Le carceri sono incivili? Una questione di classe… di Iuri Maria Prado Il Dubbio, 27 febbraio 2018 La responsabilità, oltre che della politica, è delle persone socialmente dominanti e influenti. Certamente è colpa delle schiatte politiche e di governo se il sistema carcerario nel nostro Paese è mantenuto in condizioni avvilenti e di inciviltà. Ma a mantenerlo in quelle condizioni è anche l’atteggiamento delle classi socialmente dominanti e influenti: la gente che sta bene, per capirsi. Non che la fascia povera e disagiata dimostri più attenzione e umanità davanti alla rassegna di ingiustizia e illegalità quotidianamente offerta dalla cronaca carceraria, anzi: e semmai è proprio dal ventre plebeo del Paese che viene la reazione più violenta all’idea che ci si debba preoccupare di far vivere appena decentemente i detenuti. Ma almeno quel vasto settore di popolo reazionario ha una scusante: non ha avuto a disposizione gli strumenti per farsi un’idea diversa e, soprattutto, non ha nessuna capacità di influenza. È soltanto la materia passiva degli esperimenti elettorali e delle inerzie dei deputati a cambiare le cose: accomodati a non cambiarle in faccia a un popolo al quale va benissimo che non cambino. Le classi agiate e culturalmente più attrezzate non hanno analoghe scusanti. E la loro colpa è dunque più grave. E a contrassegnare questa colpa, a ben guardare, è un profilo particolarmente odioso: la sistemazione di classe, appunto. Il censo. La posizione di privilegio sociale. L’idea, immonda, che dopotutto un “delinquente” il carcere non lo soffre poi tanto: ché è il suo ambiente. Ricordo con un certo schifo una cerimonia di presentazione di un libro di non so più quale giornalista sopra i tanti casi di cosiddetta (e giustamente detta) malagiustizia al tempo del terrore giudiziario degli anni Novanta, a Milano. Accanto a me stava un avvocato il quale, commentando quel reportage effettivamente agghiacciante, mi spiegava: “Sai, io sono garantista. Perché per un balordo, per un delinquente, finire in galera non è nulla: ma per una persona come noi, una persona perbene, è un dramma”. Ero allora piuttosto giovane e molto sprovveduto, ma non abbastanza per non capire di quale pasta fosse davvero fatto il “garantismo” di certi presunti liberali; sui quali doveva purtroppo aver ragione ancora dopo tanto tempo Corrado Alvaro: il loro, scriveva, “non è un partito, ma l’atteggiamento di chi non ha gravi ragioni di sofferenza”. A quella creatura seduta accanto a me, nemmeno remotamente si presentava il sospetto che il suo fervore garantista fosse magari male orientato, e determinato non dal senso di ribellione davanti all’ingiustizia del carcere incivile ma dal timore di poterci finire lui, un “galantuomo”. Che è già qualcosa, per carità, nel senso che un garantismo in prospettiva egoistica può in ogni caso contribuire a diffondere qualche sensibilità riformatrice: ma resta il segno di un rapporto abbastanza disturbato con le esigenze di amministrazione di un Paese che fino a prova contraria dovrebbe offrire la stessa giustizia a tutti, possibilmente decente e senza distinzioni di rango. C’è dunque anche questo, disgraziatamente, a restringere la via già accidentata verso un miglioramento possibile del sistema carcerario nel nostro Paese: una pulsione garantista semmai autoprotettiva, oltretutto dannosa perché offre alla reazione giustizialista l’argomento ottimo secondo cui la militanza per lo Stato di diritto ammanta in realtà l’interesse bieco di chi vuole “farla franca”. Se i “galantuomini” si occupassero in primo luogo dei “balordi”, proteggerebbero infine anche se stessi. Ma dovrebbero capire che non meritano un carcere così incivile perché sono persone: non perché sono persone “per bene”. Il carcere tra slogan populisti e partiti di sinistra divisi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 febbraio 2018 Viaggio nei programmi elettorali sul sistema penitenziario e la sicurezza. Ameno da una settimana dal voto la campagna elettorale è entrata nel vivo e i leader cercano di conquistare consensi puntando su argomenti che siano il più attrattivi possibile. Tra i cavalli di battaglia trova poco spazio il tema che, con questa pagina quotidiana, il Dubbio segue con attenzione: il carcere e la sicurezza. Proprio per questo vogliamo fare una sorta di viaggio nei programmi elettorali di tutto le forze politiche per avere una panoramica sull’argomento specifico. Iniziamo con il programma del Movimento Cinque Stelle che sul sistema penitenziario dice poco. Non fa alcun cenno alle misure alternative alla pena o ai benefici penitenziari, ma nel contempo viene proposto - per far fronte al sovraffollamento - la costruzione di 2 nuove carceri, che darebbero ai cittadini “più sicurezza e legalità”. A questo, in merito alla sicurezza, il Movimento 5 Stelle affianca l’assunzione di 10.000 nuovi membri delle forze dell’ordine. Un programma che si può sintetizzare così: più carcere e più uomini delle forze dell’ordine. Sempre sul fronte sicurezza, il Movimento 5 Stelle propone che le competenze in materia di ordine pubblico e sicurezza non siano di esclusiva competenza dello Stato ma che siano condivise con enti locali e associazioni private. Non viene spiegato in quale modo e ciò potrebbe essere interpretato in doversi modi. Una ronda cittadina 2.0 come ha sperimento la sindaca grillina di Torino? Non è dato sapere. A differenza del Movimento 5 Stelle, Potere al popolo, l’altro partito che corre da solo, dedica una maggiore attenzione al sistema penitenziario. Viene proposto l’abolizione dell’ergastolo, sia condizionale che ostativo. Nel programma viene sottolineato che “l’assenza di ogni possibilità di uscita è incompatibile con la finalità rieducativa della pena, prevista dall’art. 27 della Costituzione”. Viene inoltre proposto l’abolizione del 41bis, sottolineando che è “riconosciuto quale forma di tortura dall’Onu e da altre istituzioni internazionali” e viene proposto di adottare al suo posto misure di controllo, per i reati di stampo mafioso, allo stesso tempo efficaci ed umane, che non per- mettano la continuità di rapporto con l’esterno. Per risolvere il problema carcerario, invece, si propone un provvedimento di amnistia e indulto. Per quanto riguarda la vita carceraria, Potere al Popolo pensa soprattutto a un più ampio utilizzo delle misure alternative e di validi percorsi per il reinserimento dei detenuti. Per finire, c’è la proposta di migliorare la legge sul reato di tortura approvata dal Parlamento a luglio 2017, perché ritenuta insufficiente. Liberi e Uguali, a differenza del precedente partito di sinistra, nel programma mette nero su bianco che il regime del 41bis non solo non va abolito, ma nemmeno mitigato. Per quanto riguarda il resto del sistema penitenziario, LeU propone un urgente intervento sul sistema carcerario e una riforma dell’ordinamento penitenziario per garantire il rispetto della dignità della persona, anche quando detenuta. “Il numero di suicidi in carcere è un dato che non può essere più ignorato”, viene sottolineato nel programma. Chiede di recuperare la funzione rieducativa della pena, rafforzando le misure alternative. Inoltre chiede la modifica della legge sul reato di tortura secondo le indicazioni provenienti dall’Onu. Il centrodestra, avendo al suo interno varie anime, sul versante del sistema penitenziario chiede un potenziamento del ricorso a misure alternative al processo penale, sulla base delle esperienze positive della messa alla prova, in assenza di pericolosità sociale, anche in relazione alla finalità rieducativa della pena. Nel contempo, sempre sui punti del programma condiviso, il centrodestra propone nessuno sconto di pena per reati di particolare violenza e efferatezza, un nuovo Piano Carcere, il rimpatrio di tutti i clandestini e revisione della legge sulla tortura. Su quest’ultimo punto - ma non solo -, per capire il tipo di revisione, va visionato il programma del secondo partito principale della coalizione: la Lega. Sulla legge sulla tortura, il programma leghista chiede di cancellarlo perché lo ritiene penalizzante nei confronti delle forze dell’ordine. A proposito del Piano Carceri, mentre il programma del centro destra è generico, la Lega invece chiede di costruire nuovi carceri e assunzioni di nuovi agenti di polizia penitenziaria. A questo aggiungiamo la revisione del progetto di modifica dell’ordinamento penitenziario ancora non approvato, inasprimento delle pene per lo spaccio, abolizione della cosiddetta “sorveglianza dinamica” in carcere, nonché revocare l’accordo con l’Ucoii in relazione agli Imam che entrano nelle carceri, perché, sempre secondo la Lega, “non possono essere considerati Imam moderati”. Il centrodestra ha un programma quindi vago su carcere e sicurezza, ma la Lega (assieme a Fratelli d’Italia) nello specifico è molto più dettagliato: così come per il Movimento 5 Stelle, il programma si può sintetizzare con “più carcere, più uomini delle forze dell’ordine”. Il centrosinistra, invece, non ha punti specifici sull’argomento carceri. Il Partito Democratico ha messo nero su bianco quello che ha fatto durante questa legislatura. Per quanto riguarda le azioni future, il Pd parla di “piena attuazione della riforma dell’ordinamento penitenziario” e aggiunge che dovranno costituire la bussola della prossima legislatura “ i percorsi di esecuzione della pena individualizzati e il ricorso alle misure alternative alla detenzione, attraverso formazione e lavoro”. Sulla sicurezza, il Pd scrive che “occorre arrestare la deriva securitaria: nella crisi dello Stato sociale abbiamo ceduto verso lo Stato penale. La sinistra italiana deve tornare a svolgere il suo compito. Perché l’affermazione della dignità umana è l’argine più efficace contro la violenza”. Nel centrosinistra, ricordiamo, c’è anche il partito della Bonino + Europa che nel suo programma sottolinea che è necessario superare il primato della detenzione. Propone, inoltre, l’abolizione dell’ergastolo, sia condizionale che ostativo, spiega anche che va evitato l’abuso di provvedimenti emergenziali e di stampo securitario, soprattutto nella gestione di fenomeni complessi quali l’immigrazione e l’esclusione sociale. Infine, propone la fine dell’abuso della custodia cautelare, chiedendo di favorire un uso più ampio