Penalisti in sciopero per salvare la riforma dell’Ordinamento penitenziario di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 febbraio 2018 I penalisti hanno deciso di mobilitarsi per la mancata approvazione della riforma dell’ordinamento penitenziario. L’Unione delle Camere penali italiane ha preso atto che il provvedimento adottato dal Consiglio dei ministri ha rinviato la possibile entrata in vigore della riforma penitenziaria, facendo di fatto prevalere timori in tema di consenso elettorale rispetto alla concreta realizzazione delle condivise scelte valoriali. I penalisti italiani hanno osservato che occorre dare ulteriore appoggio e solidarietà alla lunga e civile protesta dell’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini, che dopo 32 giorni dello sciopero della fame ha interrotto il digiuno per continuare l’azione non violenta tramite lo sciopero del voto, e di oltre 10.000 detenuti con l’astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria per i giorni 13 e 14 marzo, nonché una giornata di mobilitazione nazionale per sollecitare la fissazione del consiglio dei ministri e l’approvazione immediata della riforma. Nell’ultima delibera del 23 febbraio, l’Ucpi ha sottolineato che “il principio costituzionale volto alla rieducazione ed al reinserimento sociale rischia senza l’approvazione della riforma - di restare “inattuato” e di deludere le aspettative di tanti detenuti, le unanime richieste dell’Avvocatura, dei Garanti dei diritti dei detenuti e delle associazioni, nonché le sollecitazioni e le iniziative del Partito Radicale nonviolento Transpartito Transnazionale, e di gran parte del mondo accademico e giudiziario”. L’iniziativa è stata condivisa anche dal Consiglio nazionale forense che, con una nota firmata dal presidente Andrea Mascherin, ha espresso il suo pieno sostegno. Ieri, presso la sede dell’Unione Camere penali, si è svolta una conferenza stampa per spiegare le ragioni della mobilitazione. Come ha spiegato il presidente dell’Unione delle Camere penali italiane Beniamino Migliucci, durante la conferenza stampa di ieri: “Si è persa una grande occasione per approvare la riforma, almeno la prima parte importante del decreto che punta alle pene alternative e all’eliminazione degli automatismi e preclusioni nei confronti di alcuni reati ostativi. Eppure - secondo il presidente dei penalisti - c’è stato un segnale di forte sostegno che ha avuto come protagonisti più di 300 personalità tra giuristi, intellettuali e magistrati”. Migliucci ha ricordato, quando, assieme a Rita Bernardini, avevano chiesto lo stralcio della riforma dell’ordinamento penitenziario, perché “a differenza della riforma della procedura penale, non era divisivo e in quel modo ci sarebbe stata una rapida approvazione senza arrivare alla fine della legislatura”. Migliucci ha osservato che le istituzioni tradiscono i loro cittadini non portando a termine una delega votata dal parlamento. Sempre il presidente delle Camere penali ha denunciato che le criticità in carcere ancora persistono, il numero dei detenuti è in continuo aumento e “l’unica proposta proveniente da alcuni partiti è quella della costruzione di nuove carceri”. Migliucci, sempre a proposito delle criticità carcerarie, ha ringraziato il direttore Piero Sansonetti per la denuncia fatta da Il Dubbio del caso del detenuto 58enne Angelo di Marco, morto dopo aver vomitato sangue nel carcere di Rebibbia. Pessimistica la chiosa del presidente dei penalisti: “A questo punto dobbiamo ritenere che la prima parte importante della riforma sia in un binario morto”. Migliucci ha concluso: “Ci auguriamo che questa nostra presa di posizione porti ad una seria riflessione. La coerenza deve essere un valore assoluto, se per anni si sostiene pubblicamente un percorso alla fine dovrebbe essere approvato”. Il decreto principale è, appunto, la prima parte già licenziata, a dicembre, in via preliminare dal Consiglio dei ministri e già sottoposta ai pareri non vincolanti delle due commissioni giustizia del Parlamento. Il 22 febbraio il Cdm avrebbe dovuto approvarlo - magari senza accogliere le osservazioni demolitrici del Senato come ha anche ribadito ieri Migliucci -, per poi rimandare le motivazioni nuovamente alle commissioni che, tempo 10 giorni, avrebbero dovuto rinviare il testo per il via libera definitivo del governo. Invece, quel giorno, il Consiglio dei ministri ha licenziato preliminarmente tre decreti attuativi che dovranno essere poi sottoposti alle due commissioni. Un iter lunghissimo che è destinato ad interrompersi quando il 23 marzo si dovrebbe insediare un nuovo governo. In conferenza è intervenuta anche l’esponente radicale Rita Bernardini: “È sotto gli occhi di chi vuole vedere che noi del Partito Radicale, assieme all’Unione delle camere penali e alle associazioni come Antigone, abbiamo seguito passo dopo passo questa riforma che è partita da lontano, esattamente dal 2015 con gli Stati generali dell’esecuzione penale”. La Bernardini ha ricordato che il Partito Radicale aveva chiesto un provvedimento di amnistia, unito all’indulto, per ridurre la popolazione detenuta e intanto far vivere meglio quelli che vi sono ristretti. “Il ministro Orlando ci aveva invece risposto - spiega l’esponente radicale - che avrebbero scelto un’altra via, ovvero quella delle riforme. Ma questa via come si è rivelata?”. Rita Bernardini ha raccontato che i segnali - quelli che facevano presagire la mancata attuazione della riforma c’erano stati tutti. A partire delle continue promesse, come quando lo stesso Guardasigilli disse che avrebbe fatto approvare la riforma senza alcun spacchettamento, in maniera tale da non arrivare a fine legislatura, perché poi sarebbe stato problematico. Infine, sempre la Bernardini, denuncia un aspetto “singolare” dell’informazione: “I Tg nazionali fecero passare la notizia dell’approvazione della riforma, tanto da ingannare i detenuti che dal carcere hanno esultato”. In conferenza è intervenuto anche Piero Sansonetti che ha denunciato l’incapacità della stampa di informare e della politica di opporsi alle istanze populiste. Poi è stata la volta del presidente di Antigone Patrizio Gonnella. “Non siamo noi ad avere perso, perché assieme alle associazioni e esponenti politici come Rita Bernardini - spiega Gonnella, continuiamo a lottare come abbiamo sempre fatto. Sappiamo però chi ha vinto, in particolare il sindacato autonomo della polizia penitenziaria il quale non si rende conto che, un giorno, gli stessi agenti penitenziari gli si rivolteranno contro quando non riusciranno più a sopportare la situazione carceraria e andranno in burnout”. Sempre il presidente Gonnella aggiunge che gli altri vincitori sono alcuni magistrati come il procuratore Sebastiano Ardita che si sono opposti soprattutto alla parte del decreto che modifica il 4bis. “Un uomo di prestigio, certo - sottolinea Gonnella, ma è lo stesso che per anni ha lavorato al Dap, quando poi l’Italia ha avuto pesanti condanne per quanto riguarda lo stato di salute delle nostre carceri”. Gonnella ha denunciato un caso che Antigone sta seguendo. Si tratta di un ragazzo di 25 anni, A.L., affetto di una gravissima patologia psichiatrica e che rischia di morire internato nel carcere di Vasto. “Se fosse passata la riforma - conclude amaramente Gonnella, sarebbe anche passata l’equiparazione tra salute mentale e quella fisica che salverebbe questo ragazzo. Ecco la portata della riforma, finora rimasta inevasa: inciderebbe anche sulla sopravvivenza delle persone detenute”. A conclusione della conferenza stampa è intervenuto il presidente della Camera penale di Roma Cesare Placanica, ricordando il caso di Valerio Guerrieri, il 21enne che si suicidò nel carcere romano di Regina Coeli. Il ragazzo non doveva stare in carcere, ma presso una residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems). Detenuti con problemi psichici. Li sbattono in cella per “curarli”: così li uccidono di Piero Sansonetti Il Dubbio, 28 febbraio 2018 Un ragazzino di 21 anni, timido, impaurito, si alza in piedi davanti ai giudici del Tribunale di Roma, e parla con voce un po’ tremante. Dice esattamente così: “Regina Coeli è un caos, io ogni mattina mi sveglio e soffro. Soffro mentalmente, psicologicamente... Guardate, veramente do la mia parola d’onore, di uomo, che se mi mandate a Villa Letizia o a casa mia, io seguo tutte le terapie che mi date, dal Cim al Sert... Io sono convinto di curarmi... perché voglio fare una vita normale, voglio sposarmi, avere dei figli, mi voglio fare una famiglia, voglio andare a lavorare, voglio essere normale... Perché sono un ragazzo”. È il 14 febbraio dell’anno scorso. Il ragazzo si chiama Valerio Guerrieri. Non è mentalmente stabile. Sta male, male. Ha avuto piccoli problemi con la giustizia quando era minorenne, poi quando è diventato maggiorenne lo hanno arrestato per resistenza alla forza pubblica. Il giudice lo ha mandato ai domiciliari ma i carabinieri invece di accompagnarlo a casa lo hanno portato in prigione. Era il settembre del 2016 e il calvario inizia lì. Prosegue con un su e giù tra Regina Coeli e il Rems di Ceccano. Per più di un anno. Il 21 dicembre del 2017 il Pm chiede il carcere. Poche storie, il responsabile di Ceccano dice che sta benissimo e quindi va in carcere. Però il Pm chiede anche la visita di un perito. La visita viene verbalizzata davanti al tribunale il 14 febbraio. Il perito usa parole drammatiche. Dice che non esiste nessuna possibilità di compatibilità tra situazione psichica di Valerio e la prigione. Liberatelo, liberatelo, liberatelo. Dice che le probabilità di suicidio sono altissime. Ed è proprio dopo la relazione del perito che Valerio pronuncia quel discorso breve e commovente. Quel giuramento di disciplina. “Fatemi uscire... do la mia parola…”. Il tribunale decide che Valerio non può stare in cella, deve andare in una struttura adatta. Ma la struttura non c’è. Valerio allora viene portato di nuovo a Regina Coeli. Per lui è il ritorno all’inferno. Non ce la fa, non ce la può fare. Passano dieci giorni. Di incubo. Il 23 febbraio scrive alla mamma: “Sto male, non posso comprarmi neanche un pacco di biscotti. Mà, ti voglio bene. Ti aspetto qui”. La mattina del 24 febbraio non ha più voglia di aspettare: prende un lenzuolo, va in bagno, si impicca. Questa storia l’abbiamo già raccontata sul Dubbio l’anno scorso. Ieri è stata denunciata dal Presidente della camera penale di Roma, Cesare Placanica, durante una conferenza stampa nella quale i penalisti hanno annunciato lo sciopero per chiedere l’approvazione della riforma carceraria. E Placanica ha letto la trascrizione del discorso di Valerio, che francamente farebbe commuovere anche un cuore di piombo e ghiaccio. Pochi minuti prima che parlasse Placanica, aveva parlato Patrizio Gonnella, che è il presidente di Antigone. Il quale ha raccontato una storia molto simile a quella di Valerio, ma ancora in corso. Per fortuna. Quella di Alessandro Cassoni, 24 anni, anche lui con problemi psichiatrici gravissimi, prigioniero a Vasto. Anche per Alessandro il perito è stato drastico: sta male, non può rimanere in carcere è a fortissimo rischio suicidario. È malato di epilessia e di una forma molto forte di schizofrenia paranoide. Il magistrato di sorveglianza lo scorso 7 dicembre aveva preso atto della assoluta incompatibilità del ragazzo con il regime carcerario. Dal 7 dicembre sono passati quasi tre mesi: Alessandro è lì. In cella. La mamma ha scritto una denuncia che ha consegnato al tribunale di Chieti. La denuncia è un racconto dettagliatissimo della vicenda. Scrive la mamma di Alessandro: “Sono una madre che non giustifica le colpe di suo figlio. Non rivendico qualche privilegio. Vorrei che fossero rispettati i diritti di mio figlio e di ogni essere umano contro gli abusi di chi ha il dovere di salvaguardare la vita di persone fragili perché gravemente malate e perché detenute”. Alessandro oggi è ancora nel carcere di Vasto. È ancora vivo. Adesso lasciamo stare tutte le polemiche, va bene. Però qualcuno si muova. Alessandro va liberato subito, e bisogna curarlo, perché lo Stato dico lo Stato - ha il dovere e non l’opzione di salvare, se può, la vita dei suoi cittadini. Valerio fu sequestrato illegalmente dallo Stato e spinto alla morte. Così stanno le cose, è inutile fare giri di parole. Per Alessandro la situazione è identica. Ieri le Camere penali hanno annunciato lo sciopero del 13 e del 14 marzo in sostegno della riforma carceraria. La riforma forse aiuterebbe ad evitare queste tragedie. Nei giorni scorsi la riforma ha ottenuto parecchi sostegni. Quello del Consiglio nazionale forense, quello di molti giuristi, di alcuni magistrati, e di alcuni intellettuali. La riforma è molto importante, perché tende a ripristinare una situazione di legalità nelle carceri. Certo, non è una riforma che porta voti, e naturalmente è