Carceri: la riforma slittata o affossata? di Samuele Ciambriello* linkabile.it, 25 febbraio 2018 La paura di perdere qualche voto vince sulla Costituzione. La decisione del Consiglio dei Ministri di non approvare il testo di riforma dell’ordinamento penitenziario (norme innovative sulle alternative al carcere, sull’assistenza sanitaria e sulla vita detentiva) prima del quattro marzo è la paura di perdere qualche voto (forse più di uno), il calcolo elettorale che vince sulla Costituzione e la risposta civile alla crisi del carcere. Una riforma che umanizza il carcere. Nel cestino, congelati, mesi di lavoro, forse troppi mesi di lavoro di esperti. Tutto rinviato a dopo le elezioni. Ci si aspettava la capacità di approvare il provvedimento, che è stato più volte esaminato dal governo e in sede parlamentare. Il primo dei decreti attuativi della riforma dell’ordinamento penitenziario voluta dal ministro Andrea Orlando, quello sulle misure alternative - il più importante dei decreti legislativi e più incisivo nel contrastare il sovraffollamento carcerario e la recidiva dei reati - è finito nel calderone delle promesse mancate del governo bipartisan. Insomma Gentiloni “congela” Orlando. In compenso ha messo in moto l’iter di altri tre decreti attuativi della riforma (ordinamento minorile, giustizia riparativa e lavoro) che fino ad ora non avevano visto la luce, malgrado un processo di studio durato due anni da parte di oltre 200 esperti nominati dal Guardasigilli al fine di cambiare volto ad un sistema concepito oltre 40 anni fa e che è costato all’Italia la condanna dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Questi tre decreti, però, dovranno affrontare il parere delle Commissioni Giustizia di Camera e Senato. È uno slittamento. Il presidente del Consiglio, evidentemente ottimista sull’esito del voto, ha spiegato che l’iter dei decreti proseguirà “nelle prossime settimane e mesi” anche “tenendo conto delle indicazioni del Parlamento”. Ed è questo il nodo: ufficialmente il primo Dlgs è stato messo in stand by perché occorrerebbe più tempo per ricalibrare le correzioni apportate all’articolo 4bis (selezione dei reati esclusi dai benefici) che proprio non sono piaciute alla commissione Giustizia del Senato. Lo ha precisato Gentiloni: “Se vogliamo rintracciare un filone che unisce i diversi provvedimenti il filone è esattamente questo: abbiamo un rischio che questo sistema se non ha delle correzioni utili, in parte adottate oggi, in parte lo si farà nelle prossime settimane e mesi, non sia sufficientemente efficace nel ridurre la recidiva. Perché i comportamenti criminali continuano a generare comportamenti criminali, invece di favorire il reinserimento nella nostra società” Anche se al Ministero della Giustizia assicurano che la riforma non sarà svuotata. Come Garanti regionali ci auguriamo la convocazione di un Consiglio dei Ministri straordinario in modo da garantire la conclusione dell’iter entro il 23 marzo. Nell’immaginario collettivo il carcere è popolato da criminali, persone distanti dai “buoni cittadini”, si pensa che in carcere si viva bene. Dati alla mano sappiamo che non è così: si entra in carcere perché si è commesso un reato e si esce dopo aver subito un reato dallo Stato e dalle Istituzioni. La nostra Costituzione al comma tre dell’art. 27 ribadisce che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. *Garante dei detenuto della Regione Campania Riforma carceraria, la promessa non mantenuta agenziaradicale.com, 25 febbraio 2018 Dopo 32 giorni, passo dallo sciopero della fame allo sciopero del voto - ha dichiarato Rita Bernardini del Partito Radicale Nonviolento, Transnazionale e Transpartito. È decisione personale, quindi per me profondamente politica, che non intende coinvolgere in alcun modo il Partito Radicale al quale sono iscritti trasversalmente candidati nelle più diverse liste che mi auguro siano tutti eletti. Quanto accaduto ieri con la messa in soffitta da parte del Governo Gentiloni dell’ordinamento penitenziario, è fatto gravissimo che mortifica tutte le speranze di conquista di un minimo segmento di legalità costituzionale nell’attuale frangente elettorale. Con il Satyagraha iniziato nell’ottobre del 2016, con i tanti scioperi della fame non solo miei, con la nonviolenza di decine di migliaia di detenuti e cittadini liberi, abbiamo cercato in ogni modo di intessere un dialogo con le istituzioni affinché tornassero nella legalità costituzionale se non altro riguardo le “infami carceri italiane”, come le definiva Marco Pannella. Non sono stati capaci di ascoltare nemmeno la mobilitazione di magistrati, giuristi, accademici, avvocati, garanti dei detenuti, che ringrazio per aver lanciato l’appello rivolto al Governo per approvare la riforma penitenziaria prima del 4 marzo, così come li ringrazio per aver rivolto a me personalmente e a tutti i detenuti la richiesta di interrompere lo sciopero della fame. Lo interrompo anche per corrispondere alla loro generosità intellettuale e civile. Le prossime elezioni sono le più antidemocratiche che si siano mai svolte nel nostro Paese e non è questione solo della legge elettorale che per l’ennesima volta è stata approvata a ridosso del voto contro precise raccomandazioni del Consiglio d’Europa, ma perché la legge stessa è fuori (come le due precedenti, del resto) da qualsiasi principio costituzionale, soprattutto in ragione del fatto che l’elettore che mette una x sulla scheda non può sapere con certezza a quale lista e a chi andrà a finire il suo voto. Inoltre, il sistema dell’informazione pubblica, para-pubblica e privata, ha, con ancora più sfacciata determinazione che nel passato, scelto liste e candidati da promuovere ad “eletti”, fuori da ogni regola democraticamente stabilita. Gli elettori non disposti a partecipare al gioco elettorale truccato vengono trattati alla stregua di sabotatori della Nazione persino dal Presidente della Corte costituzionale che ieri ha definito l’astensione sul piano dell’etica sociale “non ammissibile” e il partecipare al voto “un dovere”, scordandosi - lui, giudice delle leggi, che dovrebbe esprimersi solo con le sentenze relative alla costituzionalità delle stesse - che solo nei paesi dittatoriali non votare è inammissibile e votare più che un dovere, è un obbligo. Non c’è più tenuta, da qualsiasi parte ci si giri. Occorre allora fare in modo che il massimo numero di cittadini neghi a queste elezioni dignità e legittimità democratiche, con comportamenti capaci di ammonire i “competitori” a cambiare nella direzione dello stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, o a farsi da parte. Incrociamo le braccia e prepariamoci a presentare ricorsi alle giurisdizioni superiori per l’attentato ai diritti civili e politici di cui sono vittime i cittadini elettori persino nella fase preparatoria che precede la presentazione delle liste e delle candidature. Chi è al governo oggi non ha voluto dare nemmeno il minimo segnale di inversione di tendenza rispetto all’erosione dei principi democratici di cui il popolo italiano è vittima da decenni. Lo avrebbe fatto, come avevamo chiesto, licenziando prima delle elezioni almeno una parte della riforma relativa all’esecuzione penale. Il Partito Radicale denuncerà lo Stato italiano alle giurisdizioni superiori internazionali, come la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che ha già sanzionato l’Italia per sistematici trattamenti inumani e degradanti nelle carceri. Questo è quel che occorre continuare a fare di fronte a istituzioni che in spregio allo stato di diritto violano le proprie stesse leggi, a partire dalla legge delle leggi, cioè la nostra Costituzione. E a proposito della parola data... 6 giorni fa, su LA7 Mieli: entro 15 giorni la farete la riforma carceraria? Gentiloni: sì Mieli: i decreti attuativi... lei sta prendendo un impegno importantissimo Gentiloni: sono all’ordine del giorno del Consiglio dei ministri Mieli: sapete che Rita Bernardini sta al 26° giorno di sciopero della fame e i detenuti... Gentiloni: le ho mandato dei messaggi di rassicurazione che spero lei abbia preso per buoni Mieli: questa è una buona notizia... I violenti e le parole ambigue di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 25 febbraio 2018 Se il fascismo è violenza, illegalità e soppressione delle libertà, la sua antitesi non è l’antifascismo, è la democrazia. “Noi condanniamo qualsiasi violenza e da qualsiasi provenienza. Però non possiamo fare a meno di ricordare che l’Italia è una Repubblica fondata sull’antifascismo, che la nostra Costituzione è antifascista”. Queste a un dipresso le parole di tanti esponenti dello schieramento di sinistra a commento dei gravissimi incidenti di Torino e in genere di quanto sta succedendo in molti luoghi d’Italia. Parole che per l’appunto ruotano intorno a una formula in questi giorni sentita e risentita: la nostra è una Costituzione antifascista. Sta bene. Si dà il caso però che la storia - la storia ripeto e non già le nostre opinioni personali - dovrebbe farci chiedere: antifascista sì, ma di quale antifascismo? Come infatti sa chi ha letto qualche libro, la storia registra molti avvenimenti che non possono non porre qualche problema di contenuto quando si adopera il termine antifascismo. Erano certamente antifascisti, ad esempio, quelli che in Spagna incendiavano le chiese e passavano per le armi preti, anarchici e trotzkisti. Erano antifascisti quelli che nel 1939 pensavano che l’Unione sovietica avesse fatto benissimo ad annettersi i Paesi baltici e mezza Polonia dopo essersi messa d’accordo con Hitler, così come lo erano quelli che sul nostro confine orientale dal 1943 al 1945 gettarono qualche migliaia di italiani nelle foibe. Antifascisti e per di più partigiani erano pure quelli dalla cui associazione (l’Anpi), non condividendone le idee di fondo, si staccarono i partigiani cattolici prima e poi quelli azionisti guidati da Parri nel 1948-49. Ancora: antifascisti a diciotto carati erano pure quelli che negli anni ‘50 non esitavano a definire “nazisti” gli Stati Uniti mentre non riservavano una sola parola di solidarietà, neppure una, agli antifascisti cecoslovacchi o ungheresi, solo pochi anni prima loro compagni nella Resistenza e ora mandati sulla forca con le accuse più inverosimili e infamanti dai regimi comunisti stabilitisi nei loro Paesi. E non si sono sempre proclamati antifascisti - a loro dire anzi del più “coerente” antifascismo - i terroristi delle Brigate rosse e di altre organizzazioni consimili? Le parole insomma spesso sono ambigue. Definire la nostra Costituzione antifascista è dunque vero sul piano dei fatti - nel senso che essa fu opera delle forze antifasciste - ma sul piano dei valori non vuole dire nulla di preciso, se è vero come è vero che anche i “teppisti” di Torino (copyright di Antonio Padellaro) si dicono e si considerano antifascisti (e che anche i teppisti possono essere in buona fede). Dovremmo allora concluderne che tra loro, che se la ridono della legge e praticano sistematicamente la violenza, e noi, che pure ci riconosciamo interamente in questa Costituzione e ci consideriamo antifascisti, esistono tuttavia valori in comune? E quali? Qualcuno risponde: “Il valore in comune è l’antifascismo, appunto: di fronte a un vero pericolo fascista si costituirebbe un fronte comune”. Ma è una risposta sbagliata. Una risposta che allucinata dal mito della Resistenza, ma nulla sapendo della Resistenza vera (che in realtà fu attraversata da durissime contrapposizioni tra le forze antifasciste, non escluso il vero e proprio scontro fisico), estrapola l’oggi dalla situazione del 1943-1945. Ignorando che oggi, grazie precisamente alla Costituzione, viviamo