Pene e carceri: una speranza delusa. Anche nella vita di un detenuto ci sono affetti Il Mattino di Padova, 26 febbraio 2018 Speravamo nel miracolo dell’approvazione da parte del Governo (dopo il necessario e faticoso iter nelle commissioni parlamentari) dei decreti attuativi dell’Ordinamento Penitenziario, quel “nuovo Ordinamento Penitenziario” nel cui articolo 1 si afferma che il percorso rieducativo “tende, prioritariamente attraverso i contatti con l’ambiente esterno e l’accesso alle misure alternative alla detenzione, al reinserimento sociale”. Una battaglia particolarmente importante in un momento in cui la spinta a chiedere pene cattive e carceri dove le persone “marciscano fino all’ultimo giorno” è davvero forte, una battaglia condotta con coraggio dal Partito radicale e da Rita Bernardini, da tante persone detenute e tante famiglie, sostenuta dagli avvocati penalisti e da numerosi giuristi, intellettuali e accademici, voluta dal Volontariato che ogni giorno dentro le carceri e sul territorio combatte per pene più umane e più dignitose. Non è accaduto. La battaglia non è stata vinta. Noi continuiamo con le testimonianze, convinti come siamo che i contatti con l’ambiente esterno sono la chiave di volta del cambiamento e del reinserimento delle persone detenute. E il contatto con il mondo esterno è fatto anche di colloqui con “terze persone” (non familiari). Essere autorizzati non è, come ad esempio in Francia, un automatismo, mentre è importante incontrare a colloquio un amico che non ti ha dimenticato, il fidanzato che tua figlia vuole farti conoscere, il tuo datore di lavoro che non vuole trattarti da delinquente. Secondo noi dovrebbero essere concessi a tutti, perché sappiamo quanto la dimensione affettiva conti nei percorsi di reinserimento, per questo condividiamo gli scritti di Francesca, figlia di Tommaso, ergastolano, a cui lei vorrebbe far conoscere il fidanzato, e di Giuliano, giovane ergastolano che vorrebbe incontrare una amica importante per lui. Mio padre arrestato quando avevo soltanto 18 mesi Io avevo soltanto 18 mesi quando è stato arrestato mio padre, lui non mi ha visto crescere e io di conseguenza non ho un ricordo di lui dentro casa nostra, lui non sa neppure come è fatta la mia stanza. Nonostante siano passati 25 compleanni senza di lui, grazie alla sua caparbietà e alla sua voglia di instaurare un rapporto tra padre e figlia io provo un affetto come una qualsiasi figlia lo prova per un qualsiasi padre presente in casa. In questi 25 anni ho vissuto situazioni molto difficili, sono cresciuta da sola, vivendo esperienze che poi ho solo potuto raccontare a mio padre. Oggi sto vivendo una esperienza irripetibile. Oltre che raccontargliela vorrei fargliela vivere, vorrei avere la possibilità di presentargli una persona per me molto importante, il mio fidanzato. Sarà la mentalità del sud o saranno i valori con i quali sono stata cresciuta, ma nonostante tutte le mancanze, mio padre è sempre stato la prima persona a cui dover “dare conto” in quanto per me è fondamentale, perché è la persona più importante al mondo e, nonostante non sia a casa, io ci tengo molto a far conoscere il mio fidanzato prima a lui e poi a tutti gli altri componenti della famiglia. Anche se nella sua vita ha sbagliato, per me non ha mai fallito come padre e il mio unico scopo è non fallire mai come figlia. Francesca Romeo, figlia di Tommaso A colloquio con una mia amica importante Sono un ergastolano ed ho 29 anni, sopravvivo in questa realtà che è il carcere da 8 anni circa, ho pensato tante volte di farla finita, di prendere un laccio di scarpe, allacciarlo alle sbarre della finestra di una squallida cella, e mettere fine a tutte le sofferenze che la vita mi ha presentato come conto da pagare per tutte le mie malefatte, ma non ho avuto mai il coraggio di fare questo gesto, forse per non dare un immenso dolore a mia madre, ai miei fratelli e a tutte quelle persone che cercano di starmi vicino per come possono, incoraggiandomi e rassicurandomi che non sono solo. Oggi grazie all’impegno di tante persone volontarie sono anche riuscito a guardare oltre quella che è la pena, dialogando, confrontandomi sempre più spesso con la società esterna, e questo ha fatto sì che il mio modo di pensare mutasse giorno per giorno, come se la mia anima cercasse qualcosa di diverso, come se la conoscenza ed il dialogo fossero diventati una fonte di energia di sostentamento, così oggi, a differenza di qualche anno fa, riesco a parlare quasi con tutti, non mi blocco davanti ad un discorso di legalità e provo anche a scrivere il peggio di quello che è stato il mio passato. Certo sarebbe impossibile per chiunque provare ad immedesimarsi in una situazione come la mia, al solo pensiero qualunque persona onesta direbbe: come faccio? È impossibile, io non conosco la tua vita, non conosco il carcere, quindi cosa posso immaginare? Come posso sentirmi vicino a te? Forse questo è anche vero, ma proverò ad elencare quello che ad oggi succede ad un detenuto condannato all’ergastolo che cerca di mantenere un filo con la società esterna. Io sono calabrese, ho vissuto in Calabria fino all’età di 16/17 anni e ovviamente avevo le mie amicizie di scuola, i miei compagni di calcio, finché i miei genitori hanno deciso di allontanarmi da quell’ambiente, che secondo loro mi stava portando su una strada sbagliata, mandandomi prima a Padova a lavorare e poi a Verona. In tutte queste mie amicizie però ce n’era una che si distingueva dalle altre e che ho tenuto sempre nascosta da tutto il resto, perché era come un gioiello per me, era tutto quello che desideravo ma non potevo avere, era una ragazza per bene, molto brava a scuola e molto intelligente ed io pensavo che se mi fossi avvicinato più di tanto a lei avrei finito per rovinarle la vita, conoscendo quel mondo e quella sub-cultura di cui io mi nutrivo e l’infinità di scelte sbagliate che continuamente facevo. Così io avevo già abbandonato da un pezzo gli studi e continuavo con la mia vita senza regole che mi portò presto in carcere, poco più che maggiorenne. Nel frattempo lei continuava gli studi universitari ed io ero molto felice di questa sua scelta, era l’unica persona che io conoscevo che frequentava l’università ed ero fiero di lei, anche se ero convinto sempre di più di aver fatto la cosa giusta scegliendo di rinunciare a lei per evitarle una vita fatta di sofferenza. Ma questa ragazza, nonostante fosse lontana anni luce dal mio mondo e dai miei “ideali” delinquenziali, è sempre riuscita a starmi vicino. Ricordo ancora la prima lettera che mi scrisse in carcere, era rassicurante, diceva: non m’importa cos’è successo, non importa dove sarai, io sarò sempre con te. Queste parole a me facevano piacere, ma anche paura, perché ero consapevole che le mie azioni non potevano fare altro che male a questa ragazza, che cercava sempre di parlarmi il più possibile e di starmi vicino, così continuai, anche una volta uscito, a seguire il mio stile di vita senza responsabilità, senza regole, fino a quando ritornai in carcere. Lei proseguiva gli studi, voleva diventare professoressa ed alla fine c’è riuscita. In tutti questi anni mantenere i contatti è stato pressoché impossibile, non riuscivo a rimanere in un carcere per più di un anno senza fare qualche danno, senza combinare qualche illecito e di conseguenza venivo trasferito di carcere in carcere anche 5/6 volte nello stesso anno. Ogni tanto, quando riusciva a sapere dov’ero, lei mi scriveva, criticando sempre duramente la mia scelta di vita. Riusciva a farmi molto più male lei con le sue parole di quanto abbia fatto il giudice pronunciando una sentenza di “morte a vita”. Oggi questa ragazza è una professoressa. Non le avevo mai detto di venire a trovarmi in carcere, non volevo, ero chiuso nel mio mondo. Ho sempre pensato che questa era solo la mia pena e non volevo che diventasse anche un suo dolore, soprattutto per il modo in cui ancora mi comportavo. Ma ora ho iniziato un percorso diverso, sto riflettendo sul mio percorso attraverso un lavoro faticoso di confronto, sto prendendo consapevolezza del mio vissuto, delle scelte che ho fatto e che mi hanno portato qui. Ripenso alle sue parole, anche dure, sulle mie scelte e ora che sto imparando a confrontarmi onestamente, vorrei poterla incontrare, perché è una delle poche persone con cui riesco ad essere me stesso, senza maschere e atteggiamenti di facciata e so quanto la renderebbe felice sapere del mio percorso. Giuliano “Pazzi” e in cella. Cosa fare quando nelle Rems non c’è posto? La legge non lo dice di Chiara Daina Il Fatto Quotidiano, 26 febbraio 2018 Il 20 febbraio l’avvocato Giulio Vasaturo, che difende A.L., 25 anni, affetto da una gravissima schizofrenia paranoide e internato nella Casa di Lavoro di Vasto nonostante sia stato dichiarato incompatibile col regime carcerario (ordinanza del 7/12/2017), ha depositato un’istanza al Tribunale di sorveglianza di Pescara affinché sia sollevata la questione di legittimità costituzionale sull’esatta interpretazione delle norme che disciplinano l’accesso alle strutture sanitarie dei malati psichici “socialmente pericolosi”. Il ragazzo dovrebbe essere ricoverato in una Rems (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza che ha sostituito dal 2014 gli Opg), ma nella Rems non c’è posto. Oltre a lui, altri 55 pazienti psichiatrici si trovano illegittimamente dietro le sbarre, come già denunciato. Le sue condizioni di salute peggiorano di giorno in giorno. Il pericolo che compia atti autolesivi è stato annunciato. La madre ha presentato una denuncia alla Procura della Repubblica di Chieti. L’ordinamento penale, ricorda l’avvocato, non disciplina affatto il