sotto il tiro politico dei partiti e dei giornali del fronte populista. Si capisce che le forze moderate che la sostengono siano un po’ intimorite. Però è necessario che si scuotano, e trovino il coraggio di agire. Deve trovare questo coraggio soprattutto il governo, che invece ha dato nei giorni scorsi la sensazione di avere ceduto alle pressioni del fronte reazionario. E deve trovarlo almeno un pezzo dell’intellettualità italiana. Possibile che il paese di Sciascia, di Calvino, di Pasolini, di Umberto Eco, di Rodotà, di Furio Colombo, sia diventato un luogo dove l’intellettualità riesce solo a chiedere ordine e punizione? Possibile che le vicende di Alessandro, che è vivo, e di Valerio, che è morto solo come un cane appeso a un cappio, non facciano fremere nessuno? Io non ci credo. Elezioni. Le cinque proposte di Antigone per un sistema più garantista Ristretti Orizzonti, 28 febbraio 2018 A pochi giorni dalle elezioni politiche Antigone presenta un documento di cinque punti, di immediata possibile attuazione, che devono costituire una priorità della prossima legislatura. Questi cinque punti riguardano la legalizzazione della cannabis e la decriminalizzazione dei consumatori, l'abrogazione del reato di immigrazione irregolare, i numeri identificativi per le forze dell'ordine, la riforma del regime dell'isolamento penitenziario e la riforma dell'istituto delle pene accessorie e il riconoscimento del diritto di voto. “L’elenco dei reati - sottolinea Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - andrebbe oggi ripensato sulla base di un serio principio di offensività. Andrebbero previste pene non detentive, togliendo al carcere la sua attuale centralità e riservandolo alla sola prevenzione e punizione di quei comportamenti capaci davvero di arrecare gravi danni ai diritti fondamentali della persona e alla convivenza sociale”. “I cinque punti sopra elencati - prosegue il presidente di Antigone - rappresentano un intervento da poter fare nell'immediato, tuttavia un impegno importante dovrà essere garantito per approvare la riforma dell'ordinamento penitenziario, che migliorerebbe aspetti essenziali della vita carceraria e che ad oggi è saltata. Inoltre - conclude Gonnella - dovranno essere ripresi i temi che da questa riforma sono stati esclusi, tra cui il diritto a una vita sessuale per i detenuti, il superamento delle misure di sicurezza detentive e un ordinamento penitenziario specifico per gli istituti di pena minorili”. Il documento nei giorni scorsi è stato inviato ai candidati affinché lo sottoscrivessero. Tra coloro che lo hanno fatto, ad oggi, si contano quattro candidati del Partito Democratico (Gennaro Migliore, Giulia Narduolo, Anna Rossomando, Silvana Cremaschi), Riccardo Magi di Più Europa con Emma Bonino, dieci candidati di Liberi e Uguali (Loredana De Petris, Celeste Costantino, Giulio Marcon, Daniele Farina, Costantino Sacchetto, Antonio Rotelli, Nicola Fratoianni, Filippo Fossati, Erasmo Palazzolo, Giorgio Airaudo), tutti i candidati di Potere al Popolo e cinque candidati del M5S (Alfonso Bonafede, Donatella Agostinelli, Francesca Businarolo, Andrea Colletti, Vittorio Ferraresi) che tuttavia hanno deciso di aderire solo ai punti relativi alla legalizzazione della cannabis, all'abrogazione del reato di immigrazione irregolare e ai numeri identificativi per le forze dell'ordine. L'elenco delle adesioni è in costante aggiornamento. Albamonte (Anm): “pm e giornalisti, ora basta con le notizie a mercato nero” di Giulia Merlo Il Dubbio, 28 febbraio 2018 L’allarme del presidente dell’Associazione nazionale magistrati: “C’è il rischio di effetti distorsivi e di cortocircuiti nell’informazione giudiziaria”. Lo ha definito “il mercato nero delle fonti”, il presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Eugenio Albamonte. Un “mercato nero” in cui “l’informazione è costretta a stabilire un rapporto preferenziale con una o con l’altra parte del processo per avere notizie e documenti” è sintomo di un giornalismo che “potrebbe essere forzato verso una posizione piuttosto che sull’altra, mentre deve essere neutrale”. Mai il sindacato delle toghe si era espresso in maniera tanto esplicita, prendendo posizione nella battaglia contro la spettacolarizzazione delle inchieste anche a spregio dei limiti di legge, che da tempo viene portata avanti anche dall’avvocatura. “Con il giornalismo spettacolo c’è il rischio di effetti distorsivi e di cortocircuiti nell’informazione giudiziaria”, ha continuato il leader di Anm, che ha parlato davanti a una platea più che interessata: i giornalisti che hanno preso parte al seminario sulla libertà di stampa, organizzato dall’Associazione Stampa Romana. Il magistrato ha poi evidenziato i rischi della mediatizzazione dei processi nei talk show: “può provocare effetti distorsivi, producendo un’opinione sfalsata rispetto al procedimento giudiziario in corso”. Albamonte non ha risparmiato critiche a un giornalismo “borderline”, dove “si fa credere di fare informazione e invece si fa intrattenimento, che è cosa ben diversa dal giornalismo “orientato”, che invece fa parte della tradizione italiana”. E, siccome la giustizia non deve essere in alcun modo confondibile con l’intrattenimento, la cronaca giudiziaria avrebbe bisogno di un maggiore approfondimento. Sul fronte della magistratura, il leader di Anm ha rilevato come serva una “migliore comunicazione” tra toghe e giornalisti, perché la distorsione delle notizie nasce da una mancata comprensione: “La giustizia italiana si dovrebbe dotare di uffici stampa, composti da professionisti dell’informazione e da magistrati, per diramare note esplicative sulle decisioni adottate e far capire il percorso seguito nel processo”. E, a prescindere da questo intervento sugli uffici, “i magistrati devono lavorare sul linguaggio da utilizzare nei loro atti, che non deve essere criptico”. Capitolo dolente in materia di giustizia, Albamonte ha affrontato anche la questione delle intercettazioni, riconoscendo alla riforma Orlando di essersi mossa nella giusta direzione: “Le intercettazioni strumenti molto forti sia dal punto di vista dell’indagine giudiziaria sia dal punto di vista dell’informazione all’opinione pubblica. Negli anni abbiamo assistito al tentativo di ridurre le intercettazioni o la loro pubblicazione, ora la legge cerca di raggiungere un punto di equilibrio”. Infine, il presidente dell’Anm non ha risparmiato un’ulteriore critica alla stampa italiana: la mancanza di vero giornalismo d’inchiesta. “Siamo un Paese con una forte tradizione e una volta i capi delle Procure avevano fin troppi articoli di giornale sulla loro scrivania, oggi è il contrario”. Forse anche questo un effetto del rapporto privilegiato della stampa con una sola parte del processo, rinunciando alla neutralità e dunque all’autonoma ricerca di notizie. L’intervento si è chiuso con un monito, rivolto non solo ai giornalisti: “L’informazione sulla giustizia è una scelta strategica: è indispensabile per la giustizia e per spiegarne le dinamiche ai cittadini”. Ecco il piano contro la giustizia-lumaca: niente Appello se assolti in Primo Grado di Anna Maria Greco Il Giornale, 28 febbraio 2018 Il centrodestra modificherà le norme su legittima difesa e intercettazioni. Cavallo di battaglia in passato delle campagne elettorali berlusconiane la giustizia, stavolta, rimane un po' in sordina. Emerge soprattutto legata ai temi forti di questa stagione, dall'immigrazione alla sicurezza, che per il centrodestra sono legati. Infatti, nel programma firmato dai leader della coalizione e anche nelle loro dichiarazioni, l'attenzione è puntata sulla legittima difesa, per cancellare il concetto di “eccesso colposo”, sul modello americano. Il centrodestra vuole una riforma della legge approvata dalla Camera a maggio, definita “ridicola” da Silvio Berlusconi, mentre Matteo Salvini ha minacciato già un referendum abrogativo e Giorgia Meloni ha proposto un condono di pena per chi è stato condannato, ad esempio, per aver sparato ad un rapinatore. Sul fronte immigrati, poi, c'è l'impegno per la detenzione nei Paesi d'origine, con accordi bilaterali e per ridurre i 4 gradi di giudizio per lo status di rifugiato. “Oggi l'iter - spiega Elisabetta Alberti Casellati, ex sottosegretario alla Giustizia, che ha appena lasciato il Csm per candidarsi in Veneto - dura oltre 2 anni e non 3-6 mesi come negli altri Paesi, col risultato che molti fanno perdere le tracce e sono pesanti i costi per la collettività. Se si riducesse al solo grado amministrativo, poi, ci sarebbe un grande effetto deflattivo sul lavoro di tribunali e corti d'appello, oberati dai ricorsi”. E qui siamo alla questione centrale della riforma proposta dal centrodestra, quella per riportare i tempi dei processi nella media europea, smaltire con un piano straordinario le cause arretrate, dare certezza alla pena ed efficienza alla macchina giudiziaria. Di questo, Silvio Berlusconi ha parlato proprio ieri. “I principi del giusto processo e del garantismo sono nel dna di Forza Italia”, ricorda l'azzurro Francesco Paolo Sisto. Tempi più brevi della giustizia avrebbero un forte riflesso sull'economia, perché i 4 milioni di cause civili arretrate (oltre ai più di 3 milioni penali), allontanano dall'Italia molti investitori, anche stranieri. “E, per uno studio della Cgia di Mestre, costano ai cittadini 16 miliardi di euro annui”, spiega la Casellati, protagonista dello spot tv di Fi sul programma giustizia. Il Cavaliere ha anche annunciato più volte un altro intervento che ridurrebbe il lavoro dei magistrati: l'inappellabilità delle assoluzioni in primo grado. La legge Pecorella del 2006 su questo principio fu bocciata dalla Cassazione. “Ma dopo la riforma Orlando - spiega Sisto -, che rivede il sistema delle impugnazioni si può formulare diversamente”. La separazione delle carriere tra pm e giudici rimane una delle battaglie storiche che il centrodestra ha nel suo programma, Berlusconi l'ha ricordato ieri. Poi si vuole intervenire sulla nuova disciplina delle intercettazioni, sulla prescrizione, sulla custodia preventiva, sul risarcimento agli innocenti incarcerati, sul piano carceri, sul diritto alla difesa e sull'esclusione dagli sconti di pena di chi ha commesso reati di particolare efferatezza. Contro le “porte girevoli” tra politica e magistratura Pierantonio Zanettin, ex parlamentare, laico di Fi al Csm oggi candidato, dal 2001 ingaggia una guerra quasi personale. Il disegno di legge, firmato con l'ex Guardasigilli Nitto Palma per impedire che giudici e pm facciano politica e poi tornino alla toga, fu approvato al Senato a larghissima maggioranza, poi modificato alla Camera e arenatosi là. “Recentemente il Csm ha approvato una risoluzione - dice Zanettin, invitando il parlamento ad intervenire ponendo dei limiti. Se sarò eletto per prima cosa riproporrò il mio ddl”. La presunzione del sospetto che condanna gli innocenti di Giovanni Verde Il mattino, 28 febbraio 2018 Ma siamo davvero così brutti e cattivi? Questa domanda mi assilla e mi inquieta oramai da troppo tempo. E quando ho letto sui giornali dell'inchiesta di Fanpage e quando ho visto e sentito alla televisione i discorsi nei quali era protagonista un sedicente avvocato che trattava di un'azienda regionale creata per lo smaltimento di rifiuti tossici come di una cosa sua non ho resistito, ho cambiato canale. Intendiamoci, penso che da quella inchiesta non emergano fatti di corruzione da perseguire. Piuttosto ci sono reati commessi da coloro che hanno agito da provocatori. E mi chiedo, per il mio (lo confesso) viscerale garantismo, se non fosse stato il caso di sequestrare il materiale per cercare di impedirne la diffusione. Tuttavia è inutile negarlo: dall'inchiesta viene fuori lo spaccato di una società affetta da condannabile familismo e da una inquietante propensione ad utilizzare la cosa pubblica per conseguire vantaggi personali in una filiera tra corrotti e corruttori che potenzialmente si ingrossa all'infinito. E ciò in diretta proporzione con l'incremento della burocrazia che dovrebbe servire al contrasto e che tende a trasformarsi in terreno fertile per pratiche corruttive. Dobbiamo prenderne atto: se nonio siamo per davvero, è tuttavia da presumere che siamo brutti e cattivi. La presunzione condiziona pesantemente le indagini dei pubblici ministeri che sono inevitabilmente inquinate dal sospetto. Ma possiamo fame loro una colpa? La vicenda del senatore Lorenzo Diana è emblematica. Era un modello della lotta alla camorra e per la lotta che conduceva aveva avuto minacce. Per Saviano era “uno dei rari uomini che sa che combattere il potere della camorra comporta una pazienza certosina”. De Magistris gli aveva dato la sua fiducia affidandogli un incarico di responsabilità nel Caan (un consorzio napoletano). Era di quei politici che non si limitano ai proclami e che aveva deciso di “sporcarsi le mani”, adoperandosi per portare il metano nelle case dove alligna la patria dei casalesi (il che di per sé costituiva una sfida, essendo difficile operare correttamente dove l'imprenditoria è sotto il controllo della criminalità). Agiva a rischio in una zona nella quale è esaltata l'ambivalenza di ogni azione umana. Aveva agito nell'interesse delle popolazioni dei suoi luoghi di origine e quindi perseguendo finalità altamente sociali ovvero aveva sfruttato l'occasione dell'opera pubblica per bieche finalità personali, favorendo, pur di conseguirle, imprese di stampo camorristico? Il rischio era evidente, perché, se avesse operato in modo da impedire alla camorra di impossessarsi dell'affare, era da prevedere una sua delegittimazione attraverso le informazioni dei pentiti più o meno costruite ad arte. Diana si adoperò perché la concessione per la realizzazione del metanodotto fosse affidata ad un'impresa lontana. Si scelse una cooperativa rossa, il consorzio modenese Cpl Concordia. Anche qui si è scontata l'ambivalenza delle nostre azioni: quella scelta fu dettata dalla necessità di individuare un'impresa lontana e del tutto affidabile ovvero avvenne in ragione di contiguità ideologiche e dopo avere accertato la disponibilità dell'impresa ad appaltare i lavori ad imprese locali collegate alla camorra? Diana e la Cpl Concordia hanno operato in un campo minato. Puntualmente sono venute fuori dichiarazioni di pentiti e di (postumi) collaboratori di giustizia e sono comparsi indizi più o meno significanti. Possiamo muovere rimproveri ai pubblici ministeri se hanno iniziato ad indagare e se, dando corpo al sospetto che purtroppo pregiudica tutti noi, hanno costruito l'ipotesi accusatoria per la quale Diana avrebbe favorito un patto criminale tra la Cpl e le imprese controllate dalla camorra? Lo possiamo fare per di più in un sistema che vuole che l'azione penale sia obbligatoria? Si è avviato l'inevitabile pro cesso penale con il codicillo di misure cautelari preventive, che hanno coinvolto i vertici della cooperativa. Intorno a Diana si è fatto il vuoto. Saviano, che lo aveva elogiato nei suoi libri, ha tenuto un prudente silenzio; de Magistris si è affrettato a revocargli l'incarico; i compagni della sua avventura politica hanno preso le distanze. Tutto è iniziato nel luglio del 2015. Qualche mese fa una prima sentenza ha assolto gli amministratori della cooperativa e ha condannato alcuni degli imprenditori locali, riconoscendo che la Cooperativa aveva agito correttamente o che, comunque, non aveva commesso delitti. La posizione di Diana fu stralciata ed è stata definita oggi in primo grado (siamo al 2018). I giudici hanno evidentemente sciolto l'alternativa (attività di utilità pubblica o di bieco interesse privato), escludendo che Diana abbia agito a fini personali. Egli trova nella sentenza di oggi conferma delle considerazioni che aveva amaramente fatte durante il processo: “L'indagato diventa mostro senza difesa. I giornali sono megafoni dell'accusa, che diventa l'unica presenza sui media”. Non sappiamo quale sarà l'esito finale della vicenda. Se sarà proposto appello, la vicenda si trascinerà per molti anni ancora e, qualunque sarà la sua conclusione, si risolverà in una sconfitta per la giustizia, quella con la “G” maiuscola. Per ora resta l'immagine di un Paese brutto e cattivo più di quanto probabilmente sia per davvero. Resta il calvario di chi quel processo ha subito e continua a subirlo per tempi insopportabilmente lunghi. Resta, come non mi stanco di sottolineare, la disaffezione per l'esercizio di funzioni pubbliche e la fuga di chi, per competenza e per onestà di vita, potrebbe dare molto al Paese. E restano (come sorprenderci di tutto ciò?) i cocci di un sistema di convivenza civile in frantumi, quale impietosamente le cronache di questi giorni con riguardo alla campagna elettorale in atto mettono in risalto; una campagna nella quale i sentimenti prevalenti sembrano essere quelli dell'odio e dell'invidia degli universo gli altri. L'esperienza dell'ex senatore Lorenzo Diana si aggiunge alle tante vissute da altri. La stessa è come un film che si ripete all'infinito, per cui è lecito chiedersi se tutto ciò sia ineluttabile e se sia impossibile fare qualcosa per evitare il pericolo dell'imbarbarimento; qualcosa, in definitiva, che sia tale da farci apparire meno brutti e meno cattivi. Io, forse da illuso, continuo a sperare. Continuazione, più limiti allo sconto per l’abbreviato di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 28 febbraio 2018 La riduzione di un terzo della pena scatta solo per i reati giudicati con rito abbreviato. Anche quando questi sono in continuazione con altri delitti giudicati invece con rito ordinario. Lo hanno chiarito le Sezioni unite penali della cassazione con l’informazione provvisoria resa al termine dell’udienza del 22 febbraio scorso, con la quale è stato risolto un contrasto tra le Sezioni semplici della stessa Corte. In attesa delle motivazioni, la Cassazione ha evidentemente privilegiato la linea in base alla quale la conservazione dell’incentivo allo sconto di pena per il rito premiale scatta solo in relazione a quei reati per i quali l’imputato ha scelto di essere giudicato allo stato degli atti. Sarebbe infatti ingiustificata la concessione del beneficio sul trattamento sanzionatorio quando l’imputato ha scelto di non fare ricorso al procedimento a prova ridotta. La questione era comunque di notevole rilevanza, in una vicenda di criminalità organizzata, con una differenza, in aumento o diminuzione, a seconda della scelta che le Sezioni unite avrebbero fatto di quasi una decina di anni. Secondo l’orientamento, invece, che è stato respinto dalla Corte, bisognerebbe distinguere a seconda del rito con il quale è stato giudicato il reato più grave. In caso di rito ordinario, lo sconto di pena dell’abbreviato si applicherebbe ai soli reati satellite; se però il rito è stato quello speciale, allora la forza di attrazione scatterà nei confronti di tutti gli altri delitti “secondari”, a prescindere dal fatto che le sentenze che li hanno accertati siano state emesse con rito ordinario o abbreviato. In questa prospettiva, i reati giudicati con rito ordinario diventerebbero, per effetto del cumulo con quello più grave accertato con l’abbreviato, oggetto del rito speciale, anche se nei limiti della sola determinazione della pena. Un orientamento però che, sottolineava già l’ordinanza di rinvio, non affrontava la questione della necessità di non tradire il fondamento retributivo, con riferimento alla decisione dell’imputato di rinunciare alla difesa in sede di dibattimento, della diminuente del rito abbreviato. Da valutare, alla luce delle motivazioni, sarà poi il perimetro della decisione, se cioè il principio affermato sarà valido solo davanti al giudice dell’esecuzione oppure anche davanti a quello della cognizione. Bancarotta. Per la tenuità non serve ricostruire l’attivo di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 28 febbraio 2018 Corte di cassazione - Sentenza 8997/2018. Non serve una dettagliata ricostruzione dell’attivo per un giudizio sull’applicazione della particolare tenuità del danno da bancarotta. A puntualizzarlo è la Corte di cassazione con la sentenza n. 8997 della Quinta sezione penale depositata ieri. La Corte chiarisce che la valutazione sulla rilevanza della condotta di distrazione deve riguardare la diminuzione che il comportamento del fallito ha provocato alla massa attiva che sarebbe stata disponibile per il riparto, se non si fossero verificati gli illeciti. Non è però necessario che l’entità dell’attivo sia ricostruita integralmente, ma è sufficiente per escludere lo sconto la distrazione di beni di entità considerevole. L’autorità giudiziaria deve tenere conto di una serie di elementi che vanno dalla dimensione dell’impresa al movimento degli affari, all’ammontare dell’attivo e del passivo. Nel caso approdato in Cassazione, la particolare tenuità prevista dalla Legge fallimentare per i fatti di bancarotta era stata esclusa, e la sentenza di ieri ha confermato il giudizio, perché erano state verificate la sparizione di 14mila euro di merce e un’operazione di prelievo dalle casse sociali di 8.000 euro. Coprire la targa auto con nastro adesivo non costa il carcere ma solo una multa di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 28 febbraio 2018 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 27 febbraio 2018 n. 9013. Coprire la targa dell'auto con nastro adesivo non integra il reato previsto dall'articolo 490 Cp (soppressione, distruzione e occultamento di atti veri). Non si rischia, quindi, il carcere, al più una multa. Secondo la sentenza della Cassazione (sentenza n. 9013/18) per quanto la condotta sia censurabile si deve considerare la particolare tenuità del fatto. I fatti - Alla base della sentenza una vicenda in cui un'automobilista aveva completamente nascosto il numero della propria targa con del nastro adesivo per renderla irriconoscibile (ed evidentemente per non prendere multe) e al tempo stesso aveva tentato di impedire a un operatore della polizia municipale di effettuare una fotografia della targa così modificata prima che egli riuscisse a togliere la copertura. La Corte d'appello di Bologna aveva condannato l'automobilista ex articolo 490 cp qualificando giuridicamente la condotta come alterazione della targa e quindi di un “sigillo” pubblico. La pena, pertanto, era congrua e non erano state prospettate ragioni utili a ritenere la possibilità di sostituire la pena detentiva con quella pecuniaria. Contro la sentenza è stato proposto appello in cui è stato eccepito come non fosse stata data una risposta in merito alla richiesta di assoluzione per la particolare tenuità del fatto. I Supremi giudici, invece, hanno accolto la richiesta del cittadino rilevando come “Integra gli estremi del reato di cui all'articolo 490 cp, in relazione agli articoli 477e 488 cp, la condotta di distruzione, soppressione od occultamento di targhe di un autoveicolo poiché queste costituiscono certificazioni amministrative, trattandosi di documenti che attestano l'immatricolazione e l'iscrizione al pubblico registro automobilistico”. Conclusioni - La vicenda quindi ritorna in Appello e i giudici, in diversa composizione, dovranno procedere all'esame della richiesta di assoluzione per particolare tenuità del fatto, anche se la soluzione sembra andare in questo senso vista la motivazione precisa fornita dalla Cassazione. Whistleblowing. Nel penale niente anonimato di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 28 febbraio 2018 Corte di cassazione - Sentenza 9047/2018. L’anomimato del whistleblower è assicurato (e non sempre) in ambito disciplinare. Nel penale, anche alla luce della recentissima legge, valgono le regole ordinarie sul segreto previste dal Codice di procedura penale. Lo chiarisce, in quella che è una delle prime pronunce che tiene conto anche della legge 178/17, la Corte di cassazione, con la sentenza n. 9047 del 2018 della sesta sezione penale depositata ieri. La Corte ha respinto, nell’ambito di un procedimento a carico di un dipendente dell’Agenzia del territorio, indagato per una pluralità di episodi di corruzione, truffa aggravata e falso ideologico, il motivo di ricorso centrato sulla gravità degli indizi, alla base del via libera alle intercettazioni. Gravità che era emersa dopo un esposto interno al Reparto servizi di pubblicità immobiliare della locale Agenzia. La segnalazione era stata effettuata, attraverso il cosiddetto “canale del whistleblowing”, all’ufficio del responsabile per la prevenzione della corruzione, al quale vanno indirizzate le possibili violazioni commesse dai dipendenti dell’Agenzia, realizzando “un sistema che garantisce la riservatezza del segnalante nel senso che il dipendente che utilizza una casella di posta elettronica interna al fine di segnalare eventuali abusi non ha necessità di firmarsi, ma il soggetto effettua la segnalazione attraverso le proprie credenziali ed è quindi individuabile seppure protetto”. La difesa aveva sottolineato però che, in questo modo, erano stati valorizzati, per determinare il quadro dei gravi indizi di reato, elementi tratti da una denuncia anonima e che non doveva essere attribuito alcun peso al fatto che, in seguito, era avvenuta l’identificazione del “denunciante”. Per la Cassazione, la disciplina della pubblica amministrazione (decreto legislativo 165/01), però, conferma la lettura data dai giudici di merito. Infatti, si specifica che l’anonimato di chi effettua la segnalazione è previsto solo in ambito disciplinare, a patto però che la successiva ed eventuale contestazione non si basi esclusivamente sulla segnalazione stessa. Perché, in quest’ultimo caso, l’identità può essere rivelata quando assolutamente necessaria per la difesa dell’accusato. Ne