però in un regime democratico. E che le democrazie si difendono dal fascismo non facendo la Resistenza - come pretenderebbero facendola a modo loro i teppisti di Torino, di Piacenza o di Palermo - bensì applicando la legge. Nelle democrazie il capo della Resistenza è il Ministro degli interni. Punto. Se non lo è - ma il ministro Minniti appare da ogni punto di vista perfettamente calato nel ruolo - va richiamato ai suoi doveri, non già surrogato da qualche violento capobanda dei centri sociali. Se il passato insegna qualcosa, infatti, è che il miglior favore che un regime libero possa fare al fascismo è la rinuncia all’applicazione della legge, l’abbandono delle strade e delle piazze all’urto tra la violenza degli opposti schieramenti. Nell’Italia della Costituzione, invece, difendere la democrazia - dal fascismo come da ogni altra minaccia - è compito solo delle forze dell’ordine della Repubblica. Ed è per questo che verso di esse grande è, e deve essere, il debito di riconoscenza dei cittadini. Di fronte ai fatti di violenza di questi giorni la quale pretende essere di sinistra, la domanda da porsi è: quale linea politica, quale parola d’ordine, servono per tracciare rispetto a tale violenza la linea di confine più invalicabile? Quale valore serve a prenderne le distanze nel modo più netto? La parola d’ordine e il valore dell’antifascismo o della democrazia e della legge? Se il fascismo è violenza, illegalità e soppressione delle libertà, ebbene, allora la sua antitesi non è l’antifascismo, è la democrazia. La storia del resto conta pure qualcosa: mentre non è mai esistita una democrazia o un democratico che non fosse antifascista, più e più volte, all’opposto, persone, movimenti e regimi che si identificavano con l’antifascismo hanno mostrato che con la democrazia non avevano molto a che fare. L’antifascismo (insieme alla vittoria degli Alleati) ha dato al nostro Paese la democrazia, e ciò resta a suo merito. Ma oggi dei suoi emuli violenti della venticinquesima ora non c’è alcun bisogno: per guardarsi dai pericoli la democrazia italiana basta a se stessa. Il moralismo immorale che produce la paralisi di Luciano Violante Corriere della Sera, 25 febbraio 2018 In un Paese moderno devono prevalere la capacità di dialogo e il rispetto, non è possibile andare avanti tra editti e insulti e coltivando il sospetto. Miei cari amici moralisti immaginari, ho deciso di scrivere a voi che siete stati parlamentari nella scorsa legislatura, o lavorate nei mezzi di comunicazione, o siete magistrati in diversi uffici giudiziari, o insegnate o studiate e che ho incontrato in tante occasioni. Voi, pur vivendo in posti diversi e tra loro lontani, pur essendo diversi per professione, gusti culturali e stili di vita, fate parte della stessa comunità. Un insieme di donne e di uomini, insoddisfatti delle vicende della politica e turbati dalle notizie di cattivo uso delle funzioni pubbliche, peraltro non raramente rivelatesi infondate, che hanno adottato il moralismo come parametro di valutazione delle attività politiche. Conseguentemente voi ritenete la politica regno del malaffare e la società civile luogo della innocenza. Io penso che voi siate in buona fede e non mi rivolgo quindi a coloro che invocano roghi, condanne, espulsioni ad ogni piè sospinto al solo fine di acquisire voti, ascoltatori o lettori, secondo la professione. C’è certamente un grande bisogno di moralità nella vita pubblica come anche nelle relazioni private. Ed è quindi corretto richiamarne l’esigenza. Ma la morale è una risorsa limitata. Quando se ne abusa degrada in immoralismo o in giuridicismo. La morale, come spiegò Guido Calogero, consiste nel dialogo con l’altro, e cade in contraddizione con sé stessa quando è usata come strumento della lotta politica. Si scivola nell’uso immorale della questione morale. Siete contro il compromesso; ma Amos Oz, che di conflitti se ne intende, ha scritto: “Il contrario di compromesso non è integrità e nemmeno idealismo e nemmeno determinazione o devozione. Il contrario di compromesso è fanatismo, morte”. Siete contrari forse perché avete confuso il compromesso con la consociazione, alla quale sono contrario anche io. Il compromesso si fonda sulla distinzione tra le parti e la mantiene. Il consociativismo annulla le distinzioni, crea grovigli, favorisce la irresponsabilità. La politica deve certamente avere un’etica, fondata sul rispetto dell’altro e sulla prevalenza dell’interesse generale sugli interessi particolari. Ma l’etica non ha nulla a che fare con il sospetto generalizzato, l’insulto, il rifiuto della dignità dell’altro. In questo modo si sostituisce un integralismo settario ad una visione onesta del Paese e del suo futuro. L’effetto di questa propensione è l’attribuzione del ruolo di guardiani della società alle Procure della Repubblica (bisogna difendere la magistratura dai suoi amici), il riconoscimento di un valore salvifico alla punizione, la costruzione di nuove inedite categorie a metà strada tra il diritto e la morale come quelle dei “coinvolti” e degli “impresentabili”. Per voi la società è sempre innocente mentre il rapporto con chiunque eserciti una funzione pubblica è fondato sul sospetto. Ma vi sfugge che in ogni corruzione al fianco del soggetto pubblico corrotto c’è un privato cittadino corruttore, che di quella società civile fa pienamente parte. Avete applaudito quando una legge ha conferito alla magistratura il compito di confezionare le liste dei candidati ad una carica politica, sottraendolo ai partititi, con il loro irresponsabile consenso. Avete applaudito quando un’altra legge ha stabilito che basta il minimo sospetto, non indizio, sospetto, per impedire ad una impresa di partecipare ad una gara pubblica. Ogni arresto, ogni comunicazione giudiziaria sono per voi motivo di conforto; il proscioglimento è una sconfitta. Per voi vale quello che una volta mi disse un anziano magistrato piemontese: N’existent pas des accusées innocentes; existent seulement des juges maladroits. Non dimentichiamo il caso di Ilaria Capua, scienziata e deputata nella legislatura appena conclusa. Era riuscita a isolare il virus dell’aviaria. È fra i 50 scienziati top di Scientific American. Fu oggetto di una campagna diffamatoria sostenuta da alcuni mezzi di comunicazione e da alcuni settori del mondo politico. Indagata per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione, all’abuso di ufficio e per il traffico illecito di virus. Si dimise dalla Camera, lasciò l’Italia, fu accolta con tutti gli onori negli Stati Uniti. È stata assolta pienamente da ogni accusa. Il sospetto, frutto avvelenato di questo moralismo discriminatorio, sta bloccando la pubblica amministrazione. I pubblici funzionari rifiutano di esercitare la discrezionalità prevista da alcune leggi recenti perché temono di finire nel mirino del sospetto prima e poi delle Procure della Corte dei Conti o della Repubblica. Saranno probabilmente assolti; ma nel frattempo la loro reputazione è stata rovinata, la carriera bloccata, i risparmi, quando ci sono, consumati nelle spese legali. Mi preme, infine, riflettere su un punto: un Paese moderno ha bisogno di fiducia. Il moralismo conclamato che diventa immoralismo distruttivo rischia di sommergere il Paese. La questione morale va affrontata non con editti e insulti, ma con la ferma ragione dell’etica del dialogo e del rispetto. Tra società civile e istituzioni pubbliche deve costruirsi una relazione di reciproca fiducia che, quando vengono effettivamente meno le ragioni della fiducia, permetta di valorizzare il merito e di colpire l’abuso, non il sospetto dell’abuso. Le condizioni economiche dell’Italia sono migliori, ma se prevalessero immoralismo e sfiducia i miglioramenti si svuoterebbero. Mi scuso con tutti voi per questa specie di predica. Ho deciso di scrivervi perché dovremmo evitare che anche nella prossima legislatura, tra qualche settimana, il demone del moralismo immorale, sposato al silenzio di chi teme l’impopolarità, produca ulteriori distorsioni e più profonde paralisi. Intercettazioni, Pd spaccato. Bindi: cambiare. Orlando: no di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 25 febbraio 2018 La presidente dell’Antimafia legge Scarpinato e chiede verifiche sugli ascolti “irrilevanti “, ma per il ministero della Giustizia va tutto bene così. La presidente della Commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi chiede verifiche sulla riforma delle intercettazioni voluta dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, che entrerà in vigore a luglio: “Sono certa che se questo provvedimento non dovesse essere efficace per la lotta alla mafia, non potrà venire meno la vigilanza di tutti perché si apportino eventuali modifiche”, ha detto ieri dopo le gravi preoccupazioni espresse dal procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato dalle pagine del Fatto sia sulla mancanza di effettivo controllo del pubblico ministero sul lavoro della polizia giudiziaria, previsto dalla legge, sia in merito al rischio, concreto, che vada disperso il patrimonio di condivisione delle informazioni fra Procure, “eredità preziosa del metodo Falcone”, anche con il coordinamento della Procura nazionale antimafia e antiterrorismo. “Sappiamo che questa, come tutte le riforme di questa legislatura, ha detto Bindi, compreso il codice Antimafia, sarà oggetto di un monitoraggio non formale da parte di tutte le istituzioni. Sono sicura che il ministro Orlando, finché resterà in carica, e chi verrà dopo di lui, non potrà non prendere in considerazione il parere delle Procure, di quelle più esposte”. Nel suo intervento, Scarpinato ha parlato di “aspetti ambigui e insidiosi” della riforma intercettazioni a proposito del divieto per la polizia giudiziaria di fare un riassunto, il cosiddetto brogliaccio, come avviene, invece adesso, delle registrazioni che non reputa rilevanti, in modo che sia effettivamente il pm a decidere su rilevanza e utilizzo. Questo divieto sarebbe bilanciato, spiega il Pg, da “annotazioni contenenti una sintesi delle conversazioni che” la polizia giudiziaria ha ritenuto “no n rilevanti e la cui trascrizione è stata omessa”. Ma, osserva Scarpinato, “a causa dell’ambigua formulazione della norma sulle annotazioni” il ministero “nella relazione illustrativa ha, invece, fornito indicazione che gli ufficiali di pg non hanno l’obbligo di informare sistematicamente il pm con apposite annotazioni… ma solo se nutrono il dubbio se si tratti di conversazioni rilevanti o meno” e quindi se debbano trascriverle. Il Ministero della Giustizia ha replicato a Scarpinato: la sua “lettura non trova riscontro nel chiaro dettato normativo. La polizia giudiziaria non ha alcun potere di decidere sulla irrilevanza delle conversazioni captate, ogni decisione a tal proposito spetta solo e soltanto al pm”. Il ministero sostiene, inoltre, che la riforma è “in piena continuità con le linee direttrici dell’ordinamento processuale e della migliore esperienza investigativa degli anni del pool antimafia di Giovanni Falcone”. Nella replica si riportano passaggi della relazione illustrativa del decreto legislativo in cui si dice che “l’ufficiale di polizia giudiziaria è un mero delegato all’ascolto” e che il pm “ben può dettare le opportune istruzioni e direttive al delegato per concretizzare l’obbligo di informazione preliminare sui contenuti delle conversazioni di cui possa apparire dubbia la rilevanza”. Quanto poi al problema posto da Scarpinato sulla dispersione di materiale investigativo magari irrilevante per una Procura e “rilevantissimo” per u n’altra, il ministro sostiene che la nuova disciplina “non interferisce in alcun modo” sul coordinamento. Ma un punto