caso in cui sia impossibile procedere al ricovero in Rems a causa della sua indisponibilità. Perché nessuno fa niente? La violenza non ha colore di Mario Calabresi La Repubblica, 26 febbraio 2018 Siamo arrivati all’ultima settimana di una campagna elettorale cupa, senza idee e con poca speranza. Una campagna rabbiosa, in cui il nulla si è alternato con mirabolanti e irrealizzabili promesse. Un fenomeno però è emerso con chiarezza: il ritorno di linguaggi e pulsioni che credevamo consegnati definitivamente alla storia. Il nuovo nemico è la società aperta, vista come una minaccia, a cui si contrappongono comunità chiuse dove si costruiscono muri, ci si appropria del rosario come arma politica, si promette un ritorno a un passato mitizzato e rassicurante, fatto di ordine, sicurezze sociali e famiglie tradizionali. Siamo stati tra i primi a denunciare questa deriva cominciata con lo sdoganamento di un linguaggio che nessuno più frequentava: sono tornati i “negri”, additati come criminali pericolosi per le nostre donne, si denuncia l’invasione islamica e si mette all’indice chi fa volontariato, assistenza o lavora sul campo. Le Ong sono vendute e sospette e la predicazione della Chiesa viene tollerata. Anche da chi sul Vangelo giura senza averlo mai letto. Sono tornati i discorsi sui complotti internazionali, rispuntano gli ebrei come ispiratori di trame e il dialogo è cosa da traditori o deboli. Basta leggere i giornali di destra o ascoltare comizi e dibattiti per rendersi conto perfettamente di quanto sosteniamo. Ma l’arroganza di questo ritorno è tale che tentano di accreditare e sdoganare la tesi opposta: non esiste il neofascismo ma solo il suo fantasma evocato dall’antifascismo. Un linguaggio che ribalta la realtà. I rigurgiti fascisti vengono spacciati per slanci di patriottismo, la difesa dei diritti di una italianità minacciata dagli invasori e dai loro aedi: la sinistra, i giornali e la cultura che li sostengono. Un’operazione calcolata per alimentare il voto dell’odio e del rancore a cui si aggiunge il gioco scellerato di contrapporre ai nuovi fascisti i violenti dell’area dell’antagonismo e dei centri sociali. Come se l’antifascismo fosse quella roba lì, una violenza senza scusanti. Chi scende in piazza e tira bombe carta con chiodi e pezzi di metallo dentro non è un antifascista ma un terrorista. Non ho e non abbiamo timore di chiamare le cose con il loro nome e di condannare la violenza di qualunque colore. Ma non intendiamo farci intimidire dal gioco di chi sta sollecitando gli spiriti peggiori del passato, per mero calcolo elettorale, e non accetta lo si denunci. Il fascismo, come lo abbiamo conosciuto nel Novecento, non tornerà, siamo i primi ad auguracelo, ma intorno a noi sono già tornati governi che praticano forme di controllo delle libertà, della stampa, che riscrivono la storia, che indicano i nemici pubblici, che vedono i professori universitari, i giudici liberi, i contrappesi costituzionali come una minaccia da eliminare. Basti pensare a ciò che accade in Ungheria o in Polonia, per non arrivare alla Turchia o alla Russia. Amiamo questa democrazia con tutte le imperfezioni e gli errori di cui è portatrice, una democrazia quella italiana capace di superare tante prove, e continueremo a far sentire la nostra voce contro i nuovi teppisti del pensiero e del linguaggio. Giustizia. L’Italia ha pagato un miliardo per i processi troppo lenti Il Messaggero, 26 febbraio 2018 Lunghe indagini e processi lenti costano all’Italia risarcimenti e richiami da parte dell’Europa. Sono 968 mila circa i processi che superano i limiti della ragionevole durata (tre anni per il primo grado, altri due per l’appello e un anno in Cassazione): oltre 345 mila nel penale e quasi 623 mila nel civile al 30 settembre scorso, secondo i dati del ministero della Giustizia. Da quando è in vigore la legge Pinto, che sanziona la durata eccessiva, lo Stato ha avuto condanne per quasi un miliardo di euro. La legge fissa la tempistica delle indagini preliminari - non oltre due anni per i reati gravi - ma bastano nuovi elementi, in astratto, per continuarle all’infinito. Se il magistrato si trasferisce il fascicolo viene riassegnato e si riparte da zero. “Quella legge è in parte inapplicata, non c’è nessun impedimento, di fatto, per trattenere un fascicolo anni e anni negli armadi”, spiega Stefano Savi consigliere del Consiglio nazionale forense. Una fase “nascosta” all’indagato che “spesso viene a conoscenza di un’inchiesta solo quando riceve un avviso di proroga delle indagini. È un metodo barbaro che ritarda la possibilità di trovare prove a difesa”. La fase preliminare è lo scalino prima dei tre gradi di giudizio che si traducono in 2.000 giorni da imputato, pari a 5 anni e 4 mesi. In media un processo penale davanti al tribunale dura 707 giorni (534 per rito monocratico), 901 per quello d’appello, un anno per la Cassazione. Per una causa civile il primo grado è di 935 giorni in media, 709 per l’appello, 365 per essere giudicati in via definitiva. “Sono numeri fuori da qualsiasi comparazione europea e della civiltà”, per il rappresentante del Cnf. Guido Bertolaso è stato assolto dal tribunale dopo 8 anni, stessa attesa per Silvio Scaglia, fondatore di Fastweb. Clemente Mastella ne ha aspettati nove, 22 anni di carcere per Giuseppe Gulotta, le vittime del G8 di Genova sono in attesa di un risarcimento civile dopo 17 anni. Il carico di arretrato è di 3 milioni i processi da smaltire nel civile, oltre 1,5 milioni nel penale. “C’è un evidente sproporzione tra il contenzioso e le forze in campo. Dal 2006 l’organico dei magistrati non è mai stato coperto, talvolta si è arrivati anche sotto le 9 mila unità, abbiamo fatto i conti con la mancanza di 9 mila amministrativi. Assenze che hanno influito sui tempi: in alcuni casi il passaggio dal primo grado all’appello, che consiste nel far fare al fascicolo solo pochi piani dello stesso edificio, sono trascorsi anche due anni”, spiega Eugenio Albamonte presidente dell’Associazione nazionale magistrati. Depenalizzazione, processo telematico, riorganizzazione degli uffici sono gli strumenti su cui investire, ma “l’efficienza non può essere a discapito delle garanzie”, secondo il rappresentante del Cnf. Per l’Anm “l’appello è la vera strettoia da ripensare. Basta una legge ordinaria per cancellare il secondo grado di giudizio e lasciarlo solo per i fatti più gravi. Tre processi per una lite condominiale sono un dispendio di risorse, su questo il governo è stato meno coraggioso di quanto abbiamo sperato”. Per il sottosegretario alla giustizia Cosimo Ferri “In questi anni abbiamo fatto una serie di riforme che hanno riguardato il rispetto delle garanzie e dei tempi. Non sono ancora completamente soddisfatto dei risultati raggiunti, anche se importanti. Penso si possa continuare a investire per avere una risposta rapida e giusta di giustizia”. Le imprese spendono 3 miliardi ogni anno solo per i contenziosi lavorativi. Un caso per licenziamento si chiude mediamente in 2-3 anni per il primo grado. Per il Tribunale delle imprese, il tempo per la sentenza è di 970 giorni nel 2016, contro gli 870 giorni del 2015. La lentezza costa al Paese almeno 40 miliardi di euro. Secondo uno studio Cer-Eures, se i tempi della nostra giustizia fossero pari a quelli tedeschi, si registrerebbe un aumento aggiuntivo di quasi 2,5 punti del Pil e di 1.000 euro di reddito pro-capite, ma anche la riduzione del tasso di disoccupazione di mezzo punto, per un recupero di circa 130 mila occupati. La giustizia dei medici nel caos, “non è indipendente dal ministero” di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 26 febbraio 2018 Per il Consiglio di Stato le nomine sono illegittime. Fermi tutti i ricorsi dei sanitari. Ripiomba nel caos, per mancanza di indipendenza dal ministero della Salute, l’organo di giustizia disciplinare dei camici bianchi. E se errare è umano ma perseverare è diabolico, ora una sentenza del Consiglio di Stato tira le orecchie al diavoletto governativo reo di paralizzare di nuovo (da capo, come se nel 2016 non ci fosse stata una pronuncia della Corte costituzionale) la “Commissione centrale per gli esercenti le professioni sanitarie”: cioè l’organo di giurisdizione speciale al quale possono fare appello - contro le sanzioni degli Ordini territoriali dei medici in materia disciplinare e di tenuta degli Albi professionali - 350 mila medici e odontoiatri, 400 mila infermieri, 80 mila farmacisti, 35 mila tecnici di radiologia, 30 mila veterinari, 18 mila ostetrici italiani. La sinora mai modificata legge del 1946 prevede che la Commissione sia composta da 9 membri: un consigliere di Stato con funzioni di presidente, un membro designato dal Consiglio superiore di Sanità, due dirigenti del ministero della Salute, cinque sanitari liberi professionisti. Ma il mancato riconoscimento (da parte dell’Ordine milanese) della trasponibilità in Italia della laurea in Siria di un dentista libanese, patrocinato dal professor Bruno Nascimbene, nel 2016 aveva indotto la Corte costituzionale a dichiarare l’illegittimità della composizione della Commissione per mancanza di indipendenza e imparzialità: e cioè per il fatto che i due membri designati dal ministero della Salute continuassero, durante lo svolgimento delle loro funzioni giurisdizionali, a rimanere incardinati come status economico e giuridico presso il ministero, che è controparte del camice bianco da essi giudicato nel processo. Per rimediare, il 27 dicembre 2016 il governo con un decreto della presidenza del Consiglio aveva ritenuto di poter uscire dall’impasse semplicemente riducendo da 9 a 7 i membri della Commissione, e rinnovandone la composizione con