deriva però, osserva ancora la Cassazione, che, in caso di utilizzo della segnalazione in ambito penale, non esiste spazio per l’anonimato. Conclusione ulteriormente corroborata, mette in evidenza la sentenza, dalla legge 179 del 2017 che ha fornito una disciplina organica del whistleblowing, sia nel settore pubblico sia nel settore privato. Nella legge, infatti, “con disciplina più puntuale, coerentemente alla perseguita finalità di apprestare un’efficace tutela del dipendete pubblico che riveli illeciti, è precisato espressamente che, “nell’ambito del procedimento penale, l’identità del segnalante è coperta dal segreto nei modi e nei limiti previsti dall’articolo 329 del Codice penale”. La segnalazione poi, avverte la Cassazione, nello specifico, non ha le caratteristiche di un semplice spunto investigativo, ma rappresenta piuttosto una vera e propria dichiarazione d’accusa, alla quale si sono poi aggiunti gli esiti degli accertamenti compiuti dalla Direzione centrale audit che avevano contribuito a mettere in luce un numero assolutamente eccessivo di visure chieste per uso ufficio in esenzione da pagamento. Monza: la Camera Penale in protesta per la mancata riforma delle carceri di Valentina Rigano mbnews.it, 28 febbraio 2018 Gli avvocati della Camera Penale di Monza, proclamano uno sciopero per i prossimi 13 e 14 marzo, per protestare contro la mancata approvazione della riforma del sistema penitenziario. Lo si apprende da una nota, ricevuta direttamente dalla Camera Penale monzese. “Negli ultimi anni si è lavorato per una riforma strutturale dell’ordinamento penitenziario al fine di superare gli strappi operati in questa materia nei primi anni 90” - si legge - vi era anche la necessità di affrontare le censure mosse all’Italia dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo a seguito della sentenza Torreggiani del 2013, nella quale i Giudici di Strasburgo hanno rilevato la violazione dell’art 3 della convenzione dei diritti dell’uomo ponendosi a carico delle autorità un obbligo positivo di assicurare che ogni prigioniero sia detenuto in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana”. La comunicazione prosegue “in quest’ottica sono stati convocati gli stati Generali dell’Esecuzione penale e, successivamente, istituiti i tavoli per la elaborazione dei decreti attuativi in forza della delega del Parlamento per riformare l’ordinamento penitenziario”. “I decreti, seppur modificati dopo i passaggi alla Camera e al Senato, sono stati depositati in tempo utili per la definitiva approvazione dal Governo. Il Consiglio dei Ministri del 22 febbraio ha, di fatto, vanificato i lavori delle Commissioni ministeriali sul tema. I tempi, fin dall’inizio, parevano strettissimi, ma le dichiarazioni del Premier e del Ministro della Giustizia, che avevano assicurato l’approvazione dei decreti, avevano lasciato qualche speranza”. La nota continua “purtroppo, più che il tempo, ha potuto la campagna elettorale e quella che già appariva come una riforma “minima” rispetto ai lavori delle commissioni, è stata ulteriormente “amputata” dal Cdm che ha limitato il suo esame a soli 3 decreti attuativi - lavoro e volontariato, esecuzione della pena per i minorenni e giustizia ripartiva - tralasciando, invece, la parte centrale della riforma che modificherebbe l’accesso alle misure alternative al carcere con la revisione delle preclusioni”. Secondo la Camera Penale “questa scelta è con tutta evidenza dettata dal timore di subire effetti elettorali negativi per aver adottato provvedimenti su un tema da sempre considerato ‘scomodo’”. Secondo la Camera Penale, “il principio costituzionale volto alla rieducazione e al reinserimento sociali, i dati statistici ministeriali sulla recidiva dimostrano come l’effettiva applicazione delle misure alternative, piuttosto che la indistinta carcerizzazione, costituisce un effettivo incremento della sicurezza di tutti i cittadini” - (dati di cui però altri enti negano la possibile consultabilità) - “rischia così di restare inattuato e di eludere le aspettative dei tanti detenuti che stanno protestando - 10.000 ad oggi, dell’Avvocatura, dei Garanti dei diritti dei detenuti e di gran parte del mondo accademico e giudiziari”. Terni: dal carcere alla manutenzione del verde, borsa lavoro per i detenuti umbria24.it, 28 febbraio 2018 Via al progetto “Osmosi”: “Serve un continuum tra l’interno e l’esterno dell’istituto penitenziario”. Due detenuti del carcere di Terni e un altro affidato ai servizi sociale dell’Ufficio esecuzione penale esterna di Spoleto sono tornati a confrontarsi col mondo oltre le sbarre, grazie ad altrettante borse lavoro promosse dall’associazione “Ora d’aria” nel biennio 2016/2017, realizzate con il contributo 8×1000 della Tavola Valdese. Fuori dal carcere Il progetto “Osmosi - Rompere l’isolamento dal carcere, estendere la solidarietà”, è finalizzato all’inserimento socio-lavorativo di detenuti in stato di detenzione e in misura alternativa. I destinatari sono stati tre uomini: due di loro sono stati inseriti in una cooperativa di tipo B, occupandosi di manutenzione del verde e di raccolta dei rifiuti e l’altro in un’azienda agricola. Come funziona Alle borse lavoro avviate non è seguita l’assunzione ma per i tre detenuti il tirocinio di sei mesi è stato fondamentale per un effettivo reinserimento nel tessuto sociale e per aver avuto la possibilità di stringere legami per future collaborazioni professionali. “Durante l’esperienza maturata nell’ambito delle realtà penitenziarie - spiegano i volontari di Ora d’Aria in una nota - abbiamo constatato l’importanza di rafforzare sempre di più quelle attività capaci di garantire un continuum tra l’interno e l’esterno della realtà carceraria. Tra gli ‘effetti collaterali’ della detenzione la frattura dei legami personali e familiari, la perdita del lavoro, la perdita della casa, il gap complessivo derivante dall’assenza di collegamento con il procedere ed il progredire della realtà sociale ed economica dell’esterno”. Frosinone: una biblioteca (autogestita) nella Rems, “si rafforza il rapporto con il territorio” di Teresa Valiani Redattore Sociale, 28 febbraio 2018 La sala multimediale sarà inaugurata oggi pomeriggio ed è stata realizzata dall’associazione “Oltre l’Occidente” grazie a un bando promosso dal Garante dei diritti dei detenuti del Lazio. Anastasia (Garante): Rems vanno sostenute nella loro vocazione di cura delle persone che vi sono ospitate. Una biblioteca multimediale autogestita per gli ospiti della Rems di Ceccano (Frosinone): è la struttura che sarà inaugurata alle 16 di oggi e che è stata realizzata dall’associazione “Oltre l’Occidente” grazie a un bando promosso dal Garante dei diritti dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasìa. La residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza, struttura riabilitativa per malati psichiatrici che ha preso il posto degli ospedali psichiatrici giudiziari, vede attiva da un anno la collaborazione dell’associazione con corsi di rialfabetizzazione e di lingua italiana, con l’obiettivo di rilasciare un attestato di livello base per i residenti stranieri. Mentre nella stessa struttura è stata approntata una piccola libreria, a cui è seguito un corso informatico di catalogazione. “La restrizione e l’isolamento dell’individuo non contribuiscono a mantenere relazioni o a costruire percorsi duraturi - spiegano i responsabili dell’associazione. Velocemente si smarrisce la percezione di appartenere ad una comunità e sviluppare legami relazionali significativi. L’impossibilità di riuscire a chiedere aiuto rischia di tradursi in una prolungata situazione di disagio che cronicizza le problematiche sociali, relazionali, culturali ed economiche. In questo scenario il ruolo della società civile nella promozione dell’inclusione sociale va valorizzato attraverso un’azione congiunta con le istituzioni pubbliche e con le strutture informali e associative che parallelamente promuovono la partecipazione attiva e responsabile di tutti i soggetti anche quelli più deboli”. L’associazione “Oltre l’Occidente” opera da anni nel mondo delle disabilità favorendo iniziative pubbliche con i centri di salute mentale del territorio e ospitando presso la propria sede attività di reinserimento sociale e lavorativo. Nel 2017 l’avvio della collaborazione con la Rems di Ceccano e la partecipazione al bando promosso dal Garante dei detenuti della Regione Lazio “per migliorare la qualità della vita detentiva, favorire la crescita culturale e provare a lavorare per un percorso di reinserimento sociale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale”. Proprio attraverso questo bando, l’associazione ha ottenuto il finanziamento necessario “per migliorare le strutture tecniche per il lavoro di rialfabetizzazione e di conoscenza della lingua italiana, arredando la Rems con la sala adibita a videoproiezioni che verrà inaugurata oggi. “Le Residenze per le misure di sicurezza - spiega Stefano Anastasìa - sono ormai una importante realtà del sistema di presa in carico delle persone con problemi di salute mentale e sottoposte a provvedimenti penali di internamento. Chi ha visto all’opera i vecchi ospedali psichiatrici giudiziari non può non apprezzarne la distanza, quanto ad ambienti e professionalità degli operatori, da quelle vecchie strutture. Bisogna quindi tutelarle dal rischio che siano burocraticamente assimilate a quell’indegno passato e vanno sostenute nella loro vocazione di cura delle persone che vi sono ospitate. Per questo, come Garante delle persone private della libertà nella Regione Lazio, ho voluto che fosse aperto anche a queste strutture il tradizionale bando di sostegno alle attività culturali e ricreative rivolto alle associazioni che operano nei luoghi di privazione della libertà. E sono felice che oggi, grazie al sostegno del mio ufficio, sia possibile inaugurare una biblioteca multimediale autogestita dai pazienti nella Rems di Ceccano. Non solo, in questo modo, si rafforza l’offerta trattamentale rivolta alle persone ospitate in quella struttura, ma si rafforza anche il rapporto con il territorio, grazie all’impegno dell’associazione Oltre l’Occidente, già da qualche tempo attiva nella Rems di Ceccano con corsi di alfabetizzazione e rialfabetizzazione per i pazienti”. “L’iniziativa - raccontano i promotori - era nata grazie a un incontro con il locale servizio Uepe e dalla proposta degli assistenti della Rems che nell’ottica del lavoro di rete hanno sollecitato le risorse del territorio in questo tentativo di favorire integrazione. La proposta è diventata progetto grazie alla sensibilità del dirigente, Luciano Pozzuli, e degli operatori che, con il beneplacito della magistratura di sorveglianza e il coordinamento della dirigenza della Asl, consentono le attività con partecipazione e continuità”. Velletri: (Rm): “Guardarsi dentro, per imparare a vedere fuori”, convegno in carcere ilcaffe.tv, 28 febbraio 2018 Si è tenuto presso il Penitenziario di Velletri un Convegno intitolato “Guardarsi dentro, per imparare a vedere fuori” promosso per introdurre gli animali come interventi assistiti in ambito Penitenziario. Molti personaggi Autorevoli del mondo della Sanità, pubblico e Ministeriali hanno preso parte al Convegno - come informano i Sindacalisti Ugl Polizia Penitenziaria Carmine Olanda e Ciro Borrelli; gli stessi reagiscono con rabbia e stupore rispetto all’evento - di per se stesso apprezzabile - anche se non congruo in questo periodo così difficile per la gestione del Penitenziario. Introdurre gli animali nei Penitenziari - commentano i sindacalisti - sia come terapia di autocontrollo personale del detenuto e sia per adottarli al fine di trovargli un padrone con cui vivere è da apprezzare ed un ottima iniziativa. Però - concludono Olanda e Borrelli - in questo triste momento difficile che stiamo attraversando a causa della fortissima carenza di personale di Polizia, l’Amministrazione Penitenziaria farebbe bene prima a preoccuparsi fortemente dell’ imminente gestione del Penitenziario di Velletri, oramai diventato una vera polveriera pronta ad esplodere che dell’ iniziativa messa in atto. Come sindacato sposiamo e condividiamo tutti i progetti finalizzati al trattamento atte al recupero e all’ inserimento del condannato nella società, ma non comprendiamo come si possono fare le nozze con i fichi secchi. Se il Dap non proroga immediatamente il distacco ai 19 Agenti destinati al loro imminente rientro in sede, dall’1 marzo 2018 il Penitenziario si trasformerà in una macchina senza freni avviata in discesa libera. Lecco: i ragazzi del Liceo “Bertacchi” dialogano con tre detenuti del carcere di Bollate leccoonline.com, 28 febbraio 2018 Hanno parlato con il cuore in mano, senza nascondere nulla; nemmeno la rabbia, nemmeno la paura. Lo hanno potuto fare soltanto perché hanno cominciato a