Sulle carceri è sceso il gelo di Adriano Sofri Il Foglio, 24 febbraio 2018 Era scontato che la riforma venisse affossata. E niente è più avvilente della puntualità delle cose scontate e miserabili. Poche cose sono avvilenti come le meschinità scontate. C’era un progetto riguardante la galera, che ne adeguasse ragionevolmente alcuni degli aspetti più vessatori e più superati, dal momento che l’ultima riforma carceraria risale al 1975. Appena ragionevolmente, appena alcuni aspetti. Vi si erano impegnati a lungo un ministro della giustizia, una vasta rete di “esperti”, un concorso di opinioni di giuristi, magistrati, intellettuali, una prolissa discussione parlamentare, oltre che, “naturalmente”, vien da dire, militanti radicali, riconosciuti esemplarmente nella tenacia di Rita Bernardini e nella memoria di Marco Pannella, e migliaia di detenuti. Di questi ultimi si dirà che ovviamente siano in favore di misure che rendano meno oppressiva la loro esistenza e socchiudano qualche spiraglio alla speranza, ma non è solo così. Questo impegno collettivo e nonviolento, che da anni anima le galere e ha sostituito largamente le rivolte improvvise e gli autolesionismi disperati, è una principalissima forma di quella conversione personale e sociale che la Costituzione assegna al carcere e il carcere frustra sistematicamente. Bene: quel progetto è stato probabilmente affossato giovedì. Ci sono le elezioni. C’è un fremente arrembaggio che riguarda ormai allo stesso modo candidati alla politica parlamentare e dei partiti, candidati alla politica della magistratura e delle sue elezioni corporative, autoeletti azionisti di un giornalismo portavoce e parassita insieme delle carriere partitiche e giudiziarie. L’ho detto: era scontato che la riforma dell’ordinamento penitenziario sarebbe stata affossata. E niente è più avvilente della puntualità delle cose scontate e miserabili. Non viene nemmeno voglia di distribuire responsabilità e colpe. C’era un copione, prevedeva anche un finale dal fiato sospeso prima del sipario calato a mozzare le speranze. Quando scrivo fiato sospeso lo immagino sulle brande delle celle, nel fumo del respiro all’ora d’aria invernale. Sta arrivando il gelo del Burian. Annunciato, scontato. Le teste tornino a seppellirsi sotto le coperte d’ordinanza. Carcere, le norme fondamentali del decreto congelato di Susanna Marietti* Il Manifesto, 24 febbraio 2018 Colpo di scena nella storia della tentata riforma carceraria. Al Consiglio dei ministri dello scorso giovedì ci si aspettava che si discutesse dell’unico decreto che aveva già ricevuto i pareri delle Commissioni competenti di Camera e Senato, per il quale i tempi di approvazione potevano essere vicinissimi anche nel caso - auspicabile - che il Governo non avesse voluto recepire del tutto tali pareri. Invece quel decreto non si è visto. Ne sono comparsi però altri tre, relativi a un numero inferiore di punti di delega, che a pochi giorni dal voto hanno appena cominciato il loro iter. Cosa ci perderemo se il primo decreto non vedrà una coraggiosa accelerazione? Uno dei contenuti di maggior rilievo riguarda l’allargamento dell’accesso alle misure alternative, non solo attraverso l’innalzamento del limite di pena per poter accedere all’affidamento in prova al servizio sociale ma anche attraverso la riforma dell’articolo 4bis della legge penitenziaria, quello che preclude l’accesso ai benefici sulla base del titolo di reato. Pensato per combattere fenomeni di criminalità organizzata, i quali necessitano di strumenti peculiari di contrasto, è stato nel tempo svuotato del suo significato con l’allargamento a reati di carattere individuale. Il decreto tenta di ripristinarne l’originaria intenzione. Ciò sempre che il Governo decida di non accettare le modifiche proposte dalla Commissione Giustizia del Senato, che svuoterebbero la riforma del 4bis. È vero, sono dieci giorni in più di tempo (la procedura li richiede nel caso non ci si adegui in toto ai pareri parlamentari), ma in questa circostanza vale senz’altro la pena di prevederli. Motivo in più per sbrigarsi. Altra norma fondamentale del decreto è quella che equipara la malattia psichica a quella fisica nel prevedere un meccanismo di sospensione della pena e di incompatibilità con il carcere anche per la prima. Inoltre, una persona cui un disagio psichico