due membri (uno effettivo e uno supplente) nominati non più dal ministero della Salute ma dal Consiglio superiore della Sanità, dotato di autonomia e di cui essi sono membri di diritto. Il dentista libanese, al pari di un medico di Agrigento assistito dagli avvocati Maria Beatrice Miceli e Guido Corso, aveva allora fatto ricorso al Tar del Lazio, che lo aveva respinto il 13 novembre 2017. Ma adesso la III sezione del Consiglio di Stato dà loro ragione. Perché? Perché i due membri “sono e restano soggetti al potere disciplinare del ministero della Salute, il che equivale ancora una volta a dire che, dietro lo “schermo” della formale distinta designazione da parte del Consiglio superiore di Sanità quale organo tecnico consultivo del ministero della Salute, una delle parti dei giudizi trattati dalla Commissione è legittimata a verifiche disciplinari sul comportamento di uno dei membri del collegio decidente”. Insomma i difetti di indipendenza lamentati dalla Consulta nel 2016 restano adesso “immutati” nella nomina dei due dirigenti, “illegittima” perché essi continuano a poter essere “revocati o sottoposti ad azione disciplinare da parte del ministero della Salute per eventuali voti o giudizi espressi in seno alla Commissione”. La giustizia disciplinare dei sanitari è dunque di nuovo paralizzata, con grave pregiudizio per chi è sottoposto dagli Ordini territoriali a una sanzione disciplinare che non può impugnare. E in un passaggio incidentale il Consiglio di Stato (presidente l’ex ministro degli Esteri Franco Frattini, estensore Massimiliano Noccelli) sommessamente suggerisce “in tal senso l’auspicio, pure formulato dagli interpreti più sensibili al tema, che il legislatore intervenga con una disciplina della materia più moderna, più organica e più rispettosa dei principi costituzionali ed europei quanto alle garanzie di imparzialità e indipendenza che presidiano l’organo decisionale di giurisdizione penale”. Libertà, parola alla Consulta. Il concetto presente nella Carta sarà attualizzato di Sergio Vinciguerra Italia Oggi, 26 febbraio 2018 Le implicazioni della decisione della Corte d’assise di Milano sul caso Dj Fabo. Con la vicenda Cappato-Dj Fabo il concetto di libertà presente in Costituzione approda dinanzi alla Consulta per essere attualizzato. Marco Cappato portò con l’auto in Svizzera Fabiano Antoniani, che in seguito a un incidente stradale era rimasto tetraplegico, affetto da cecità bilaterale permanente e non autonomo nella respirazione e nell’alimentazione. Il trasporto avvenne presso una struttura dove fu praticata l’assistenza al suicidio, consentita dalla legge svizzera. Cappato fu tratto a giudizio dinanzi Corte d’assise di Milano per istigazione al suicidio. Secondo l’art. 580 c.p. “chiunque determina altri o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da 5 a 12 anni”. Nei riguardi di questa norma il 14 febbraio 2018 la Corte ha sollevato una delicata questione di legittimità costituzionale. Nell’ordinanza si legge che durante il processo “è stato accertato che l’imputato non indirizzò o condizionò la decisione di Fabiano di procedere in Svizzera al proprio suicidio. Anche durante il soggiorno in Svizzera, Cappato verificò fino all’ultimo che Antoniani non volesse desistere dal progetto di suicidio, assicurandogli che in tal caso lo avrebbe riaccompagnato in Italia pertanto, l’imputato deve essere assolto dall’addebito di averne rafforzato il proposito di suicidio”. La sua “condotta è stata condizione per il realizzarsi del suicidio e di conseguenza risulterebbe perciò solo integrare l’agevolazione sanzionata da detta disposizione”. Inevitabile, dunque, la condanna di Cappato, se la Corte non avesse ritenuto di dover coordinare l’interpretazione dell’art. 580 c.p. con la legge n. 219-2017, secondo la quale “ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare qualsiasi accertamento diagnostico trattamento sanitario indicato dal medico” (art. 1.5), “il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale” (art. 1.6), deve “astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati” (art. 2.2) e assicurare “dignità nella fase finale della vita” (così nella rubrica dell’art. 2). Secondo la Corte milanese, nella legge n. 219-2017 “il diritto a decidere di “lasciarsi morire” è stato espressamente riconosciuto è chiaro riconoscimento dei principi stabiliti dagli artt. 2 e 13 della Costituzione, in forza dei quali la libertà di ogni persona a disporre della propria vita non può essere limitata per fini eteronomi”. Perciò, “i principi costituzionali che hanno ispirato la formulazione e l’approvazione della legge n. 219/17 devono presidiare anche l’esegesi della norma in esame”, onde non ne è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale “nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione e, quindi, a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito di suicidio, per ritenuto contrasto con gli artt. 3, 13, I comma, e 117 della Costituzione in relazione agli artt. 2 e 8 della Convenzione europea dei Diritti dell’uomo”. Non è facile prevedere come deciderà la Corte costituzionale. Molto dipenderà da come essa attualizzerà il concetto di libertà presente nella Costituzione, i cui autori non si occuparono della libertà di disporre della vita. Inoltre, occorre tenere presente che le regole stabilite nella legge n. 219-2017 hanno carattere eccezionale e legittimano l’agevolazione al suicidio da parte del medico mediante omissione, mentre, nel caso in giudizio, l’agevolazione al suicidio avvenne mediante un’azione da parte di una persona che non è medico e le norme eccezionali “non si applicano oltre i casi in esse considerati” (art. 14 preleggi). Data la grande delicatezza di questo caso, sarebbe meglio che fosse il Parlamento a regolarlo con legge successivamente sottoposta al giudizio popolare mediante referendum. Stupefacenti: l’acquirente stabile partecipa all’associazione finalizzata al traffico di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 26 febbraio 2018 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 22 dicembre 2017 n. 57529. Al soggetto che si renda disponibile a fornire ovvero ad acquistare le sostanze di cui un sodalizio criminoso fa traffico, tale da determinare un durevole, ancorché non esclusivo, rapporto, può essere riconosciuta la veste di partecipe all’associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti. Infatti - secondo i giudici penali della Cassazione, sentenza 57529/2017- non è di ostacolo alla costituzione del vincolo associativo e alla realizzazione del fine comune né la diversità degli scopi personali, né la diversità dell’utile, né il contrasto tra gli interessi economici che i singoli partecipi si propongono di ottenere dallo svolgimento dell’intera attività criminale. Nondimeno, il mutamento del rapporto tra fornitore e acquirente, da relazione di mero reciproco affidamento a vincolo stabile riconducibile all’affectio societatis, può ritenersi avvenuto solo se il giudicante verifica, attraverso l’esame delle circostanze di fatto, e, in particolare, della durata dell’accordo criminoso tra i soggetti, delle modalità di azione e collaborazione tra loro, del contenuto economico delle transazioni, della rilevanza obiettiva che il contraente riveste per il sodalizio criminale, che la volontà dei contraenti abbia superato la soglia del rapporto sinallagmatico contrattuale e sia stato realizzato un legame che riconduce la partecipazione del singolo al progetto associativo. Ne discende che, allorquando si voglia ravvisare il ruolo partecipativo, il giudice è tenuto ad assolvere all’onere di motivazione con una particolare accuratezza e attenzione in considerazione della peculiarità della posizione del soggetto che si trova “fisiologicamente” - in quanto controparte di un sinallagma contrattuale - a essere portatore di un interesse economico contrapposto rispetto a quello dell’organizzazione criminale: la ritenuta intraneità al gruppo postula che, nonostante il naturale conflitto di interessi, sia ravvisata e dunque argomentata la coscienza e volontà del singolo di assicurare, mediante la fornitura continuativa o l’approvvigionamento continuativo della sostanza, il proprio stabile contributo al gruppo, alla realizzazione degli scopi criminosi e, dunque, alla permanenza in vita della societas sceleris. Secondo il ragionamento della Cassazione, è ravvisabile il reato di partecipazione nell’associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti (articolo 74 del Dpr 9 ottobre 1990 n. 309) anche nei confronti di colui che si pone nei confronti dell’associazione come acquirente o fornitore stabile della sostanza stupefacente. Trattasi di affermazione senz’altro convincente e in linea con la costante interpretazione della giurisprudenza, secondo cui è pacificamente ammesso il vincolo associativo anche in presenza di soggetti che hanno motivazioni illecite diverse (acquirente, venditore, importatore, ecc.): vi è casistica, ad esempio, che ravvisa la configurabilità del vincolo associativo tra il fornitore “all’ingrosso” di droga e gli acquirenti “al dettaglio” che la ricevono stabilmente per poi reimmetterla sul mercato; ovvero, analogamente, tra colui che importa la droga per rifornire il mercato e la rete stabile dei rivenditori e piccoli spacciatori della sostanza che a questi si rivolgono per poi spacciarla al minuto ai tossicodipendenti. A supporto di tale soluzione interpretativa va in effetti considerato che l’elemento soggettivo del reato associativo de quo è integrato dal dolo specifico, il cui contenuto è rappresentato dalla coscienza e volontà di partecipare e di contribuire attivamente alla vita dell’associazione