Intanto una cosa straordinaria già è accaduta”. Gran parte delle spese di vitto e alloggio in Veneto per la famiglia di Luca in queste settimane sono state un regalo: le hanno pagate gli ultras del Vicenza. Quelli che il 5 novembre avrebbero dovuto essere gli avversari. Brescia: un detenuto-archivista lavorerà alla procura, si occuperà anche della strage di Mara Rodella Corriere della Sera, 2 febbraio 2018 Si occuperà di quella che in gergo tecnico chiamano la dematerializzazione degli atti giudiziari. Il progetto è partito nel 2009 a Milano e ha funzionato. Dovrebbe restare per qualche mese. Avanti e indietro dal carcere al Palagiustizia, e non per un processo. Ma per lavorare. Per la prima volta un detenuto prende servizio a palazzo: si occuperà di quella che in gergo tecnico chiamano la dematerializzazione degli atti giudiziari. Molto più semplicemente: meno carta e più file nel computer, visto che si parla di decine di migliaia di pagine. Il laboratorio dedicato si trova in procura. Ed è lì che questo ragazzo inizierà a rendersi utile. Un progetto che a Milano è partito nel 2009, e che “ha funzionato”, ricorda il presidente della Corte d’Appello Claudio Castelli (“arrivavamo a cinquemila copie al giorno”), anima dell’iniziativa insieme al presidente del Tribunale, Vittorio Masia. I parametri sono gli stessi: la sottoscrizione di intenti tra uffici giudiziari e Ordine degli avvocati, la convenzione con la cooperativa sociale Cremona Labor (“che iniziò con la digitalizzazione degli atti nel carcere di Cremona” ricorda Castelli) e il coinvolgimento del tribunale di Sorveglianza. scegliere il “candidato” giusto non è semplice: contano inclinazioni e condizioni di detenzione (“ma non è necessario stia scontando la fine pena” precisano i vertici del Palagiustizia), ma non un percorso scolastico o una formazione professionale piuttosto che un’altra. Il detenuto “sarà regolarmente inquadrato in cooperativa, con un permesso di lavoro e uno stipendio sindacale” spiega il presidente Castelli. Al suo fianco, perennemente, ci sarà un tutor. E sia chiaro: nessun accesso a faldoni e atti processuali o d’inchiesta coperti da segreto. Conta solo il materiale che segue alla notifica di chiusura indagini. “Ma si occuperà anche della digitalizzazione di alcuni documenti della strage di piazza Loggia” dice Masia, auspicando che “questa iniziativa possa prendere piede anche in modo organico, e che possa dare anche a Brescia i frutti maturati altrove”. Mal di pancia e polemiche non si sono fatte attendere. a tranquillizzare gli animi ci pensa lo stesso presidente Castelli, non prima di specificare che “si tratta di un’attività che si autofinanzia”. Di più: gli scanner veloci, in procura, li ha messi in dotazione la stessa cooperativa, che in questa sfida ci crede moltissimo. “Non si verificherà alcun problema di sicurezza”. E questo per tre motivi principali: “Le mansioni di cui stiamo parlando prevedono una scansione veloce, nel senso che la persone deputata altro non fa sostanzialmente che levare i punti dai faldoni e inserirli in maniera massiva nello scanner: non c’è il tempo per rendersi conto dei contenuti”, tantomeno di sbirciarli. Secondo: “È previsto il controllo con una serie di telecamere che saranno sempre attive”. Terzo: “Al fianco del detenuto che lavorerà qui da noi ci sarà sempre un tutor della cooperativa” il quale peraltro dovrà “aiutarlo con la classificazione degli atti”. Non solo: “Si è resa inevitabile anche la digitalizzazione degli atti che appartengono a grossi processi” fosse anche solo perché il tribunale “dispone di un archivio da cinquemila metri quadrati in via Dalmazia”, ricorda Masia, il cui inevitabile destino è la distruzione, se non si provvede