perdonarsi, a mettersi a nudo davanti, innanzitutto, a loro stessi, per migliorarsi e tornare a vivere nella legalità, l’unico modo per sentirsi davvero liberi. Gianluca, Mimmo e Mauro non hanno un passato facile. Per non parlare, poi, del loro futuro, ancora tutto da costruire, con la consapevolezza delle “etichette”, delle “porte chiuse”, di “quella giungla che è il mondo esterno, in cui l’unica certezza, probabilmente, è la famiglia”. Ciò che conta per loro, quindi, sembra essere soltanto il presente: un presente in cui, però, devono fare i conti con le sbarre, con la sofferenza e con la solitudine, ma anche, allo stesso tempo, con la speranza, con l’entusiasmo di una seconda possibilità, che dipende esclusivamente da loro. Perché Gianluca, Mimmo e Mauro sono tre detenuti nel carcere di Bollate: nella mattinata di oggi, martedì 27 febbraio, sono intervenuti presso il Teatro Cenacolo Francescano di Lecco per una conferenza intitolata “Oltre le sbarre. La cultura della legalità. Un ponte tra carcere e scuola”, organizzata dai rappresentanti d’Istituto del Bertacchi a seguito dell’esperienza della classe 4A Sue (Liceo Economico-Sociale) con il progetto “Crescere ad arte nella legalità”, ideato e condotto dall’arteterapeuta malgratese Luisa Colombo. Il 24 gennaio scorso, gli studenti hanno infatti visitato il Penitenziario Milanese, dove hanno avuto la possibilità di partecipare a un laboratorio artistico-creativo con i detenuti del gruppo di arte-terapia. Un’esperienza che li ha “segnati” non poco e che quest’oggi hanno potuto condividere anche con i loro coetanei e compagni delle classi quinte: dopo la visione del docufilm “Il cielo dietro le sbarre”, realizzato dalla regista lecchese della Rai Paola Nessi insieme al giornalista Paolo Aleotti e ad alcuni detenuti di Bollate, i ragazzi hanno così potuto intessere un forte dialogo con i tre uomini, proprio per cercare di costruire un ponte ideale tra di loro e tra due mondi apparentemente inconciliabili, quelli del carcere e della scuola intesa come Istituzione, rappresentata quest’oggi anche dall’assessore all’istruzione del Comune di Lecco, nonché insegnante, Salvatore Rizzolino. “Come stai?”. È stata una domanda tanto semplice quanto disarmante quella che si è sentito rivolgere Gianluca da una studentessa seduta in platea, una delle prime a rompere il ghiaccio in un’atmosfera di religioso silenzio. “Sto bene, ma sono anche spaventato, perché queste sono le mie prime uscite” ha confessato l’ospite. “Mi ci sono voluti almeno tre anni per comprendere fino in fondo la bontà e l’efficacia del percorso che sto affrontando: nei primi tempi di reclusione, trascorsi tra Varese e Monza, ho subito tanti abusi psicologici e fisici. Ho provato un terrore e una rabbia indescrivibili, le comunicazioni con l’esterno erano praticamente ridotte a zero: potevo parlare per telefono con la mia famiglia soltanto per dieci minuti alla settimana, sperando che non saltasse la linea. La mia dignità è stata più volte calpestata. Soltanto quando sono approdato a Bollate - un carcere che, non per caso, ha una percentuale di recidiva bassa, che si aggira intorno al 17%, contro la media nazionale del 70% - ho iniziato a perdonarmi, a lavorare per migliorarmi: lì ho finalmente trovato un po’ di rispetto, anche nei delicati momenti delle perquisizioni, nonché la possibilità di compiere un percorso graduale di re-inserimento nella società, come tanti detenuti desiderano. Quello di Bollate sembra quasi un carcere a 5 stelle, quando in realtà non fa altro che rispettare i principi della Costituzione. Ora so che essere liberi significa vivere nella legalità, non doversi guardare le spalle e - ebbene sì - persino avere paura”. È così anche per Mimmo, uno a cui la paura, ora, fa addirittura “piacere”. “Ho capito che è fondamentale, perché mi consente di indirizzarmi lungo la strada giusta: non è un caso che io abbia sbagliato proprio quando mi sentivo spavaldo, onnipotente” ha affermato. Forte, fin da subito, la risposta dei ragazzi. “Vi ringraziamo per aver avuto il coraggio e il desiderio di esporvi così, per aver scelto di raccontarci la verità, quella che spesso ci viene nascosta, ma soprattutto il vostro dolore, pur non essendo tenuti a farlo”. “Sia chiaro a tutti che questa non vuole assolutamente essere una campagna contro le Istituzioni, che collaborano anche al nostro progetto (“I colori della libertà”, sostenuto e promosso dal Questore della Camera dei Deputati, Onorevole Stefano Dambruoso, ndr.) e stanno facendo molto per migliorare la situazione delle carceri italiane” ha puntualizzato Luisa Colombo, al timone dell’iniziativa insieme alle docenti del Bertacchi Valeria Cattaneo e Anna Maria Muschitiello. “Un incontro come questo, piuttosto, ha tra i suoi scopi quello di far capire a voi ragazzi come ogni vostra azione abbia una conseguenza, di cui soltanto voi siete responsabili”. “Io non voglio più guardare al passato, né tantomeno arrischiarmi a sbirciare il futuro” ha concluso Mauro, prima di lasciare la parola agli studenti della 4A Sue. “Io sono entrato in galera da giovanissimo, ma soltanto con il tempo ho capito che, al di là del contesto in cui ci troviamo a scontare la nostra pena, che sicuramente può aiutare, dobbiamo essere noi a cambiare, lavorando su noi stessi e sui nostri sbagli. A dispetto di ciò che si è soliti pensare, moltissimi detenuti sono disposti a farlo, a cogliere al volo l’opportunità di un simile percorso, per un vero re-inserimento nella società oltre le sbarre”. Cagliari: “noi studentesse nel carcere minorile come segnale di inclusività” di Alessandro Congia sardegnalive.net, 28 febbraio 2018 L’esempio di Alice, Giulia e Laura. Un forte segnale di responsabilità sociale per le studentesse del corso di laurea magistrale in Architettura dell’Università di Cagliari. Un forte segnale di responsabilità sociale, tre studentesse del corso di laurea magistrale in Architettura dell’Università di Cagliari hanno scelto di discutere all’interno del carcere minorile di Quartucciu (Cagliari) la loro tesi, realizzata in parte progettando e ristrutturando alcun ambienti dell’Istituto con il coinvolgimento degli operatori e di alcuni giovani detenuti “Sono molto orgogliosa del segnale di responsabilità sociale, di inclusività, di accettazione della diversità - in questo caso di ragazzi che hanno fatto uno sbaglio nel loro percorso - che diamo questa mattina. Sono meravigliata di quello che avete fatto, e anche orgogliosa, perché il nostro Ateneo vuole vivere di queste cose, al di là del fatto che facciamo scienza, ricerca e cultura”. Così Maria Del Zompo, Rettore dell'Università di Cagliari, si è rivolta a Laura Spano, Giulia Rubiu e Alice Salimbeni, le tre studentesse che hanno discusso la loro tesi al termine del corso di laurea magistrale in Architettura all’interno dell’Istituto Penale per i Minorenni di Quartucciu (Cagliari), diretto da Giovanna Allegri. Parte dei loro elaborati è stata realizzata progettando e ristrutturando alcuni spazi, e creandone di nuovi, all’interno del carcere con il coinvolgimento attivo dei giovani detenuti e degli operatori. Le tre studentesse hanno infatti frequentato per mesi la struttura nell’ambito del progetto “Fuori luogo”. “Sono contenta che le vostre famiglie abbiano accolto favorevolmente l'idea di discutere le tesi e di trascorrere un giorno così importante in un carcere - ha detto - è un bellissimo segnale. Quando parliamo di inclusività ci riferiamo anche a progetti come questo”. Le tesi di Alice Salimbeni (“Da le celle alle stelle: uno spazio auto-costruito all'Ipm di Quartucciu”), Laura Spano (“Riabilitare col colore”) e di Giulia Rubiu (“La strategia Building Information Modeling and Management applicata al caso studio dell’Ipm di Quartucciu”) hanno approfondito alcuni aspetti specifici tra i contenuti emersi nel laboratorio di Progettazione Architettonica II svoltosi al Dipartimento di Ingegneria civile, Ambientale e Architettura, tenuto da Barbara Cadeddu, referente del progetto “Fuori luogo”. Una delle tesi, in particolare, ha visto la realizzazione di uno spazio auto-costruito all'aperto, nelle aree verdi dell'Istituto penale, per la socializzazione e l'incontro dei ragazzi con i propri familiari. Al processo di costruzione hanno preso parte volontari, studenti di Architettura, di Ingegneria ma anche di Medicina, oltre ai ragazzi detenuti e agli operatori dell’Istituto. La costituzione di un gruppo misto di lavoro ha rappresentato un’occasione speciale di conoscenza e di crescita per tutti i partecipanti: per questo, la particolarità del progetto ha spinto la Commissione presieduta dal prof. Antonello Sanna a svolgere la discussione all’interno della struttura carceraria. Le attività didattiche si sono svolte in parte in aula e in parte all’interno del carcere e hanno visto la partecipazione di docenti di geografia, sociologia, graphic design, architettura tecnica: tra questi Maurizio Memoli, Ester Cois, Stefano Asili, Emanuele Mura, Maddalena Achenza, Emanuela Quaquero che, in una ottica di multidisciplinarietà, hanno messo a disposizione le proprie competenze per la successiva fase di elaborazione delle tesi di laurea. Il progetto “Fuori luogo” è nato dalla convenzione stipulata tra il Centro per la Giustizia Minorile per la Sardegna e il Dicaar - Dipartimento di Ingegneria Civile, Ambiente e Architettura dell’Università di Cagliari al fine di ripensare e riqualificare gli spazi dell'Istituto Penale Minorile di Quartucciu, con l'obiettivo di definire criteri distributivi, funzionali ed estetici, coerenti con i bisogni emersi attraverso la partecipazione attiva dei ragazzi detenuti e degli operatori e di migliorarne il benessere. Salerno: “Diritti umani e dove trovarli”, il convegno del Rotaract al Liceo Da Procida di Aniello Palumbo gazzettadisalerno.it, 28 febbraio 2018 “Nessuno può essere sottoposto a tortura né pene o trattamenti inumani o degradanti”. Così recita l’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo che è stato più volte citato dagli illustri relatori che hanno partecipato al convegno: “Diritti umani e dove trovarli”, organizzato dai giovani rotariani del Club Rotaract Salerno, presieduto da Anna Gallo, che hanno proposto agli studenti delle ultime classi delle scuole salernitane una serie di attività educative - didattiche sul tema dei diritti umani. “Noi del Rotaract Salerno abbiamo deciso di affrontare questa tematica quanto mai attuale, sia a livello nazionale, sia a livello internazionale per sensibilizzare i giovani delle scuole e confrontarci con loro sulla consapevolezza dei nostri diritti”, ha spiegato la Presidente Anna Gallo che ha ricordato gli obbiettivi del Rotaract e l’impegno profuso per organizzare l’evento, della socia Carla Santocchio, Responsabile della Commissione Legalità del Club Rotaract insieme al socio Attilio Caliendo che ha moderato in modo brillante e con professionalità gli interventi dei relatori. L’avvocato Stefano Martone, Direttore della Casa Circondariale di Salerno, ha parlato dei Diritti ristretti:” Sono i diritti dei detenuti,condizionati dalla privazione della libertà. Fino a un anno fa circa 9.000 detenuti, su oltre 50.000, vivevano in meno di due metri quadri. Oggi siamo passati ai tre e anche quattro metri quadri per ciascun detenuto. È necessario tutelare la loro dignità e le condizioni di civiltà in cui devono vivere. Stiamo attuando per i detenuti dei regimi aperti per gran parte della giornata e dei cambiamenti edilizi della nostra struttura; progetti trattamentali, rieducativi, di formazione. Ci stiamo anche aprendo alla società civile per restituire il senso rieducativo alla pena come prevede la Costituzione”. Il professor Cosimo Risi, già Ambasciatore d’Italia in Svizzera, docente di Relazioni Internazionali in vari Atenei, ha sottolineato che c’è un problema di diritti umani in questo momento storico, e soprattutto in alcune parti del mondo: “Possiamo dire che i diritti umani sono malati. Stiamo seguendo con trepidazione e dolore ciò che accade nella periferia siriana dove le bombe sono cadute sulla popolazione civile senza risparmiare vittime tra le donne e i bambini. I diritti umani, si sono evoluti nel tempo: abbiamo il diritto alla privacy che è costantemente violato, soprattutto su alcuni social. È necessaria una continua vigilanza”. Il noto avvocato penalista Gaetano Pastore, Presidente del Club Rotary Salerno, ha spiegato quelle che sono le linee generali dei compiti del legislatore: “Chi decide le leggi viaggia ad un livello superiore rispetto a chi quelle leggi le deve applicare: non c’è collegamento. Il legislatore è un’entità laica che detta le linee che dovrebbe seguire il cittadino anche se poi se c’è una norma che sembra cozzare contro la pubblica opinione subito abbiamo manifestazioni di piazza e, sull’onda della spinta sociale, si cambia la norma. Si