volta alla realizzazione del comune programma criminoso mirante alla commissione di una serie indeterminata di delitti in materia di stupefacenti. Il dolo del reato associativo non va però confuso con il “motivo” squisitamente soggettivo che possa avere determinato un soggetto a far parte del sodalizio criminoso, nei termini suesposti; cosicché è indifferente che il contributo causale volontariamente prestato all’associazione risulti motivato pure dalla concorrente esigenza di realizzare finalità di ordine personale, come, esemplificando, l’approvvigionamento dello stupefacente necessario per l’uso personale, o simili. Ne consegue che, ai fini dell’apprezzamento del dolo, non è neppure richiesto che tutti gli associati perse­guano gli stessi scopi o utilità, purché ovviamente tutti agiscano nella consapevolezza delle attività degli altri partecipi volte alla realizzazione del comune programma criminale. Ciò che va peraltro sottolineato con chiarezza, per evitare indebite estensioni della fattispecie associativa, è che occorre pretendere un giusto rigore sulla valutazione dell’effettivo rapporto causale fornito dai diversi soggetti all’attività dell’associazione. È ovvio allora che il problema risiede nella dimostrazione - sotto il profilo oggettivo e, soprattutto, sotto quello soggettivo - del vincolo associativo: a tal fine, tanto per esemplificare, non basta, di per sé solo, l’apprezzamento di una serie, pur ripetuta con frequenza, di operazioni di compravendita di sostanze stupefacenti concluse tra le stesse persone, occorrendo un quid pluris, vale a dire la dimostrazione che tutti i compartecipi abbiano agito, sia pure per una finalità concorrente di profitto proprio, con la volontà e consapevolezza di operare quali aderenti a un’organizzazione criminosa e nell’interesse della stessa; solo in presenza di dette condizioni (come precisato dalla sentenza in commento) i singoli atti di compravendita divengono altrettanti reati-fine dell’associazione, giacché, in difetto, rimangono singole illecite operazioni sinallagmatiche (cfr., per riferimenti, tra le tante, Sezione VI, 16 marzo 2004, Benevento ed altri; Sezione IV, 6 luglio 2007, Cuccaro ed altri; Sezione VI, 11 febbraio 2008, Oidih ed altro; Sezione VI, 10 gennaio 2012, Ambrosio ed altri). Roma: giovane di 21 anni suicida in carcere, aperte tre inchieste di Fulvia Fiano Corriere della Sera, 26 febbraio 2018 Valerio Guerrieri aveva problemi psichici. “Regina Coeli è un caos, io ogni mattina mi sveglio e soffro mentalmente e psicologicamente... guardate, do la mia parola d’onore di uomo che se mi mandate in clinica o a casa mia io seguo tutte le terapie che mi date. Io sono convito di curarmi perché voglio fare una vita normale, voglio sposarmi, avere dei figli, mi voglio fà una famiglia, voglio andare a lavorare, voglio essere normale... perché sono un ragazzo, c’ho 21 anni”. Poco dopo il suo accorato appello al giudice Anna Maria Pazienza, Valerio Guerrieri viene condannato a sei mesi di detenzione per resistenza, lesioni, danneggiamento. La pena, dice il tribunale di Roma, va scontata in un Rems in virtù dei problemi di salute mentale del condannato e dell’alto rischio suicidario accertato da una perizia. Tanto che la misura di custodia in carcere viene contestualmente revocata. È il 14 febbraio 2016, ma nei dieci giorni successivi non si trova disponibilità in nessuna “Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza” (Rems) e il 24 Valerio si toglie la vita legandosi un lenzuolo al collo nel bagno della sua cella. Per quella morte sono ora aperte tre diverse indagini, che avrebbero già identificato precise responsabilità. Un mix di sottovalutazione, imperizia, negligenza che chiama in causa guardie carcerarie, medici, strutture sanitarie e giudici. Il “caso Guerrieri” è stato da ultimo portato all’attenzione generale dal presidente della Camera penale di Roma, Cesare Placanica, che alla inaugurazione dell’anno giudiziario lo ha citato come esempio di abuso nel ricorso alla carcerazione a scapito di misure di detenzione alternative. A Roma, il pm Attilio Pisani ha iscritto tra gli indagati le due guardie carcerarie che si alternavano nei turni di sorveglianza e i medici di Regina Coeli responsabili di aver stabilito la frequenza dei controlli. Per Guerrieri era stato disposto il regime di “grande sorveglianza”, che presuppone controlli ogni 15 minuti, mentre più appropriato, data la perizia che recitava “alto rischio di togliersi la vita, attenzione psichiatrica maggiore possibile”, sarebbe stata, secondo il pm, la sorveglianza speciale, ossia il detenuto andava tenuto costantemente a vista. Ma anche i controlli più diradati sarebbero stati inevasi, dato che già la sera prima del suicidio i compagni di cella avevano segnalato come Valerio stesse “preparando qualcosa”. Di certo, in 15 minuti di intervallo tra una ronda e l’altra non avrebbe avuto il tempo di togliersi la vita. A Frosinone, invece, è aperto un fascicolo contro i responsabili del Rems di Ceccano, che nel dicembre del 2016, dando il via libera al ritorno in carcere di Guerrieri, così lo descrivevano in contraddizione con una precedente relazione psichiatrica: “Appare all’osservazione clinica lucido, ben orientato e non si evidenziano alterazioni a livello della capacità di critica e giudizio”. Le sue manie suicide altro non sarebbero state che “simulazioni”. Per tutti i suoi i piccoli precedenti penali, Guerrieri era stato ritenuto non imputabile. Da ultimo, anche il comportamento del giudice Pazienza, seconda sezione penale, è stato portato all’attenzione del Csm e della Procura generale della Corte d’Appello. Già a processo in corso, la perizia deposita al tribunale era netta sulle condizioni psichiche di Valerio e la revoca del carcere disposta con la sentenza di fatto non è stata mai applicata. Lecco: in carcere mancano anche i soldi per pulizie e igiene dei detenuti Il Giorno, 26 febbraio 2018 Sono stati stanziati solo 1.800 euro all’anno. In carcere a Pescarenico di Lecco mancano guardie, l’assistente sociale e operatori socio-sanitari di notte. Non ci sono inoltre neppure i soldi necessari per la pulizia delle celle e per l’igiene personale dei detenuti. Per le spese per le pulizie e per l’igiene personale sono stati stanziati infatti appena 1.800 euro, che devono bastare per tutti per tutto l’anno. A denunciare la situazione sono i parlamentari della Commissione Giustizia della Camera, che nei giorni scorsi hanno compiuto una visita nella casa circondariale lecchese. Uno dei principali problemi è quello della carenza di agenti di Polizia penitenziaria: nell’ultimo periodo se ne sono andati in cinque che non sono stati rimpiazzati. Il turno peggiore è quello del tardo pomeriggio dalle 16 alle 24. In caso di necessità, magari per scortare un detenuto, è necessario così richiamare in servizio chi è di riposo o in ferie. La carenza di organico non costituisce solo un problema di sicurezza, ma rende difficile, se non impossibile, organizzare anche attività culturali, educative e sociali. Non è stato nominato un sostituto nemmeno per l’unica assistente sociale, assente per maternità. Il presidio sanitario interno è inoltre garantito con due operatori, ma solo nelle ore diurne, dalle 8 alle 20. Si tratta di una carenza non di poco conto, per chi necessità della somministrazione di terapie serali e per i numerosi tossicodipendenti incarcerati a cui devono essere dati i farmaci specifici per evitare crisi di astinenza e supportarli nel percorso di disintossicazione. Anche i soldi stanziati non bastano: sono stati ad esempio assegnati soltanto 1.800 euro per la spesa annuale per le pulizie e per l’igiene personale dei detenuti. Manca inoltre un gruppo elettrogeno per le emergenze e in caso di black out. La direttrice poi deve dividersi tra Lecco e il San Quirico di Monza. La capienza regolamentare della struttura è di 53 detenuti, ma mediamente ne sono presenti dai 70 ai 75, quindi almeno una ventina in più. Sono suddivisi su più piani. Al primo ci sono coloro che sono in attesa di giudizio o hanno appena varcato le porte del carcere, negli altri i reclusi in via definitiva, ma solo per reati che prevedono pene non troppo lunghe, da uno a cinque anni di carcere. Oltre ad un cortile esterno, a Pescarenico ci sono la sala per i colloqui, la biblioteca, le sale comuni, il luogo di culto, la cucina e le celle naturalmente, di diverse dimensione, che possono ospitare da 2 a 6 persone. Airola (Bn): sventato un tentativo di evasione dal carcere minorile ilquaderno.it, 26 febbraio 2018 Ha provato di evadere dal carcere minorile di Airola, ma l’attenta vigilanza della Polizia Penitenziaria ha scongiurato sul nascere il tentativo. A dare la notizia è il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, che sottolinea come il protagonista sia un detenuto ultra-diciottenne (ma ristretto nel carcere minorile) già noto per le sue intemperanze. Racconta Donato Capece, segretario generale del Sappe: “Il detenuto già maggiorenne e responsabile alcuni giorni addietro di tentativo di introduzione di sostanze stupefacenti ai colloqui, si trovava in cella d’isolamento, quando con un arnese rudimentale di ferro, ricavato dalla rottura di uno sgabello metallico, si è messo a perforare la parete della propria stanza che immette sul cortile interno; era quasi riuscito a creare un foro talmente grande da potersi calare giù, quando è stato scoperto dal personale di Polizia Penitenziaria che lo ha bloccato giusto in tempo ad impedirgli la fuga. Nei momenti concitati in cui veniva bloccato, il ragazzo ha sferrato un violento pugno ad un Agente di Polizia Penitenziaria, procurandogli una lesione al volto