alla conservazione. Questo progetto, conclude Castelli, “rappresenta da un lato una tappa per l’inserimento nel mondo del lavoro e quindi sociale per chi uscirà dal carcere e potrà vantare un’esperienza importante nel suo curriculum”. Dall’altro non ci si scappa: “Dovremmo comunque provvedere noi”. Potenza: il Radicale Bolognetti in sciopero della fame per riforma delle carceri di Luciano Manna lagazzettameridionale.com, 2 febbraio 2018 “Chiediamo la riforma prima delle elezioni del 4 marzo”. Ancora uno sciopero della fame per il radicale lucano Maurizio Bolognetti iniziato il 26 gennaio e giunto oggi al quinto giorno. Si chiede la definitiva approvazione dei decreti delegati di riforma dell’Ordinamento penitenziario prima del 4 marzo, giorno in cui si voterà per le politiche. Bolognetti che è candidato al Senato nella lista Insieme, gioca con le parole quando afferma “c’è chi mangia e chi digiuna perché mosso dalla fame di Stato di Diritto, Diritti e legalità”. “Le istituzione - afferma - devono interrompere la flagranza di reato contro la Costituzione e i diritti umani”. È un fiume in piena Bolognetti: “Il carcere assurge ad emblema di un paese che da troppo tempo ha ridotto la sua carta costituzionale a carta straccia. La Costituzione scritta è stata sostituita dalla Costituzione materiale. Dov’è, mi chiedo, il rispetto dell’ art 27 nel quale si afferma che la pena è finalizzata al recupero del reo? Dov’è il rispetto dell’ art. 111 che parla di ragionevole durata dei processi? L’Italia sul piano tecnico giuridico è uno Stato canaglia che viola la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. L’Italia è un stato canaglia non solo sul fronte dell’amministrazione della giustizia o sul fronte delle carceri, ma anche sul fronte del mancato rispetto delle direttive comunitarie poste a tutela dell’ambiente e della salute. Lo dico anche a voi amici di Taranto che siete assolutamente consapevoli, a seguito della vicenda Ilva, che la strage di diritto e legalità si traduce inevitabilmente in strage di popoli e di vite. Occorre lavorare per rimettere questo paese sul binario dello “stato di diritto” e del rispetto della legalità costituzionale. Si tratta di interrompere la flagranza di reato, per dirla come Marco Pannella, contro i diritti umani e la Costituzione repubblicana. Usiamo questo momento elettorale anche per dare corpo a battaglie che ci appartengo e che spero diventino patrimonio comune. Non si lotta solo quando le battaglie sono “popolari”, si lotta soprattutto quando c’è la necessità di guadagnare anche solo un centimetro di diritto e di legalità in più”. Prato: Polo Universitario Penitenziario, ciclo di seminari per detenuti e personale provincia.fi.it, 2 febbraio 2018 Martedì 6 febbraio lezione inaugurale alla Dogaia Con l’intervento del rettore Luigi Dei. Sarà il rettore dell’Università di Firenze Luigi Dei a inaugurare martedì 6 febbraio, alle 13.30, il ciclo di seminari del Polo Universitario Penitenziario (Pup) presso la Casa circondariale della Dogaia a Prato con un intervento legato al Giorno della Memoria su “Primo Levi fra chimica, letteratura e memoria nella ricorrenza dell’ottantesimo anniversario delle leggi razziali”. Oltre che agli studenti del Pup iscritti ai corsi di laurea dell’Università di Firenze, il ciclo di appuntamenti - dieci in tutto, uno al mese, fino a dicembre - è rivolto ai detenuti della Dogaia e al personale dell’amministrazione penitenziaria. A introdurre l’incontro sarà il direttore della Casa circondariale di Prato, Vincenzo Tedeschi. Prenderanno poi la parola la delegata dell’Università di Firenze per il Polo Universitario Penitenziario della Toscana Maria Grazia Pazienza, il presidente del Corso di Laurea