riesce a fare prevenzione soltanto punendo? Assolutamente no, però in realtà è quello che fa lo Stato: i percettori delle norme non vengono messi in grado di comprendere che c’è un modo di comportarsi prima della punizione. Deve essere lo Stato che deve spiegare come ci si comporta e qual è la linea che non si deve superare”. Il giornalista e scrittore Andrea Manzi, ha parlato della consapevolezza dei diritti:” In questo momento c’è un grande silenzio sui diritti che spettano naturalmente a chiunque, perché gli ultimi non fanno più notizia. Dobbiamo risvegliare questa consapevolezza dei diritti anche attraverso i mezzi di comunicazione che devono attivare al massimo tutte le loro potenzialità per riprendere un discorso sui diritti anche utilizzando, con intelligenza, la tecnologia”. Il dottor Erminio Rinaldi, Avvocato Generale presso la Procura Generale della Corte d’Appello di Salerno, ha spiegato come nel corso del tempo si sia evoluto il concetto e il contenuto di diritto umano, a partire dalla Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948 “I diritti umani si definiscono umani perché sono fondamentali per la vita di ognuno di noi. Tanto è stato fatto per tutelare questi diritti, ma c’è ancora tanto cammino da fare, soprattutto per far rispettare le leggi che tutelano i diritti umani”. Soddisfatta la Dirigente Scolastica del Liceo Da Procida, la professoressa Anna Laura Giannantonio che, insieme alla professoressa Anna Franco, Referente della Legalità, organizza tante iniziative anche insieme ai giovani del Rotaract. Tra i presenti il Presidente del Club Rotary Salerno Est, Antonio Vairo, che è stato Preside del Liceo Da Procida, e il Segretario Distrettuale del Rotaract, Luca Brando. Milano: “I detenuti domandano perché”. Tempo di Libri (e Buzzati) entra nelle carceri tempodilibri.it, 28 febbraio 2018 La costellazione di storie racchiuse, e dischiuse, da Tempo di Libri, in programma dall’8 al 12 marzo nei padiglioni 3 e 4 di Fieramilanocity, include anche quelle raccontate attraverso il Progetto Carceri intitolato I detenuti domandano perché, promosso da L’Arte di vivere con Lentezza Onlus e sostenuto da Mediobanca con la collaborazione della Fiera, che coinvolge alcuni istituti di pena dell’area milanese in attività legate a Il Gioco dei Perché ideato per le scuole e incentrato su Dino Buzzati. Se la curiosità è il principale motore degli interrogativi formulati dai bambini e dai ragazzi, la riflessione su se stessi, il proprio percorso di vita passato e futuro, è invece ciò che anima i Perché sollevati dai detenuti. Incoraggiati anche dalla presenza di uno scrittore di Tempo di Libri, queste occasioni di dialogo possono davvero essere per loro l’inizio di un percorso di cambiamento, di una nuova consapevolezza di sé. Soprattutto per i giovanissimi reclusi al Beccaria - diffidenti, chiusi, alieni ai libri e alla lettura, come anche a Piacenza e per le donne in regime di alta sicurezza, schive di fronte un approccio di carattere culturale, ma che potrebbero trovare proprio nei Perché la chiave di apertura verso un mondo negato. In collaborazione con Tempo di Libri, quindi, le domande raccolte sono state e saranno rivolte ad una rosa di autori che poi si confrontano con i detenuti all’interno delle cinque strutture carcerarie aderenti al programma: Casa Circondariale San Vittore, di Piacenza, di Pavia, Casa di Reclusione di Bollate e Istituto Penale per Minorenni Beccaria. Il primo appuntamento si è svolto il 13 febbraio presso la biblioteca della Casa Circondariale Torre del Gallo di Pavia con il direttore della Fiera Andrea Kerbaker: i prossimi sono in programma il 19 marzo, con Mario Santagostini a San Vittore, il 21 marzo con Gianni Biondillo, che risponderà ai detenuti del carcere di Bollate, mentre il 22 marzo sarà la volta di Gianfelice Facchetti al Beccaria. Seguiranno altri incontri a Piacenza. Il progetto funziona grazie alla preziosa collaborazione di tanti partner: Servizio Educativo per Adolescenti in difficoltà del Comune di Milano; Centro Giustizia Riparativa e Mediazione Penale; Biblioteche in Rete a San Vittore che vive grazie a una Convenzione con la Casa Circondariale di San Vittore firmata da Caritas Ambrosiana, Casa della Carità, Bibliolavoro, Cpia 5 - Milano, Associazione Mario Cuminetti e Comune di Milano-Settore biblioteche. Le riunioni si svolgono periodicamente al Centro San Fedele e sono coordinate da Elvio Schiocchet. VI Opera San Fedele; Associazione Mario Cuminetti; Commissione Cultura di Bollate, istituita ai sensi dell’art. 27 OP, di cui fanno parte l’educatore, volontari e persone detenute, le quali possono avere un ruolo decisionale nell’organizzazione della vita dell’istituto. Tutto è reso possibile grazie alla collaborazione dei Direttori degli Istituti: Stefania D’Amico, Pavia; Caterina Zurlo, Piacenza; Olimpia Monda, Beccaria-Milano; Giacinto Siciliano, San Vittore-Milano; Massimo Parisi, Bollate-Seconda Casa di Reclusione, Milano; e grazie ai Comandanti e a tutti Agenti di Polizia Penitenziaria e agli Educatori. Guerre. “Arma il prossimo tuo”, una mostra fotografica a Torino di Domenico Quirico La Stampa, 28 febbraio 2018 A Torino una mostra fotografica racconta le guerre d’oggi sul filo delle divisioni religiose. Si intitola “Arma il prossimo tuo”, sottotitolo “Storie di uomini, conflitti, religioni”, la mostra fotografica che si aprirà giovedì a Torino, al Museo del Risorgimento, dove resterà fino al 1° maggio. Centodieci scatti, realizzati da Roberto Travan e Paolo Siccardi nei Balcani, nel Caucaso, in Africa e in Medio Oriente, nei luoghi devastati dalle guerre combattute sul filo delle divisioni religiose. La mostra è corredata da un testo introduttivo di Domenico Quirico che qui anticipiamo. Compagni sconosciuti, vecchi fratelli, arriveremo insieme, lo so, lo sento, un giorno alle porte del regno di Dio, qualunque sia il nome con cui lo chiamiamo. Turba ingannata, turba sfinita, imbiancata dalla polvere e scurita dal fango di mille strade, cari duri visi di cui non abbiamo saputo asciugare il sudore, sguardi che hanno visto il Bene e il Male, che hanno eseguito il loro terribile compito accettando la vita o la morte, sguardi che non si sono mai arresi. Così vi ritroveremo, vecchi fratelli, con ancora al collo i segni dell’Eterno per cui avete accettato di morire e di uccidere. La guerra e i segni di Dio: piccoli e grandi, pendagli e lapidi, chiese e moschee, segni tracciati sui muri e scritte che gridano Dio come documentano queste fotografie strazianti che grondano ancora dolore. Dio sì, Dio non voglia che riveda mai le strade dove troppe volte ho smarrito le vostre tracce nell’ora in cui l’odio stende le sue ombre e il succo della morte, lungo le vene, rimescola il sangue nel cuore! Strade dell’Ucraina a fine inverno, fulve e odoranti come bestie, sentieri marci sotto la pioggia, grandi cavalcate di nubi minacciose, rumori del cielo, acque morte. Vi ho conosciuto. E deserti, deserti scuri di pietre sterili e gialli di sabbia su cui l’impronta dell’uomo si cancella in un attimo al primo soffiare di vento, percorsi in lungo e in largo da cattivi profeti che nascondono nella bisaccia libri colmi di Dio e di morte… Anche lì vi ho incontrati, come gli autori di queste foto che sono lampi di crudo dolore. Certo, la mia vita è già piena di morti, morti invocando la certezza del martirio e della resurrezione. Ma il più morto di tutti i morti è quello che io fui. Quando credevo di sentire Dio, il mio il vostro che importa… sussurrarmi accanto: “Sono qua, non vado via, chiamami”. E invece… Invece vi vedevo morire. Anche al colmo dell’orrore e della pietà non ho mai cessato di vedere quello che balza agli occhi: che la fede ottiene dall’essere umano ciò che nessun’altra dottrina ha mai ottenuto. Nel bene e nel male. Ho visto laggiù, ad Aleppo, passare sulle strade già ingombre di rovine autocarri carichi di uomini. Rotolavano con un rombo di tuono, sfiorando le macerie grigie di cemento da cui spuntavano come piante secche i tronchi di ferro recisi. Gli autocarri erano grigi per la polvere delle strade, grigi anche gli uomini con le mani allungate sui mitra. Sui camion fluttuavano nere bandiere che proclamavano che solo Tu esisti tra tutti gli dei falsi e bugiardi. Così partivano verso l’ultimo viaggio, la bandiera sventolante e la camicia incollata alle spalle per il sudore. Come il flusso dell’oceano muove i grandi fiumi molto sopra la loro foce, la morte si mescola a ogni vita religiosa molto tempo prima che si le si approssimi. Mi si ripete: “È l’antico terrore, è quella paura degli dei che ha creato gli dei, quella vergognosa paura che sopravvive alla fede stessa”. Siamo dunque noi che portiamo i segni di Dio e lo invochiamo nell’uccidere avvezzati fin dall’infanzia a certe adorazioni, educati alla paura? Dai Balcani alla Terra tra i Due Fiumi tutto è grave, tutto compromette l’eternità. Questi elementi corruttibili delle tua fede come definirli? È una evidenza, sono una evidenza santini e bandiere, lapidi e scritte. Chi avrebbe potuto immaginare che pezzi di metallo, di legno, graffiti di vernice potessero assumere tante forme quanti sono i singoli destini? Eppure è così: sono fatti a nostra misura, di buon grado o no, nell’odio o nella rivolta o nella sottomissione o nell’amore, bisognerà che li stringiamo in pugno. Quando il Momento verrà e non saranno i predicatori della Buona Guerra a chiamare. Abbiamo pietà, vi prego, degli uomini che vedete in queste foto. Sono alle soglie della morte, o forse un po’ al di là ma lo ignorano, non sanno nulla di quel distacco essenziale, fondamentale che non serba alcun colore di vita, raggiunge una specie di trasparenza sovrumana. Le forze urlanti che affrontano non hanno alcun rapporto con il loro povero essere uomini. Camminano nudi nonostante i segni dell’Invincibile che portano addosso, nudi sotto lo sguardo di Dio. Ludopatie. Gioco d’azzardo, una partita persa di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 28 febbraio 2018 Mette i brividi rileggere le vanterie sugli incassi dello Stato biscazziere. “Un ottimo antidoto per la solitudine”. Usarono proprio queste parole, al ministero delle Finanze, per fare propaganda al Bingo. Lanciato, ricorda un’Ansa del 1999, con un titolo entusiasta (“L’Italia fa Bingo, in arrivo gioco made in Usa”) e un articolo spensierato: “A importare il gioco, molto diffuso oltre che negli Stati uniti, dove è nato, in Gran Bretagna e Spagna, ci sta pensando il ministero delle Finanze. E non solo per rimpinguare le sempre bisognose casse dello Stato (frutterebbe all’erario almeno 3 mila miliardi l’anno). Il Bingo, rivela uno studio Eurispes, creerà nuovi posti di lavoro (...) e sarà un ottimo antidoto per la solitudine”. Come sia andata si sa. Il demone dell’azzardo ha via via travolto, attraverso nuovi “giochi” studiati per creare sempre più dipendenza, milioni di persone. Facendo emergere, come ha spiegato mille volte don Luigi Ciotti, una crescita continua e sempre più grave dell’isolamento e dell’emarginazione delle persone. Soprattutto fra i vecchi, un quarto dei quali vive solo. Dice tutto il titolo di una ricerca del gruppo Abele, di Libera e di Auser: “Anziani e gioco d’azzardo: è la solitudine il vero nemico”. Mette i brividi, dunque, oltre vent’anni dopo i primi allarmi lanciati in paesi come la Spagna che già a ottobre 1997 vide una “giornata contro l’azzardo” per denunciare i guai delle ludopatie, rileggere le vanterie sugli incassi dello Stato biscazziere e il tono delle risposte delle nostre autorità a chi avvertiva invano dei rischi della deriva poi avvenuta. Su tutte quella di Vincenzo Visco, l’allora responsabile delle Finanze. Il quale, irridendo alle denunce, fece pubblicare nel 2009 sulla newsletter ministeriale queste righe: “Corredato da firma prestigiosa, un autorevole commento ha bollato di infamia gli sgravi fiscali perché realizzati a suo dire non dalla lotta all’evasione bensì grazie all’istigazione al gioco d’azzardo di cui gli italiani sarebbero stati vittime per essere meglio taglieggiati dall’erario”. Seguiva l’autoelogio: “In Italia, da quando ci sono i governi di centrosinistra, le entrate della voce “giochi” sono considerevolmente aumentate per una semplicissima ragione: anche in quel settore, come in tutto il sistema fiscale, c’è stata una riforma che riservando allo Stato il controllo totale dei giochi, ne ha affidato ai privati la gestione. E i privati hanno saputo fare meglio di quanto non facesse la burocrazia”. I risultati, a partire dal caso del Re dell’azzardo Francesco Corallo, si sono visti. Droghe. Macerata, eroina e comunità salvifiche di Maurizio Coletti Il Manifesto, 28 febbraio 2018 Gli accadimenti di Macerata continuano a produrre paginate sui giornali, ricche di vagonate di commenti, di dichiarazioni, di scontri. L’ultimo colpo è stato esploso sul