che ha richiesto l’intervento dei Sanitari del Pronto Soccorso dell’Ospedale di Sant’Agata dei Goti per suturargli la ferita”. “Ancora una volta - commenta il segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria - solo grazie al tempestivo e professionale intervento dei poliziotti penitenziari si è riusciti a scongiurare che l’Ipm sannita vivesse un altro brutto evento critico. È evidente che sotto il profilo della sicurezza della struttura emergono gravi responsabilità, a cominciare dal Comandante di Reparto che è il responsabile dell’Area sicurezza del carcere minorile”. Il Sappe esprime solidarietà e parole di apprezzamento per la professionalità, il coraggio e lo spirito di servizio dimostrati di poliziotti penitenziari di Airola: “È solamente grazie a loro, agli eroi silenziosi del quotidiano con il Basco Azzurro a cui va il ringraziamento del Sappe per quello che fanno ogni giorno, se le carceri reggono alle costanti criticità penitenziarie. Ma il Ministero della Giustizia ed il Dipartimento della Giustizia Minorile devono da un lato seriamente rivedere l’opportunità di tenere detenuti uomini di 25 anni in carceri minorili e dall’altro punire con estrema fermezza chi altera ordine e sicurezza nei penitenziari, rendendosi protagonisti anche di aggressioni, colluttazioni e ferimenti in danno dei poliziotti penitenziari”. “È impensabile inserire detenuti di venticinque anni nei penitenziari minorili, perché è impensabile far convivere negli stessi ambienti carcerari adulti di venticinque anni con bambini di quattordici”, conclude il leader del primo e più grande sindacato della Polizia Penitenziaria. ““Avevamo detto che era un errore l’innalzamento dell’età dei presenti nelle carceri minorili: oggi, infatti, possono starvi anche donne e uomini di 25 anni. Una decisione politica che da subito definimmo incomprensibile. Da quando sono stati assegnati detenuti adulti, per effetto della legge 11 agosto 2014, n. 117, infatti, questi maggiorenni si comportano con il personale di Polizia e con alcuni minorenni ristretti con prepotenza e arroganza, caratterizzando negativamente la quotidianità penitenziaria. E la loro ascendenza criminale condiziona tanti giovani, che li vedono quasi come dei miti. L’auspicio è che il prossimo Governo che si insedierà ponga rimedio a questa folle decisione e destini tutti i detenuti maggiorenni alle carceri per adulti”. Cagliari: cucina solidale, i ragazzi del carcere minorile ai fornelli con gli chef di Francesca Mulas sardiniapost.it, 26 febbraio 2018 Cous cous con verdure, ghisadu, sushi, pizze e focacce, fregola, hummus, torte rustiche, formaggi, salumi e verdure: una tavola insolita, dai mille colori e dai sapori diversissimi ha accolto oggi a pranzo gli undici ragazzi detenuti all’istituto minorile di Quartucciu. Ai fornelli c’erano 21 tra cuochi e chef provenienti da tutta la Sardegna, impegnati anche nel campo di calcetto per una sfida con i detenuti: una giornata di sport e cucina, pensata per creare un momento di socialità tra i ragazzi e il mondo esterno. L’evento, promosso dalla Fondazione Carlo Enrico Giulini come terzo appuntamento delle Giornate solidali, è stato organizzato da William Pitzalis, chef del Cagliari Calcio. La giornata ha coinvolto i giovani del carcere minorile, condannati in via definitiva o in attesa di giudizio per reati diversi, che sono stati impegnati prima sul campo sportivo e poi nella preparazione dei piatti e l’allestimento della tavola. “L’idea è quella di unire l’attività sportiva, calcio soprattutto ma non solo, ad attività laboratoriali che potrebbero essere utili in vista di un futuro inserimento lavorativo - ha sottolineato Giovanni Pasculli per la Fondazione Carlo Enrico Giulini. È un momento importante non solo per i ragazzi ma anche per le persone che dall’esterno vengono in carcere per arricchirsi di una preziosa esperienza di responsabilità sociale”. Tra gli chef e i cuochi che hanno lavorato in carcere c’erano Leonardo Marongiu del ristorante Hub di Macomer, il pasticcere Leonildo Contis di Contis Banquetin di Sanluri, Marco Abis e Alberto Cabras del Cagliari Calcio, Federico Ravot del ristorante cagliaritano Sa Piola, Gabriella Narciso e Maria Grazia Loddo della scuola di cucina “Il giardino dei piaceri” di Cagliari, i liberi professionisti Davide Bonu e Daniele Cui (che ha partecipato alla trasmissione Masterchef), Marco Camboni e Francesco Ghiani della compagnia La Pola, Stefano Deidda de Il Corsaro, Luigi Pomata del ristorante omonimo, Massimo Ferrara del Maklas di Castiadas, Angelo Ghiani della Pizzeria Margherita di Sarroch, componente della pattuglia nazionale di pizzaioli acrobatici, Lisander Kafexhi del Mood di Cagliari, lo chef della Caritas Massimo Bruno, Nicola Manunta dell’Antico Caffè di Cagliari, Andrea Mallocci di S’Incontru a Cagliari e Pula, e ancora Laura Pitzalis e Cristian Pintus. I giovani detenuti, tra cui ci sono alcuni stranieri e altri che arrivano da altri istituti della penisola, hanno lavorato in cucina per preparare i piatti, impastare pizze e focacce e creare i dolci. In mattinata hanno sfidato gli chef a calcetto (la partita è finita 4 pari, ai rigori hanno vinto i ragazzi) e hanno poi mangiato insieme a operatori, agenti della sicurezza, personale dell’Istituto penitenziario e giornalisti; il pranzo è stato per loro un momento di svago, socialità e confronto. Grande soddisfazione anche per Giovanna Allegri, direttrice dell’Istituto: “Attività come queste sono importanti per i ragazzi, e negli ultimi anni abbiamo fatto molto anche per migliorare la struttura e le attività con cui i giovani possono scontare la pena e contemporaneamente imparare un mestiere, studiare, crescere”. Tra questi c’è un ventenne del Nord Italia che a giorni finirà di scontare la condanna e tornerà in libertà: “È sempre piacevole fare esperienze di questo tipo - ci ha raccontato - qua le cose da fare non mancano: la mattina lavoriamo in lavanderia, cucina, falegnameria o in giardino e seguiamo laboratori. Nel pomeriggio poi ci sono corsi di scuola o sport. Io sono stato anche coinvolto nel volontariato ai per i disabili con l’Aias di Cagliari. Siamo qui perché abbiamo sbagliato, ma tutte queste esperienze mi hanno aiutato a vedere le cose da una prospettiva diversa. Cosa farò una volta libero? So lavorare come meccanico, falegname, fabbro, ho fatto anche il giostraio anni fa; non mi piace studiare ma ho molta voglia di impegnarmi. Ho già preso accordi con don Ettore Cannavera della comunità La Collina, mi piacerebbe lavorare con lui. E poi fuori mi aspetta una ragazza”. Reggio Calabria: il detenuto-pittore “combatto la solitudine con l’arte” avveniredicalabria.it, 26 febbraio 2018 La Casa Circondariale di Arghillà nelle persone della direttrice, Carmela Longo, e del comandante Domenico Paino, sono orgogliosi del prestigioso riconoscimento concesso dalla Pontificia Università “Urbaniana” di Città del Vaticano a Luigi Paolone, per la sua partecipazione al concorso internazionale del premio “Fondazione Giuseppe Sciacca” per la pace tra i popoli. Il detenuto si è distinto tra numerosi partecipanti con un ritratto del Beato Carlo I. Anche in altre occasioni ha ricevuto premi importanti. Lo scorso anno ha partecipato alla rassegna d’arte visiva dal titolo “Arte dal carcere verso il futuro” promossa dal Tribunale di Massa Carrara, con un dipinto raffigurante la Madonna con Bambino. La sua opera ha ricevuto il primo premio dal Ministero di Grazia e Giustizia ed un encomio dal Ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Non è facile pensare al futuro dalle sbarre di un carcere, ma nello stesso tempo Luigi ha cercato e sta cercando di mettere a frutto quelle che sono le sue doti artistiche, supportate ovviamente da un notevole bagaglio culturale e professionale. Diplomato maestro d’arte ha frequentato l’accademia delle belle arti come scenografo e stilista/modellista, per continuare la sua attività principale come disegnatore di abiti da sposa e cerimonia. “La vita in carcere - racconta Luigi - è molto dura, ma in compagnia della pittura e di tutte le attività artistiche riesco a trovare serenità; riesco a fare tutto con molto entusiasmo perché quello che faccio mi consente di relazionarmi con il mondo esterno, di fare progetti, di non sentirmi isolato”. La poliziotta e le vittime di violenza domestica di Andreina Baccaro Corriere della Sera, 26 febbraio 2018 “Molte chiedono aiuto poi rientrano in casa. È il momento peggiore”. Vicequestore aggiunto e dirigente della Sezione omicidi e reati contro la persona, in danno di minori e reati sessuali della Squadra mobile: Elena Jolanda Ceria è la poliziotta che negli ultimi anni ha indagato sulla maggior parte dei femminicidi, delle violenze sessuali, dei maltrattamenti denunciati alla Questura di Bologna. “I casi più difficili - racconta - sono quelli in cui le donne dopo aver chiesto aiuto tornano a vivere con il loro aguzzino”. Perché quasi mai questo significa che le violenze siano terminate, anzi. “Quando tornano indietro è perché non sono ancora consapevoli di quello che stanno subendo. Ma questo mette in difficoltà tutta l’attività investigativa, perché anche se abbiamo raccolto elementi di prova utili a chiedere una misura cautelare, molti giudici ritengono che il rientro della donna a casa fa venir meno l’esigenza di custodia in carcere”. “Si dovrebbe invece considerare-prosegue la poliziotta - il rientro della vittima a casa, un aggravamento dell’esigenza, perché è più alto il pericolo di recidiva”. D’altro canto, però, “quando si rivolgono alla polizia le vittime hanno alle spalle lunghi periodi di violenze, hanno intrapreso un percorso di consapevolezza, spesso