Magistrale in Strategie della comunicazione pubblica e politica Fulvio Conti. Parteciperanno, fra gli altri, il garante regionale dei detenuti Franco Corleone, il presidente del PIN - il consorzio che gestisce le attività universitarie a Prato - Maurizio Fioravanti. Al termine dell’incontro il violinista Gabriele Centorbi eseguirà il “Tema di Schindler’s List” di John Williams. Il Banco Farmaceutico contro la povertà sanitaria, ecco i farmaci più richiesti di Silvia Morosi Corriere della Sera, 2 febbraio 2018 Mohammed, un diabete trascurato, il pericolo di vita e l’amputazione di un alluce. Ma grazie alle medicine donate dal Banco Farmaceutico all’Opera San Francesco - che non si poteva permettere - ora sta bene. In Italia 3.600 volontari. Si chiama povertà sanitaria. E non ha geografia. Riguarda tutte quelle persone che non hanno abbastanza risorse a disposizione per acquistare i farmaci necessari, anche quelli che richiedono una ricetta. Dagli antinfiammatori agli antipiretici, dai prodotti contro tosse e raffreddore fino all’aspirina. O per pagare il ticket, quando c’è. Il senzatetto o la vicina di casa, il lavoratore precario o la famiglia che teme gli venga portato via un figlio, dovendo presentare una dichiarazione di stato patrimoniale. Una nuova emergenza fotografata da anni dalla Fondazione Banco Farmaceutico onlus che, dal 2000, quando un gruppo di giovani farmacisti si rese conto della problematica, organizza ogni secondo sabato di febbraio, in tutta Italia, una giornata di donazione. Migliaia di volontari sono presenti nelle oltre 3.600 farmacie aderenti, e invitano i cittadini ad acquistare medicine senza obbligo di prescrizione per gli Enti assistenziali della propria città. “La Giornata nazionale di raccolta del farmaco quest’anno cade nel 40esimo anniversario della nascita del Sistema Sanitario Nazionale. Come a ricordarci l’importanza del nostro sistema universalistico. Dove lo stato non arriva, il cittadino deve intervenire”, spiega Filippo Ciantia, direttore della Fondazione Banco farmaceutico. Come è successo a Mohammed: un diabete trascurato lo ha ridotto in fin di vita. All’Ospedale San Giuseppe di Milano gli è stato amputato un alluce e comunicato che, per tutta la vita, ogni giorno, avrebbe dovuto prendere farmaci per sopravvivere. Medicine che non si poteva permettere e che, donate dal Banco all’Opera San Francesco, gli garantiranno una vita dignitosa. “Pensavo che il mio unico rimpianto sarebbe stato quello di non poter ricambiare. Adesso faccio volontariato e sogno un giorno, se potrò permettermelo, di essere io a donare almeno uno di quei farmaci che oggi ricevo”, racconta. La sua storia è quella di tutte quelle persone indigenti che, lo scorso anno, per curarsi hanno avuto a disposizione solo 29 centesimi al giorno, pari a 106 euro l’anno (14 euro in meno rispetto al 2016). Con questo appuntamento “vogliamo ricordare che nessuno dovrebbe dover scegliere se curarsi o mangiare, come è costretta a fare oggi una persona su tre”, sottolinea Ciantia. Come mette in luce l’ultima edizione del “Rapporto sulla povertà sanitaria” curato dal Banco, a rinunciare almeno una volta ad acquistare farmaci o ad accedere a visite, terapie o esami è chi ha un titolo di studio basso (40,85 per cento), chi ha più figli (42,1) e chi vive al Sud (50,6). Desistono casalinghe(40,2 per cento), pensionati (39,8) e, in testa, i lavoratori atipici (51,2). A testimoniare l’aumento delle necessità è la richiesta da parte degli enti assistenziali che nel 2017 ha segnato un +9,7 per cento (contro l’8,3 del 2016). Solo nel quinquennio 2013-2017 la domanda è cresciuta del 27,4 per cento, legata all’aumento di poveri assistiti: oltre agli stranieri (+6,3), si rileva l’incremento