cruciale su cui verte l’intervento del Pg Scarpinato è sull’indicazione del ministero della “non obbligatorietà” per la polizia giudiziaria di fare “annotazioni sistematiche” al pm che, quindi, non avrebbe sempre l’effettivo potere decisionale sull’uso del materiale. È vero che non si tratta di “circolare interpretativa”, come erroneamente ha scritto il Fatto in un box, ma di una “relazione illustrativa” del ministero come indicato da Scarpinato. Consulta, Mattarella sceglie un penalista Corte costituzionale. Il Colle nomina Francesco Viganò in sostituzione di Grossi di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 25 febbraio 2018 Un profilo prevedibile, un nome inaspettato. Perché ieri il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha nominato alla Corte costituzionale il docente di Diritto penale alla Bocconi di Milano Francesco Viganò. Nato nel 1966, il che lo porta a essere uno dei giudici più giovani mai chiamati alla Consulta, insieme a Marta Cartabia, nominata a sua volta nel 2011 a 48 anni, Viganò fa parte della “nidiata” di allievi di Giorgio Marinucci, storico professore di Diritto penale alla Statale di Milano. Prima di approdare in Bocconi, la carriera accademica di Viganò si è dipanata tra le università di Pavia, dottorato di ricerca, Brescia e, nuovamente, Statale. Ha collaborato, da tecnico ovviamente, nel biennio 2012-13 con l’allora ministro della Giustizia del Governo Monti Paola Severino, come componente della commissione per la riforma della prescrizione, e più di recente, con l’amministrazione Orlando, visto che nel 2015 è stato coordinatore di uno dei tavoli tematici (quello su “Esperienze comparative e regole internazionali”) degli Stati generali dell’esecuzione penale che hanno costituito la prima tappa della riforma dell’ordinamento penitenziario oggi in faticosa gestazione tra Esecutivo e Parlamento. Viganò ha, tra l’altro, dal 2008 al 2012, fatto parte, come componente “laico”, del Consiglio giudiziario del distretto di Corte d’appello milanese e ha dimostrato negli anni un’attenzione, non diffusissima tra gli accademici a dire il vero, al mondo della comunicazione e divulgazione: è infatti tra i fondatori di una delle pubblicazioni giuridiche solo digitali più autorevoli e stimolanti di questi anni, Diritto Penale Contemporaneo. Tra gli interessi di ricerca dichiarati, oltre a quelli più squisitamente comparatistici, c’è anche la materia delle decisioni di fine vita, tema non proprio neutro, dal momento che la Corte dovrà occuparsi a breve, dopo il rinvio deciso dalla Corte d’appello di Milano nella vicenda di dj Fabo, della legittimità costituzionale della norma del Codice che sanziona l’assistenza al suicidio. Ma anche la dimestichezza con la dimensione internazionale del diritto penale è tanto più significativa se si tiene conto che uno dei casi che più ha fatto discutere i giuristi in questi mesi è stato il “caso Taricco” con la Corte costituzionale che, per la prima volta, ha evocato in materia penale la possibilità di fare ricorso ai “contro-limiti” per frenare le sollecitazioni della Corte di giustizia europea in materia di prescrizione. Un profilo, quello di penalista, in una certa misura atteso, per sostituire Paolo Grossi, che ha lasciato la Corte venerdì, alla cessazione dell’incarico, perché è proprio sul cruciale versante penale che più si trovava scoperta la Consulta. Soprattutto dopo le dimissioni nel 2016 dello storico leader delle Camere penali Giuseppe Frigo, con un profilo da penalista puro è rimasto il solo Giorgio Lattanzi. Lattanzi che oltretutto è in predicato di diventare il prossimo presidente della Corte, se sarà confermato il tradizionale criterio dell’anzianità, con la conseguenza di un minore numero di fascicoli da gestire personalmente. Ma un nome inaspettato visto che, alla vigilia, altri erano i più “gettonati”, dalla stessa Severino al docente palermitano Giovanni Fiandaca. Mattarella ha però voluto bruciare i tempi, non lasciando passare che poche ore dalla cessazione dall’incarico di Grossi. Una velocità che stride però con l’inerzia del Parlamento che, da oltre un anno, non è stato in grado di trovare un accordo politico sulla nome del giudice di sua competenza (la Corte costituzionale è composta da 15 giudici, 5 di nomina presidenziale, 5 di nomina parlamentare e 5 dalle magistrature). Una disattenzione per il funzionamento della Corte considerata assai grave ancora giovedì nel corso della riunione straordinaria della Corte, aperta ai giornalisti, dallo stesso Grossi nella relazione di sintesi sulla giurisprudenza 2017. Detenzione: criteri per il computo degli “spazi minimi di vivibilità” in cella avvocatoamilcaremancusi.com, 25 febbraio 2018 Cassazione, Sezione I Civile, con la sentenza del 20 febbraio 2018, n. 4096. Lo spazio disponibile in cella va inteso come libero, tale da permettere il movimento e l’esplicazione delle funzioni legate allo spostamento dinamico della persona. In punto di diritto lo Stato incorre nella violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti quando il detenuto in una cella collettiva non possa disporre singolarmente di almeno 3 mq. di superficie, detraendo l’area destinata ai servizi igienici e agli armadi, appoggiati o infissi stabilmente alle pareti o al suolo, mentre non rilevano gli altri arredi facilmente amovibili come sgabelli o tavolini. Il principio è stato stabilito dalla Corte di Cassazione, Sezione I Civile, con la sentenza del 20 febbraio 2018, n. 4096, mediante la quale ha accolto il ricorso e cassato con rinvio quanto già deciso, nel caso de quo, dal Tribunale di Napoli. La vicenda - La pronuncia in esame ha avuto origine dal fatto che Tizio con ricorso, detenuto nella Casa Circondariale di Napoli-Poggioreale dal 15 giugno 2012 al 9 maggio 2014, ha chiesto di fare accertare la violazione dell’art. 3 della Cedu e di condannare lo Stato al risarcimento del danno per essere stato detenuto in condizioni inumane e degradanti, a causa del ridotto spazio disponibile nella cella in cui era stato ristretto, della scarsa igiene, dell’inadeguato riscaldamento, della ridotta misura di ore d’aria e del sovraffollamento della struttura carceraria. Il ricorso di tizio veniva proposto a norma dell’art. 35 ter della lege 26 luglio 1975, n. 354, modificata dal d.l. 26 giugno 2014, n. 92, convertito in legge 11 agosto 2014, n. 117. Il Tribunale di Napoli, con decreto del 2016, ha rigettato il ricorso asserendo che lo spazio utilizzabile da Tizio, nella cella collettiva indicata di 26,00 mq., era di mq. 3,25 per ciascun detenuto, quindi superiore ai 3 mq. richiesti dalla giurisprudenza della Corte Edu. Ha rilevato che vi erano tre finestre, un bagno in un locale separato, acqua calda e riscaldamento e che l’ingombro del letto doveva considerarsi spazio usufruibile, mentre non rilevava lo spazio occupato da mobiletti come sgabelli e tavolini. Avverso il predetto decreto Tizio ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad un unico motivo. Con l’unico motivo di ricorso Tizio nel lamentare violazione dell’art. 35 ter della legge n. 374 del 1975 - ex art. 360 n. 3 c.p.c. e omesso esame di fatti decisivi per la ricostruzione della fattispecie concreta ex art. 360 n. 5 c.p.c. - imputa al Tribunale di non avere considerato che lo spazio vivibile nella cella era stato inferiore ai 3 mq., dovendosi scomputare quello occupato dal letto a castello e da ogni mobile ivi presente, e che le condizioni di vita all’interno della cella, seppure superiore ai 3 mq., erano comunque degradanti. La decisione - La Corte di Cassazione, mediante la menzionata sentenza n. 4096/2018 ha ritenuto il motivo fondato ed ha accolto il ricorso. Sul punto controverso la Suprema corte precisa che l’art. 3 della Cedu non ha tipizzato le condotte integratrici dei trattamenti inumani o degradanti e neppure l’art. 27, comma 2, Cost., stabilendo che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”, ha stabilito alcuno specifico canone per la determinazione dei trattamenti vietati. Analogamente, con particolare riferimento ai luoghi di soggiorno e di pernottamento, l’art. 6 dell’Ordinamento penitenziario (legge n. 254 del 1975 cit.) prescrive solo, al primo comma, che “i locali nei quali si svolge la vita dei detenuti devono essere di ampiezza sufficiente …” e, al secondo comma, che “i locali destinati al pernottamento consistono in camere dotate di uno o più posti”; anche il corrispondente art. 6 del Regolamento penitenziario (Dpr 30 giugno 2000, n. 230) non contiene alcun parametro metrico in ordine alle dimensioni dei locali destinati al soggiorno dei detenuti e delle celle di pernottamento. È stata la giurisprudenza della Corte Edu a fissare, mediante plurimi arresti, specifici standard dimensionali in ordine alla superficie degli spazi intramurari idonei a soddisfare i requisiti minimi di abitabilità, che il giudice di merito è chiamato ad accertare, quando sia adito dal detenuto che si dolga di essere stato sottoposto a trattamento inumano o degradante, ferma restando la facoltà per gli Stati e, quindi, per la giurisprudenza nazionale, desumibile dall’art. 53 Cedu, di prevedere standard di tutela dei diritti fondamentali più elevati di quelli garantiti da detta convenzione (in generale cfr. Corte Edu, 23 maggio 2016, Grande Camera, Avotins c. Lettonia). Ebbene, lo Stato incorre nella violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti, stabilito dall’art. 3 della Cedu, così come interpretato dalla conforme giurisprudenza della Corte Edu (con sentenza dell’8 gennaio 2013, Torreggiani c. Italia), quando il detenuto in una cella collettiva non possa disporre singolarmente di almeno 3 mq. di superficie, detraendo l’area destinata ai servizi igienici e agli armadi, appoggiati o infissi stabilmente alle pareti o al suolo, mentre non rilevano gli altri arredi facilmente amovibili come sgabelli o tavolini. Sui i sui criteri di computo degli spazi minimi di vivibilità è intervenuta Corte di Cassazione, Sezione VI Penale, con l’ordinanza del 17 maggio 2017, n. 12338 la quale ha confermato, che i tre metri quadri segnano uno spazio minimo necessario per garantire il “movimento” del soggetto in detenzione, di guisa che da esso vanno estratti gli arredi fissi, in ragione dell’ingombro che generano (anche Sez. VII del 18.11.2015 ric. Borrelli). Dallo spazio minimo di vivibilità si è osservato va, altresì, detratta la superficie occupata dal proprio letto, inserito in una colonna a castello (Corte di Cassazione, Sez I, nr. 52819, 9 settembre 2016). Ciò poiché anche il letto, realizza un “ingombro” idoneo a restringere lo spazio vitale minimo all’interno della cella. Lo spazio disponibile in cella va inteso come libero. Esso, cioè, deve permettere il movimento e l’esplicazione delle connesse funzioni strutturalmente legate allo spostamento dinamico della persona. Là dove in esso risultino collocati arredi fissi non facilmente rimuovibili, attraverso operazioni semplici, la superficie perde la sua connotazione iniziale, per assumere quella d’uno spazio occupato, appunto, da arredi o altra oggettistica fissa. È ininfluente che si tratti di accessori, comunque, necessari a permettere lo svolgimento di attività che fanno parte della vita quotidiana. Il “riposo” o l’attività “sedentaria” afferiscono a funzioni indubbiamente vitali, trattandosi, tuttavia, di dinamiche organiche strutturalmente e fisiologicamente diverse dal movimento, che postula, infatti, per il suo naturale esplicarsi, uno spazio ordinariamente libero. Qualora la superficie utilizzabile sia inferiore ai 3 mq. sussiste la “forte presunzione” della violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti, tuttavia vincibile, alla