hanno una rete familiare e sociale di supporto e quindi non sono molte quelle che ritirano le querele”. Anche se i numeri dicono che in quattro anni la metà delle denunce per violenza di genere è stata archiviata in fase di indagine. “A Bologna in Procura c’è un gruppo di magistrati specializzati in reati contro le fasce deboli, c’è una spiccata sensibilità, ma a volte non è semplice dimostrare i reati. Ci sono violenze sessuali, anche su minori, denunciate dopo tanto tempo, quando ormai è difficile cristallizzare le prove”. Quando una donna si presenta in Questura, trova uno spazio e un’equipe specializzata. Da qualche anno è stata allestita una saletta dedicata alle vittime di reati sessuali e familiari: colori e addobbi confortevoli, sistemi per la registrazione audiovisiva soft e non invadenti per le audizioni protette. L’equipe è formata da cinque poliziotti, tre donne e due uomini, a cui si aggiunge lo psicologo della polizia e quando è necessario i servizi sociali del Comune. Negli ultimi due anni a Bologna, come nel resto d’Italia, il Viminale ha lanciato la campagna di sensibilizzazione “Questo non è amore”: a bordo del camper blu poliziotti, psicologi e volontarie della Casa delle donne hanno fatto almeno 40 incontri in piazze e scuole per una media di 200 contatti alla volta. Cresce la consapevolezza ma non diminuiscono le denunce per stalking. “Questo significa anche - conclude Ceria - che lo strumento del reato di stalking funziona, le donne denunciano”. Del resto, l’era dei social moltiplica le insidie: “C’è un trend in aumento, WhatsApp e Facebook creano uno scollamento dalla realtà che deresponsabilizza lo stalker, perché non vede o sente la reazione della vittima. Capita sempre più spesso di trovarsi di fronte anche ad altri tipi di stalking: genitori che superano il limite nei confronti dei figli. In questo senso l’ammonimento del Questore è uno strumento molto utile, perché interrompe un comportamento diventato ossessivo, evitando le lungaggini del processo”. Messico. I tre napoletani spariti “venduti a una banda per 43 euro” di Giuseppe Crimaldi Il Mattino, 26 febbraio 2018 La drammatica denuncia dei familiari di Raffaele, Antonio e Vincenzo. Alla fine, da quei pochi spiragli di verità emerge uno scenario tragico. Raffaele Russo, 60 anni, suo figlio Antonio, 25, ed il nipote 29enne Vincenzo Cimmino sono stati “venduti”, ceduti da un manipolo di poliziotti corrotti ad una banda di criminali. E, sulla scomparsa dei tre connazionali - risalente al 31 gennaio scorso - arrivano le prime conferme ufficiali a quello che “Il Mattino” aveva già anticipato da giorni. Il punto di svolta giunge al termine dell’ultima giornata convulsa di indagini partite tardivamente. Molte, e forse troppe le responsabilità - oltre a qualche censurabile assenza anche in casa nostra, in Italia - che ricadono oggi sulle autorità inquirenti chiamate a far luce su un caso gravissimo. E dunque ricapitoliamo. Gli ultimi aggiornamenti rilanciati dagli organi d’informazione e dalle agenzie di stampa (del caso si è interessato persino il “Los Angeles Time”, titolando sul “Mistero che circonda la sparizione di tre italiani in Messico) sono quelli che seguono. I tre napoletani residenti nella zona del centro storico di piazza Mercato sarebbero stati “venduti” a una banda di criminali per una manciata di banconote. Quanto vale una vita in Messico? Niente. Se poi si tratta della esistenza di un extranjero, di un “gringo” americano o - meglio ancora - di un europeo, allora si arriva alla “plusvalenza”: 43 euro per ogni essere umano. Si diradano le nebbie su un caso che, però, continua a riservare ancora molti misteri. Come il nostro giornale aveva già scritto quattro giorni fa, i sospetti si sono concentrati su due pattuglie di agenti della polizia municipale di Tecalitlan; a conferma di quel disperato messaggio vocale inviato via whatsapp agli altri parenti rimasti in albergo dal figlio e dal nipote di Raffaele Russo (il primo ad essere scomparso, la mattina del 31 gennaio): “Stiamo facendo rifornimento di benzina, sono arrivati i poliziotti ordinandoci di seguirli: due in moto e altri in auto”. Ebbene, 24 ore fa, a confermare la svolta nelle indagini è stata lo stesso ministero degli Esteri italiano: in una nota ufficiale la Farnesina ha ammesso l’arresto dei quattro poliziotti messicani coinvolti nel caso dei tre napoletani nello stato di Jalisco. Già rinviati a giudizio, per i presunti poliziotti corrotti è già scattato un anno di carcere preventivo. Gli agenti hanno confessato, senza tuttavia fornire elementi utili alla ricerca dei desaparecidos. Altra circostanza che aumenta l’angoscia dei familiari. Sebbene sottoposti a ripetuti interrogatori, a Città del Messico dov’erano stati trasferiti, i poliziotti di Tecalitlan - tre uomini e una donna - non hanno rivelato il nome della banda alla quale gli italiani sono stati “ceduti”. La regione in cui è maturato il dramma è quella di uno stato nel sud-ovest del Messico: Jalisco. Area tristemente nota per i rapimenti lampo, soprattutto ai danni di stranieri, e nella quale imperversa il clan “Nueva Generation de Jalisco”, che traffica anche in stupefacenti. Alla luce degli sviluppi delle ultime ore esplode la rabbia dei familiari dei tre scomparsi. I Russo e i Cimmino - sostengono - sarebbero stati venduti dai poliziotti che li avevano bloccati per “43 euro”: 14 euro a persona, denunciano i parenti. Il punto essenziale da capire ora è a chi siano effettivamente stati venduti i tre italiani e dove si trovino in questo momento. A Jalisco, come pure negli stati confinanti di Michoacan e Colima, proseguono serrate le ricerche con l’uso di unità cinofile: i cani “molecolari”, specializzati - dispiace doverlo dire - anche nelle ricerche di corpi sepolti. E dunque l’odissea continua. “Siamo brave persone, semplici venditori ambulanti ed eravamo andati lì solo per lavorare”, ripetono i figli di Raffaele Russo. Aggiunge Francesco Russo, figlio di Raffaele, l’ultimo ad avere lasciato solo qualche giorno fa il paese centro-americano: “Hanno venduto i nostri parenti per una manciata di soldi: una vergogna inaudita. Ma noi non perdiamo la speranza di rivederli a Napoli”. Sul caso è intervenuto ieri l’europarlamentare di Forza Italia Fulvio Martusciello: “Impressiona ha dichiarato - il silenzio della Mogherini sul caso dei napoletani scomparsi in Messico. Abbiamo o non abbiamo un commissario europeo che dovrebbe occuparsi di politica estera? Possibile che non si è sentito il dovere di intervenire su questo argomento? Il gruppo del Ppe nella plenaria di giovedì a Bruxelles interrogherà ufficialmente la Mogherini per sapere come attivarsi”. Siria. La guerra che noi non vogliamo vedere di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 26 febbraio 2018 La guerra non ci lambisce affatto per il semplice motivo che c’è già, le stragi ci sono già, le città rase al suolo ci sono già, i civili massacrati ci sono già. Quale eccesso narcisistico e (un tempo si sarebbe detto) “eurocentrico” ci fa dire con tremebondo esorcismo che “corriamo il rischio” di una guerra, che “stiamo sfiorando la guerra”, che l’umanità è “sull’orlo” di una guerra. Diciamo che la guerra ci lambisce ma, come ha notato Adriano Sofri sul Foglio, la guerra non ci lambisce affatto, per il semplice motivo che c’è già, le stragi ci sono già, le città rase al suolo ci sono già, i civili massacrati ci sono già. Diciamo che corriamo il rischio della guerra solo quando entrano in gioco le potenze mondiali, o quando le nostre metropoli sono violentate dal terrorismo stragista, oppure quando assistiamo agli sbarchi di chi fugge disperato. Ma nella nostra psicologia collettiva abbiamo eretto un muro solido tra noi e loro. La loro guerra lontana è un rombo di tuono, e se dobbiamo averne paura è perché ci “lambisce”. Non sono guerra le carneficine di oltre sette anni che il carnefice Assad ha provocato in Siria, anche usando il gas contro il suo popolo. Non è guerra la demolizione di Aleppo. Non è guerra la decimazione dei curdi, equamente massacrati dai turchi, dai siriani, dagli iracheni filo-Teheran. Non sono guerra i missili che in Libano Hezbollah, foraggiato dall’Iran, sta ammassando ai confini di Israele e l’Europa delle cancellerie inette e inesistenti si indignerà solo se Israele vorrà reagire al primo lancio di quei missili. Per non infangarci abbiamo voluto che contro l’Isis a terra ci fossero solo i curdi. Ora che a terra a essere colpiti sono i “contractors” stranieri sale il nostro allarme. Oltre trecentomila morti civili non sono guerra, sono per noi solo presagio di una guerra che ancora non vogliamo vedere. La crudeltà diventa un parametro di cui tener conto solo se siamo noi a esserne vittime. Le stragi che già si consumano uccidono quantità immense di esseri umani, ma nella nostra insensibilità collettiva diventano quantità trascurabili. Per difenderci ci confortiamo con terribili dittature adibite al mantenimento dell’ordine, e ci accorgiamo della loro ferocia solo quando a essere colpito è un ragazzo come Giulio Regeni. Siamo degli ipocriti, ma essendo degli ipocriti impauriti tremiamo se c’è il rischio che la guerra, che per “loro” c’è già, possa “lambire” i nostri confini. Il nostro linguaggio è lo specchio della nostra ipocrisia. Siria. Risoluzione sul cessate il fuoco approvata. Ora va attuata con la massima urgenza di Riccardo Noury Corriere della Sera, 26 febbraio 2018 Ieri sera il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha finalmente approvato la risoluzione 2401 sulla Siria, più volte rinviata negli ultimi giorni, che chiede un parziale coprifuoco e l’ingresso degli aiuti umanitari nella Ghuta