dei minorenni (+3,2). A crescere sono soprattutto quelli italiani (+4,5 in un anno), mentre quelli stranieri sono cresciuti “solo” dell’1,5. I farmaci più richiesti sono analgesici, antipiretici, antinfiammatori per uso orale, preparati per la tosse, farmaci per uso locale e per dolori articolari. In 17 anni la Giornata ha raccolto oltre 4.500.000 di farmaci, per un controvalore di circa 26 milioni di euro. L’ultima edizione, l’11 febbraio 2017, ha coinvolto 3.851 farmacie e oltre 14 mila volontari; a beneficiare della raccolta (1.331.535 confezioni) sono state 578 mila persone assistite dai 1.721 Enti convenzionati con Banco Farmaceutico. Non solo, i farmaci hanno anche varcato i confini. Nel 2016, su richiesta dell’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa), “abbiamo spedito 65 mila confezioni agli ospedali della Grecia; inviato, in collaborazione con il ministero degli Esteri, 99 mila confezioni in Libia; 109 mila confezioni in Venezuela e 500 chilogrammi di farmaci ad Herat in collaborazione con il ministero della Difesa”, chiarisce Ciantia. In una fase storica tanto complicata, caratterizzata dal persistere degli effetti della crisi, “il Terzo settore ha bisogno di strumenti e competenze sempre più affinati per poter assolvere alla propria vocazione, civile”. C’è ancora molto da fare e le sfide non sono poche. Ma, come sta avvenendo per la lotta allo spreco, i segnali si vedono: “Pensiamo a tutti i farmaci utilizzati dai malati. Quando i nostri cari vengono a mancare, molte medicine ancora preziose restano nelle nostre case. Dobbiamo comunicare che il farmaco ha un valore e può essere donato per curare altri”. In questo, la legge Gadda del 2012, ha dato un enorme contributo, estendendo le agevolazioni previste per chi recupera e dona eccedenze alimentari anche a beni come i prodotti per l’igiene e la cura della persona e della casa, gli integratori alimentari, i presidi medico chirurgici e i prodotti farmaceutici. “La salute è un diritto sancito dalla nostra Costituzione. La Giornata è un’opportunità per costruire un sistema più giusto, e nessuno deve essere escluso”, conclude Ciantia. Razzismo, un piano inclinato sul quale stiamo scivolando di Guido Viale Il Manifesto, 2 febbraio 2018 Dello sterminio di ebrei, rom e sinti erano complici i popoli (i tedeschi insieme a quelli soggiogati). È così anche con gli immigrati. Il razzismo dei governi si è già spinto molto avanti. Il giorno della memoria o, meglio la memoria della Shoah e del Porrajmos, cioè dello sterminio di ebrei, rom e sinti da parte del nazismo, una memoria coltivata tutto l’anno, potrebbe e dovrebbe essere utilizzata come una lente attraverso cui esplorare il nostro presente. Quello che occorre tener presente è la dinamica del razzismo: il suo esito estremo, ma anche i suoi inizi, perché anche la Shoah non è cominciata con le camere a gas ma con il disprezzo - anche l’invidia - del diverso. Della Shoah e del Porrajmos va ricordato e ribadito che il suo fine non era lo sfruttamento del lavoro schiavo a cui adibire le razze ritenute inferiori; uno sfruttamento comunque largamente sviluppato nei tanti campi secondari costruiti accanto ad alcuni di quelli dedicati allo sterminio e a cui erano sottoposti gli uomini e le donne valide prima di essere soppresse. Il fine principale di Shoah e Porrajmos era lo sterminio, il genocidio, la cancellazione dalla faccia della terra di interi popoli. Non è vero che il popolo tedesco non ne sapesse niente; sapeva tutto, anche se non c’erano ancora i mezzi di comunicazione di cui disponiamo noi oggi. Se gli ebrei italiani in “viaggio” verso Auschwitz sapevano quello che li aspettava - e ne abbiamo testimonianza - lo sapevano anche tutti gli