luce della giurisprudenza della Corte Edu (sentenza del 20 ottobre 2016, Grande Camera, Mursic c. Croazia), attraverso la valutazione dell’esistenza di adeguati fattori compensativi che si individuano nella brevità della restrizione carceraria, nell’offerta di attività da svolgere in spazi ampi all’esterno della cella, nell’assenza di aspetti negativi relativi ai servizi igienici e nel decoro complessivo delle condizioni di detenzione (Corte di Cassazione, Sez. I Pen., n. 11980 del 2017; Corte di cassazione, Sez. I Pen., n. 52819 del 2016). L’onere di dimostrare la sussistenza di tali fattori nel caso concreto grava sullo Stato convenuto in giudizio, una volta accertato che lo spazio individuale sia stato inferiore ai 3 mq. Di questi principi il decreto impugnato ha fatto erronea applicazione. Infatti, nel determinare in 3,25 mq. la superficie a disposizione del detenuto, seppure nel periodo di massima occupazione della cella, il Tribunale non ha considerato che lo spazio minimo vitale è necessariamente quello calpestabile e funzionale al movimento del detenuto nella cella, quindi senza l’ingombro del letto. Né ha dato conto in modo specifico dell’esistenza dei sopra indicati fattori compensativi, che dev’essere dimostrata dallo Stato convenuto in giudizio, nel caso in cui lo spazio risulti inferiore al limite dimensionale dei 3 mq. In conclusione, la Corte in accoglimento del ricorso ha cassato il decreto e rinviato la causa al Tribunale di Napoli. Lazio: Lombardi (M5S) “serve un Osservatorio permanente sulle carceri” Askanews, 25 febbraio 2018 “Anche i detenuti hanno i loro diritti e vanno rispettati. Credo sia fondamentale che il nuovo governo della Regione Lazio si proponga di ridisegnare una politica penitenziaria regionale adeguata al rispetto dei diritti e della dignità delle detenute e dei detenuti, affidando anche un ruolo più attivo alla figura del Garante regionale. Bisogna puntare al recupero sistematico e al reinserimento socio-lavorativo delle persone, attraverso”. Lo scrive la candidata alla presidenza della Regione Lazio per il M5S, Roberta Lombardi su Facebook. Lombardi questa mattina ha visitato la casa circondariale di Rebibbia, insieme e Gianluca Perilli, dove ha incontrato la dirigenza e conosciuto le attività di riabilitazione della struttura. In particolare ha visitato la sezione femminile. Per Lombardi occorre “un potenziamento di corsi di formazione “mirati”, finalizzati, cioè, non solo all’apprendimento di un mestiere o al perfezionamento delle competenze già acquisite dal detenuto, ma anche allo sbocco lavorativo; l’istituzione di corsi di formazione/ sensibilizzazione, rivolti a tutti gli operatori del Carcere (Agenti di Polizia Penitenziaria, Assistenti Sociali, Psicologi, Funzionari dell’area trattamentale), finalizzati a sviluppare e/o rafforzare gli ambiti di competenza psicologici e relazionali; un potenziamento dell’offerta formativa da parte degli Istituti di istruzione primaria, secondaria e delle Università e incremento del personale docente (per ogni grado di Istruzione). Accesso all’istruzione obbligatoriamente gratuito, con esenzione totale dei costi di iscrizione a carico del detenuto; la creazione di un Osservatorio Permanente Coordinato sulla situazione penitenziaria del Lazio. Bologna: allarme suicidi alla Dozza, salvato ieri un ventenne, ma i casi si moltiplicano di Giuseppe Baldessarro La Repubblica, 25 febbraio 2018 Si è costruito una corda con quel che aveva in cella. Una treccia ricavata da vestiti e stracci arrotolati da mettersi attorno al collo e appendersi ad un appiglio qualsiasi. Non c’è riuscito soltanto perché una delle guardie se ne è accorta in tempo ed è intervenuta salvandogli la vita. È di poche ore fa l’ennesimo tentativo di suicidio alla Dozza. A provarci questa volta è stato un ragazzo italiano poco più che ventenne, finito in cella a scontare dieci mesi di reclusione. Di lui, per ovvi motivi, non si sa altro. Giovanni Battista Durante, segretario generale del Sappe e il suo omologo nazionale Francesco Campobasso hanno spiegato che “solo grazie al pronto a intervento della polizia penitenziaria è stato evitato il peggio ed è stato possibile salvare la vita a questo giovane uomo”. Un dramma solo sfiorato, per una questa volta. E tuttavia la situazione rimane difficilissima sia in Italia che in Emilia Romagna. Il sistema sta via via mostrando crepe sempre più profonde. Falle evidenziate dai numeri che di anno in anno si fanno sempre più allarmanti. I tentativi di suicidio nelle carceri della regione sono passati dagli 88 del 2016 ai 125 dell’anno che si è appena concluso. E anche i dati relativi a detenuti che si sono tolti la vita sono in aumento: sono 7 i casi del 2017 a fronte di 4 dei 12 mesi precedenti. Alla Dozza lo scorso anno ci sono stati un suicidio e 23 tentativi di suicidio. Il Sappe parla di “trend in crescita che si è registrato anche a livello nazionale, dove si è passati da 1.011 suicidi tentati a 1.135”. Stesso discorso per tutti gli altri eventi critici come per esempio i gesti di autolesionismo che in Emilia-Romagna sono passati da 1.221 a 1.383. Crescono le risse, le aggressioni agli agenti penitenziari e le proteste collettive. Cresce insomma il disagio, e cresce in tutte le sue manifestazioni. È il segno di qualcosa che non funziona per come dovrebbe. Tutto questo, insistono Durante e Campobasso, “a causa di una pessima organizzazione che, a seguito della sentenza Torreggiani che ha condannato l’Italia per gli spazi troppo stretti, ha favorito la scelta dell’amministrazione penitenziaria di aprire le stanze, lasciando che i detenuti siano poco sorvegliati e lasciati soli ad oziare tutto il giorno all’interno delle sezioni detentive, senza svolgere alcuna attività lavorativa o di formazione”. Il dati, tutti negativi, messi assieme dal sindacato delle guardie penitenziarie, dicono che i problemi riguardano tutte le carceri emiliano romagnole. I numeri sono equamente distribuiti da Piacenza a Bologna, quasi senza soluzione di continuità. Ogni giorno una battaglia per gli operatori del settore. E se le cose non vanno anche peggio, secondo il Sappe il merito “è della polizia penitenziaria che ogni anno salva più di 1.000 vite nelle carceri italiane”. Vasto (Ch): giovane affetto da grave schizofrenia internato nella Casa di Lavoro ilnuovoonline.it, 25 febbraio 2018 Lo segnala Antigone, l’associazione attiva nella difesa dei diritti dei detenuti, che attraverso il suo presidente, Patrizio Gonnella, torna sulla vicenda di A.C., un giovane di 24 anni, malato psichiatrico affetto da una forma di epilessia cronica e da una gravissima schizofrenia paranoide, nonché da disturbi di personalità, che “da oltre tre mesi continua ad essere trattenuto senza titolo presso la Casa di Lavoro di Vasto e le sue condizioni sono ogni giorno più gravi. Va dato immediato seguito - sottolinea Gonnella - al provvedimento del magistrato di Sorveglianza che lo scorso 7 dicembre aveva preso atto dell’assoluta incompatibilità del giovane con il regime penitenziario”. Inizialmente il ragazzo aveva subito un tracollo psichico sviluppando una gravissima depressione, con una totale dissociazione dalla realtà e un quadro delirante e tendenze suicide. Nelle ultime settimane è emerso un ulteriore scadimento del quadro psicofisico dell’internato per il sopraggiungere della fobia del cibo e una conseguente gravissima anoressia ed inedia, al punto che il giovane, segnala Antigone, ha perso circa 30 chili e rifiuta di alimentarsi. “Di fronte ad un quadro come questo - dichiara Gonnella - non si può perdere tempo. Ci appelliamo al magistrato di sorveglianza, all’amministrazione penitenziaria e alla Asl di Latina”. Sassari: “niente telefonate”, detenuto di Alta Sicurezza sale sul tetto del carcere L’Unione Sarda, 25 febbraio 2018 Durante l’aria quotidiana ha trovato il modo di salire sul tetto del carcere di Bancali, restandovi per sette ore. Solo a notte ormai fatta, dopo un’estenuante trattativa condotta dal direttore e dal comandante delle guardie, ha accettato di scendere. Emergono nuovi particolari sulle intemperanze messe in atto nel carcere sassarese da un detenuto marocchino, accusato di avere legami con il terrorismo islamista. L’uomo, negli ultimi giorni, si è reso protagonista di una lunga serie di violazioni. È lui che ha gettato la minestra calda addosso agli agenti di custodia, bersagliandoli di pietre. Ed è sempre lui che ha preso a minacciare di morte gli stessi uomini della penitenziaria e i loro famigliari, devastando, in preda all’ira, alcune celle. Una situazione insostenibile su cui ritorna ancora Giovanni Villa, segretario regionale aggiunto della Fns Cisl. “Detenuti come questi non possono essere ristretti in strutture come quella di Bancali. Occorrono strutture idonee, come quella di Nuoro. E non è perché le guardie penitenziarie abbiano timori o non sappiano gestire la situazione. Noi con la paura conviviamo ogni giorno, come gli altri operatori delle forze dell’ordine; ci siamo abituati e non ci tiriamo indietro nel fare il nostro dovere. Ma a un certo tipo di detenuto deve corrispondere un certo tipo di carcere. Questo è il punto. Dunque è quanto mai opportuno il trasferimento di questo personaggio, prima che accada il peggio”. Sulle motivazioni degli accessi d’ira del presunto terrorista, Villa spiega: “Pretende cose che esulano dal regime di alta sicurezza cui è sottoposto, come più tempo all’aria e più telefonate a disposizione. Richieste impossibili da soddisfare. E a ogni rifiuto la situazione precipita. Occorrono provvedimenti”. A Nuoro sono attualmente ristretti in AS2 (il regime di alta sicurezza) 10 detenuti islamisti, mentre a Sassari ce ne sono 19, a causa del processo in corso alla cosiddetta cellula olbiese di Al Qaeda. Venezia: carcere di Santa Maria Maggiore, restauro del chiostro con il crowdfunding di Serena Spinazzi Lucchesi Gente Veneta, 25 febbraio 2018 Il crowdfunding in soccorso del progetto di recupero del chiostro di Santa Maria Maggiore: lo ha lanciato nei giorni scorsi l’associazione La gabbianella e altri animali, sulla piattaforma www.produzionidalbasso.com. Attraverso la piattaforma è possibile versare un’offerta (di qualsiasi importo) per contribuire al progetto di restauro del chiostro, dove l’associazione guidata da Carla Forcolin vorrebbe finalmente ospitare i colloqui dei detenuti con le famiglie. Del progetto scriveva GV anche nei mesi scorsi: oggi i colloqui con le famiglie si svolgono in una stanza lunga e stretta, ma soprattutto estremamente spoglia. Un luogo inospitale, specie pensando che ai colloqui partecipano anche i bambini, figli dei detenuti. L’idea è appunto quella di attrezzare il chiostro, un’area verde all’interno di Santa Maria Maggiore, con una doppia finalità: da una parte impiegare nel lavoro i detenuti stessi, che così possono imparare un mestiere. La prima parte del progetto, intitolato “Lavorare per i propri figli” spiega Forcolin, è già stata finanziata dalla Regione Veneto. Ma ora c’è un ulteriore step da compiere: è appunto il progetto “Da detenuti a ponteggisti”, per il quale servono 3500 euro, che l’associazione conta di recuperare mediante il crowdfunding, proprio sotto il titolo “Da detenuti a ponteggisti”. Un corso per ponteggisti. “Non appena il progetto è cominciato - spiega Forcolin - si è posto il problema del noleggio dei ponteggi che sarebbero serviti per intonacare i muri del chiostro. L’architetto Athos Calafati, che segue tutti i lavori del chiostro, in collaborazione con la Confartigianato, ha contattato il Centro Edili Venezia, ottenendo il noleggio, a prezzo contenuto e “solidale”, dei ponteggi”. Non solo: il Consorzio si è reso disponibile