orientale. Assistere e proteggere una popolazione stremata dalla fame e costantemente e intenzionalmente bombardata sono obblighi previsti dal diritto internazionale umanitario: è amaro constatare che occorra lavorare per giorni, limando e misurando le parole, per ribadirli. Ma tant’è. Ora che la risoluzione è stata finalmente approvata, il Consiglio di sicurezza dovrà verificare che gli attacchi contro i civili saranno effettivamente cessati (anche quelli dei gruppi armati che operano nella Ghuta orientale contro Damasco) e che l’assistenza umanitaria potrà davvero giungere, senza impedimenti, a chi ne ha bisogno. Dopo sei anni in cui gli stati membri del Consiglio di sicurezza sono venuti meno alle loro responsabilità e, sulla Siria, si sono consegnati a un ruolo irrilevante, la risoluzione di ieri rappresenta un passo avanti nella giusta direzione. A preoccupare è però la lunga lista di “obiettivi legittimi”, non coperti cioè dal cessate il fuoco: le parti in conflitto potrebbero approfittarne per giustificare attacchi indiscriminati contro civili e infrastrutture civili. I 30 giorni di cessate il fuoco dovranno essere utilizzati nel modo più efficace possibile per portare aiuti umanitari alla popolazione affamata, evacuare i feriti, creare corridoi sicuri per i civili che vogliono o che devono lasciare la Ghuta orientale. Resta, nel lungo periodo, la necessità che la situazione in Siria sia oggetto di attenzione del Tribunale penale internazionale: è essenziale che tutti i responsabilità delle atrocità di massa commesse nel paese - governo e loro alleati, gruppi armati e loro alleati - siano portati di fronte alla giustizia. Prigionieri politici in Spagna, la censura tiene banco di Luca Tancredi Barone Il Manifesto, 26 febbraio 2018 Libertà d’espressione. La condanna al rapper Valtònyc a tre anni e mezzo di carcere per i testi delle sue canzoni e il ritiro dell’opera “Prigionieri politici” dalla fiera d’arte Arco fanno discutere. Abusare di una persona disabile. Uccidere una prostituta. Frodare 82 famiglie. Sequestrare un uomo. Pugnalare l’ex moglie. Provocare un grande incendio. Guidare ubriaco e uccidere un motociclista. Sparare e ferire un uomo. Aggredire un’anziana e quasi ucciderla per un furto. Rubare 31 volte. I responsabili di tutti questi delitti, e di molti altri, come ha spiegato in un lungo e lettissimo thread di Twitter il giornalista Marcos Ollés, sono stati condannati recentemente a esattamente tre anni e mezzo di carcere. La stessa pena inflitta questa settimana al rapero maiorchino Valtònyc per apologia di terrorismo, calunnie, ingiurie alla corona e minacce. In sostanza, per aver scritto delle canzoni contro il sistema, in cui alcune delle parole contro i Borbone e contro un’associazione di estrema destra delle Baleari (che ha promosso la denuncia) sono state considerate un grave delitto. Magari discutibili o violente, ma pur sempre solo parole. Ma non basta. A meno di 24 ore dalla condanna del giovane 25enne (18enne all’epoca della denuncia) altri due fatti hanno messo in evidenza che la libertà di espressione in Spagna è obiettivamente in pericolo. Il primo, il ritiro di un’opera del controverso artista Santiago Serra esposta alla Fiera d’arte contemporanea di Madrid “Arco 2018”. L’opera, volutamente polemica, era intitolata Prigionieri politici nella Spagna contemporanea, e consisteva di 24 ritratti in bianco e nero di persone con il volto pixelato, che, pur senza nome, sono facilmente identificabili per le esplicite didascalie. Fra loro, l’ex vicepresidente catalano Oriol Junqueras, e i due presidenti delle associazioni indipendentiste Òmnium cultural e Anc, Jordi Cuixart e Jordi Sánchez (tutti e tre attualmente in carcere). Ma anche i marionettisti finiti in gattabuia per un mese per aver esposto un cartello ironico nella loro opera La bruja y don Cristobál, il capo del sindacato andaluso Sat e membro di Podemos, condannato per aver aggredito un vice sindaco di Jaén con una sentenza basata solo su testimonianze di polizia, attivisti vari, membri del defunto foglio della sinistra abertzale basca (filo-Eta), anarchici, okupas o ecologisti. L’idea dell’artista (che nel 2010 rinunciò a un premio del ministero della cultura per preservare la propria libertà) era “dimostrare che i prigionieri politici spagnoli contemporanei abbracciano un ampio spettro di posizioni politiche soprattutto di sinistra”. Ma titolo, tema e contenuto dell’opera (soprattutto i ritratti dei politici catalani) erano tanto controversi - e scomodi per la coppia reale che doveva inaugurare la fiera - che i proprietari della galleria l’hanno fatta ritirare, scatenando la polemica (e dando così la massima visibilità all’opera). Lo stesso giorno del criticatissimo ritiro, l’ha comprata un produttore audiovisivo per 80mila euro che ha già detto che la farà esporre in un museo a Lleida. Anche il comune di Barcellona si è detto pronto a ospitare l’opera. La sindaca di Madrid, Manuela Carmena, non è andata all’inaugurazione per protesta contro il ritiro. La terza vittima della censura della magistratura, invece, non ha niente a che vedere con la corona: un ex sindaco galiziano ha fatto ritirare da un giudice la seconda edizione di un libro, Fariña, di cui aveva querelato l’autore, dedicato al narcotraffico nel nordovest della penisola perché si sentiva diffamato da quanto scritto. La cosa è paradossale: non solo per l’assurdità di ritirare un libro a tre anni dalla pubblicazione (ovviamente, Fariña ha subito avuto un boom di vendite su Amazon), ma anche perché è venuta fuori una nota scritta due anni fa da Mariano Rajoy in persona (anche lui galiziano) in cui faceva i complimenti all’autore perché il libro era “molto ben documentato”. Al presidente del governo il libro l’aveva fatto avere Pablo Iglesias. La coincidenza in poche ore di questi episodi giudiziari ha rimesso al centro della discussione il problema della libertà di espressione. Mentre la corrente conservatrice della magistratura - maggioritaria in Spagna - non ravvede elementi di preoccupazione neppure nella condanna di un musicista per le sue canzoni, i giudici progressisti criticano il reato di “apologia di terrorismo” come “eccessivamente restrittivo” e dicono che “dovrebbe essere riformato perché non sia così ad ampio spettro, atto a dare luogo a interpretazioni tanto contraddittorie”. Fu proprio il Partido popular a indurire queste pene ai tempi della maggioranza assoluta (2015) con l’ultima controversa riforma del codice penale. Anche il mondo politico ha iniziato a reagire. Il ministro di giustizia, il pasdaran Rafael Català, ha sostenuto che non esistono prigionieri politici, che bisogna distinguere fra libertà di espressione e ingiurie, e che le parole di Valtònyc “superano il limite della libertà di espressione”. Il Psoe ha applaudito il ritiro dell’opera di Santiago Serra, “per evitare polemiche”. Izquierda Unida ha reagito frontalmente, presentando, per bocca del suo segretario Alberto Garzón, un’iniziativa legislativa per “proteggere la libertà di espressione”, centrata sulla modifica dell’articolo penale che permette l’attribuzione del reato di “apologia del terrorismo” in maniera arbitraria a seconda del giudice. Gli altri articoli del codice penale che vuole cambiare o abolire sono quelli relativi alle ingiurie alla religione o alla corona, responsabili di molte delle recenti condanne, o alla patria e alle istituzioni. Tutti delitti che secondo Garzón “non dovrebbero formar parte di una società democratica”. E ha ricordato che il primo grande passo contro la libertà di manifestazione l’aveva fatto la cosiddetta “legge bavaglio” del 2015, promossa dal governo Rajoy, che limitava il diritto a manifestare negli anni più duri della crisi. Se non solo i giornali stranieri, ma anche Amnesty International è arrivata a qualificare come “sproporzionato” l’arresto dei politici catalani, forse sarebbe il caso che la magistratura e il governo spagnoli cominciassero a farsi qualche domanda. Più che sull’improbabile secessione catalana, sulla qualità democratica del paese. Cisgiordania. Ahed Tamimi, la “ribelle” fotogenica che divide i palestinesi di Francesca Borri Il Fatto Quotidiano, 26 febbraio 2018 Per gli attivisti internazionali, mobilitati in tutta Europa, è la nuova Mandela. La nuova Malala. Per gli israeliani, invece, che da un mese ormai non parlano d’altro, è un’attrice. La Knesset ha commissionato un’indagine per capire se davvero Ahed Tamimi, 17 anni, capelli biondi e occhi chiari, e nessun hijab, sia palestinese. O non sia forse pagata, insieme a tutta la sua famiglia, per animare le manifestazioni del venerdì di Nabi Saleh, un agglomerato di case vicino Ramallah che dal 2010 si oppone all’espansione dell’insediamento di Halamish; dei suoi 600 abitanti, 350 sono stati feriti. E 50, ora, inclusa la madre di Ahed, hanno disabilità permanenti. Il 18 dicembre Mohammed Tamimi, 14 anni, finisce in coma per un proiettile alla testa. Si salverà, ma con mezzo cranio in meno. Un’ora dopo, sua cugina Ahed nota un soldato all’ingresso di casa. Gli dice di andare via, comincia a strattonarlo: e gli tira uno schiaffo. Il video diventa virale. E il 19 dicembre, in piena notte, l’esercito torna ad arrestarla. Da allora, Ahed è in carcere per assalto alle forze di sicurezza. Solo un paio di settimane prima, Trump aveva deciso di trasferire a Gerusalemme l’ambasciata Usa in Israele. E si erano avuti scontri e morti un po’ ovunque. Ma alla fine, l’Intifada che tanti si attendevano non è mai iniziata. Ma se per gli attivisti internazionali è un’eroina e per gli israeliani “una che andrebbe punita al buio, senza testimoni né telecamere”, come ha scritto il noto editorialista