altri. E infatti lo scopo fondamentale del genocidio era proprio quello di renderne complice, seppur indirettamente, il popolo tedesco - e poi tutti i popoli dei paesi soggiogati, dove erano stati immediatamente attivati rastrellamenti e deportazioni. Quella complicità, sottaciuta e per lo più nascosta anche a se stessi, era lo strumento fondamentale di “fidelizzazione” delle popolazioni ai regimi che si rendevano responsabili di quei crimini; il sistema più sicuro per garantirsi che, in chi si sentiva ormai, in qualsiasi modo, complice di quell’eccidio, si spegnesse per sempre il desiderio e la volontà di dissociarsene, così come la partecipazione ad un crimine particolarmente efferato è il modo con cui le gang criminali si procurano la fedeltà dei nuovi adepti. Questo meccanismo al tempo stesso militare, culturale e psicologico va tenuto presente quando analizziamo le “deportazioni” e gli eccidi di profughi e migranti che si svolgono oggi sotto i nostri occhi. Chi continua a sostenere che il fine delle sofferenze, delle violenze e del massacro a cui i nostri governi - intendo quello italiano, ma anche e soprattutto quello dell’Unione europea e quelli di tutti i paesi membri - è mettere in condizioni di inferiorità, e poi di schiavismo, una manodopera straniera per poterla sfruttare meglio; o, addirittura, con l’evocazione di un fantasioso “Piano Kalergi” che vede uniti sovranisti e razzisti di destra e di sinistra, sostituire la popolazione europea con una manodopera schiava di origine europea, non tiene conto del fatto che lo sfruttamento della manodopera straniera in condizioni di violenta emarginazione, in Europa ben prima che in Italia, era stato alla base di gran parte dello sviluppo economico del continente ben prima che suonasse l’allarme per una presunta “invasione dei profughi” contro cui oggi l’Unione europea e i governi suoi complici stanno mobilitando una mole crescente di risorse finanziarie, legislative, militari, ma anche sociali e culturali. Lo sfruttamento della manodopera resa “clandestina” dalla legge è un byproduct, un effetto secondario, ancorché gradito e ben utilizzato - senza di esso gran parte dell’agricoltura italiana, e non solo, scomparirebbe - di qualcosa di molto più profondo: il coinvolgimento della popolazione italiana, sia quella consenziente che quella contrariata, in una corsa verso l’affermazione di una propria “identità” e, conseguentemente, di una propria superiorità, da salvaguardare nei confronti di persone e popoli da respingere; cioè in una pratica dalle evidenti connotazioni razziste. Il razzismo è un piano inclinato che inizia con manifestazioni quasi impercettibili nascoste nel linguaggio o in sorrisi e allusioni malevole, apparentemente innocue, ma lungo cui è sempre più facile scivolare, e in modi sempre più accelerati, verso le sue forme più estreme; ma da cui è sempre più difficile risalire per tornare indietro, come hanno dimostrato, prima ancora della Shoah e del Porrajmos, la conquista delle Americhe, il colonialismo e lo schiavismo, il genocidio degli Armeni ed altro ancora. Oggi non c’è più bisogno di ricorrere a pseudo enunciati scientifici di carattere biologico per giustificarlo; basta coltivare un autocompiacimento per la propria miseria spirituale, soprattutto se sostenuto da leggi, norme e regolamenti che condannano l’altro all’emarginazione, all’esclusione e a una povertà peggiore della nostra; poi si potrà anche inveire contro ricchi calciatori di colore negli stadi o ministre di origine africana su Facebook (senza però scandalizzarsi se sceicchi arabi o tycoon cinesi si comprano mezzo paese, perché il razzismo odierno nasce soprattutto dal disprezzo e dalla paura della povertà). Così, passo dopo