Corriere della Sera il 23 febbraio scorso da Antonio Polito, editorialista accreditato come raffinato commentatore che si è espresso con mediocre approssimazione mettendo insieme metadone e riduzione del danno, e alla fine invocando il ritorno della guerra alla droga, nonostante i fallimenti evidenti. E, tuttavia, vi sono molti aspetti lontani da un ragionevole chiarimento. A mio parere, la vicenda si basa su quattro aspetti, alcuni dei quali legati fra loro. Vorrei lasciare fuori la “reazione” del fascista che è legata a pulsioni razziste indiscriminate e a pura violenza ammantata da spirito di vendetta. Così come la orribile vicenda che segue alla morte di Pamela Mastropietro, per la quale c’è da augurarsi che i colpevoli siano individuati, giudicati e condannati come meritano. La terza questione è la causa della morte; le dichiarazioni degli inquirenti, per ora, sono prudenti. Sembra esclusa la morte per overdose. Una delle ridondanze nelle ricerche su questa evenienza si riferisce all’osservazione per cui un organismo “pulito” (drug free?) non può sopportare l’assunzione di oppiacei improvvisa ed in dosi che, nella fase precedente al percorso drug free, erano abituali. Le overdose all’uscita da una Comunità Terapeutica (volontaria, concordata o temporanea) sono uno dei rischi più conosciuti e temuti. Il corpo non contiene più oppiacei. Ma la testa, la mente si. È il caso della Mastropietro? Certo, si dice, non avrebbe dovuto uscire dalla Comunità dove era protetta, ma dove quasi sicuramente non stava già bene. Da alcuni organi di stampa si riporta il dubbio dei genitori che nella stessa CT, Pamela potrebbe essere stata molestata. Inoltre, sembra che la ragazza fosse già entrata e uscita dalla stessa struttura nel recente passato. Poi c’è il quarto punto; il primo in ordine di tempo. Era la Mastropietro un soggetto da Comunità Terapeutica? Una Comunità lontana dal luogo di vita (testimonianza che la banale “lontananza dalle tentazioni” non funziona affatto)? I criteri di inclusione sono stati rispettati? Da moltissimi anni, i pazienti normalmente inseriti in CT sono di età molto più avanzata. C’è da sperare che qualcuno si chieda chi e su quali basi ha autorizzato l’ingresso di un soggetto come la ragazza. Quale diagnosi? Quale programma terapeutico? Quali servizi pubblici hanno inviato la paziente da Roma a Corridonia? Quali servizi pubblici sono deputati al monitoraggio? Dalla Ct, lo sappiamo, si può uscire, si può anche scappare (in gergo tecnico si chiamano dimissioni non concordate), ci si allontana, ci si ritorna. Ma tutta questa storia orrenda serva almeno per capire quali sono le procedure corrette, se chi doveva vigilare sulle strutture l’ha fatto, se non si fosse di fronte ad un soggetto da sostenere anche in altro modo che non il semplice “drug free”. La miserabile “politica” attuale sta discutendo della vicenda attraverso la porta della sicurezza, dell’immigrazione; per ora, non una parola sulla persistenza di consumi problematici come questi, sull’esigenza di ridiscutere dalle fondamenta un sistema di interventi obsoleto, fragile, negletto, disastrato. Le occasioni per dibattere questi temi sono letteralmente scomparse; il primis la Conferenza Nazionale non convocata da nove anni. Il tema è “divisivo”. Ci spiegate chi dividerebbe? Chi sta da una parte e chi dall’altra? All’orizzonte si vedono solo quelli che dicono che la droga è merda, i drogati fanno schifo, gli spacciatori bisogna prenderli a pistolettate. Chi ha altre opinioni in merito? Stati Uniti. Corte Suprema “gli immigrati detenuti non hanno diritto alla cauzione” Askanews, 28 febbraio 2018 La Corte Suprema degli Stati Uniti ha deciso che gli immigrati detenuti dal governo in attesa di espulsione, compresi i residenti permanenti e i richiedenti asilo, non hanno diritto a un'udienza per la cauzione, nemmeno dopo mesi o anni in carcere. La decisione sul caso Jennings v. Rodriguez è stata presa con 5 voti a favore e tre contrari e farà felice il presidente Donald Trump, che sposa la politica della tolleranza zero verso gli immigrati, anche quelli regolari che però hanno commesso dei reati. L'appello alla Corte Suprema era comunque stato presentato dall'amministrazione Obama, insistendo che è il Congresso, e non i tribunali, ad avere il potere di fare le leggi sull'immigrazione e che la legge permette al governo di detenere “criminali e terroristi stranieri”, così come “gli stranieri che cercano di essere ammessi negli Stati Uniti”; l'amministrazione Trump aveva poi deciso di portare avanti l'appello. La Corte d'Appello del Nono circuito, invece, si era pronunciata a favore di un'udienza per la cauzione ogni sei mesi e aveva affermato che la detenzione dovrebbe essere permessa dopo gli iniziali sei mesi solo se giustificata dal governo. Il caso ora torna alla stessa Corte d'Appello e potrebbe poi tornare alla Corte Suprema. Slovacchia. Il Giornalista Kuciak ucciso per i report su affari immobiliari e fondi Ue di Jakub Hornacek Il Manifesto, 28 febbraio 2018 Ma ora, secondo polizia e governo nel caso spunta anche la 'ndrangheta. In Slovacchia continuano le indagine sull’omicidio del giornalista Jan Kuciak e della sua compagna Martina Kušnírová avvenuto tra giovedì e domenica della scorsa settimana. Dalle prime tesi investigative della polizia, l’omicidio scoperto nella notte di domenica 25 febbraio sarebbe ricollegabile al lavoro di reporter per il portale Aktuality.sk (gruppo Axel Ringier Springer) di Kuciak. “Abbiamo infatti reperito alcune circostanze in tal senso” ha dichiarato al caldo il presidente della polizia slovacca Tibor Gašpar. A suggerire la pista di un killer professionista è l’esecuzione pulita, un colpo alla nuca e uno al petto. Nell’ultimo periodo il giovane giornalista di 27 anni lavorava su frodi fiscali e truffe a danno dei fondi europei. Nei casi vengono citati spesso imprenditori con forti legami con la politica slovacca, sia con partiti di governo che d’opposizione. Uno degli ultimi articoli di Kuciak riguardava le transazioni immobiliari dentro un condominio di lusso, il Five Star Residence di Bratislava. Con le transazione lo Stato slovacco avrebbe perso milioni di euro su rimborsi Iva abusivi. Tra gli imprenditori immobiliari implicati negli affaire descritti da Kuciak c’era Ladisav Bašternák che affittava uno dei suoi appartamenti di lusso all’attuale premier socialdemocratico Robert Fico. Più vicino ai partiti dell’opposizione invece Marián Kocner, contro cui il giornalista aveva sporto nel settembre scorso denuncia per minacce aggravate. Il giornalista si era poi lamentato del lento lavoro della polizia, che alla fine archiviò il caso. Intanto è spuntata sui media slovacchi la “pista calabrese”. In un’intervista al quotidiano Dennik N uno dei colleghi di Kuciak, Tom Nicholson, ha rivelato che il giornalista assassinato stava lavorando su un’inchiesta sugli insediamenti della ‘ndrangheta nella Slovacchia orientale. I gruppi mafiosi avrebbero ordito truffe massicce a danno dei fondi dedicati all’agricoltura. “È un processo molto semplice - ha detto Nicholson - Hanno (i mafiosi, ndr) acquistato alcune ex cooperative agricole, fanno finta di coltivarci piante bio, e prendono sovvenzioni per questo. Ma è indifferente che cosa ci coltivano, basta che ci sia una persona disposta a rilasciare il certificato”. Per il giornalista, i gruppi mafiosi sono impiantati in Slovacchia fin dagli anni Novanta e hanno saputo costruirsi una rete di protezione politica, che si basa soprattutto sugli esponenti locali del partito Smer del premier Robert Fico. Ieri il capo della polizia slovacca Gaspar ha confermato che ci sono indagini aperte su cittadini italiani, mentre il ministro degli interni Kalinák ha rivelato che ci sono contatti con la polizia italiana. Va tuttavia detto che la Slovacchia non ha bisogno di importare la mafia dall’Italia. Fin dagli anni Novanta nel Paese è presente una forte malavita organizzata autoctona che ha prosperato soprattutto nei primi anni dell’indipendenza del Paese sotto il premier Meciar. Eliminazioni di persone scomode e sequestri (il più famoso fu quello del figlio del presidente Kovác ad opera di pezzi deviati del servizio segreto Sis) fanno parte della vita del piccolo Paese. Secondo i giornalisti locali, i rapporti tra politica e malavita sono stati ravvivati dal lungo governo del premier Fico. Più attivo su questo fronte è il gruppo intorno al discusso ministro dell’Interno Robert Kalinák - anche criticato da Amnesty International per il trattamento dei Rom, che dispone di una rete di amicizie di imprenditori, le cui imprese hanno ottenuto importanti appalti statali e sovvenzioni europee. L’implicazione negli scandali del ministro dell’Interno spiega anche la diffidenza e la disistima di molti giornalisti slovacchi verso la polizia e la magistratura inquirente. Entrambi sono accusate di non riuscire a portare avanti le indagini su casi sollevati dalla stampa, pertanto finiti spesso con un’archiviazione. Un’opinione ricorrente sostiene che la polizia con la sua incapacità abbia contribuito a costruire un clima di impunità nel quale è maturato il progetto di uccidere Kuciak. La politica slovacca ha ovviamente condannato con sdegno l’uccisione di Kuciak. Il premier Robert Fico ha addirittura promesso una ricompensa di un milione di euro per chi fornisca informazioni che portino all’individuazione e alla cattura dell’assassino. Il gesto serve anche a mostrare la buona volontà del governo slovacco di fronte alle istituzioni europee che chiedono un’indagine approfondita sul caso. Come fu ad ottobre 2017 per l’uccisione a Malta della giornalista Daphne Caruana Galizia. Siria. Nessuna tregua a Ghouta est, corridoi umanitari deserti di Chiara Cruciati Il Manifesto, 28 febbraio 2018 Esplosioni nel sobborgo di Damasco durante le cinque ore di tregua russa: due morti. Scambio di accuse tra governo e opposizioni. Anche la Turchia prosegue nei raid: 192 civili uccisi ad Afrin dal 20 gennaio. Le notizie che arrivavano ieri da Ghouta est, filtrate dalle rispettive propagande, davano indietro un quadro torbido: nelle cinque ore giornaliere di pausa umanitaria - indetta dal presidente russo Putin ed entrata in vigore ieri - gli scontri non sono cessati. Seppur sporadiche, esplosioni sono risuonate nel sobborgo di Damasco, casa-prigione a 400mila persone. E i corridoi umanitari individuati dalla Russia, la cui localizzazione è stata comunicata ai civili con volantini e sms, sono rimasti vuoti: delle centinaia di persone intrappolate dal 2013 nessuna ha tentato la fuga. E le agenzie umanitarie non sono riuscite a far passare gli aiuti per il fuoco dei missili: non si esce e non si entra. Civili ostaggi delle opposizioni islamiste presenti nella Ghouta orientale, dice Damasco, che riporta di colpi di mortaio caduti non solo sulle zone residenziali della capitale, come avviene da anni, ma anche sul campo di al-Rafidain e sulle vie di fuga, il checkpoint di al-Wafideen, dove autobus governativi attendevano eventuali sfollati. I civili sono usati come scudi umani, denuncia Damasco, dall’ex al-Nusra e i suoi affiliati, assedianti interni del sobborgo. Che rispondono: la gente non scappa perché teme una trappola governativa. Secondo i miliziani, ieri l’aviazione siriana ha compiuto una decina di raid durante la finestra di tregua, tra le 9 e le 14. Due i morti e 16 i feriti per missili, di diversa attribuzione a seconda della fonte. Una situazione identica all’inferno vissuto da Aleppo nell’inverno 2016: a fronteggiarsi forze e narrative diverse. Osservatori esterni si chiedono perché Assad dovrebbe proseguire nel bombardamento indiscriminato di Ghouta, sapendo di attirarsi lo sdegno internazionale, soprattutto dopo l’annuncio in pompa magna di Putin. C’è chi risponde che l’obiettivo è annientare le opposizioni islamiste il prima possibile, chi mette in dubbio la potenza di fuoco vomitata sul sobborgo. Reagisce anche la Russia che accusa le opposizioni di bugie e abusi contro i civili, di fatto prigionieri: a mezzogiorno di ieri, dice il centro di comando russo in Siria, i miliziani hanno lanciato una nuova controffensiva, “azioni accompagnate da intenso fuoco di artiglieria”. Il ministro degli Esteri Lavrov ha comunque annunciato il mantenimento dei corridoi umanitari. Ma a farsi avanti sono le stesse opposizioni: in una lettera all’Onu tre dei cinque gruppi presenti nella comunità - Jaysh al-Islam, Ahrar al-Sham e Faylaq al-Rahman - hanno manifestato l’intenzione di “deportate del tutto” i miliziani dell’ex al-Nusra e le loro famiglie entro 15 giorni dall’entrata in vigore della tregua prevista dalla risoluzione Onu di sabato. Così verrebbe meno la contraddizione contenuta in quella risoluzione, che esclude dal cessate il fuoco qaedisti (ex al-Nusra, dunque) e Isis. Resta a monte: sia Jaysh al-Islam che Ahrar al-Sham, salafiti ma