Ben Caspit, chi è Ahed Tamimi per i palestinesi? Ehab Ewedat, 23 anni, Hebron - “Ma che senso ha uno schiaffo? Cosa cambia? I miei, se mi avessero visto discutere con un soldato, si sarebbero precipitati a tirarmi via: non sarebbero certo stati lì a filmare come la madre di Ahed. Genitori così istigano i figli. E consapevolmente o meno, finiscono per usarli e strumentalizzarli, privandoli del diritto di essere bambini. Esattamente quello che fa Israele. Vivo a Hebron, che non è molto diversa da Nabi Saleh, perché è l’unica città in cui i coloni non vivono in insediamenti, ma in mezzo a noi, casa per casa: e quindi gli scontri sono quotidiani. Gli attivisti sono molti, fondamentali, certo. Ma diciamo la verità: sono anche uno contro l’altro, tutti in competizione tra caccia a fama e finanziamenti. Da quando sono arrivati gli internazionali, è diventato tutto una specie di sceneggiata. Di attrazione turistica. Sembra che la resistenza consista nello sfidare i soldati ai checkpoint. Nell’intossicarsi un po’ di gas. Ma è tutto molto più complesso. Perché non siamo contrapposti: siamo interconnessi economicamente e amministrativamente. E il mondo invece pretende di congelarci nell’immagine del ragazzo con la kefiah e la fionda, e da noi si aspetta solo il sacrificio in nome della terra, speculare a quello dei coloni, che per stare inchiodati alla terra, abitano in luoghi assurdi, colline di sassi in cui a stento sopravvivono le capre. Resistere è restare qui, ma vivendo una vita vera. E invece adesso Ahed sarà rilasciata, e inizierà a girare per conferenze in tutto il mondo”. Mariam Barghouti, 24 anni, Ramallah - “Una nuova Intifada? L’unica vera battaglia dei palestinesi, in questi mesi, è stata per il 3G. Gli scontri sono quotidiani, sì. Ma ormai tirare pietre non è che uno sfogo. Non abbiamo più né leadership né strategia. Fatah e Hamas sono reti clientelari al servizio degli israeliani. Oslo ha cambiato tutto. L’idea era rinviare la discussione sulle questioni più difficili, come gli insediamenti, o i rifugiati, e iniziare intanto a costruire questo famoso stato palestinese: nella convinzione che lo sviluppo economico avrebbe allentato le tensioni, e semplificato i negoziati. Ma non c’è sviluppo possibile se non controlli le frontiere, le importazioni e le esportazioni. Né le infrastrutture, se non controlli risorse come l’acqua e persino le tasse vengono riscosse da Israele. La ricchezza che vedi è un’illusione. Qui tutto è fondato sui debiti, prestiti e mutui. Se lavori trenta ore al giorno, non hai tempo per un’Intifada, il settore privato è minimo, le sole opportunità di lavoro sono Israele o la pubblica amministrazione. E, in entrambi i casi, sei prima sottoposto a uno screening di sicurezza. Prima di assumerti, si assicurano che tu non sia politicamente impegnato. Però, onestamente, con tutte le nostre responsabilità, è anche vero che tra gli attori di questo conflitto, siamo quelli nella posizione più difficile. State sempre a chiederci perché non iniziamo una nuova intifada. E la mia risposta è: Oslo e tutto quello che ha generato. Ma voi eravate i garanti di Oslo. E allora? Voi che avete molta più forza, molto più potere, molte più opzioni di noi, perché non tirate uno schiaffo a Israele?”. Khadija Khweis, 40 anni, Gerusalemme - “Io vivo a Gerusalemme, e il mio obiettivo è non essere arrestata. È quello che Israele cerca: un pretesto per cacciarmi da qui. Ora si parla tanto dello stato unico. Con tutti questi insediamenti, si dice, non c’è più spazio per due Stati, il processo di Oslo ormai è fallito. Ma Gerusalemme è il laboratorio di questo famoso stato unico da cui siete tanto affascinati, per gli israeliani è la città che più di ogni altra è indivisibile. E il risultato è che mi è vietato anche solo avvicinarmi alla moschea di al-Aqsa. Gerusalemme è come Hebron. La nostra vita è segnata da mille incidenti, mille logoranti soprusi quotidiani che non finiscono sulla stampa internazionale. E la polizia non interviene mai. In questo stato non siamo cittadini. Nel 1980 Israele si è annesso Gerusalemme, ma non ci ha esteso la cittadinanza. Non abbiamo diritto di voto. abbiamo solo un permesso di residenza permanente revocabile se non stai qui per più di 7 anni o se Gerusalemme non è più il centro della tua vita. Per esempio se lavori nella West Bank. Paghiamo tutti le stesse tasse, ma solo il 52% delle nostre case è allacciato all’acquedotto. Questo è lo stato unico. Neppure la resistenza è più una sola. Ahed ha scelto quello che era giusto per il contesto di Nabi Saleh. Ma qui saresti arrestato e basta. Arrestato e cacciato via. E comunque abbiamo bisogno di molto più che un’Intifada. Finora solo Hezbollah ha tenuto testa a Israele. Ma con una guerra, non con uno schiaffo”. Yahia Rabee, 21 anni, Birzeit Student Council - “La storia di Ahed per un palestinese non è niente di speciale. Ahed è perfetta per voi, più che per noi: è bionda, senza hijab, con quell’aria così europea, così poco araba. Ma distrae da quella che è la priorità: l’Autorità palestinese. L’occupazione non è cambiata. Israele è sempre lo stesso, e anche noi siamo sempre gli stessi, nessuno si è arreso. Ma ora tra noi e Israele c’è una barriera in più, quella dell’Autorità palestinese, che spende un terzo del suo bilancio in sicurezza. Fa questo, di mestiere. Reprime. E abbiamo tutti paura. Ci arrestano e ci consegnano a Israele. In cambio, e ormai non è un segreto, di monopoli e rendite di posizione nei settori più vari dell’economia, dall’edilizia al commercio, dalle telecomunicazioni alle banche. I figli di Mahmoud Abbas, Yasser e Tareq, sono a capo di un impero che fattura milioni di dollari. E le loro aziende hanno infinite connessioni con l’Autorità palestinese. Ma se ti azzardi a scrivere di questo anche solo su Facebook finisci in carcere o ucciso. Questo è un regime autoritario. Il Consiglio legislativo non si riunisce dal 2007. Mahmoud Abbas governa per decreti: e il suo mandato è scaduto nel 2010. Non esistono più spazi di espressione e organizzazione. E così è difficile avviare una nuova Intifada. Sono tutti sfiduciati. Ti dicono: “Abbiamo tentato di tutto”. E non ha funzionato niente. E però non è vero: in cambio di Gilad Shalit, abbiamo ottenuto il rilascio di 1.027 prigionieri. Perché la violenza è un linguaggio che Israele comprende bene. Ed è quello con cui ci intenderemo”. Sami Hureini, 21 anni, At-Twani - “In realtà, qui quello preso a schiaffi sono io. Da quando ero piccolo. Da quando andavo a scuola, e i soldati dovevano scortarci, e difenderci dai coloni. Dalle pietre e dagli sputi. Hanno fondato prima un insediamento, e poi anche un avamposto, lì dentro, dentro quel bosco, sono ovunque. E sono armati. Altro che schiaffo: se mi avvicino, mi sparano. Anche se onestamente, non è solo questo. Soprattutto per la mia generazione. Sono cose blasfeme, ma la verità è che vogliono andare tutti in Israele, funziona tutto molto meglio, è tutto molto più avanti. E l’unico lavoro possibile non è il commesso o il muratore. E onestamente, lo stato unico non sarà mai uno stato a maggioranza araba, come sperano in tanti. Perché se davvero un giorno gli equilibri demografici dovessero cambiare, a Israele sarebbe sufficiente chiedere all’Europa di lasciare entrare i palestinesi senza visto. E partirebbero tutti. Comunque, detto questo, non ho la minima intenzione di tirare uno schiaffo a un colono. Sono gli israeliani ad avere bisogno della violenza per restare qui, non io. Anonimo, 31 anni, Nablus Immagino ti abbiano già detto tutto... Che non abbiamo una leadership. E che comunque abbiamo tutti una sorella, un fratello in carcere, e quindi che novità è? E poi abbiamo il mutuo da pagare. Anzi, tre mutui. E ti hanno detto, no? Che se parli, qui, ti arrestano. E che tanto è inutile: tiri uno schiaffo a un soldato, e allora? Israele ha il nucleare. Non scriverai il mio nome, vero? Che non voglio guai. Ma al fondo, la verità è che Ahed ha coraggio, e noi no. E stiamo qui a trovare scuse. Sud Sudan. Crimini di guerra, l’Onu identifica quaranta sospetti Avvenire, 26 febbraio 2018 Primo rapporto della Commissione per i diritti umani in quattro anni di guerra civile: si tratta in particolare di 33 generali, cinque colonnelli e tre governatori statali. La commissione per i diritti umani dell’Onu afferma di aver identificato “più di quaranta alti funzionari” ritenuti responsabili di crimini di guerra e crimini contro l’umanità nel Sud Sudan. Si tratta in particolare di 33 generali, cinque colonnelli e tre governatori statali, dettaglia il comunicato dell’Onu senza rivelare i nomi. Si tratta del primo rapporto della Commissione per i diritti umani nel Sud Sudan, incaricata dal Consiglio Onu dei Diritti umani di riunire prove per la “Corte Ibrida” e altri meccanismi concordati nell’ambito dell’accordo di pace del 2015 tra opposizione e governo del Sud Sudan. La “Corte Idrida” (o Tribunale Ibrido) per giudicare i crimini commessi in Sud Sudan è stata chiesta dall’Unione Africana (Ua) ed dal Sud Sudan e diverrebbe un meccanismo a gestione interamente africano ma composto di giudici dell’Ua e sud-sudanesi. Commentando il rapporto, il vice direttore regionale di Amnesty International per la regione, Seif Magango, ha sottolineato “la brutalità scioccante” di quanto rivelato dalla commissione. Questo dovrebbe “scuotere il mondo” e spingerlo a “un’azione rapida per affrontare le orribili violazioni dei diritti che continuano senza sosta in quattro anni di conflitto nel Sud Sudan”. Magango ha inoltre sottolineato “la necessità critica” di istituire la Corte ibrida per il Sud Sudan e di rinnovare il mandato della Commissione, che scade in marzo.