passo, senza che neppure ce ne accorgiamo, le politiche di respingimento, ma che di criminalizzazione e di disumanizzazione di profughi e migranti messe in atto dai governi (dai governi, e non solo dalle destre; o dai governi perché non fanno che copiare e inseguire le “ricette” delle destre) ci trascinano verso forme di assuefazione, prima, e di più o meno inconsapevole coinvolgimento, poi, da cui poi è sempre più difficile uscire. Perché poco per volta, diventa la “normalità”: quella che Liliana Segre, riferendosi all’epoca del fascismo, delle leggi razziali, delle deportazioni e della Shoah, chiama, mettendola sotto accusa e in primo piano, “indifferenza”. I nostri governi - o alcuni dei loro esponenti - sono perfettamente consapevoli di questo meccanismo: sanno che dai fatti compiuti è sempre più difficile tornare indietro e cambiare rotta; e per questo spingono l’acceleratore in direzione di politiche che, a dir loro, dovrebbero mettere fuori gioco le destre, perché le renderebbero superflue; e che invece le rendono sempre più forti e, alla fine vincenti. Lungo quel piano inclinato siamo già andati, in tutta Europa - ma anche altrove - molto avanti. Basta pensare, da un lato, al linguaggio apertamente razzista ormai sdoganato da una certa parte politica, da TV e giornali e, conseguentemente, al bar; dall’altro alle politiche di respingimento promosse dall’Unione europea e dal nostro governo passando sopra alle più elementari forme di rispetto dei diritti della persona. Quello a cui dobbiamo fare attenzione ora è solo cercare di non superare il punto di non ritorno, che è il punto in cui ciascuno si sente talmente solo e isolato da non ritenere più di poter reagire. Quando si riflette sull’indifferenza che ha accompagnato la persecuzione prima e lo sterminio, dopo degli ebrei durante il fascismo e il nazismo ci si chiede spesso perché di fronte a tanta mostruosità, nessuno, o meglio, ben pochi, abbiano trovato la forza e la capacità di reagire, mentre la maggioranza ha assistito indifferente a quello che succedeva sotto i suoi occhi. La risposta, forse, è che non si trattava, e non si tratta, solo di cinismo, bensì soprattutto di un senso di impotenza che paralizza. Bisognava forse pensarci - e provvedere prima - quando ancora c’era la possibilità di farlo. Prima quando? Gli storici non ce lo sanno dire; o hanno opinioni diverse rispetto alla resistibile ascesa del razzismo che ha accompagnato fin dal nascer fascismo e razzismo. Ma dobbiamo cominciare a chiedercelo noi, rispetto al tempo presente. Per non ritrovarci poi a dire e a pensare che ormai è troppo tardi. Migranti. “La Libia è un inferno senza fine”. L’appello di Oxfam: l’Italia revochi l’accordo di Lucio Luca La Repubblica, 2 febbraio 2018 A un anno dal patto con Tripoli, un rapporto raccoglie testimonianze di morte e torture nel Paese: “Quel patto genera sofferenza e non rispetta la legge internazionale”. L’accordo Italia-Libia sulle migrazioni compie un anno. E un risultato l’ha sicuramente raggiunto: quello di ridurre sensibilmente gli sbarchi. I numeri sono chiari: 62.126 persone in meno, il 34,24 per cento rispetto al 2016, sono riuscite a raggiungere i porti italiani. “Sì, ma a che prezzo?” si chiedono le associazioni Oxfam e Borderline Sicilia che hanno raccolto nel nuovo rapporto Libia, inferno senza fine, testimonianze drammatiche di uomini, donne e minori riusciti a scappare che confermano rapimenti, omicidi, stupri, lavori forzati. Basta ascoltare i racconti di chi ha scampato la morte e ha ancora davanti agli occhi l’orrore di quelle prigioni. Precious, 28 anni, nigeriana, ricorda che quando è arrivata a Tripoli è finita subito in carcere: “C’erano donne e uomini insieme a me. Chiedevano