delle misure alternative al carcere. Stop alla riforma dell'ordimento penitenziario, gli avvocati si mobilitano reportpistoia.com, 27 febbraio 2018 Lo scorso 22 Febbraio il Consiglio dei Ministri ha approvato in via preliminare tre decreti attuativi di riforma dell’ordinamento penitenziario, quello su lavoro, giustizia minorile e giustizia riparativa. Ha però rinviato al prossimo Consiglio dei Ministri, che si riunirà il 7 Marzo (e dunque dopo le elezioni), l’approvazione del primo dei decreti attuativi della riforma dell’ordinamento penitenziario voluta dal Ministro Orlando, quello più rilevante ed atteso, perché incisivamente finalizzato a contrastare il sovraffollamento dei carceri e la recidiva dei reati. “Si tratta - commenta il Consiglio direttivo della Camera Penale di Pistoia - di una ingiusta quanto desolante battuta di arresto, arrivata sebbene per l’approvazione del decreto mancassero soltanto le controdeduzioni alle obiezioni sollevate dalle commissioni Giustizia di Camera e Senato e sebbene sia il Ministro della Giustizia che il Presidente del Consiglio dei Ministri avessero ripetutamente rassicurato sulla comune volontà politica di tale approvazione e sulla certa attuazione di una riforma tanto fondamentale in materia di esecuzione penale”. Gli avvocati pistoiesi insomma non ci stanno e giudicano duramente lo slittamento a dopo le elezioni della “possibile” entrata in vigore di un decreto legislativo su temi tanto delicati quali l’accesso alle misure alternative al carcere. Una scelta che “non può che destare preoccupazione, perché mette a rischio l’effettiva realizzazione della riforma”. Una riforma attesa ormai da molti anni, già dal Gennaio 2013, quando la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha invitato l’Italia a provvedere urgentemente a misure strutturali che modificassero il sistema penitenziario, spesso in contrasto con i principi posti a base delle Convenzioni Internazionali. Questa incertezza potrebbe ora mettere a rischio il lavoro di 3 anni. “Il mancato coraggio dimostrato dal Governo il 22 Febbraio - scrive ancora l'organismo degli avvocati pistoiesi - pone a rischio di fallimento una riforma tesa all’attuazione mediante il percorso carcerario del principio di rieducazione e di reinserimento sociale, voluta dall’Avvocatura, dai Garanti dei diritti dei detenuti e, soprattutto, dai detenuti stessi, che in essa, da 5 anni, hanno riposto ogni loro speranza ed aspettativa”. Per protestare contro questa “assurda situazione” di blocco del decreto, e per dimostrare solidarietà verso gli oltre 10.000 detenuti che stanno portando avanti da giorni uno sciopero della fame, la Giunta dell’Unione delle Camere Penali ha deliberato, per i giorni 13 e 14 Marzo 2018, l’astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria nel settore penale e, per il 27 Febbraio, una giornata di mobilitazione generale e una conferenza stampa a Roma, presso la sede dell’Unione delle Camere Penali. Si punta a sollecitare la fissazione del - ormai prossimo - Consiglio dei Ministri e l’approvazione immediata della riforma. Il direttivo della Camera Penale di Pistoia sottolinea “il suo rammarico ed il suo disappunto per quanto il 22 di Febbraio doveva accadere e non è accaduto”, per quell’attuazione di diritti fondamentali inaccettabilmente rinviata a “data da destinarsi”. E invita i propri iscritti ad una attiva partecipazione alle iniziative deliberate sul piano nazionale. La riforma dell'Ordinamento penitenziario non può subire altri rinvii. Chi ha nutrito gli estremismi? di Domenico Cacopardo Italia Oggi, 27 febbraio 2018 Non basta condannarli. Occorre anche andare a vedere da chi e come essi sono stati coltivati. Non è stato il destino cinico e baro a spingerci sull’orlo del precipizio. Siamo noi italiani che, autonomamente, ci siamo incamminati verso il ciglio della montagna che avevamo scalato. Se Nino Andreatta non avesse voluto e deciso il divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro, il debito pubblico non avrebbe raggiunto i livelli pre-euro e la nostra vita sarebbe stata meno infelice. La ragione di quel divorzio, almeno come presentata dal ministro e dalla Banca d’Italia, allora diretta dal bancario Ciampi, era morale: nel senso che, una volta costretto a competere con i privati, l0 Stato emittente di titoli di debito avrebbe dovuto assumere comportamenti virtuosi. Non sono queste le scelte etiche che deve fare la politica. Giappone, Regno Unito e Stati Uniti non sono passati attraverso il divorzio e hanno sempre gestito il debito pubblico contando sulla fattiva collaborazione degli istituti di emissione. Se non fosse accaduto ciò che è accaduto, ci saremmo presentati all’appuntamento con l’euro con ben altre carte in mano. E questo è solo un esempio. Se organi dello Stato e delle amministrazioni comuni imbelli o, in molti casi, collusi per motivi ideologici, gabellati per motivi ideali, non avessero tollerato per decenni che edifici privati e pubblici fossero occupati da bande di sbandati, da giovani dediti allo spaccio e alle droghe, o alla violenza tout court, non ci troveremmo oggi con le piazze percorse da gente che spara bombe carta cariche di pezzi di metallo per fare male a poliziotti che sono la diretta espressione dei ceti popolari. Condannare gli opposti estremismi diventa un esercizio ipocrita, perché occorrerebbe prima condannare tutti coloro che sono stati complici della creazione di queste bande. In realtà, gli opposti estremismi di questi giorni sono un unico criminale sfascismo, al quale bisogna opporsi con tutte le forze di cui dispone lo Stato democratico. Compresa un’autorità giudiziaria purtroppo più attenta alla politica che alle esigenze di sicura vita quotidiana dei cittadini. Se un soggetto imbarazzante come Luigi Di Maio si atteggia a ducetto di una repubblica da opera buffa (già il suo mentore è un comico, peraltro spompato) questo non accade perché il giovanotto è uscito dallo stadio San Paolo ed è entrato in politica. È perché il processo psicopatologico più facile è quello di addossare ad altri le proprie manchevolezze e responsabilità: in questo specifico caso, con l’aiuto di qualche fascistello della carta stampata o del circo mediatico, hanno pensato di sollevare il “popolo” contro i politici che di quel popolo erano e sono lo specchio. Per gli esclusi, per i colpiti dalla crisi è un rito liberatorio attribuire ad altri i loro personali fallimenti, la loro impreparazione, la loro neghittosità, la loro propensione all’imbroglio nei confronti del datore di lavoro, soprattutto, se si tratta dello Stato. E il fatto che un manager abbia uno stipendio elevato o una pensione di quelle definite d’oro non è il segno di un’ingiustizia è il segno che studi, di specializzazioni, lavoro e di anni di lavoro. Non è colpa del manager ben pagato se tu non hai studiato, non hai lavorato, non hai pagato i contributi. Invece di guardare a se stessi e a cosa fare per se stessi e la comunità, è più facile rifarsi una verginità, rivendicare un ruolo additando al pubblico ludibrio gli altri, quelli che sono andati avanti. Ai miei lettori che vanno in visita negli Stati Uniti suggerisco di osservare i monumenti che ornano le città e i nomi delle vie. Non vedranno un monumento dedicato a un caduto. Ai caduti, da Lincoln a Kennedy a Martin Luther King si dedica un memorial. I monumenti sono destinati ai vincitori, quelli che hanno segnato la storia di quel grande Paese. Rispettando le regole. Così i nomi delle strade. Da noi, le strade sono dedicate ai caduti, alle vittime. I dipinti descrivono partigiani sbudellati. Solo Renato Marino Mazzacurati, il grande scultore del secolo scorso, ha raffigurato un partigiano come vincente. Direte tutto frutto del dominio millenario della Chiesa cattolica. Può essere, ma occorre ricordare che il Paese anche oggi è percorso dal demone dello sconfittismo, che permea la rinuncia a studiare, la rinuncia a specializzarsi, la trasformazione delle università in parcheggi in attesa di un “posto”. Celebriamo don Milani che teorizzò una scuola (elementare) che andasse col passo degli ultimi. I talenti (con questa ideologia) sono elementi negativi che non debbono essere valorizzati, perché espressione di differenze umane, intellettuali e sociali. Altrove, la scommessa è quella di valorizzarli, i talenti. In Germania (e paesi con lo stesso modello educativo) la prima selezione tra chi è destinato a proseguire gli studi e chi deve fermarsi ai gradi più bassi. Altrove hanno marce in più. E che noi, per noi stessi, per i nostri fi gli, per i nostri nipoti rinunciamo alle potenzialità enormi di questa grande Nazione, scegliendo i più perdenti tra i perdenti, i 5Stelle, non è un errore, è un crimine nei confronti della Storia. Torna in Italia e l’arrestano, l’incubo di Giuseppe come in un film di Sordi di Nicola Pinna La Stampa, 27 febbraio 2018 La condanna a 26 anni per sequestro, poi la scarcerazione: “Torno a vivere”. Giuseppe Morelli aveva già deciso che oggi sarebbe stato il suo ultimo giorno di vita. Avrebbe aspettato la chiamata dell’avvocato e poi l’avrebbe fatta finita. “Dopo tanti anni non avevo più la forza di sopportare quest’ingiustizia. Non avevo più un briciolo di lucidità per stare dentro a una cella. Dopo tutto questo tempo, tra l’altro, non ho ancora capito come sono finito in una storia così grave. Sono innocente, non ho fatto del male, ma i tribunali italiani non mi hanno dato la possibilità di dimostrarlo”. Giuseppe Morelli parla e piange, si guarda intorno, evidentemente disorientato dal caos che ha trovato fuori dal carcere. La sua vita è ricominciata ieri, al termine di un incubo iniziato a sua insaputa nel 1994. Lui l’ha scoperto nel 1999, quando la polizia di mezza Europa si è messa sulle sue tracce per notificargli un ordine di arresto e una sentenza definitiva per sequestro di persona a scopo di estorsione. Senza saperlo, senza l’assistenza di un avvocato e senza aver mai ricevuto la notifica di un atto giudiziario, Giuseppe Morelli (che oggi ha 69 anni) si è ritrovato sulla testa un’accusa pesantissima: quella di aver fatto parte del commando che il 27 ottobre del 1979 sequestrò la farmacista brianzola Emilia Mosca. La donna venne liberata 4 mesi dopo ad Appiano Gentile e a distanza di qualche anno un pentito calabrese