a tenere ai detenuti un corso di formazione abilitante al mestiere di ponteggista. “In questo modo si potrebbero fare i necessari ponteggi e i necessari intonaci. I principi di fondo del progetto originario sarebbero ribaditi e resi più efficaci dal fatto che il mestiere di ponteggista è davvero richiesto sul mercato del lavoro”. Senza il contributo le mura del chiostro sarebbero intonacate solo ad altezza d’uomo e sarebbe un vero peccato: “Se invece questo secondo progetto venisse finanziato, le facciate sarebbero completate e acquisterebbero maggiore dignità. Inoltre i detenuti avrebbero la possibilità di ricevere una formazione professionale davvero utile da spendere dopo la conclusione della pena”. Nel caso la somma raccolta dovesse risultare inferiore e insufficiente per dare seguito a questo secondo progetto, la somma stessa verrebbe “dirottata” sulle attività dell’associazione, illustrate con la massima trasparenza proprio nella piattaforma: l’associazione si occupa fin dal 1999 di adozione e affidamento, con attività oggi volte soprattutto a prevenire il distacco tra i bambini e i loro genitori nei vari modi possibili, attraverso forme diverse di solidarietà familiare; si occupa dei bambini presenti nel carcere femminile della Giudecca: provvede ad accompagnarli ogni giorno all’asilo comunale, li porta a giocare fuori dalla casa di reclusione nelle festività e al mare d’estate; è presente nella Casa Circondariale di S.M. Maggiore per sostenere i figli dei detenuti durante i colloqui con i padri. Agrigento: agente fu ucciso su ordine di Totò Riina, gli intitolano il carcere di Petrusa palermotoday.it, 25 febbraio 2018 Il penitenziario di contrada Petrusa d’ora in poi si chiamerà casa circondariale Pasquale Di Lorenzo: il sovrintendente della polizia penitenziaria fu ucciso dalla mafia il 13 ottobre del 1992. Fu ucciso su ordine di Totò Riina. E adesso gli intitolano il carcere. Il penitenziario di contrada Petrusa, ad Agrigento, d’ora in poi si chiamerà casa circondariale Pasquale Di Lorenzo. Un’iniziativa per ricordare in eterno il sovrintendente della polizia penitenziaria ucciso dalla mafia il 13 ottobre del 1992. Secondo quanto è emerso l’omicidio Di Lorenzo sarebbe nato dalla volontà di Cosa nostra di reagire al carcere duro cui venivano sottoposti gli uomini d’onore nei penitenziari di massima sicurezza. Di Lorenzo venne ucciso su ordine della mafia palermitana per dare un segnale preciso. Lo hanno ricostruito i collaboratori di giustizia. Totò Riina, che all’epoca era ancora latitante, decise di fare ammazzare un agente di custodia in ogni struttura carceraria, provincia per provincia. Ad Agrigento la scelta cadde su Pasquale Di Lorenzo, tra i più integerrimi in servizio al carcere San Vito, il vecchio monastero che all’ epoca fungeva da carcere di Agrigento prima del trasferimento a Petrusa: venne ucciso in contrada Durrueli a Porto Empedocle. A freddarlo furono Alfonso Falzone, oggi collaboratore di giustizia, e Gerlandino Messina Verona: “Errare humanum est”, ma si può rimediare anche nel Csi Csi Verona, 25 febbraio 2018 Sottoscritta una convenzione per la “messa alla prova” degli autori di reati minori. Il 9 febbraio è stato presentato al Tribunale di Verona il progetto “Errare humanum est”, che prevede la convenzione tra il Csi, il Comune di Verona e il Tribunale, per la “messa alla prova” di coloro che hanno commesso reati minori in materia di circolazione stradale e in ambito sportivo. L’istituto giuridico della “messa alla prova”, ha spiegato Antonella Magaraggia, presidente del Tribunale di Verona, è un percorso di reinserimento e rieducazione della persona che ha commesso il reato e risponde all’importante funzione rieducativa e risocializzante affidata al sistema penale. “L’attività di riparazione nei confronti della vittima del reato e della collettività è un aspetto fondamentale dell’esecuzione”, ha commentato il direttore distrettuale dell’Ufficio di Esecuzione penale esterna (Uepe), Francesca Paola Lucrezi. L’Uepe collabora con gli enti convenzionati per gestire le numerosissime richieste di “messa alla prova”, indirizzando gli imputati e intervenendo per controllare durante la fase di educazione. A sottoscrivere la convenzione per la “messa alla prova” erano presenti il sindaco di Verona, Federico Sboarina, che raddoppia a 24 i posti disponibili in Comune per svolgere i lavori socialmente utili, e il presidente nazionale del Csi, Vittorio Bosio, affiancato dal presidente provinciale, Rita Zoccatelli. La convenzione con il Csi di Verona per i reati in ambito sportivo è un’importante novità. Il comitato veronese è il primo in Italia a prestarsi come luogo di reinserimento per coloro che hanno commesso reati durante eventi sportivi, dentro e fuori lo stadio. La collaborazione con l’istituto della “messa alla prova da parte del Csi ha come scopo principale quello di trasmettere i valori e le finalità con le quali l’ente agisce ogni giorno promuovendo lo sport. I reati in ambito sportivo, per i quali i condannati devono svolgere questi lavori, sono avvenuti principalmente nel contesto dello stadio e quindi del calcio. È fin troppo attuale l’immagine di tifoserie aggressive, razziste e incivili; sono all’ordine del giorno reazioni inadeguate da parte dei calciatori e, sempre più spesso, anche l’arbitro è oggetto di critica. La fotografia del calcio italiano è ormai questa: paura, maleducazione e violenza. Se questa è la realtà dei fatti, non deve essere questo lo spirito dell’attività sportiva. “Lo sport deve andare incontro all’uomo”, come ricorda Vittorio Bosio, e non deve andare contro di esso. All’interno di quest’ottica si colloca il messaggio che il Csi vuole trasmettere: lo sport deve essere un mezzo per veicolare valori positivi, di rispetto e di solidarietà. Lo sport vuole essere uno strumento di integrazione e non condivide il razzismo, perché il diverso, quando c’è un pallone, non esiste. Le partite non dovrebbero essere un’occasione per mortificare e distruggere l’avversario, ma un momento di crescita nel quale si viene ripagati del sacrificio che l’allenamento richiede, nella più sana competizione e nel rispetto di chi gioca nello stesso campo. Le tifoserie dovrebbero incoraggiare le proprie squadre, con la stessa passione che le porta negli stadi, e non dovrebbero sbeffeggiare gli avversari, non dovrebbero ricorrere alla violenza per supportare i propri colori, quello non è tifo. Alla luce di questa realtà il Comitato del Csi di Verona ha deciso di aderire alla convenzione con l’obiettivo di far conoscere uno sport diverso. Coloro che svolgeranno i lavori socialmente utili all’interno dell’associazione, vedranno quale e quanto lavoro si cela dietro l’organizzazione di un evento sportivo. Collaborando con chi lavora ogni giorno nello sport, ci si augura che possano comprendere e capire quei valori sani che non hanno rispettato, forse perché non li conoscevano ancora. Attraverso un percorso di educazione, il Comitato veronese vuole mostrare l’altra faccia dello sport in modo che diventi anche per loro il modo corretto di vivere una partita di calcio. Quello lanciato dal progetto “Errare humanum est” è un messaggio molto incoraggiane e ottimista, che, come si augura il presidente nazionale del Csi, verrà presto sottoscritto da altri comitati provinciali italiani. Sbagliare è umano, come titola il progetto, ma la speranza è che, lavorando accanto a chi crede nella correttezza dell’evento sportivo, queste persone possano capire profondamente quanto positivo può, ma soprattutto deve essere lo sport. L’Aquila: ingiusta detenzione, Giulio Petrilli scrive al Cremlino abruzzoweb.it, 25 febbraio 2018 “Putin ultima spiaggia, in Italia non ti si filano”. Nella campagna elettorale irrompe la storia di Giulio Petrilli, aquilano riconosciuto innocente dalla Cassazione dopo aver trascorso sei anni in carcere con l’accusa di partecipazione a banda armata, che da anni conduce una battaglia per ottenere il risarcimento dallo Stato per ingiusta detenzione e che ora, annunciando di aver riscontrato la disponibilità dell’ambasciata di Russia in Serbia, torna a denunciare che “mai una disponibilità simile ho riscontrato da parte delle istituzioni italiane!”. Dopo appelli, ricorsi e manifestazioni, in occasioni dei quali Petrilli ha ricevuto solidarietà di personaggi come Francesca Scopelliti, compagna di Enzo Tortora, vittima di uno dei più clamorosi casi di malagiustizia, si è rivolto alla diplomazia internazionale nel disperato tentativo di avere giustizia. “La mia ultima spiaggia per risolvere il problema è l’aiuto da parte del presidente della Russia Vladimir Putin, affinché la Commissione diritti umani delle Nazione Unite prenda una posizione sulla vicenda dei mancati risarcimenti in Italia per ingiusta detenzione, a coloro i quali pur se assolti non viene concesso per presunte “cattive frequentazioni”. Devo dire che è esemplare la disponibilità a capire e possibilmente aiutare da parte dell’ambasciata di Russia in Serbia alla quale mi sono rivolto”. “In Italia nonostante abbiamo ricevuto tante sollecitazioni, nessuno mi ha mai ricevuto, nel disinteresse totale - ricorda Petrilli. Invece, dopo solo un mese dalla mia lettera che gli inviai mi ha ricevuto qualche giorno fa il responsabile del settore politico dell’ambasciata di Russia in Serbia Nikita Shukodolov, che ha prestato una attenzione e uno studio sulla mia vicenda processuale che in Italia come prassi non esiste”. “Giovane diplomatico, ma esempio di bravura e professionalità”, aggiunge Petrilli. “Devo ringraziare di questo l’ambasciatore russo in Serbia Alexander Chepurin, un diplomatico molto influente, basti pensare che il ministro degli esteri russo Sergej Viktorovic Lavrov viene spesso a Belgrado, di ieri una sua importante visita qui”, continua Petrilli, che per lavoro ha vissuto a lungo in Serbia e tuttora ci torna spesso. “Un sentito ringraziamento anche al minister-counsellor della ambasciata Denis Kuznedelev il quale mi ha anche scritto una lettera piena di attenzione e consigli per cercare di risolvere il problema. Ho infatti su suo consiglio scritto qualche giorno all’indirizzo ufficiale del Cremlino e del presidente Putin esponendogli tutta la mia vicenda. Vicenda che parla di sei anni di detenzione in carceri speciali con l’accusa di banda armata Prima Linea per poi essere assolto e mai risarcito”, conclude. Foggia: gli studenti del “Perugini” portano l’arte in carcere Ristretti Orizzonti, 25 febbraio 2018 Il sipario si apre su “Colpevoli”. Martedì 27 febbraio performance e reading con la regia di Michele d’Errico. In scena lo spettacolo ispirato alle storie dei detenuti, in platea insieme con rappresentanti di Comune di Foggia, Fondazione dei Monti Uniti, Biblioteca provinciale, Ust, CSV Foggia e Libera. Un caso unico. Reading teatrale, performance artistiche degli studenti e qualche sorpresa con la regia di Michele d’Errico. Tutto pronto al liceo artistico “Perugini” di Foggia per la giornata conclusiva del progetto “Il carcere tra immaginario e realtà, per superare gli stereotipi legati a chi sta dentro e chi sta fuori”. Lo spettacolo degli studenti nel carcere - Martedì 27 febbraio, alle ore 15.00, gli studenti - per mesi impegnati nella lettura di “Colpevoli. Vita dietro (e oltre) le sbarre” di Annalisa Graziano, in incontri con esperti e cineforum tematici a cura della Biblioteca Provinciale “Magna Capitana” - esprimeranno il loro talento sul palco del teatro della Casa Circondariale di Foggia, davanti ai detenuti protagonisti del libro. Ospiti del pomeriggio artistico nel carcere foggiano Claudia Lioia, Assessore all’Istruzione del Comune di Foggia, Gabriella Berardi e Roberta