soldi che non avevamo e ci trattavano come rifiuti. Mangiavamo una volta al giorno, un po’ di riso o pasta non cotta e bevevamo l’acqua da taniche che avevano contenuto benzina. Alcune persone sono morte per le malattie e le botte, mentre ero lì. Noi donne venivamo picchiate violentate ogni giorno e solo dopo la violenza ci davano da mangiare”. C’è poi Blessing, 24 anni, anche lei nigeriana: “Dopo il terribile viaggio nel deserto speravo che in Libia la situazione sarebbe stata migliore di quello che avevo vissuto. Pensavo che sarei stata impiegata come domestica in una casa di arabi, come mi era stato detto. Mi hanno invece portata in un centro, dove sono rimasta molti mesi. Mi davano da mangiare un pugno di riso ogni giorno, me lo versavano sulle mani. Vendevano il mio corpo agli uomini arabi e io non potevo sottrarmi. Quando ho provato a farlo sono stata brutalmente picchiata e violentata”. E Francis, 20 anni, gambiano: “Sono stato rapito da una banda criminale. Ci hanno portato in uno stanzone dove eravamo in 300. Sono rimasto lì per 5 mesi. Ogni giorno ci costringevano a lavorare per loro e chi si opponeva, era morto. Le donne venivano picchiate e violentate, i ragazzi tenuti in prigione e venduti come servi a famiglie libiche”. “Le persone con cui abbiamo parlato scappano da guerra, persecuzioni e povertà - spiega Roberto Barbieri, direttore generale di Oxfam Italia - In Libia sono costrette ad affrontare l’ennesimo inferno. I governi europei hanno il dovere di proteggere i diritti umani di tutti, compresi quelli dei migranti. Chi riesce a lasciare la Libia non dovrebbe mai essere riportato indietro. Per questo riteniamo che il sostegno dell’Italia e dell’Ue alla guardia costiera libica sia un ulteriore sfregio. L’accordo con la Libia è un fallimento, che espone centinaia di migliaia di persone a una sofferenza indicibile: ne chiediamo l’immediata revoca”. “Il governo Italiano ha varie volte enfatizzato come l’accordo sia stato firmato principalmente per porre fine alle morti in mare e a viaggi della speranza gestiti dai trafficanti di esseri umani - si legge nel rapporto -. Tuttavia il tasso di mortalità nella rotta del Mediterraneo centrale non è variato significativamente. E oggi la rotta si conferma la più pericolosa al mondo con il 2,38% di vittime nel 2017 (sul numero totale degli sbarchi) a fronte del 2,52% del 2016”. Anche il 2018 non è iniziato bene con 185 morti, pari al 5,1%. E anche in questo caso i numeri sono la foto di una situazione drammatica. Polonia. Carcere per chi parla di complicità con il regime nazista di Monica Perosino La Stampa, 2 febbraio 2018 Il Senato approva la legge che punisce chi si riferisce a “campi di concentramento polacchi”. Israele reagisce e valuta il richiamo dell’ambasciatore: “Così si rischia di negare l’Olocausto”. Come non fosse successo nulla, sordi alle proteste delle vittime dell’Olocausto, dell’opposizione interna, di Israele, dell’Ue e degli Stati Uniti, pochi minuti prima delle due di mercoledì notte, la Camera alta polacca ha approvato con 57 voti favorevoli, 23 contrari e due astenuti la controversa legge sui campi di sterminio che prevede pene fino a tre anni di carcere per chiunque si riferisca ai lager nazisti come campi “polacchi”. Ma il punto che più fa scatenare le reazioni è un altro: diventerà illegale accusare la nazione polacca di collaborazionismo con il regime hitleriano. Ora gli occhi sono tutti puntati sul presidente Duda che dovrà decidere se approvare la legge, bloccarla o imporre modifiche. Il governo polacco non accenna a passi indietro e i legami tra il presidente e il leader del partito al potere, il PiS di Kaczynski, sono molto stretti. Così che Duda potrebbe assecondare i desideri