raccontò alla polizia di aver organizzato quel rapimento insieme ad altre 5 persone. Tra cui Giuseppe Morelli, un emigrato originario di Pagani, in provincia di Salerno. “Io allora stavo già in Germania, facevo il cuoco. Del sequestro non so nulla, ma la cosa più grave è che non immaginavo di essere finito in un processo con quest’accusa”. Per un incredibile pasticcio giudiziario, l’anziano viene difeso da un avvocato d’ufficio che poi rinuncia e non viene mai sostituito, per cui gli atti del processo finiscono in uno studio legale che non se ne occupa. Di fatto, accade che nel 1999 il cuoco campano viene condannato a 26 anni di carcere. E così scatta la rogatoria internazionale. “Sono stato arrestato in Polonia e anche ad Amburgo, dove avevo aperto un ristorante, ma in entrambi i casi sono stato rilasciato in poco tempo, perché i tribunali che dovevano convalidare il fermo hanno deciso che mancavano i presupposti per tenermi in carcere”. Secondo i giudici tedeschi e polacchi, si legge ora negli atti, i tribunali italiani non avevano assicurato a Giuseppe Morelli le garanzie difensive. E così la richiesta di arresto è stata respinta. “Io, però, volevo chiarire la mia posizione e così sono tornato in Italia: mi sono consegnato alla Polfer di Milano e mi hanno arrestato. Credevo di poter dimostrare la di essere innocente, invece mi hanno negato ogni diritto e mi hanno sbattuto in cella. Dietro le sbarre mi sono ammalato, trattato come uno dei peggiori delinquenti”. Una vicenda che ricorda Un detenuto in attesa di giudizio, film del 1971 con Alberto Sordi. Sembrava che per la riapertura del caso non ci fossero i presupposti, finché gli avvocati Carlo Figus e Attilio Villa non sono riusciti a dimostrare che gli atti non notificati nei tempi previsti dal codice di procedura penale annullano la sentenza. E così ieri questo caso di malagiustizia si è risolto di fronte alla Corte d’Assise di Monza che ha ordinato la scarcerazione del cuoco campano che nel frattempo è diventato un vecchietto. Il giudice ha letto la sentenza senza nascondere la commozione e Giuseppe Morelli pochi minuti dopo ha rivisto la luce. Sotto il sole di Oristano, in Sardegna, visto che da qualche tempo era stato trasferito in un carcere di massima sicurezza, in mezzo ai boss della criminalità organizzata. “Lo Stato italiano dovrà assumersi la responsabilità della grave ingiustizia che mi ha fatto patire. Ma soprattutto spero di essere in tempo per ricostruire una vita e curare la malattia che mi sono preso dietro la sbarre”. Detenzione inumana: il ministero non paga le spese anche se il ricorso è respinto di Anna Larussa altalex.com, 27 febbraio 2018 Cassazione penale, SS.UU., sentenza 26.01.2018 n° 3775. Con la sentenza in esame le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno fissato alcuni principi in relazione agli strumenti risarcitori introdotti nell'ordinamento penitenziario dal d.l. 92 del 2014, in seguito alla nota sentenza della Corte Edu sul caso Torreggiani e al. c. Italia, in favore dei detenuti e degli internati che abbiano subito un trattamento inumano in violazione dell'art. 3 della Cedu. I rimedi in questione, disciplinati rispettivamente agli artt. 35-bis e 35-ter ord. pen., consentono come noto all'interessato, che assuma di patire o di aver patito una condizione detentiva contraria all'art. 3 Cedu, di rivolgersi al magistrato di sorveglianza al fine di ottenere l'immediato ripristino della legalità e al contempo di ottenere una riduzione della pena da espiare (nella misura di un giorno per ogni dieci giorni di pregiudizio subito) o, in via subordinata, un risarcimento in forma monetaria (nella misura di 8 euro per ogni giorno di pregiudizio patito). In entrambe le ipotesi (35-bis e 35-ter cit.), il procedimento innanzi al magistrato di sorveglianza si svolge secondo le previsioni degli artt. 666 e 678 cod. proc. pen., con la necessaria estensione del contraddittorio all'amministrazione interessata. Orbene, nel caso all'esame della Corte il procedimento dinanzi al Magistrato di sorveglianza si era concluso con l'accoglimento della domanda del detenuto ex art. 35 ter. L'Amministrazione penitenziaria aveva proposto reclamo, senza l'assistenza dell'Avvocatura generale, dinanzi al Tribunale di sorveglianza, assumendo la natura risarcitoria del diritto al ristoro del danno da detenzione inumana ed eccependo la prescrizione quinquennale dello stesso. Il Ministero della giustizia aveva poi censurato il mancato accoglimento dell'eccezione proponendo ricorso per cassazione: in particolare, sostenendo che il tribunale avesse erroneamente ritenuto che la prescrizione non potesse decorrere anteriormente alla data di entrata in vigore del d.l. 92/2014 sull'assunto secondo cui la novella del 2014 non avrebbe introdotto un nuovo diritto ma solo disciplinato le modalità di azionare un diritto risarcitorio, quello derivante dalla violazione dell'art. 3 Cedu, già esistente ex art. 2043 c.c. Il Procuratore generale chiedeva il rigetto del ricorso evidenziando l'inconferenza del richiamo alla disciplina civilistica attesa la natura pubblicistica dell'istituto. La sezione assegnataria del ricorso, assumendo che il ricorso dovesse essere rigettato poiché, prima della novella, il ristoro per la detenzione in condizioni inumane non poteva essere azionato con la procedura e le forme neo-introdotte (e pertanto la prescrizione non poteva decorrere), ha rimesso alle Sezioni unite la questione se il Ministero della giustizia, in caso di rigetto del ricorso per cassazione possa essere condannato al pagamento delle spese processuali e di una somma a favore della cassa delle ammende, stante l'esistenza di un contrasto sul punto: ed invero, secondo un primo indirizzo (Cass. Pen., S.U. 34559 del 2002), seguito dal Procuratore Generale, la posizione del Ministero della giustizia è equiparabile a quella del Ministero dell'Economia e delle finanze nel caso di rigetto del ricorso avverso l'ordinanza emessa dalla Corte d'appello in sede di riparazione per ingiusta detenzione, mentre il sintagma “parte privata” di cui all'art. 616 c.p.p. va inteso come parte diversa dal pm. Per contro, secondo altro indirizzo (Cass. Pen., Sez I 31475 del 2017), seguito dal Ministero, la parte privata non è identificabile con lo Stato, la cassa delle ammende è un'articolazione del ministero: pertanto, nel caso di ricorsi ex art. 35 bis e 35 ter deve trovare applicazione la regola dell'art. 616 la quale, riferendosi letteralmente alla parte privata, esclude la parte pubblica dal pagamento delle spese processuali. Preliminarmente alla soluzione della rimessa questione la Corte di cassazione ha scrutinato i motivi alla base del ricorso per cassazione. Dopo aver ricordato la disciplina dettata dagli artt. 35 bis e 35 ter dell'ord. pen. ha evidenziato come il procedimento riparatorio secondo lo schema delineato dall'art. 35 bis ord. pen. individui l'Amministrazione penitenziaria come contraddittore istituzionale rispetto all'istanza del detenuto “quale plesso amministrativo preposto alla custodia partecipe della realizzazione delle finalità costituzionali della pena”. La natura pubblicistica della funzione svolta sarebbe, ad avviso del supremo consesso, idonea a giustificare l'estensione alla fase del reclamo della possibilità di costituzione informale dell'Amministrazione penitenziaria: di qui l'affermazione del principio secondo cui “Il reclamo-impugnazione di cui all'art. 35 bis comma 4 ord. pen. può essere proposto dall'Amministrazione penitenziaria senza il patrocinio e l'assistenza dell'Avvocatura dello Stato”. Nel merito la Corte ha invece escluso la fondatezza del ricorso statuendo che “La prescrizione del diritto leso dalla detenzione inumana e degradante azionabile dal detenuto ai sensi dell'art 35 ter commi 1 e 2 ord. pen. per i pregiudizi subiti anteriormente all'entrata in vigore del decreto legge 92 del 2014 decorre dal 28 giugno 2014”: ciò, sull'assunto secondo cui la novella del 2014 non avrebbe introdotto un diritto nuovo ma solo una modalità di azionabilità di quel diritto del detenuto ad ottenere che l'espiazione della pena non avvenga mediante trattamenti inumani e degradanti che frustrano in radice la finalità rieducativa della pena. Trattandosi di diritto preesistente allo strumento introdotto nel 2014, per il detenuto che sia ristretto in condizioni inumane all'atto dell'entrata in vigore della novella la prescrizione comincia a decorrere da questo momento, in applicazione del principio generale in virtù del quale la prescrizione comincia a decorrere da quando il diritto può essere fatto valere ex art. 2935 c.c. Di qui il rigetto del ricorso per infondatezza dell'eccezione ministeriale. Sulla condanna alle spese e al pagamento di una somma alla cassa delle ammende la Corte ha concluso invece nel senso dell'esclusione della stessa osservando che l'Amministrazione penitenziaria interviene nel procedimento ex artt. 35 bis e ter quale titolare del trattamento dei detenuti e portatore di interessi pubblici attinenti alla prevenzione ed esecuzione della pena ovvero quale soggetto che esercita la funzione pubblica relativa alla modalità di gestione della popolazione detenuta. Ragion per cui il Ministero della giustizia ricorrente non può essere assimilato a una parte privata e non può essere condannato al pagamento delle spese processuali e di somme a favore della cassa delle ammende. Stretta a chi resiste a pubblici ufficiali di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 27 febbraio 2018 Sezioni unite penali della Cassazione. La resistenza a una pluralità di pubblici ufficiali non rappresenta un unico reato ma tanti delitti quanti sono i pubblici ufficiali effettivamente coinvolti. Lo chiariscono le Sezioni unite penali della Cassazione con informazione provvisoria resa al termine dell’udienza dello scorso 22 febbraio. Scelta la linea della maggiore severità, che potrà avere conseguenze nel trattamento sanzionatorio inflitto per esempio in occasione di scontri al termine di manifestazioni politiche o sportive, a fronte invece di un orientamento che sosteneva l’unicità del reato. Le motivazioni saranno disponibili solo tra qualche tempo, ma intanto è già possibile dedurre che le Sezioni unite hanno deciso di collocarsi all’interno di quella linea interpretativa