considerate opposizioni legittime tanto da guidare la delegazione anti-Assad a Ginevra, hanno apertamente collaborato con al-Nusra e condiviso la sua visione, finendo per diventarne una stampella. Ora si impegnano a espellere i qaedisti e a facilitare la consegna degli aiuti, passo necessario alla sopravvivenza politica. Il fuoco non cessa nemmeno a nord, dove la Turchia - rassicurata da due anni e mezzo di impunità, da quando entrò illegalmente con i carri armati in Siria - continua a bombardare Afrin. L’agenzia di Stato Sana denuncia due morti ieri e cinque lunedì e il Consiglio per la salute del cantone curdo dà un bilancio di 192 uccisi dal 20 gennaio, inizio di “Ramo d’Ulivo”, di cui 28 bambini. Numeri a cui si aggiungono quelli di Airwars, organizzazione che da anni monitora l’operazione militare Usa tra Siria e Iraq: tra agosto 2014 e metà febbraio 2018, i 29.095 raid statunitensi hanno ucciso tra le 6.317 e le 9.444 persone, almeno sette volte tanto il bilancio del Comando Usa, che parla di 841 vittime civili “non intenzionali”. Morti senza responsabili su cui l’Onu per ora non ha emesso risoluzioni. Siria. Sesso con i cooperanti per un pezzo di sapone, ora l’Onu è sotto accusa di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 28 febbraio 2018 La denuncia documentata dalla Bbc. La difesa: “Sappiamo da anni che il ricorso al personale locale comporta abusi. Non abbiamo scelta”. Sesso in cambio di aiuti umanitari in Siria. Donne e ragazze, specie le più deboli, come orfane, vedove, sfollate con i bambini piccoli, costrette a “concedere favori personali” per ottenere cibo, una tenda, vestiti, un pezzo di sapone. E tutto ciò da personale locale impiegato dalle agenzie Onu. Difficile pensare a un crimine più odioso: quelle stesse organizzazioni che dovrebbero dare un briciolo di speranza a popolazioni disperate, prive di tutto, hanno loro rappresentanti che ricattano, abusano, violano le donne grazie alla loro posizione di forza e privilegio. La denuncia arriva scandalosa e ben documentata dalla Bbc per ironia della sorte nella giornata mondiale delle associazioni non profit e mentre cresce lo scandalo degli abusi che sta interessando alcune tra le organizzazioni non governative più importanti, come la britannica Oxfam. Il pericolo è però quello di criminalizzare l’intero sistema degli aiuti umanitari, che resta fondamentale e vitale per aiutare le popolazioni investite dai conflitti e dalle crisi in tutto il mondo. Non a caso sono proprio le agenzie Onu e le organizzazioni di aiuto operanti in Siria a svolgere in questi giorni un ruolo cruciale per farci conoscere il dramma di Ghouta alle porte di Damasco. Come ripetono spesso i veterani Onu sul campo: “L’universo umanitario è fatto di santi, ma anche di cinici e persino criminali”. Ciò detto, le accuse della Bbc sono estremamente gravi. Si cita un rapporto interno del “United Nations Population Fund” (Unfpa) intitolato “Voci dalla Siria 2018” che parla di “donne e ragazze costrette a concludere matrimoni temporanei con ufficiali operanti per l’Onu con l’obbiettivo di ricevere razioni di cibo. Gli ufficiali chiedevano i loro numeri telefonici, si facevano portare nelle loro case per ottenere favori e spendere la notte con loro”. Un fenomeno che pare fosse particolarmente diffuso nelle città di Daraa e Quneitra, nel sud della Siria. Le più esposte erano donne senza “protezione maschile”. La cosa grave è che se ne parla da anni, almeno dal 2015. L’emittente inglese cita Danielle Spencer, operatrice umanitaria, la quale afferma di averne sentito sussurrare ripetutamente tra i profughi siriani in Giordania. A suo dire, particolarmente aggressivi erano i membri dei consigli locali delle due città siriane, che “non fornivano alcun tipo di assistenza se prima non avessero ricevuto favori sessuali”. E il fenomeno era talmente diffuso che alcune donne decisero di non chiedere più alcun aiuto. La ragione? Quelle che lo ricevevano venivano stigmatizzate tra le loro comunità come “consenzienti” agli abusi dei funzionari corrotti. Nel giugno 2015 un rapporto interno dell’International Rescue Committee (Irc) effettuò un sondaggio dagli esiti sorprendenti: su 190 donne provenienti da quelle zone il 40% aveva subito una qualche forma di violenza sessuale. E, quando l’agenzia “Care” chiese di poter investigare, le agenzie Onu per i profughi (specie Unhcr e Cocha) lo vietarono, argomentando che era prioritario utilizzare il personale locale nei luoghi dove gli internazionali non potevano accedere. “Si tratta di un problema antico e noto”, spiega al Corriereun alto funzionario Onu in Iraq. “Sappiamo da anni che il ricorso ad agenzie locali in zone ad alto rischio per i funzionari stranieri comporta problemi di abusi e violazioni dei nostri codici di comportamento. Ma in certi casi non abbiamo scelta. In Siria è una costante, come del resto in Libia e in certe zone dell’Africa. Senza i locali gli aiuti non arrivano del tutto”. Se ne parlava in Ciad tra il 2008 e 2011. Ma non occorre andare tra i disperati nelle zone di guerra per trovare fenomeni simili. La “Green Zone” di Bagdad nel 2012-13 fu scossa da gravi scandali interni quando venne alla luce che alcuni responsabili Unami (la missione Onu in Iraq) e del World Food Program ricattavano le funzionarie locali: il rinnovo dei contratti in cambio di sesso. Il fenomeno è amplificato in certi casi per le agenzie non governative internazionali, specie le minori, dove può capitare che il personale non sia stato selezionato con l’attenzione dovuta. A Kabul il giro di prostitute cinesi alimentato dai volontari internazionali, assieme alla diffusione dell’alcol nei locali degli stranieri, fu tra le cause delle violente rivolte popolari del 2006. Sudan. 15 anni dopo non c’è pace in Darfur di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 28 febbraio 2018 Il conflitto iniziò il 26 febbraio del 2003. Con un assalto al quartier generale dell’esercito del Sudan a Golo, nel distretto del Jebel Marra, il Fronte di Liberazione del Darfur sferrava il primo attacco pianificato contro una postazione militare strategica del Governo del presidente Omar Hassan Al Bashir. “A 15 anni dal primo atto significativo del conflitto nella regione sud-orientale del Sudan, uno dei Paesi più estesi del continente africano, il Darfur non sembra destinato a conoscere la parola pace. Quest’area, grande quattro volte l’Italia, è stata ed è tutt’ora teatro di una delle “partite” politiche più importanti del globo, un’area in cui si incontrano, ma soprattutto scontrano, gli interessi delle cosiddette potenze mondiali” scrive Antonella Napoli nel rapporto Sudan 2017-2018 presentato lunedì 26 febbraio nella sede della Fnsi a Roma. Stati Uniti e Cina si contendono l’accesso ad una regione con grandi risorse di acqua e potenzialmente ricca di giacimenti petroliferi. La situazione umanitaria non accenna a migliorare. Nel 2017, secondo Ocha (l’ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari), 4,8 milioni di persone hanno richiesto assistenza umanitaria, tra cui 3,1 milioni nel Darfur. Oltre 3 milioni e mezzo di persone sono state aiutate sotto il profilo alimentare e hanno ricevuto sostegno per il sostentamento minimo quotidiano, mentre 2,2 milioni di bambini sotto i cinque anni sono a tutt’oggi malnutriti. In tanti, nelle aree inaccessibili ai cooperanti non ricevono alcun aiuto. Altri rifugiati arrivano dai Paesi limitrofi: 500mila solo dal Sud Sudan tra il dicembre 2013 e l’inizio del 2017. E c’è anche un flusso continuo di sfollati, richiedenti asilo e migranti provenienti dalla Repubblica Centrafricana, dal Ciad, dall’Eritrea, dall’Etiopia, dalla Siria e persino dallo Yemen. La repressione della libertà di stampa - Il 2017 e i primi mesi del 2018 in Sudan sono stati caratterizzati da un’intensificazione della repressione della libertà di stampa con continui arresti di giornalisti e sequestro di copie dei giornali “responsabili” di aver pubblicato notizie avverse al Governo. Gli ultimi fermi gli scorsi 16 e 17 gennaio, quando i Servizi Segreti e di Sicurezza Nazionale (NISS) hanno prelevato separatamente sette giornalisti mentre erano in piazza per raccontare le proteste contro l’inflazione, che ha portato a un aumento esponenziale di viveri di prima necessità, nella capitale Khartoum. La persecuzione dei cristiani - Nel 2017 e nei primi mesi del 2018 è sensibilmente aumentata la persecuzione nei confronti dei cristiani. Il Governo ha promulgato leggi di pianificazione edilizia finalizzate alla distruzione delle chiese e degli edifici di proprietà delle comunità cristiane. Oltre 20 chiese sono state chiuse nell’ultimo anno. Nello stesso periodo, secondo l’organizzazione internazionale Open Doors che opera nella difesa dei cristiani perseguitati in 60 Paesi nel Mondo, almeno tre cristiani sono stati uccisi sebbene i numeri esatti siano difficili da ottenere. Centinaia gli arresti, decine sono ancora in carcere. La libertà negata alle donne e le violazioni dei diritti umani - Per tutto il 2017 sono stati registrati in Sudan innumerevoli arresti di attivisti per i diritti umani, di oppositori e di donne. Un inasprimento verso le libertà e i diritti dei cittadini sudanesi talmente vasto che il Parlamento Europeo a fine gennaio ha espresso una dichiarazione di condanna e ha chiesto la liberazione di tutti coloro che erano detenuti per motivi politici o per aver partecipato alle proteste contro l’aumento dei prezzi nel Paese, come per il caso di Salih Mahmoud Osman, vincitore del premio Sakharov per la libertà di pensiero. Il vicepresidente del Parlamento europeo, Heidi Hautala, e il presidente della Sottocommissione per i Diritti Umani, Pier Antonio Panzeri, hanno condannato l’arresto arbitrario di Osman, vicepresidente dell’Associazione degli Avvocati del Darfur e degli altri difensori dei diritti umani in Sudan. Proprio dagli avvocati nella capitale del Nord Darfur, El Fasher, è arrivata nei mesi scorsi la denuncia di una campagna delle forze di polizia militare incaricate della protezione nella regione della fustigazione arbitraria di donne e ragazze accusate di indossare abiti indecenti nei mercati e nelle strade pubbliche. I residenti di El Fasher hanno affermato di aver visto un centinaio di donne, per lo più universitarie e impiegate che andavano al lavoro o a scuola, frustate a sangue nella pubblica piazza. La campagna, che è durata per giorni, ha rappresentato una flagrante violazione della legge e della costituzione sudanese. L’associazione degli avvocati del Darfur ha chiesto alle autorità competenti di indagare immediatamente sugli incidenti e assicurare i colpevoli alla giustizia. Anche nella capitale del Sudan Khartoum non sono mancati arresti e condanne nei confronti di donne colpevoli di aver indossato abiti non conformi alle disposizioni della legge islamica, la Sharia. Molte donne sono state processate ai sensi dell’articolo 152 del codice penale del Sudan che si applica a “chiunque compia in un luogo pubblico un atto indecente o un atto contrario alla morale pubblica, indossi un vestito osceno o non conforme ai dettami della sharia e causi fastidio ai sentimenti pubblici” con la conseguente pena della fustigazione, in media quaranta frustate, a volte accompagnate da una multa. Afghanistan. Il presidente Ghani apre ai Taleban: amnistia e riconoscimento politico di giordano stabile La Stampa, 28 febbraio 2018 Dopo 17 anni di guerra senza via di uscita il presidente afghano Ashraf Ghani offre ai Taleban un accordo politico per arrivare alla pace: amnistia per i combattenti, riconoscimento come partito politico, cessate-il-fuoco e rilascio di tutti i prigionieri. I leader talebani verrebbero anche cancellati dalle liste nere del terrorismo. L’offerta è stata fatta in apertura della conferenza internazionale che punta a creare una piattaforma per i negoziati di pace, il cosiddetto “Processo di Kabul”. Arriva dopo una serie di segnali dal governo di Kabul, appoggiato dalla Nato, e dagli stessi Taleban, che per la prima volta hanno mostrato una serie volontà di dialogo. L’offerta di Ghani è “senza condizioni” e include la disponibilità alla revisione della Costituzione. Per Ghani è una svolta a 180 gradi. Finora ha sempre definito i Taleban “terroristi” o al massimo “ribelli”. Le offerte di dialogo precedenti era state fatte soltanto a settori dissidenti degli studenti barbuti, quelli più disponibili al compromesso. Questa volta invece il presidente afghano si rivolge a tutta la dirigenza talebana. L’anno scorso le forze armate afghane hanno subito oltre 14 mila perdite, fra morti e feriti. I Taleban hanno un controllo totale o parziale di più di metà del territorio. Sono esclusi dai grandi centri urbani ma dilagano nelle vaste zone rurali. Molto preoccupante è per esempio la situazione nella provincia di Farah, dove sono presenti anche truppe italiane.