Jarussi, rispettivamente Direttore e bibliotecaria della Biblioteca Provinciale, Maria Aida Episcopo, Dirigente dell’Ufficio Scolastico Provinciale, Aldo Ligustro, Presidente della Fondazione dei Monti Uniti di Foggia, Roberto Lavanna, Membro del CdA della Fondazione dei Monti Uniti e Direttore del CSV Foggia, Annalisa Graziano, scrittrice e giornalista, Sasy Spinelli, referente del Coordinamento Provinciale di Libera e Giuseppe Trecca, Dirigente Scolastico dell’I.I.S.S. “Lanza-Perugini”. Il senso del progetto - Avvicinare gli studenti alla realtà penitenziaria perché il carcere diventi parte integrante della vita sociale, contribuendo a costruire il senso di legalità e l’etica della responsabilità. Questo l’obiettivo del progetto “Il carcere fra immaginario e realtà”, ideato dai docenti Angela Favia, Maria Grifoni e Michele Sisbarra e realizzato in collaborazione con il Dipartimento dell’Area Artistica del Liceo. Il libro - “Colpevoli”, edito da la Meridiana con prefazione di don Luigi Ciotti e postfazione di Daniela Marcone, è un viaggio nelle sezioni dell’Istituto Penitenziario foggiano, tra le celle, le aule scolastiche, i passeggi, nella cucina e in tutti i luoghi accessibili. È, soprattutto, la rivelazione delle storie che ci sono dietro i nomi e le foto segnaletiche cui ci hanno abituati la cronaca nera e giudiziaria. Non solo rapinatori, omicidi, ladri e spacciatori, ma anche uomini, padri, figli e mariti con storie che nessuno aveva ancora raccolto. “Colpevoli” alcuni detenuti si sentono fino in fondo, altri in parte. Ma tutti si sono messi in discussione, raccontandosi e hanno “scritto” alcune pagine del libro insieme all’autrice, giornalista, dipendente del CSV Foggia e assistente volontario del carcere. I partner - Il progetto del Liceo “Perugini” è patrocinato dalla Fondazione dei Monti Uniti di Foggia, Comune di Foggia, Biblioteca provinciale e CSV Foggia ed è stato inserito, con il sostegno del Coordinamento provinciale di Libera, nel percorso di legalità adottato dalla scuola in vista del 21 marzo, Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. Milano: tutti pazzi per il bridge nel carcere di Bollate di Zita Dazzi La Repubblica, 25 febbraio 2018 Un detenuto ha contagiato gli altri: aperto un circolo vero e proprio con un istruttore ufficiale. La storia comincia con un arresto, un paio di manette, un’aula di tribunale, una condanna e una cella. A finire dentro è una persona di cui non si può sapere né il nome, né il cognome, né tantomeno il reato. Però si sa che l’arrestato, oltre che pregiudicato, è anche, nel tempo libero, incallito giocatore di bridge. “Lo sport della mente”, come lo chiamano, quelli della Federazione italiana di categoria, che ha 24mila tesserati, fra cui anche il signore finito al carcere di Bollate con una certa pena da scontare. Visto che di tempo fra quelle sbarre ne avrà da passare un po’, il tizio con la passione del bridge si mette subito al lavoro. E scrive una mail alla sua federazione, spiegando l’incresciosa situazione in cui si trova, e comunque il suo forte desiderio di non lasciare perdere le carte. Tutto questo avveniva due anni fa. Oggi, quel signore ha vinto la sua battaglia. Nella casa di reclusione di Bollate è nato il primo e per ora unico circolo di bridge italiano in gattabuia, con tanto di istruttore e nutrito gruppo di allievi iscritti alle lezioni. Ora, certo, questo non è il classico circolo del bridge che uno si può immaginare pensando alle atmosfere compassate del mondo anglosassone. Nella biblioteca di Bollate, messa a disposizione dalla direzione del carcere con tanto di sedie e tavolini coperti dal panno verde, sicuramente i giocatori sono ancora alle prime armi e le loro espressioni potranno essere a volte anche un po’ colorite. Ma quel che è certo è che il bridge sta sfondando fra i detenuti, fra i quali potrebbe esserci anche qualche ergastolano. Il primo promotore del circolo ha vinto la sua battaglia. E, impaziente di rimettersi a smazzare, ancora prima che giungesse l’istruttore, aveva già avviato alcuni compagni di prigionia al gioco. Mercoledì scorso i portoni blindati dell’istituto di pena si sono aperti per accogliere il maestro, subito preso d’assalto da tutti quelli che vogliono iscriversi al circolo e poter giocare come veri professionisti, come fanno gli americani, gli inglesi, con i loro tornei da migliaia di partecipanti. “Sono già iscritti in 25 e non vedono l’ora di apprendere bene tattiche e strategie”, sottolinea Francesco Ferrazzo, presidente della federazione italiana, che ha sede a Milano. Certo, Bollate è un carcere modello, dove si fanno tante attività poco tradizionali, dal giardinaggio alla ristorazione, dallo sport al cinema, tutto nell’ottica del reinserimento sociale delle persone, in collegamento con l’esterno, in vista delle misure alternative alla detenzione. “Questo è un gioco per cui basta un poco di formazione, due lezioni iniziali, per cominciare - spiega Ferrazzo. Si fa con le carte, ma non è gioco di carte. Né d’azzardo. Anzi, è antidoto all’azzardo e alle sue degenerazioni perché è gioco sportivo nel quale la fortuna ha incidenza minima. Chi si appassiona, deve avere capacità di analisi, di sintesi, di concentrazione. Bisogna capire i meccanismi, ma per farlo bene occorre anche un po’ di studio, perché ci sono tante tecniche, strategie. Insomma, è uno sport che affina l’intelligenza, le capacità di memoria e di ragionamento”. Chissà che qualcuno dei detenuti giocatori non si possa costruire un futuro diverso nei tornei dei professionisti, dove girano cifre a vari zeri e sponsor che non fanno economie per i campioni. “Ho messo volentieri a disposizione la biblioteca per quest’iniziativa. Il bridge figura fra le attività sportive all’interno dell’istituto”, spiega Massimo Parisi, direttore della casa di reclusione, che si confessa totalmente digiuno di bridge e giochi simili. “Ma piace anche a me come gioco e lo sto scoprendo in tutte le sue potenzialità - aggiunge. I detenuti iscritti al corso sono entusiasti. E mi piace che in questa attività ci sia molto di ragionamento e di analisi. È una cosa che serve nei nostri programmi di riabilitazione”. “L’Italia? Repubblica giudiziaria fondata su media, procure e M5S” Corriere Fiorentino, 25 febbraio 2018 Annalisa Chirico e il suo nuovo libro sulla giustizia sommaria. “Non basta più un avviso di garanzia per essere esclusi dalle loro liste, ma il dna politico dei Cinque Stelle resta caratterizzato dal populismo giudiziario”. Annalisa Chirico, giornalista del Foglio, non ci va troppo sottile con il M5S, che lei considera uno dei tre vertici della “repubblica giudiziaria” in cui viviamo - gli altri due sono le Procure e i media. Un “triangolo perverso” che è al centro del suo libro “Fino a prova contraria. Tra gogna e impunità, l’Italia della giustizia sommaria”, che domani alle 18 sarà presentato all’Altana di Palazzo Strozzi con un dibattito tra il sindaco Dario Nardella, il procuratore capo Giuseppe Creazzo e il presidente dell’Ordine degli avvocati Sergio Paparo (modera il direttore del Corriere Fiorentino Paolo Ermini). Lei punta il dito sui Cinque Stelle, che peraltro hanno espulso il loro candidato Salvatore Caiata proprio perché è indagato a Siena, ma l’uso politico della giustizia non nasce con loro e non è un’esclusiva loro. “Premessa. Dopo il ventennio caratterizzato da Mani Pulite, siamo ad una nuova frontiera: l’Italia è diventata una repubblica giudiziaria dove alcune Procure fanno filtrare notizie e indiscrezioni, alcuni media fanno da cassa di risonanza e un movimento politico utilizza tutto questo per fini politici... È vero che non sono gli unici: il Pd ad esempio chiese le dimissioni di Rosario Crocetta, allora governatore della Sicilia, per un’intercettazione inesistente. Però la peculiarità culturale del M5S è che rivendica in modo conclamato il ruolo taumaturgico della magistratura”. Non è un passo avanti il fatto che, nel nuovo codice etico M5S, non ci sia più l’automatismo “se sei indagato niente candidatura”? “C’è stato un ammorbidimento, perché Di Maio e Casaleggio jr stanno tentando la strada della normalizzazione e non potevano far finta che i sindaci delle principali città governate dal Movimento, da Roma a Torino passando per Livorno, non fossero indagati”. E gli altri partiti sono immuni dal giustizialismo? “Il Pd è stato per anni subalterno alla cultura giustizialista. Renzi ha rotto con questa subalternità, ed è un merito storico che gli va riconosciuto, ma il Pd non è senza macchia. Basti pensare che hanno fatto dimettere Federica Guidi da ministro senza neanche un’indagine a suo carico. Forza Italia è in una situazione particolare: il suo leader è stato negli anni plurinquisito”. Quali sono le responsabilità dei giornalisti invece? “C’è una stampa che si alimenta di quello che il Garante della privacy ha chiamato “il giornalismo della trascrizione”, limitandosi a copiare gli atti dei pm senza mai ricordare che l’ipotesi accusatoria è per l’appunto l’ipotesi di una parte, ma poi c’è il dibattimento che dovrebbe essere il momento centrale. Invece in un Paese dai tempi giudiziari biblici si fa passare l’idea che l’accusa sia di per sé una condanna”. Lei sul ha scritto l’articolo “La notte in cui il caso Consip è diventato politico”. Che significa? “Consip assume una dimensione politica in seguito all’iscrizione nel registro degli indagati di Luca Lotti. Così l’inchiesta napoletana di Woodcock arriva al cuore del potere renziano. Non si può prescindere da qui per comprendere il grande cinema Consip: un verminaio di infedeltà e manipolazioni, tra uomini in divisa e toghe d’assalto oggi sotto processo. Il punto è che c’era un disegno eversivo nei confronti dell’allora premier Renzi”. La vera bufala delle fake news di Andrea Capocci Il Manifesto, 25 febbraio 2018 Si moltiplicano gli studi per comprendere quali fattori influenzino le opinioni politiche. Secondo alcune ricerche scientifiche, però, le echo chambers sarebbero sovrastimate. A giudicare dalle pubblicazioni scientifiche, si direbbe che anche il mondo della ricerca risenta del clima elettorale italiano: cresce di settimana in settimana il numero di studi su come le nostre opinioni politiche si formano e si diffondono nella società, e su cosa le influenzi. In realtà, le elezioni di quaggiù c’entrano poco o nulla e si tratta in primo luogo di una conseguenza della digitalizzazione del dibattito politico. Abbandonate piazze, giornali e talk show, la dialettica si è trasferita soprattutto sui social network e sul web con gran soddisfazione dei sociologi con il pallino dell’informatica. Il World Wide Web, Facebook, Twitter e compagnia, infatti, rappresentano una fonte di dati che fa impallidire gli strumenti della sociologia tradizionale, basata su interviste e questionari. Basta un po’ di pratica con il coding e si possono ricavare in pochi minuti informazioni in tempo reale sulle discussioni virtuali in corso. Chi di noi presta poca attenzione alla privacy, infatti, permette a tutti di osservare l’attività che teniamo sui social networks: di quali temi ci piace discutere, a chi diamo i nostri “like” e chi a sua volta dà credito a noi. Informazioni preziosissime per i pubblicitari che così possono ottimizzare le loro campagne, ma è una manna anche per i ricercatori che possono mettere a punto modelli sociali, verificare e smentire ipotesi, fare previsioni su come si spostano le nostre opinioni. In questo campo di battaglia si incrociano sociologi, ma anche statistici, informatici e neuro-scienziati, matematici e fisici. Tutti sotto la benevola egida di Mark Zuckerberg e colleghi, i veri padroni del giocattolo. Sono solo a decidere su quali e quanti