secondo la quale, se la funzione pubblica è esercitata da più pubblici ufficiali attraverso azioni che si integrano a vicenda, l’insieme delle reazioni e resistenze non configurano un unico reato, disciplinato dall’articolo 337 del Codice penale, ma una pluralità “giacché la resistenza - mette in evidenza l’ordinanza di rimessione, la numero57249 del 2017 -, pur ledendo unitariamente il pubblico interesse alla tutela del normale funzionamento della pubblica funzione, si risolve in distinte offese al libero espletamento dell’attività funzionale di ciascun pubblico ufficiale”. L’indirizzo opposto, invece, si criticava, svaluta la tutela della libertà di azione del pubblico ufficiale e trascura che la pubblica amministrazione è un’entità astratta, che agisce attraverso persone fisiche, ciascuna delle quali conserva una distinta identità, suscettibile di autonoma offesa. Secondo questa lettura, evidentemente privilegiata dalle Sezioni unite, il reato di resistenza a pubblico ufficiale, pur rappresentando un delitto contro la pubblica amministrazione, è caratterizzato da violenza o minaccia alla persona del singolo pubblico ufficiale: in questa prospettiva allora l’interesse protetto è quello della pubblica amministrazione a non subire ostacoli nel momento in cui per rispondere ai suoi compiti istituzionali deve attuare la sua volontà attraverso lo strumento dei pubblici ufficiali. Netta quindi la conclusione per cui scatta il concorso formale omogeneo di reati se chi agisce, con un’unica azione ha deliberatamente commesso più violazioni della medesima disposizione di legge, nella consapevolezza di contrastare l’azione di ciascun pubblico ufficiale. Il diverso orientamento, invece, valorizzava un aspetto diverso della condotta, mettendo in luce come l’obiettivo della condotta criminale della resistenza a pubblico ufficiale è l’opposizione all’atto piuttosto che la violenza o minaccia nei confronti del singolo. Presunzioni tributarie con limitata rilevanza in sede penale di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 27 febbraio 2018 Tribunale di Firenze - sezione II penale - sentenza 5 settembre 2017 n. 3170. In tema di reati tributari, le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur potendo avere valore indiziario, non possono costituire di per sé fonte di prova della commissione del reato, assumendo esclusivamente il valore di dati di fatto, che devono essere valutati liberamente dal giudice penale unitamente ad elementi di riscontro che diano certezza dell'esistenza della condotta criminosa. Questo è quanto emerge dalla sentenza 3170/2017 del Tribunale di Firenze. I fatti - Protagonista della vicenda è un imprenditore, tratto a giudizio per il reato di dichiarazione infedele, di cui all'articolo 4 del Dlgs 74/2000, poiché accusato, nella qualità di socio di una snc, di avere indicato nella dichiarazione annuale Irpef relativa all'imposta per l'anno 2010 elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo, evadendo l'imposta Irpef per una somma di quasi 220 mila euro. L'accusa si fondava sugli accertamenti svolti dall'Agenzia delle entrate sul conto della società e dei soci, all'esito dei quali si presumeva la sussistenza di un ammontare complessivo diverso dovuto a movimenti finanziari intercorsi tra i conti correnti personali dei soci e della società. In particolare, la contestazione si poggiava sulle risultanze dell'attività di controllo svolte in sede di Pvc - Processo Verbale di Constatazione, ovvero l'ultimo atto dell'ispezione fiscale, non riprodotto dal pubblico ministero, da cui si presumeva che i versamenti effettuati sul conto corrente dell'imprenditore costituivano altrettanti ricavi da attività d'impresa. La decisione - Il Tribunale, tuttavia, assolve l'imprenditore dal reato ascrittogli ritenendo non formata la prova in ordine alla commissione materiale della condotta. Ebbene, quanto alla procedura di accertamento fiscale, il giudice toscano precisa che la possibilità di utilizzo delle presunzioni in campo tributario è stata espressamente prevista dall'articolo 39 del Dpr 600/1973, in tema di imposte dirette, e dagli articoli 54 e 55 del Dpr 633/1972, in tema di Iva, “al fine di ridurre l'onere probatorio in capo all'Amministrazione finanziaria nell'attività di accertamento”, la quale viene così “facilitata nel dimostrare l'esistenza dei fatti costitutivi della maggiore pretesa tributaria”. Quanto alla formazione della prova in sede penale, invece, il Tribunale chiarisce che il giudice può avvalersi “degli stessi elementi che determinano presunzioni secondo la disciplina tributaria, a condizione però che gli stessi siano assunti non con l'efficacia di certezza legale, ma come dati processuali oggetto di libera valutazione ai fini probatori”, i quali devono trovare oggettivo riscontro o in distinti elementi di prova ovvero in altre presunzioni. In sostanza, le presunzioni previste dalle norme tributarie hanno un mero valore indiziario e non costituiscono di per sé fonte di prova della commissione dell'illecito, essendo dati di fatto che devono trovare un preciso riscontro. Ciò posto, è chiaro che, nel caso di specie, gli elementi di prova posti a fondamento dell'accusa hanno natura meramente indiziaria e non sono sufficienti a fondare il giudizio di responsabilità penale dell'imputato. Per il giudice, infatti, la conclusione adottata in via presuntiva, che i movimenti sul conto corrente costituiscano “altrettanti ricavi da attività d'impresa, ricostruzione nemmeno sottoposta alla conoscenza di questo giudice, non può pedissequamente fondare la responsabilità per il reato contestato”. Il concorso del consulente fiscale nel reato tributario del cliente Il Sole 24 Ore, 27 febbraio 2018 Reati tributari - Consulente fiscale - Violazione tributaria del cliente - Partecipazione con dolo - Concorso nel reato - Responsabilità. In tema di reati tributari, è responsabile il consulente fiscale, a titolo di concorso per la violazione tributaria commessa dal cliente, quando il primo sia l'ispiratore della frode, ed anche se solo il cliente abbia beneficiato dell'operazione fiscalmente illecita. Fattispecie relativa al delitto di indebita compensazione, nella quale il professionista aveva avuto un ruolo da regista ispirando la frode fiscale ed ideando lo schema della compensazione indebita, tramite F24, di crediti inesistenti, con lo scopo di omettere i versamenti Iva dovuti. • Corte cassazione, sezione 3 penale, sentenza 18 gennaio 2018 n. 1999. Delitti contro il patrimonio mediante frode - Auto-riciclaggio - Consulente fiscale - Concorso nel reato - Condizioni. Concorre nel reato di auto-riciclaggio di cui all'articolo 648-ter.1 il consulente fiscale della società attraverso la quale sia stato “ripulito” il denaro di provenienza delittuosa (bancarotta fraudolenta), il quale abbia omesso di segnalare le operazioni sospette, pur essendone obbligato ai sensi dell'articolo 41 del d.lgs. 231/2017, ed abbia avuto condotte attive ed omissive tenendo la contabilità in modo confuso ed irregolare. Tali comportamenti consentono infatti di affermare che il consulente avesse la consapevolezza che le somme investite fossero di provenienza delittuosa e che dunque avesse intenzionalmente favorito l'operazione illecita. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 18 settembre 2017 n. 42561. Reato (in genere) - Concorso di persone nel reato - Reato tributario - Reato di dichiarazione infedele - Commercialista - Responsabilità - Condotte penalmente rilevanti. Il commercialista, imputato per il reato di dichiarazione infedele in concorso di cui agli articoli 110 c.p., 4 e 12, comma 1, D.Lgs. n. 74/2000 relativamente alle imposte sui redditi, risponde del reato, quale istigatore, per avere, nella sua qualità di commercialista, tenutario delle scritture contabili dell'impresa e incaricato della redazione e trasmissione delle dichiarazioni dei redditi, prestato la propria opera in continuativa difformità rispetto ai suoi doveri professionali e omettendo, poi, ogni adempimento utile per ripristinare la legalità, pur avendo continuato per lungo tempo ad assistere professionalmente il suo cliente. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 16 giugno 2015 n. 24967. Reati tributari - Evasione fiscale - Emissione di fatture per operazioni inesistenti - Studio commerciale - Responsabilità penale - Concorso - Dolo - Condizione. In tema di consulenza fiscale, la responsabilità concorsuale del professionista per la violazione commessa dal cliente deve ritenersi sussistente quando sia il consulente abbia ispirato la frode ai danni del Fisco ed anche solo con vantaggio per il cliente. Pertanto, la responsabilità penale del commercialista a titolo di concorso di persone nel reato sussiste soltanto in caso di dolo. La condotta dolosa da parte del consulente, consiste infatti nell'essere consapevole e cosciente del fatto che sta ponendo in essere una frode fiscale. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 16 giugno 2011 n. 24166. Lecce: in carcere o ai domiciliari per sbaglio, il Salento nella top ten dei risarcimenti Quotidiano di Puglia, 27 febbraio 2018 Il Salento tra le aree con il più alto tasso di errori giudiziari: decimo posto e 28 casi nel 2017. C’è Lecce ed il suo distretto di Corte d’Appello nella top ten italiana dei casi di ingiusta detenzione. I dati sono stati comunicati dal Ministero dell’Economia e delle Finanze al Ministero della Giustizia. Dati in chiaro-scuro per il capoluogo salentino: se rispetto al 2016 passa dal sesto al decimo posto nella classifica delle città italiane per ingiusta detenzione, è vero anche che i casi sono passati da 6 a 28. Dunque, più che quadruplicati. Una crescita esponenziale, dunque, a livello nazionale dell’errore giudiziario che vede tra i peggiori protagonisti anche la giustizia salentina. Consolazione, magra consolazione, è quella di non essere comunque fra le top ten nei risarcimenti versati dallo Stato agli indagati arrestati per sbaglio o arrestati e poi assolti con formula piena. I casi più eclatanti appartengono al passato. Uno degli ultimi riguarda il monteronese G.G., 48 anni: arrestato a giugno del 2014 con l’accusa di aver rapito una bambina di sei anni, fu assolto nel processo di primo grado. Dopo aver trascorso sette mesi in custodia cautelare. Ha chiesto il risarcimento massimo 516.456,90 (il vecchio miliardo di lire). Ed anche due milioni di euro a Google, invocando il diritto all’oblio. Altro caso è quello di T.E., 40 anni, di Seclì: assolto tre volte dalle accuse di resistenza a pubblico ufficiale e di detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti. Anche lui ha invocato il tetto massimo del risarcimento del danno. Ed ancora, un caso più particolare: quello di A.T., 33 anni, di Alezio. Condannato ad un anno e mezzo di reclusione in appello, dopo i sette anni presi in primo grado, è rimasto recluso 757 giorni. Peraltro ha ottenuto la sospensione della pena. E per più restò privato della libertà nove giorni in più, per una mancata comunicazione tempestiva della cancelleria ai carabinieri. Una casistica con numeri più grandi, quella del 2017 per Lecce. A guidare la classifica è Catanzaro, con 158 casi registrati nel corso del 2017. Seguono Roma, 137; Napoli, 113; Bari, 94; Catania, 60; Palermo, 43; Milano, 40; Salerno, 38; Messina, 36; e Lecce, 28 come detto. I casi di ingiusta detenzione hanno riguardato complessivamente in Italia 1013 persone, con risarcimenti per 34 milioni 319mila 865 euro. Ascoli: la missione di “Amelia”, aiutare chi ha sbagliato a rientrare nella società di Alessandra Licciardello Corriere Adriatico, 27 febbraio 2018 Diciotto anni di attività per aiutare chi ha sbagliato a ritrovare il proprio posto nella società. È la missione dell’associazione Amelia, nata nel 2000 a Grottammare come associazione di volontariato e costituitasi, dal 2010, in associazione di promozione sociale con sede a San Benedetto. “Ci dedichiamo alle persone che hanno problemi giudiziari - spiega il vicepresidente Fabrizio Mora - in particolare di affidamenti, pubbliche utilità e messa alla prova. Abbiamo convenzioni con i tribunali di Ancona ed Ascoli e le Uepe (Uffici di esecuzione penale esterna, ndr) di Macerata, Fermo ed Ascoli ed accogliamo detenuti che possono beneficiare di misure alternative alla carcerazione”. Nei suoi primi 10 anni di vita l’attività dell’associazione era indirizzata soprattutto al reinserimento di chi si era liberato di una dipendenza: stupefacenti, alcol o gioco. “Siamo partiti come punto di riferimento per chi usciva dalle comunità - ricorda Mora - l’associazione è stata fondata da persone che lavorano in comunità terapeutiche ed avevano visto dal vivo il problema del “dopo”, con le difficoltà a trovare lavoro, il ritorno delle cattive frequentazioni e il rischio molto alto di “ricadute”. Poi la situazione è cambiata, il fenomeno è diminuito e anche la constatazione che tanti tossicodipendenti finiscono per avere problemi con la giustizia. Infatti molto spesso i ragazzi li incontravamo in carcere”. Oggi l’associazione, diventata di promozione sociale dal 2010, opera un centro diurno a San Benedetto dove sono ospitati il laboratorio per la lavorazione artigianale del legno, gli uffici e aule per colloqui e attività educative e psicologiche. L’associazione ha inoltre la disponibilità di un appartamento per l’accoglienza di utenti di fuori regione e è imminente l’entrata in funzione di uno sportello di ascolto a Grottammare (nell’ex ospedale Madonna degli Angeli). Oltre alle convenzioni con i tribunali e le Uepe, Amelia ha due progetti con le carceri di Ascoli e Fermo. “Tra le nostre attività c’è anche lo sport, compresa l’organizzazione di eventi con allenatori che ci aiutano - spiega Mora: ad aprile faremo un torneo di ping pong con Enrico Macerata, campione italiano di tennis tavolo”. Amelia è attivissima anche nella prevenzione, collaborando ad iniziative delle Asur, scuole e parrocchie in tutta la regione. Gli incontri negli istituti superiori sono quanto mai necessari: “Il 70 % dei nostri utenti è rappresentato da persone, giovani, assegnate ai lavori di pubblica utilità per guida in stato di ebbrezza - spiega Mora - aumentato vertiginosamente. Anche le messe alla prova per detenzioni di sostanze senza fini di spaccio crescono: si tratta sempre di ragazzi molto giovani”. Brescia: la rieducazione a Verziano profuma di caffè e crema di Lilina Golia Corriere della Sera, 27 febbraio 2018 Ma per far lavorare altri detenuti servirebbe un capannone. La sveglia suona presto. Colazione e poi lavoro. Il turno inizia alle 7,30 e, se non sono richiesti straordinari, finisce alle 15,30. Prove tecniche di vita nuova, con il lavoro a fare da trampolino verso nuove prospettive, dopo l’esperienza del carcere. Una finestra che si spalanca sul futuro per lasciarsi alle spalle gli errori. Tra le mura di Verziano sono una quindicina i detenuti protagonisti di un progetto di reinserimento sociale, realizzato grazie all’impegno della Cooperativa Nitor di Travagliato che trova il sostegno anche del garante dei detenuti e delle realtà che operano in carcere. Si impara un lavoro e si plasma la propria personalità, si impara a rispettare regole e rapporti interpersonali. Gli esperti le chiamano “competenze trasversali”. Sono la chiave di volta per il cambiamento. Individuare il proprio ruolo professionale, riconoscere il gruppo, entrare nel meccanismo dell’organizzazione, per arrivare anche a fronteggiare le criticità con la capacità di controllare le emozioni. La svolta della vita inizia in aula con le 40 ore di formazione tenute da formatori e tutor aziendali. Valvole, cialde per caffè e dolci farciti - “Il lavoro è presupposto imprescindibile per il reinserimento nella società - spiega Sandro Dalmaschio di Nitor - e il nostro progetto mira proprio a dare una possibilità in più ai detenuti, una volta scontata la pena”. Il lavoro è arrivato dietro le sbarre grazie a “Lavorare Con e Per i detenuti” per “riavvicinare alla società chi è in carcere”, tiene a precisare la direttrice, Francesca Paola Lucrezi, sempre pronta a iniziative di recupero all’interno di Verziano, dove da qualche tempo è stata impiantata un’unità produttiva della quale, con il coordinamento di Nitor, si servono alcune aziende bresciane, clienti della cooperativa, per evadere le loro commesse. “Con noi - spiega Dalmaschio - collaborano i Magazzini del Caffè, Pintossi + C e Acquolina in bocca”. Made in Verziano la produzione di cialde per le macchinette del caffè, l’assemblaggio di valvole idrauliche e la farcitura di dolci. Per dare qualche numero: oltre 20 milioni di cialde prodotte in un anno e più di 100 chili di cannoncini farciti e confezionati ogni giorno. “Avevamo riscontrato difficoltà di inserimento lavorativo dopo il periodo di detenzione. Con l’esperienza di lavoro in carcere - spiega ancora Dalmaschio - riusciamo a dare un migliore supporto per superare il momento iniziale. L’intento è quello di arrivare al lavoro in esterno”. Per far lavorare altri detenuti servirebbe un capannone - Per qualcuno è già una realtà. Sono 7 i detenuti, con la misura alternativa al carcere o a fine pena, che lavorano alla Nitor, producendo valvole e, da qualche settimana, in via sperimentale, assemblando anche bauletti per moto per Givi. Dentro e fuori dal carcere si lavora con regolare contratto di lavoro e lo stipendio va a fortificare anche l’autostima. “Ci sono altre aziende pronte ad aderire al progetto in carcere, ma mancano gli spazi. Sarebbe auspicabile che se ne tenesse conto nella progettazione dell’ampliamento di Verziano. Con un padiglione di 1.000 metri quadrati si potrebbero offrire opportunità ad altri detenuti”. Il lavoro, tra le attività che ha maggiormente coinvolto la popolazione carceraria a Verziano, come ha avuto modo di evidenziare la Garante per i detenuti, Luisa Ravagnani, diventa speranza, aprendo nuove prospettive. Prospettive destinate ad ampliarsi ulteriormente con il nuovo progetto, in collaborazione con il Ministero della Giustizia, che a breve porterà un detenuto a lavorare alla scansione di atti da archiviare nel Palazzo di Giustizia di Brescia. E, intanto, sabato mattina, in carcere la colazione è servita ai cittadini dai detenuti, con caffè e pasticcini prodotti da loro, per il “Verziano coffee morning”. Aosta: potrebbero presto cessare i disagi relativi alla carenza di acqua potabile al carcere valledaostaglocal.it, 27 febbraio 2018 Comune disponibile ad allacciare acquedotto al carcere per far cessare l’emergenza acqua potabile. Potrebbero dunque presto cessare i disagi quotidiani relativi alla carenza di acqua potabile che da mesi si trascinano fra le mura della Casa circondariale valdostana. Verso una soluzione definitiva, il caso dell'acqua potabile inquinata al carcere di Brissogne. L’Amministrazione comunale del paese dell’envers si è infatti resa disponibile a consentire l’allaccio della Casa circondariale all’acquedotto comunale. Lo ha annunciato venerdì sera il sindaco, Bruno Menabreaz, durante i lavori del Consiglio municipale. Menabreaz ha anche precisato che, al fine di evitare disservizi agli utenti, è stato inserito un limite di prelievo di un litro al secondo, ovvero circa 300 litri a persona al giorno. Potrebbero dunque presto cessare i disagi quotidiani relativi alla carenza di acqua potabile che da mesi si trascinano fra le mura del carcere di Brissogne, e che sono stati oggetto di un’indagine della Procura, di iniziative in Consiglio Valle nonché dell’interessamento del ministero di Grazia e Giustizia e del Garante dei diritti dei detenuti della Valle d’Aosta, Enrico Formento Dojot. Da quasi tre mesi il sistema di potabilizzazione delle acque nel carcere funziona male e l’amministrazione penitenziaria non ha potuto far altro che distribuire bottiglie di minerale, nella misura di due litri al giorno ciascuno, ai circa 200 detenuti e agli agenti di Polizia penitenziaria. Attualmente il carcere dispone di un pozzo proprio dal quale le pompe aspirano l’acqua e la distribuiscono nella struttura, ma sempre più spesso l’acqua è inquinata. Roma: una lavanderia industriale per il femminile di Rebibbia di Teresa Valiani Redattore Sociale, 27 febbraio 2018 Iniziativa per migliorare le condizioni delle donne recluse e consentire loro di accedere a corsi formativi utili al reinserimento una volta tornate in libertà. È il progetto promosso dal Rotary Club di Roma che per il primo marzo ha organizzato una serata di musica e beneficenza al Teatro Italia. Una lavanderia per la casa circondariale di Rebibbia femminile, per migliorare le