del partito ultraconservatore. “Noi polacchi, siamo stati vittime, come lo erano gli ebrei”, ha detto l’ex premier Beata Szydlo. “È un dovere difendere il buon nome della Polonia”. Ma il “buon nome della Polonia” e la sua reputazione internazionale è precipitata dopo le condanne incrociate degli Stati Uniti, che vedono la legge come una “minaccia alla libertà di parola” e ne chiedono il veto, di Israele che accusa Varsavia di negazionismo e anche del ex premier Donald Tusk e attuale presidente del Consiglio europeo: l’espressione campi polacchi riferita ai lager nazisti “è una spregevole diffamazione” ma la legge approvata dal Senato ha avuto l’effetto boomerang di “promuovere questa vile calunnia in tutto il mondo, efficacemente come nessuno ha mai fatto prima”. Il primo vicepresidente della Commissione Europea Timmermas riporta il dibattito al punto cruciale: “Tutti i Paesi europei occupati da Hitler hanno avuto, oltre ai molti eroi, anche collaborazionisti”. I colloqui diplomatici delle ultime 72 ore hanno portato a un nulla di fatto, e l’ira di Israele contro la legge non si placa: “Non lasceremo che la decisione del Senato polacco passi senza reazioni. L’antisemitismo polacco ha alimentato l’Olocausto” ha detto il ministro Yoav Gallant. Mentre il premier Benjamin Netanyahu, potrebbe richiamare l’ambasciatore israeliano in Polonia per consultazioni, come chiesto da più parti. In Israele il dibattito era scoppiato già nel fine settimana, dopo il primo via libera alla Camera polacca: “La nostra posizione è che il testo deve essere cambiato”, aveva affermato Netanyahu, chiarendo che “non abbiamo tolleranza per la distorsione della verità e la riscrittura della storia o la negazione dell’Olocausto”. Fonti diplomatiche di Varsavia sono al lavoro per tentare di contenere i danni, ma non nascondono la sorpresa: “La legge è stata studiata ed emendata con l’aiuto di autorità ed esperti israeliani. E nella maniera più assoluta non protegge i criminali, e non limita le discussioni pubbliche su i casi di pogrom contro gli ebrei, verificati in tutta l’Europa occupata, inclusa la Polonia. A questi crimini hanno partecipato anche i polacchi”. Turchia. Kilic è stato di nuovo arrestato. Amnesty “Parodia della giustizia” Il Manifesto, 2 febbraio 2018 “Una parodia”. È la definizione di Amnesty della kafkiana situazione di Taner Kilic, presidente dell’associazione turca scarcerato ieri dopo otto mesi di prigione e poi, nella notte, nuovamente condotto in carcere per un altro mandato di arresto, come se notte tempo il tribunale di giustizia turco avesse cambiato idea. Cose che succedono nella Turchia di Erdogan, pronto ad arrivare in Italia tra mille polemiche; Kilic era accusato di legami con il nemico numero uno del Sultano Erdogan, ovvero l’organizzazione dell’imam Fetullah Gülen che secondo le autorità turche sarebbe stata l’ispiratrice del fallito golpe del 2016. Kilic solo in un secondo tempo ha visto il proprio fascicolo accostato a quello di altri dieci imputati, accusati di associazione terroristica per un meeting organizzato da Amnesty ad Istanbul. Kilic era stato liberato ieri dopo otto mesi di carcere. Amnesty International ha dichiarato che la decisione di arrestarlo di nuovo, poche ore dopo un provvedimento di rilascio, deve essere immediatamente annullata e Taner Kiliç deve essere rimesso in libertà. “Nelle ultime 24 ore abbiamo assistito a una parodia della giustizia di proporzioni epiche. Ottenere il rilascio solo per vedersi spietatamente chiudere in faccia la porta della libertà è devastante per Taner, la sua famiglia e per tutti quelli che in Turchia sono dalla parte della giustizia”, ha detto il segretario generale di Amnesty International, Salil Shetty.