dati lasciare a disposizione dei curiosi e quanto le piattaforme siano neutrali rispetto alle azioni e alle opinioni degli utenti. Gli scienziati accettano le condizioni: piuttosto che tornare ai questionari, meglio accontentarsi delle briciole di Zuck. Anche in questa comunità scientifica, le parole più alla moda sono “fake news” (cioè le bufale) e le “echo chambers” o “bolle di filtraggio”, quelle comunità telematiche di utenti affini che scambiano informazioni solo per darsi ragione a vicenda. Non giratevi, parlano (anche) di noi. Una delle questioni che più agita i net-ricercatori riguarda proprio l’impatto politico di fake news e echo chambers nell’epoca della Brexit, di Trump e dei vari populismi europei. Nascono prima le bufale su Hillary Clinton o Donald Trump? In altri termini, ci si chiede se l’ascesa dei populismi sia una causa o una conseguenza della diffusione delle balle virtuali. Non è una domanda oziosa: a leggere le inchieste giudiziarie e giornalistiche, sembrerebbe che i destini di un Paese possano essere decisi da squadriglie di utenti e bot impegnati 24/7 a screditare avversari politici e a manipolare sistemi elettorali, contro cui scatenare orde di algoritmi a difesa del politicamente corretto. Ma davvero il successo di Trump & Co. dipende da Facebook? L’ipotesi sembra smentita da una ricerca appena pubblicata sulla rivista Information, Communication and Society da parte di Elizabeth Dubois (università di Ottawa, Canada) e Grant Blank (Oxford Internet Institute). Si tratta di una “ricerca vecchio stampo”, visto che i loro dati sono tratti dalle risposte di ben 14mila utenti da sette Paesi diversi a un questionario, seppur telematico. E chissà che i risultati contro-corrente non derivino proprio dal metodo di ricerca. Secondo l’analisi dei due ricercatori, il problema delle “bolle” è largamente sovrastimato. È vero che gli utenti si influenzano a vicenda e che i social sono frammentati in circoli autoreferenziali. Ma per capire quanto contino le echo chambers, concentrarsi su un solo mezzo di comunicazione può essere fuorviante. Basti pensare che gli utenti sotto i 34 anni dichiarano di utilizzare in media cinque social network diversi. I cittadini più interessati alla politica, che sono i più influenti, sono anche quelli più “onnivori”. Dubois e Grant usano un’espressione più diretta, “drogati politici”, per indicare la dipendenza dalle informazioni degli utenti politicamente più impegnati. Questi accedono alle informazioni da diverse fonti e in questo modo sfuggono alle echo chambers. All’altro estremo, solo l’8% dei partecipanti alla ricerca ha dichiarato di utilizzare una sola fonte di informazione. In conclusione: le “bolle” esistono ma hanno un impatto limitato, perché gli utenti che influenzano di più le opinioni politiche sono quelli che se ne sottraggono meglio. Anche secondo un’altra ricerca del neuro-scienziato Jay Van Bavel (New York University) e della psicologa Andrea Pereira (università di Leida), la diffusione delle bufale segue, e non precede, l’identità politica. Nell’ultimo numero di Trends in cognitive sciences, i due pubblicano un’estesa rassegna sulla ricerca di neuro-scienziati, psicologi, sociologi e filosofi intorno ai motivi per cui tendiamo a credere alle fake news. In sintesi, prendiamo per buone informazioni inaffidabili perché l’identità derivante dall’appartenenza politica prevale sul desiderio di verità. Succede anche a chi, normalmente, dimostra capacità di analisi superiori alla media. Quando, ad esempio, in un problema matematico si aggiunge una connotazione politica, le competenze logiche vengono meno: se la soluzione esatta contraddice il nostro credo politico il nostro cervello è prontissimo a scegliere una soluzione alternativa, anche se errata. Per ribaltare il meccanismo, sostiene Van Bavel, si può aumentare l’incentivo a preferire l’accuratezza al bisogno di identità. Ad esempio, dando un valore economico alla verità. “Se state litigando - spiega - chiedete al vostro avversario: ‘vuoi scommettere?’. Quando ci sono 20 dollari in ballo, nessuno vuole essere smentito”. Può funzionare. Allo stesso modo, se volete convincere qualcuno non insultatelo, perché questo rafforzerà il suo bisogno di identità. Proprio all’evoluzione della politica americana nella transizione tra Obama e Trump è dedicata una terza ricerca pubblicata a febbraio sulla rivista Race and social problems da Luigi Leone e Fabio Presaghi, due psicologi della Sapienza di Roma. I ricercatori hanno analizzato i dati dell’American National Election Studies del 2012, un’indagine dettagliata basata su circa 6000 interviste di elettori. Leone e Presaghi hanno cercato una relazione tra lo sdoganamento del discorso razzista nel dibattito pubblico americano e la parabola del Tea Party, il movimento conservatore che si colloca alla destra del Partito Repubblicano su posizioni ultraliberiste. L’ascesa di Trump ha coinciso con il declino del Tea Party, da cui proveniva il principale antagonista repubblicano di Trump, Ted Cruz. Ma tra le due destre americane, in fondo così simili, c’è davvero contrapposizione? Secondo le analisi statistiche di Leone e Presaghi, più che opporsi a Trump il Tea Party gli ha aperto la strada spostando l’elettore repubblicano su posizioni estremiste. L’elezione di Trump, dunque, non è affatto il risultato di un golpe, ma una naturale evoluzione di una tendenza profonda ma reale nella società americana. Anche senza menzionare bufale ed echo chambers, Leone e Presaghi giungono a conclusioni in linea con le altre ricerche citate. Le bufale digitali non sono la spiegazione dell’ascesa del populismo, al limite un sintomo di dinamiche politiche terribilmente analogiche contro cui gli algoritmi non basteranno. Tra l’anonimato online e il pericolo di una vendetta 2.0 di Martina Pennisi Corriere della Sera, 25 febbraio 2018 Dobbiamo contribuire tutti a evitare che dilaghi la tentazione di farsi giustizia. Una cosa è il mutamento del concetto di anonimato online che, come dimostra l’entrante Regolamento europeo sulla protezione dei dati, è da considerarsi praticamente superato in virtù dei dati associati alla nostra navigazione. Un’altra cosa è il modo in cui trattiamo un’informazione tanto delicata quanto semplice da reperire: nome e cognome di qualcuno e il modo di contattarlo. Samantha Cristoforetti ha provato a farlo con ratio. Qualche giorno fa, ha raccontato di aver segnalato un’intervista che in realtà non le era mai stata fatta e di aver assistito alla rimozione della pagina senza alcuna spiegazione ai lettori. Nel sottolineare la gravità dell’accaduto, l’astronauta non ha nominato il portale coinvolto. Anche se gli utenti ci sono poi arrivati da soli, lei ha fatto la scelta migliore. Il meccanismo di ricerca, individuazione e contatto collettivo e iracondo di chi ha sbagliato è rodato. “Il capro espiatorio è sempre servito per espiare le proprie colpe. Sui social chi si scaglia contro gli altri fa leva, volente o nolente, su questo meccanismo e gode di una capacità di propagazione e aggregazione unica”, spiega lo psicoterapeuta Alberto Rossetti. Spesso, inoltre, la gravità dell’atto commesso non è direttamente proporzionale alla reazione. Un’impiegata la cui unica colpa è di essere apparsa nel video di un buffo ballo e una persona che ha incitato a violenza e razzismo accusando un ignaro passeggero al suo fianco di non aver pagato il biglietto del treno possono finire nello stesso tipo di spirale in cui carnefici e vittime si confondono e sovrappongono. Il secondo merita l’onda di insulti, viene da pensare. Ma in un contesto in cui il crescente indebolimento dell’anonimato, e la doverosa collaborazione delle piattaforme, aiutano le autorità ad applicare le norme, diffamazione o procurato allarme contro chi diffonde falsità, ad esempio, dobbiamo contribuire tutti ad arginare il farsi giustizia da soli 2.0. Messico. Arrestati 4 poliziotti: hanno venduto i tre italiani a banda di criminali Corriere della Sera, 25 febbraio 2018 I nostri connazionali non sono mai passati dal carcere locale: sarebbero stati invece consegnati a un gruppo criminale. Quattro agenti - tre uomini e una donna - della polizia locale di Tecalitlan (Messico, nel sud dello stato di Jalisco) sono stati arrestati in collegamento con la scomparsa, il 31 gennaio, dei tre italiani Raffaele Russo, suo figlio Antonio e il nipote Vincenzo Cimmino. Lo ha detto il procuratore statale Raul Sanchez Jimenez, citato dai media messicani. I quattro, di cui sono stati dati solo i nomi propri - Emilio, Salvador, Fernando e Lilia - sono accusati di “sparizione forzata”, riferiscono i giornali. Il giudice ha precisato che i tre italiani non sono stati localizzati, ma che nessuno di loro è mai passato per il carcere locale: sarebbero stati invece consegnati a un gruppo criminale locale e poi trasferiti verso sud. Due giorni fa, fonti dell’Ufficio del procuratore di Jalisco avevano riferito che Raffaele Russo si sarebbe registrato con un falso nome in alcuni hotel e che si faceva chiamare generalmente Carlos Lopez. Secondo le autorità messicane, Russo, 60 anni, aveva precedenti in Italia per frode e si dedicava alla vendita di generatori elettrici apparentemente tedeschi ma che in realtà erano stati fabbricati in Cina. Secondo il quotidiano Publimetro, che cita fonti vicine alle indagini, alla fine del 2017, Russo era impegnato in affari nello stato di Michoacan e cinque giorni prima della sua scomparsa si era riunito con il figlio Antonio e il nipote Vincenzo Cimmino in un hotel di Ciudad Guzman. Questi ultimi due sarebbero arrivati in Messico insieme ad altri sei italiani. Russo, sempre secondo quanto scrive il quotidiano, era stato arrestato nel 2015 per frode e corruzione nello stato messicano di Campeche. Stati Uniti. “Scrivo per non ammazzarmi”. I racconti di un ergastolano di Marco Bruna La Lettura - Corriere della Sera, 25 febbraio 2018 “La notte in cui uccisi un uomo fu l’inizio di un terribile calvario, per la sua famiglia, per la mia, per tutti quelli che le mie azioni traumatizzarono. Sono ancora lacerato dal senso di colpa e dal rammarico”. Alla vigilia di Halloween del 2004, dopo aver bevuto vodka e fumato crack, Curtis Dawkins uccise Thomas Bowman, un imbianchino di 48 anni, a Kalamazoo, Michigan. I due non si conoscevano. Lo uccise perché aveva rifiutato di dargli dei soldi. Per quell’omicidio è stato condannato all’ergastolo senza possibilità di uscire con la condizionale. Dawkins, nato a Louisville, Illinois, il 9 maggio 1968, ha cominciato a bere a 12 anni. Nonostante l’abisso della dipendenza ha ottenuto un Master in Fine Arts in scrittura creativa. È padre di due figli, avuti dall’ex compagna Kimberly Knutsen (quando si sono messi insieme lei aveva già un maschio di 3 anni). Proprio la passione per la scrittura è stata la sua ancora di salvezza. Tanto che lo scorso luglio la casa editrice Scribner - una delle più rinomate d’America - ha pubblicato la raccolta di storie che Dawkins ha scritto durante questi anni di reclusione. Ora il libro è uscito anche in Italia, con il titolo Questo ero io (Mondadori). Recentemente, il Dipartimento del tesoro del Michigan ha chiesto di poter usare i guadagni del volume per far pagare a Dawkins la sua stessa reclusione. In questa intervista con “la Lettura” l’autore rivela i propri modelli letterari e la difficoltà di conciliare la biografia di scrittore con quella di ergastolano. La prima domanda riguarda l’inizio della sua seconda vita, quella di carcerato, dopo l’omicidio. Perché ha cominciato a scrivere? “Perché non avevo scelta. Il mio imperativo era: fai qualcosa che permetta alla tua testa di non pensare a dove ti trovi in questo