condizioni igieniche delle donne recluse e consentire loro di accedere a corsi formativi utili al reinserimento una volta tornate in libertà. È il progetto promosso dal Rotary Club di Roma che per venerdì primo marzo, al Teatro Italia, ha organizzato lo spettacolo “In This Mood … The Music of Glenn Miller”, con la Big Band di Massimo Pirone, per raccogliere fondi a favore dell’iniziativa. Partecipano all’evento anche i Rotary Club Roma Cassia, Roma Campidoglio, Ostia, Castelli Romani e il Rotaract Club di Roma. “Quest’anno il Rotary Club di Roma - spiegano gli organizzatori - si è impegnato a realizzare il progetto nella sezione femminile della Casa circondariale di Rebibbia per l’attivazione di una lavanderia e stireria a servizio delle detenute. Si tratta di un piano formativo e di avviamento di un gruppo di lavoro con la creazione di una piccola realtà aziendale. Verranno migliorate le condizioni igieniche delle detenute e verranno forniti i macchinari per consentire alle recluse di seguire un corso di apprendimento. Le persone coinvolte nel progetto verranno poi assunte a turno da una cooperativa che già opera presso la struttura carceraria permettendo tra l’altro un impegno lavorativo continuativo all’interno del carcere, utile per il loro reinserimento sociale, una volta terminato lo stato detentivo”. Nel foyer del Teatro Italia saranno presenti alcune cooperative di detenute e detenuti che proporranno i lori prodotti, la direttrice del settore femminile e un direttore del settore maschile. In particolare, le cooperative Caffè Galeotto, d.o.l. Pro Loco, Men at Work e Semi di Libertà, che operano all’interno del carcere di Rebibbia, proporranno i loro prodotti (caffè, formaggi, dolci e birra) per uno spuntino, prima o dopo lo spettacolo, e la possibilità di acquistarli. Collaborano alla serata anche Ads Il Giardino Danzante che devolverà al progetto il ricavato delle vendite di tavolette e uova di cioccolata, appositamente confezionate per lo spettacolo. E Donna Donna Onlus che con la sua “pubblicazione fotografica 2018” devolverà parte del ricavato delle vendite al progetto. Massimo Pirone inizia la sua attività musicale suonando in televisione per le trasmissioni di maggior successo. Lavora in teatro da oltre 18 anni con Gigi Proietti e vanta collaborazioni con i più grandi cantautori italiani come Renato Zero e Ornella Vanoni. In campo jazzistico nazionale suona con Danilo Rea, Paolo Fresu, Stefano Di Battista, Oscar Valdambrini, e in campo internazionale con Quincy Jones e Natalie Cole, Chaka Khan, Astrud Gilberto, Dionne Worwick. Il progetto della Big Band interamente dedicato a Glenn Miller, con musiche originali, nasce dalla passione di Pirone per le big band e per Frank Sinatra e le sue incisioni con orchestre stellari quali Nelson Riddle e Billy May. La Big Band comprende 14 musicisti e 4 cantanti uniti dallo stesso intento: quello di fare musica di qualità. Padova: “ripartire dalla cultura”, al carcere Due Palazzi si apre l’anno accademico Il Gazzettino, 27 febbraio 2018 Il medico Gian Luca Cappuzzo, condannato a 26 anni di reclusione per l’omicidio della moglie Elena Fioroni, sta per laurearsi in Giurisprudenza con una tesi in Diritto costituzionale. Il serial killer Donato Bilancia, condannato a tredici ergastoli per diciassette omicidi consumati tra Liguria e Piemonte alla fine degli anni Novanta, sta studiando per prendere la laurea triennale in Progettazione e gestione del turismo culturale. Cappuzzo e Bilancia fanno parte della cinquantina di reclusi iscritti all’Università di Padova che giovedì inaugura l’anno accademico al Due Palazzi. La cerimonia si aprirà con i saluti del rettore Rosario Rizzuto, del provveditore regionale Enrico Sbriglia e del direttore del carcere Claudio Mazzeo. Dopo la presentazione, a cura di Francesca Vianello, del progetto “Università in carcere”, la pro-rettrice Daniela Lucangeli terrà una prolusione sul ruolo delle emozioni nel processo di apprendimento. Seguiranno la consegna della tessera universitaria ai neo-iscritti da parte dei tutor di ateneo e la performance teatrale dell’attore Andrea Pennacchi accompagnato dal musicista Giorgio Gobbo. Ad ascoltarli ci sarà una platea di uomini, giovani e meno giovani, la maggior parte con pene importanti da scontare, finanche all’ergastolo. L’opportunità esiste dal 2003, è aperta a tutti i reclusi dei poli penitenziari del Nordest e intende offrire la concreta possibilità di “farsi una cultura”, valorizzata da un titolo accademico spendibile un domani fuori dalle mura carcerarie. Esempio reale che al Due Palazzi ci si può cingere il capo d’alloro è la storia di uno straniero di mezza età con una pena molto significativa da espiare, diventato lo scorso anno ingegnere informatico con la tesi “Sistema mobile per la gestione di un magazzino”, frutto dell’approfondimento dell’esperienza di tirocinio compiuta all’interno di una realtà produttiva veneta che confeziona nastri adesivi. Una commissione ha appurato che il candidato “ha acquisito nella maniera più assoluta, pur in una condizione di effettiva limitazione della libertà, tutte le competenze necessarie per ottenere l’attestato di laurea. Lo studente ha dimostrato così di voler davvero prendere in mano la propria vita per ricostruirla partendo dalla cultura e dalla formazione, prendendo parte a uno stage, previsto dal corso di laurea frequentato, in una azienda dove ha dimostrato serietà nello svolgimento dei compiti assegnati tanto da aver concluso il periodo di tirocinio con un giudizio di pieno merito”. I docenti a titolo gratuito scelgono di svolgere alcune lezioni al Due Palazzi grazie a un protocollo d’intesa siglato tra Ateneo e amministrazione penitenziaria. Sondrio: alla Casa circondariale palco per il teatro, emozioni e applausi di Nello Colombo La Provincia di Sondrio, 27 febbraio 2018 Le opere shakespeariane protagoniste nella serata occasione di dibattito e di confronto con Astra Lanz artefice di uno spettacolo apprezzato. A scena aperta. In carcere. È proprio vero che la fantasia schiude tutte le porte, anche quelle più inaccessibili. La Casa Circondariale del capoluogo si è aperta alla magia del teatro come occasione di condivisione e confronto, diletto, ma anche serena riflessione sulle cose del mondo che dietro le sbarre logorano i giorni che non passano mai, dando un senso a una serata particolare. In un ambiente particolare. In cabina di regia Astra Lanz, protagonista nel Don Matteo televisivo e anche nel film valtellinese “Adele e il lupo” proiettato pochi mesi fa sul grande schermo del Teatro Sociale. È lei l’artefice di un miracolo espressivo e umano tutto chiavennasco per interpreti dai 9 ai 60 anni, che hanno vissuto intense emozioni sulle parole del più grande drammaturgo inglese. La mente e il confronto “Ogni espressione della cultura invita alla riflessione, al sentimento, ad aprire la mente al confronto, a misurarsi con se stessi e con gli altri. Nell’incontro preliminare con Ilaria Colombo ho visto un gruppo vivace, curioso, interessato a capire le vicende delle grandi opere shakespeariane, specchio spesso della realtà quotidiana”, ha dichiarato Stefania Mussio, direttrice della Casa Circondariale di Sondrio, che ha colto la positività di attività che educano attraverso la musica, la poesia, la forza del linguaggio teatrale, finanche l’arte culinaria con la pasta “fatta in casa” dagli ospiti della Casa Circondariale. “Recitare è la nuova dimensione del linguaggio che colpisce al cuore, perché al di là dell’arte scenica, quel che conta è stare insieme creando una comunità umana che sa comprendersi guardandosi negli occhi. Il nostro è un percorso “work in progress” arricchito strada facendo degli allievi della Civica scuola di musica di Sondrio, della DDDance School della compagnia della Società operaia “Un filo drammatici”, oltre alla vicinanza del registra teatrale Davide Benedetti, mettendo in scena “Shakespeare R-Evolution”, un viaggio attraverso le scene più significative delle opere di Shakespeare: “Amleto”, “Macbeth”, “Riccardo III”, “Romeo e Giulietta”, “Sogno di una notte di mezza estate”, “La tempesta”, ha spiegato Astra Lanza una folta schiera di ospiti e di detenuti. Un insieme di emozioni trasmesse con grande padronanza da musicisti provetti, da piccoli e grandi attori d’esperienza, con veri talenti che hanno spaziato dai dubbi amletici alle perversioni di un Riccardo III tormentato dai fantasmi della mente, dalle inestricabili angosce di Lady Macbeth, alle devastanti confessioni di un’Ofelia braccata dall’amore di Amleto. Scelta non casuale - La colpa e l’espiazione. Una scelta non certo casuale in un mondo recluso dalla sbarre. Un dolore lacerante dipinto dalla poesia liquida del pianto di una tenera fanciulla della DDDance, capelli al vento, la mise rosso sangue, le calze nere bouclé, a tessere il vertiginoso giro della morte retto dall’incalzare straziante del violoncello. Dolcissima Giulietta, nel fulgore dei suoi anni, inerpicata sulla scala-verone da cui amoreggia col suo affabile Romeo, trepidante. Infine è stato tutto un pullulare di elfi, fate e spiritelli saltellanti, nei fantastici costumi di Adriana Perego, fino all’infernale sabba delle streghe che chiudono un sogno, quello di “una notte di mezza estate” dettato dalla fantasia. Quella di ogni uomo che tenta di evadere dai propri pensieri turbolenti e molesti, smaniando la libertà e quel riscatto che conduce infine all’umana redenzione. Augusta (Sr): i detenuti a teatro incontrano la disabilità di Ornella Sgroi Corriere della Sera, 27 febbraio 2018 Il carcere di Augusta ha avviato un percorso riabilitativo con i laboratori di espressività. I reclusi lavorano insieme a ragazzi in condizione di disagio (e il direttore della struttura vive in sedia a rotelle per una malattia genetica). L’Etna giganteggia, spruzzata di neve, come fosse dipinta sul cielo così terso che quasi non gli credi. La strada per Augusta (Siracusa) guarda il mare, uno specchio che riflette l’oro del sole. Intorno, terreni brulli, agrumeti addobbati di arancio, campi di trifogli lucidi di brina. Tutto questo è libertà e se puoi goderne, puoi solo immaginare cosa voglia dire costringersi a guardarla da dietro una grata. La casa di reclusione di Augusta è un carcere di alta e media sicurezza dove i detenuti (attualmente 150) si portano addosso, ogni giorno, condanne definitive superiori a cinque anni. Per alcuni il futuro è “fine pena mai” e solo l’idea ruba l’aria. È questo l’effetto preventivo della pena. Il fatto che i detenuti restino lì in custodia per lunghi periodi, però, ha un lato positivo: consente una progettualità durante il percorso detentivo. Il direttore Antonio Gelardi da trent’anni è alla guida della struttura affiancato dalla responsabile dell’area educativa Emilia Spuches. Il loro sorriso è subito accogliente, rasserenante. Oltre all’istruzione e al lavoro, punto di forza del percorso riabilitativo sono i progetti di alternanza scuola-lavoro con studenti dei licei cittadini e le attività artistico-espressive dei laboratori creativi. Il prossimo 27 marzo, giornata nazionale del teatro in carcere, nell’auditorium “Enzo Maiorca” del penitenziario siciliano debutta “L’uomo che cercava la verità”, frutto del percorso di drammaturgia teatrale curato dalla scrittrice Giuseppina Norcia, che unisce Socrate e Platone, il mito e l’epica, alla ricerca di un senso più profondo di libertà. Nello stesso auditorium, lo scorso dicembre è andato in scena un collage teatrale ispirato a Giufà, nato dal laboratorio artistico “Smile and Fly” per detenuti e ragazzi con disabilità, coordinato da Michela Italia. “La docente è stata colpita da una forma acuta di “carcerite”, un brutto virus contagioso che scatena la voglia di fare” scherza il direttore Gelardi. “Chi entra per la prima volta qui si porta dentro lo stereotipo del mostro, ma poi resta colpito dalla carica di umanità che accompagna queste persone”. Umanità ed empatia creano un contatto intenso tra persone che, in modo diverso, vivono comunque una condizione di difficoltà. “È sorprendente la tenerezza che suscita nei detenuti la disabilità, scatena in loro un forte senso di affetto e protezione nei confronti di questi ragazzi che, dal canto loro, portano una ventata di allegria contagiosa nei nostri corridoi. Sono disinibiti, naturali, del tutto indifferenti al contesto di detenzione e privi di qualsiasi pregiudizio o disagio” racconta Gelardi. “È stata un’esperienza molto gioiosa” aggiunge Emilia Spuches. “I ragazzi durante le prove ne combinavano di tutti i colori, spesso improvvisavano avendo difficoltà di memoria e quando indovinavano la battuta esultavano tutti. È stata una grande fatica, ma anche un incontro straordinario”. Il direttore convive con la disabilità da quando, ragazzo, gli è stata diagnosticata la glicogenosi 2, una malattia genetica neuromuscolare che non gli permette più di camminare. “Ho avuto una certa difficoltà personale nell’accettare di girare con la sedia a rotelle in carcere. Non so che effetto possa fare sui detenuti, forse però li avvicina al lato umano dell’autorità cogliendone la fragilità. Oggi mi muovo tranquillamente, vado a trovarli nelle loro celle, chiedo cosa cucinano. Questa è la parte bella del mio lavoro, altrimenti è solo burocrazia. Quasi mi dimentico del reato, che di per sé mi fa impressione. Quando ne parlano in tv, cambio subito canale!” scherza Gelardi. “Nonostante la malattia, dopo trent’anni vado ancora a letto tardi pieno di appunti di cose da fare qui il giorno dopo” aggiunge. E visitando il carcere se ne ha subito la prova. Ogni parete racconta una storia, nei bellissimi murales dell’artista albanese Bocaj Arsen, che sta scontando l’ergastolo in regime di semilibertà. I cancelli sono arancioni, le grate alle finestre di colori sgargianti, perché “il direttore crede nella cromoterapia, per i detenuti ma anche per noi che lavoriamo qui” spiega Spuches. I muri del parlatorio sono un paesaggio variopinto che crea aria dove non c’è. Una stanza da gioco è dedicata ai bambini. E il teatro, pieno di foto ricordo, è decorato da Alessandro Bronzini, ex detenuto che oggi tiene laboratori d’arte per ragazzi di strada a Palermo. In prima fila, la poltrona di “Posto occupato” contro il femminicidio è un pugno sul cuore. Il cielo aspetta fuori, ma è lo stesso cielo anche qui. Migranti. Come uscire dall’emergenza infinita di Stefano Allevi* La Repubblica, 27 febbraio 2018 L’immigrazione avrebbe bisogno di argomenti e invece in campagna elettorale riceve solo slogan. Tra chi vorrebbe “espellere 600mila clandestini” che nemmeno esistono nel nostro Paese, e chi preferisce non parlare proprio dell’argomento perché porta voti solo ai populisti. In realtà bisognerebbe avere il coraggio di dire parole chiare, su almeno due questioni, a monte e a valle dei processi migratori. A monte: bisogna aprire canali regolari di immigrazione per poter chiudere efficacemente quelli irregolari. L’Europa ha progressivamente chiuso in questi anni i suoi confini, l’Italia lo ha fatto con la legge Bossi-Fini. Da allora le migrazioni sono state appaltate alla criminalità internazionale. Ma ogni anno l’Italia perde 300mila persone che vanno in pensione e non sono sostituite da nessuno; in Europa tre milioni. Da qui al 2050 sono 100 milioni di persone che, in mancanza di migrazioni, non saranno sostituite. In questo scenario è evidente che 150mila persone che arrivano sulle coste europee sono non un problema ma una parte della soluzione. Ma non dovrebbero arrivare così. A valle, invece, occorre passare dall’accoglienza all’integrazione, dal fornire vitto e alloggio all’insegnare la lingua e la cultura facendo anche formazione professionale. Su questo l’Italia è molto più in ritardo degli altri Paesi europei. Infine bisogna avere il coraggio di rimettere in questione la distinzione tra richiedenti asilo e migranti economici. Questa distinzione è nata in un’epoca in cui i rifugiati erano quelli che scappavano da oltrecortina, dall’ex blocco sovietico. Altra epoca e altri numeri. Di una quota significativa di immigrati, come detto, abbiamo e avremmo bisogno. Meglio riconoscere a tutti una possibilità di inserirsi nel mercato del lavoro. Questo ci fa tornare al punto di partenza. Se un aspirante immigrato potesse chiedere il visto nella capitale del suo Paese, pagandosi anche l’assicurazione sanitaria, e magari anche una cauzione per pagare un eventuale rimpatrio forzato, lui spenderebbe comunque meno e correrebbe meno rischi che darsi in pasto ai trafficanti; noi ci guadagneremmo un’immigrazione regolare e anche selezionata secondo le nostre necessità, in più con la garanzia dell’eventuale rimpatrio a seguito di un comportamento scorretto. È l’unico modo per uscire da un mercato sregolato e da una logica di continua emergenza, incapace di previsioni. *Professore di Sociologia all’Università di Padova. Il suo ultimo saggio è “Immigrazione. Cambiare tutto”, pubblicato da Laterza. Stati Uniti. Non trovano la vena: rinviata l'esecuzione di un detenuto malato terminale globalist.it, 27 febbraio 2018 Lo stop dopo 12 buchi e due ore di tentativi. L'uomo, condannato per un omicidio del 1987, ha a lungo abusato di droghe. Quando la giustizia è vendetta. Concetto che suscita repulsione dove c’è una cultura giuridica avanzata, ma normale in molti stati degli Usa. Così dopo oltre 12 buchi sul corpo in due ore di tentativi per l'iniezione letale a un condannato a morte in Alabama, non avendo trovato la vena, l'esecuzione di Doyle Hamm, malato terminale di cancro, è stata rinviata. I suoi avvocati avevano spiegato che nelle vene, compromesse dall'uso di droghe e dalla malattia, non era possibile infilare la flebo con la sostanza letale. “È stato un atto di tortura”, hanno denunciato i legali. Due team diversi di medici hanno provato senza successo per due ore e mezza a trovare una vena disponibile per la flebo letale. Gli avvocati avevano avvertito le autorità dell'Alabama che il loro assistito, condannato per un omicidio avvenuto nel 1987, era un malato terminale di cancro e che aveva abusato a lungo di droghe per via endovenosa, due cose che avrebbero reso difficile eseguire la condanna a morte tramite l'iniezione di una sostanza letale. Le autorità statali avevano risposto che sapevano quello che stavano facendo. Non è stata ancora fissata la data per la nuova esecuzione. Siria. Tregua fallita “il regime sta usando armi chimiche” di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 27 febbraio 2018 L’allarme giunge a meno di 24 ore dalla risoluzione Onu per il cessate il fuoco di trenta giorni per portare aiuti umanitari alla popolazione. Torna con forza l’accusa al regime siriano di utilizzare armi chimiche contro i civili e i gruppi ribelli. L’allarme giunge a meno di 24 ore dalla risoluzione Onu per il cessate il fuoco di trenta giorni in Siria. Lo lanciano da Ghouta, il quartiere alle porte di Damasco assediato dai soldati di Bashar Assad sostenuti da russi e iraniani. Secondo l’Associazione medica siriano-americana, che sostiene alcune strutture sanitarie nel quartiere devastato, e l’Osservatorio siriano per i diritti umani sarebbero stati rilevati segnali di intossicamento per gas al cloro in 13-16 civili. Inoltre un bambino sarebbe deceduto. Le stesse organizzazioni ripetono che sono notizie che vanno ancora confermate. Non sarebbe la prima volta che l’esercito di Bashar Assad ricorre alle armi chimiche tirate in modo indiscriminato sulle zone dove agiscono i ribelli. Già nel 2013 l’Onu aveva confermato l’uso di armi non convenzionali da parte del regime ad Aleppo e nella stessa Ghouta. Oltre al cloro in quei casi sarebbe stato usato anche gas Sarin. Il cessate il fuoco appare in ogni caso estremamente debole. In una settimana di attacchi su Ghouta sarebbero deceduti circa 530 civili, tra cui 130 bambini. In queste ore sono diminuiti i bombardamenti convenzionali, ma sono in corso offensive di terra contro i gruppi jihadisti asserragliati nel quartiere. Da Teheran i comandi militari chiariscono che non ci sarà tregua in questa battaglia. Anche da Ankara si specifica che la risoluzione Onu non si applica nel caso dell’enclave curda di Afrin nel Nord del Paese. Siria. “Nel conflitto siriano la sfida della Russia alla Nato per armi e tecnologia” di Yurii Colombo Il Manifesto, 27 febbraio 2018 La Russia ha collaudato in Siria gran parte delle nuove armi e apparecchiature militari che saranno disponibili nei prossimi anni per l’esercito e il mercato mondiale. È quanto sostiene Dmitry Rogozin, vice-premier russo in una lunga intervista concessa ieri al quotidiano della confindustria Kommersant. E in cui ha affrontato anche i temi dei progetti spaziali russi e della colonizzazione dell’Artico. Rogozin ha sostenuto che il ritardo nell’approvazione del nuovo piano per lo sviluppo dell’industria bellica è stato dovuto alle necessità del suo adeguamento “ai documenti ricevuti negli ultimi mesi dalla Siria”. Secondo Rogozin in Siria “è stata condotta una valutazione completa di armi e di attrezzature in condizioni di combattimento ed ambientali estreme”. Sono stati collaudate complessivamente oltre 200 tipi di armi e attrezzature. Il collaudo avrebbe coinvolto “la robotica, i sistemi di puntamenti intelligenti, la difesa degli aerei dagli incendi”. La Russia, sulla base di quanto comprovato dalla guerra in Siria punterà sempre di più su proiettili intelligenti in quanto “nel condurre operazioni militari in condizioni urbane, l’uso di proiettili non guidati produce perdite tra i civili che alimentano il consenso alla guerriglia”. E per farsi intendere al meglio il ministro non si è risparmiato una analogia tra un scoiattolo e un essere umano: “Come dicono i cacciatori, meglio colpire lo scoiattolo in mezzo agli occhi. Meglio sparare un colpo costoso che 100 colpi indiscriminati”. Rogozin ha inoltre precisato che in Siria in questi anni hanno operato squadre di specialisti di oltre 50 imprese militari russe. Il nuovo piano bellico russo si concentrerà anche su come contrastare la corsa al riarmo americano: “Non chiudiamo gli occhi di fronte all’accumulo di potenza della Nato, sullo sviluppo americano del concetto di “attacco globale”; avremo, mi si creda, una risposta adatta per tutto”. “Ma le sanzioni americane non impediranno lo sviluppo del programma?”, ha chiesto poi l’intervistatore. Il ministro su questo punto ha riconosciuto che esistono delle difficoltà ma ha garantito che gli esperti stanno lavorando affinché “non ci siano interruzioni nelle forniture militari ai nostri clienti stranieri”. Il portafoglio-ordini dell’export militare russo sarebbe ora di 50 miliardi di dollari. Per Rogozin del resto le sanzioni contro l’industria bellica russa sono destinate a restare “per sempre”. “Se le toglieranno vorrà dire che ci stiamo indebolendo” ha sostenuto convinto. Un ampio capitolo è stato dedicato poi ai progetti “civili”. La colonizzazione dell’Artico da parte russa è iniziata sin dal 2007, ma paesi confinanti come il Canada hanno sospettato che il Cremlino dietro i propositi di ricerca geografica puntino a creare nell’area una flotta nucleare. Ipotesi negata da Rogozin: “Tutte le ricerche si svolgono nel rispetto delle leggi internazionali”. Lo stesso dicasi per i progetti nel cosmo. La sfida su questo terreno con gli Usa, per il ministro russo, non è impossibile. “Gli americani si stanno spostando verso sistemi di informazione e comunicazione multi-satellite. I sistemi di bordo sono creati con l’intelligenza artificiale auto-apprendente. Siamo sulla cuspide di una rivoluzione nella tecnologia spaziale, Ma la cosa più interessante è che queste tecnologie sono alla nostra portata”. Senza dimenticare neppure la robotica: “Diciamoci la verità: dove una persona può essere sostituita con una macchina automatica si deve farlo. Lo spazio non è uno scherzo…perché rischiare la vita degli astronauti?”, ha concluso Rogozin. Eritrea. Morto cieco in carcere l’eroe “Duro”, credeva in un’Eritrea democratica di Pier Mario Puliti africa-express.info, 27 febbraio 2018 Mi è appena giunta dall’Eritrea la notizia della morte di Haile Woldetensae, detto Duro. Era stato ministro delle Finanze, dell’Industria e degli Esteri del governo eritreo fino al 2001. Dopo Mohamoud Sherifo, Ogboe Abraha e Seyoum Ogbamichael sembrerebbe essere il quarto del gruppo dei dissidenti, chiamato G15, ad essere morto in una cella delle prigioni del regime eritreo. Si vocifera che Duro sia scomparso il 25 gennaio scorso. Ma la nostra incertezza nasce dal fatto che i dissidenti eritrei, imprigionati nel settembre del 2001, oltre a non essere mai stati giudicati con regolare processo, non hanno mai potuto avere contatti con l’esterno; hanno vissuto nel più completo isolamento per tutti questi anni. Solo alcune notizie arrivano all’esterno tramite i carcerieri che li hanno incontrati durante la lunga prigionia. Si dice che Haile sia morto dopo anni trascorsi in completa cecità, con molta probabilità provocata da una severa forma di diabete che lo aveva colpito quando ancora era ministro degli Esteri. Ed è proprio in quel periodo che riuscì a farsi conoscere in tutto il mondo per le sue straordinarie capacità politico-diplomatiche. Fu lui, infatti, a concludere, ad Algeri, dopo una lunga trattativa con i rappresentanti del governo etiopico l’accordo di pace dopo il sanguinoso conflitto (1998-2000) tra i due Paesi. Un accordo non facile, con l’esercito etiopico ancora in territorio eritreo; ma con grande abilità l’ex ministro era riuscito a stabilire un rapporto paritario con la controparte nemica. Lo stesso anno Woldetensae aveva esposto a Francoforte il futuro dell’Eritrea che sognava: una nazione libera e aperta al mondo. Quel discorso è rimasto nella mente di molti eritrei, ed in particolare di tutti coloro che da sempre avevano desiderato una nazione migliore di quello che sarebbe poi stata. Molti dissero allora che furono proprio la pace con l’Etiopia e la richiesta dell’applicazione della Costituzione a decretare la fine politica di Haile, perché il dittatore Isayas Afworky aveva già allora in mente di sbarazzarsi di ogni forma di democrazia interna per imporre il suo potere assoluto nel Paese. Haile era molto amato nella sua regione d’origine, l’Acchelè-Guzai, quella che secondo i guerriglieri aveva pagato il prezzo più alto durante la guerra di liberazione ed ho sentito spesso discutere guerriglieri di quella provincia che ancora oggi lo considerano un vero e proprio eroe. Ho incontrato l’ex ministro alcune volte in situazioni formali e informali. Conoscevo bene la moglie Roma e il figlio Mahari (credo che significhi “miele mio”), che spesso accompagnavo alla scuola italiana di Asmara. Ricordo che nel corso delle nostre conversazioni ascoltava con attenzione le parole e prima di iniziare a parlare, attendeva alcuni secondi, come se stesse riflettendo per misurare le risposte. Usava sempre poche frasi concise ma estremamente efficaci. Ricordo quando mi raccontò delle gravi ferite riportate in battaglia e del suo periodo di cura e convalescenza in Italia. Voglio ricordare il mio amico Haile così, seduto al tavolo, insieme alla sua famiglia. Io ho perso una persona che ammiravo e l’Eritrea ha perso un patriota, un uomo che amava profondamente la sua gente. Tutti abbiamo perso un pilastro della storia di quel Paese così martoriato. Nigeria. Boko Haram choc, sono 110 le ragazze rapite nell’istituto tecnico di Marco Boccitto Il Manifesto, 27 febbraio 2018 Nuovo caso Chibok in Nigeria. Dopo aver tentato di minimizzarne il bilancio per giorni, le autorità ammettono la gravità del raid di lunedì scorso in una scuola dello stato di Yobe. Disperazione e rabbia tra i parenti. Dopo giorni di cifre sparate a casaccio e toni evasivi, l’amara verità è venuta a galla. Per ammissione delle stesse autorità nigeriane sono ben 110 le ragazze che i miliziani di Boko Haram hanno prelevato con la forza da una scuola di Dapchi, nello stato di Yobe lo scorso 19 febbraio. Frequentavano il locale Istituto tecnico femminile statale e questo le rendeva un bersaglio “naturale” dell’organizzazione jihadista, che dal 2009 si stima abbia causato negli stati del nord est la morte di oltre 20 mila persone. Spedendo kamikaze contro mercati e stazioni dei bus, occupando interi villaggi o, come in questo caso, che ricorda molto da vicino la vicenda delle oltre 200 ragazze rapite a Chibok nel 2014, e che il gruppo ha per così dire nel dna, attaccando gli istituti scolastici di tipo occidentale (boko) perché secondo loro contrari alla religione islamica (haram). La scuola è rimasta deserta per tutta la settimana perché nessuna delle ragazze scampate al raid né tantomeno le poche che hanno ritrovato la libertà nell’arco di poche ore, avevano intenzione di tornarci. Troppo forte lo choc. Ieri le autorità locali ne hanno deciso ufficialmente la chiusura fino a data da destinarsi. Tra i parenti delle ragazze “disperse” e gli abitanti di Dapchi disperazione e rabbia crescono in egual misura. Di “disastro nazionale” parla il presidente Muhammadu Buhari, costretto a rimangiarsi i recenti proclami dell’esercito sulla definitiva sconfitta militare di Boko Haram. Smentiti da una sequela di attentati e dal raid di lunedì scorso. Familiari e opinione pubblica chiedono ai militari di agire in fretta per riportare a casa le ragazze prima che sia tardi. Tanto più nelle ore in cui emergono i dettagli della trattativa governo-jihadisti che ha portato alla liberazione di un gruppo di geologi impegnati in prospezioni petrolifere nell’area del Lago Ciad e di alcune poliziotte. Corea del Sud. Procura chiede condanna a 30 anni per ex presidente Park La Repubblica, 27 febbraio 2018 Tra i 18 capi d'imputazione, reati come corruzione, abuso di potere e rivelazione di segreti di Stato. La pubblica accusa ha chiesto una condanna a 30 anni di carcere a carico dell'ex presidente della Repubblica sudcoreana Park Geun-hye, nell'ambito del processo in corso a Seul in cui è l'imputata di maggior peso e che volge alle battute finali, almeno nel primo grado di giudizio. Lo riferisce l'agenzia Yonhap, ricordando che nei suoi confronti ad aprile, il mese dopo la chiusura della procedura d'impeachment, erano stati formulati 18 capi d'imputazione per reati come corruzione, abuso di potere e rivelazione di segreti di Stato. Park è accusata di avere ottenuto, in cambio di favori, 59,2 miliardi di won (una cifra pari a 55,2 milioni di dollari) da alcune grandi aziende di Seul, tra cui Samsung, Lotte e Sk, assieme alla sua ex confidente, Choi Soon-sil, condannata il 13 febbraio scorso a venti anni di carcere per corruzione, abuso di potere e pressioni indebite. Choi ha presentato istanza di appello contro la sentenza. Park è sospettata di avere permesso a Choi di intromettersi negli affari dello Stato pur non avendo alcun ruolo formale nell'amministrazione sud-coreana, accusa che Park ha negato.