momento, che riesca a farti dimenticare ciò che hai fatto. Se non sarai in grado di farlo ti succederà ciò che è già successo a molti carcerati: ti toglierai la vita. Scrivere mi ha fatto sentire bene, mi ha fatto capire che potevo ancora dare un contributo all’umanità”. Quali sono gli autori che l’hanno aiutata a “sopravvivere”? “I soliti sospetti: Hemingway, Virginia Woolf, Dostoevskij, Faulkner, Tolstoj, Raymond Carver. Tra i contemporanei amo Lydia Davis e Haruki Murakami. Ma ci sono anche i film, il teatro, la tv, la musica. Le opere di Picasso e Toulouse-Lautrec. Recentemente ho visto Moulin Rouge, nella versione del 1952”. Scrive a orari precisi? “Scrivo tutti i giorni, tranne la domenica. Devo farlo. Punto. È la lezione più grande che io abbia mai imparato. È vitale per me”. Se avesse un lettore davanti a sé, che cosa gli direbbe? “Che i prigionieri non sono animali”. Perché ha scelto di scrivere un libro composto da storie brevi? “Perché la mia esperienza di carcerato non mi è sembrata “una storia lunga”. Assomiglia, al contrario, a una serie di storie brevi. A una successione di momenti”. “Graybar Hotel” è il titolo originale della raccolta di racconti. Ha un significato particolare? “È uno slang con cui in inglese viene indicata la prigione. Se ci pensa, questo posto assomiglia a un orrendo hotel con sbarre grigie”. La scrittura è un modo per rappacificarsi con il mondo al di fuori della cella? “Certe volte penso che il mondo là fuori sia molto sopravvalutato. Proprio in questo momento, mentre le scrivo, sta avvenendo un’altra, l’ennesima, sparatoria in una scuola degli Stati Uniti (alla Stoneman Douglas High School di Parkland, Florida, 14 febbraio, diciassette morti, ndr)”. Chi era Curtis Dawkins prima di quella notte d’ottobre del 2004? “Un padre che si prendeva cura della propria famiglia. Ma anche un tossicodipendente. A quell’epoca ricordo di aver chiuso con la scrittura per dedicarmi ai miei cari. Avevo anche trovato un nuovo lavoro”. Ha sempre voluto essere uno scrittore? “No. Almeno finché non mi sono iscritto al corso di poesia inglese alla Southern Illinois University. Lì ho scoperto Canto d’amore di J. Alfred Prufrock di T. S. Eliot. Un’ispirazione”. Che cosa ha letto di recente? “Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan e Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller”. I suoi personaggi fanno domande, molte volte senza parlare. Rimangono nella loro testa. Che cosa chiederebbe a chi vive fuori dal penitenziario? “Gli chiederei se considera scontato il valore della propria vita. E della propria libertà”. Si sente spesso con la sua famiglia? “Ogni giorno. Sono loro a tenermi in vita. La famiglia è tutto ciò che abbiamo”. Qualche autore famoso ha provato a contattarla dopo la pubblicazione del libro? “No. Noi scrittori siamo delle creature un po’ asociali. Tuttavia, ho ricevuto dozzine di lettere da persone comuni che hanno detto di averlo amato. E questo, per me, significa mol- to più che essere chiamato da qualche autore famoso”. Quando le hanno detto che le sue storie sarebbero state pubblicate da una grande casa editrice americana come ha reagito? “Quello è stato un giorno straordinario, incredibile. La prima persona che me lo ha detto è stato il mio amico ed editor Jarrett Haley. Conoscevo bene la Scribner. Quale autore non vorrebbe essere pubblicato da loro?”. Con chi ha condiviso la notizia per primo? “L’ho detto ai miei genitori e a Kim. Kim è stata mia partner per lungo tempo. È una donna che ha sofferto a lungo. Oggi è scrittrice e insegnante”. Ora il libro è uscito anche in Italia. C’è un consiglio che si sente di dare a un ergastolano di questo Paese, considerata la sua esperienza di autore di successo? “Da turista mi sono perso nella storia e nella bellezza dell’Italia. Era il 1989. Non dimenticherò mai il giorno in cui mi sono trovato di fronte al David di Michelangelo. È un’esperienza che mi porterò nella tomba. Un carcerato ha sogni e desideri. Gli direi: continua a guardare avanti, un giorno alla volta, lavora su te stesso e aiuta chi ti sta vicino. A tuo modo anche tu puoi cambiare il mondo”. Dall’esterno abbiamo un’idea molto diversa della prigione. Nel libro ci troviamo a osservarla da una prospettiva più umana. Pensa che l’arte posso aiutarci a capire che cosa sia veramente il carcere? “Sarebbe fantastico se tutti i prigionieri creassero arte. Penso che questa storia, la mia storia, possa rappresentare una fonte di ispirazione per i miei fratelli e sorelle dietro le sbarre. Tutto ciò che sappiamo della prigione è lo schifo che ci propinano costantemente in tv e al cinema”. Chi sono stati i suoi primi lettori? “Kim, i miei compagni di cella e altri carcerati qui in Michigan”. Chi è la persona che l’ha aiutata di più? Che non ha mai smesso di incitarla? “Kim, Kim, Kim. Lei è la mia più grande fan. Mi ha sempre tenuto su il morale”. Ha mai pensato di usare uno pseudonimo? “No. Ho sempre sognato di vedere il mio nome su un libro, non solo per me e per le persone che mi amano ma per tutti coloro che mi hanno escluso. Userò sempre il nome che i miei genitori mi hanno dato. E qualunque cosa quel nome significhi, che sia una cosa buona o cattiva, non me ne importa nulla”. Francia: Jihad, Parigi teme il contagio nelle carceri Il Fatto Quotidiano, 25 febbraio 2018 La Francia creerà 1.500 nuovi posti nelle carceri per isolare i detenuti radicalizzati e accogliere i jihadisti di ritorno dalle zone di guerra in Siria e Iraq. Di questi posti, 450 saranno creati prima della fine dell’anno. È una delle misure del nuovo piano di prevenzione della radicalizzazione presentato dal premier Edoaurd Philippe. Sui circa 70 mila detenuti nei 187 istituti penitenziari in tutta la Francia, 512 lo sono per fatti di terrorismo e 1.100 sono identificati come radicalizzati. Al momento in Francia solo la prigione di Lille-Annoeullin, nel nord, presenta una zona per radicalizzati in un’ala separata dal resto della prigione da diversi strati di cancellate e posta sotto altissima sorveglianza. Una sorta di “prigione nella prigione”, così viene descritta, che oggi conta 19 detenuti. Il modello di Lille-Annoeullin sarà riprodotto nelle altre prigioni francesi. In queste zone di isolamento i detenuti saranno sorvegliati da personale specializzato. Per evitare “contagi” e proselitismi non potranno mai incrociare altri detenuti non radicalizzati. Saranno obbligati a seguire in piccoli gruppi, da 3 a 5 persone, dei programmi anti-radicalizzazione condotti da psicologi e educatori. È prevista anche la creazione di quattro nuovi centri per la valutazione del livello della radicalizzazione dei detenuti alle prigioni di Vendin-le-Vieil e Condé-sur-Sarthe. Il principio è di esaminare i detenuti divisi in gruppi di 12, su un periodo di 4 mesi, per stabilirne la pericolosità e decidere in che tipo di cella e reparto smistarli. L’obiettivo è di valutare 250 detenuti ogni anno. Di questi centri ne esistono già tre nelle prigioni della regione di Parigi, a Osny, Fresne e Fleury-Mérogis, il carcere più grande d’Europa, dove, in una cella di isolamento, sorvegliato 24 ore su 24, è detenuto anche Salah Abdeslam, il terrorista del commando degli attentati di Parigi del 13 novembre 2016 al Bataclan e nei caffè. È il terzo piano nazionale di lotta alla minaccia terroristica presentato in Francia dagli attentati del 2015 nella redazione del giornale satirico Charlie Hebdo. Un piano promesso dal presidente Macron, arrivato con qualche mese di ritardo, che deve servire a far dimenticare i fiaschi precedenti. In particolare l’ultimo, quello del centro anti-radicalizzazione di Pontivy, Francia centrale, aperto con tante speranze nel settembre 2016 ma chiuso neanche un anno dopo. Un centro che avrebbe dovuto accogliere 25 giovani a rischio radicalizzazione su base volontaria. Se il test avesse funzionato si sarebbe dovuto estendere a tutto il paese. Di fatto solo 9 giovani sono stati accolti a Pontivy e senza nessun risultato. La creazione di spazi per detenuti radicalizzati è molto attesa anche dagli agenti penitenziari: denunciano da settimane le aggressioni di cui sono vittime all’interno stesso delle carceri da parte di detenuti particolarmente violenti. Siria: L’Onu chiede tregua di trenta giorni per Ghouta, “senza indugi” di Michele Giorgio Il Manifesto, 25 febbraio 2018 Si negoziava ieri al Consiglio di Sicurezza dell’Onu per approvare, con il consenso della Russia, una risoluzione per l’inizio della tregua nella Ghouta orientale. I combattimenti e i bombardamenti continuano e secondo fonti dell’opposizione i civili morti dal 18 febbraio sarebbero oltre 500. Nella serata di ieri sera è arrivata la decisione: il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha adottato all’unanimità una risoluzione che per “almeno 30 giorni” dovrebbe far cessare i bombardamenti in tutto il paese, incluso il distretto di Ghouta. La tregua dovrebbe partire “senza indugi”. All’accordo si è arrivati dopo vari rinvii: la Russia, alleata di Damasco, minacciava di porre di nuovo il veto se non fosse stata messa in evidenza la presenza nella zona di formazioni terroristiche e il diritto delle forze armate siriane di cacciarle via. Mentre all’Onu si cercava un compromesso, combattimenti e bombardamenti proseguivano senza sosta. Ieri sarebbero rimaste uccise altre 32 persone, tra le quali 8 bambini, che sostiene l’opposizione siriana, vanno ad aggiungersi ai 510 civili morti, fra cui 127 bambini, nei raid aerei e nei cannoneggiamenti dell’esercito siriano in corso dal 18 febbraio. Se è evidente la drammaticità della condizione dei civili che si trovano in quell’area, occorre sottolineare che sul numero di morti e feriti non ci sono verifiche indipendenti. Di fatto i media internazionali continuano a far riferimento a una sola fonte, l’Osservatorio siriano per i diritti umani, con sede a Londra, una Ong legata a doppio filo all’opposizione siriana e apertamente schierata contro il presidente Bashar Assad. Si continuano peraltro ad oscurare le vittime dei lanci di razzi e colpi di mortaio sparati sui quartieri residenziali di Damasco dai gruppi jihadisti e qaedisti asserragliati nella Ghouta, dove si troverebbero anche centinaia di miliziani ceceni. Il governo ripete che è inaccettabile la presenza di formazioni terroristiche a pochi chilometri dalla capitale, sempre più spesso presa di mira. “Oggi vedremo se la Russia ha una coscienza”, ha commentato ieri, entrando in Consiglio di Sicurezza, l’ambasciatrice Usa Nikki Haley che voleva una risoluzione di condanna solo della Siria e della sua campagna militare. Gli altri Paesi del CdS invece hanno cercato il compromesso con Mosca. La bozza modificata, secondo le indiscrezioni che giravano ieri al Palazzo di Vetro, prevede 30 giorni di cessate il fuoco “senza ritardi”, senza però precisarne i tempi. La bozza precedente invece chiedeva che la tregua entrasse in vigore 72 ore dopo l’adozione del testo da parte del Consiglio Onu. La nuova versione inoltre precisa che la tregua non si applicherà alle operazioni contro l’Isis e al Qaeda e contro “individui, gruppi ed entità associate” ai gruppi terroristici. Il testo infine chiede di rimuovere tutti gli assedi, non solo quello governativo a Ghouta Est - sono diversi i centri abitati siriani circondati dalle formazioni “ribelli” - e ordina a tutte le parti di “smettere di privare i civili di cibo e medicine indispensabili alla sopravvivenza”. Mosca da parte sua spinge per un ritiro negoziato dei ribelli e delle loro famiglie come avvenuto in altre aeree della Siria, in particolare ad Aleppo di cui il governo ha ripreso il controllo pieno a dicembre del 2016. Ma i jihadisti rifiutano questa soluzione.