è sopravvenuto durante la detenzione (non raro, date le condizioni) avrebbe accesso ai servizi psichiatrici territoriali, piuttosto che essere internato in una struttura detentiva. Da segnalare anche come il medico smetterebbe di far parte del consiglio di disciplina, evitando così di precludere un rapporto di confidenzialità e fiducia con il paziente. Non meno importanti sono alcune dichiarazioni di principio contenute nel decreto, quali il richiamo alla dignità della persona detenuta o la citazione esplicita delle regole penitenziarie del Consiglio d’Europa nel sottolineare come i detenuti debbano trascorrere la maggior parte della giornata al di fuori delle aree di pernottamento. Questo e altro perderemo se non si avrà il coraggio di approvare il decreto. Non è chiaro invece cosa guadagneremo se incredibilmente anche i tre decreti esaminati ieri vedranno la luce. I testi non sono ancora pubblici. Ben vengano le norme specifiche per le carceri minorili, che speriamo improntate a quel modello a vocazione esclusivamente educativa che uscì dal tavolo 5 degli Stati Generali. Nel comunicato del Governo c’è uno strano richiamo al 41bis: ci auspichiamo che non si vogliano prevedere sezioni di carcere duro negli istituti per minori e giovani adulti. Ben venga anche un potenziamento del lavoro, senza mai però sconfinare in ipotesi di lavoro gratuito che rischiano di essere volontarie solo nella forma e che possono costituire una pericolosa concorrenza nel mondo del lavoro libero. Rispetto invece alla giustizia riparativa, che si mantenga sempre netto quel confine per cui la vittima non può mai costituire un attore dell’esecuzione penale. *Coordinatrice nazionale di Antigone Un’occasione irripetibile e uno strappo alla speranza di Maria Brucale* Il Dubbio, 24 febbraio 2018 Il tormentato iter della riforma dell’Ordinamento penitenziario che ha alimentato tante aspettative. Cinque anni sono passati dalla sentenza Torreggiani che ha condannato l’Italia per la violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti Umani: trattamenti inumani e degradanti alle persone detenute nelle nostre carceri, tortura. “La carcerazione - hanno affermato i giudici di Strasburgo - non fa perdere al detenuto il beneficio dei diritti sanciti dalla Convenzione. Al contrario, in alcuni casi, la persona incarcerata può avere bisogno di una maggiore tutela proprio per la vulnerabilità della sua situazione e per il fatto di trovarsi totalmente sotto la responsabilità dello Stato”. L’Italia ha risposto prevedendo la concessione ai detenuti, per un periodo di tempo determinato, del beneficio della liberazione anticipata con decurtazione della pena da espiare non dei consueti 45 giorni, bensì di 75. Non per i detenuti per reati di mafia o per altri reati individuati come “più gravi” dall’art. 4bis dell’ordinamento penitenziario, che sono stati ritenuti, con buona pace di tutti, o quasi, un po’ meno persone degli altri. Per loro una detenzione oltre i limiti di ogni decenza va bene tutto sommato perché sono veramente cattivi! Un successivo decreto ha stabilito risarcimenti in denaro, 8 euro al giorno, per i detenuti tornati in libertà che sono stati costretti a vivere in uno spazio inferiore a tre metri quadrati ed uno sconto sulla pena residua pari al 10 % per chi è ancora ristretto, sempre che non abbia presentato ricorso a Strasburgo. Così si è percepita una attenuazione del sovraffollamento nelle prigioni italiane determinata anche dalla concorrente dichiarazione di incostituzionalità della legge che parificava le pene detentive per lo spaccio di droghe pesanti e di droghe leggere. Il vaso di Pandora, però, era aperto e il re nudo Il ministro Orlando manifesta un proposito fermo: restituire vigore e dare finalmente attuazione all’articolo 27 della Costituzione, e dà vita agli Stati Generali sull’Esecuzione Penale, diciotto tavoli tematici di esperti negli specifici settori dell’esecuzione della pena con un compito, quello di riempire di contenuti tecnici e di norme concrete, attuabili, un progetto di modifica dell’Ordinamento Penitenziario, nel senso del ripristino della legalità: il carcere come estrema ratio, quando ogni altra misura risulti inadeguata; dare attuazione, nel modo più ampio possibile, alle misure alternative al carcere; una carcerazione sempre umana e dignitosa che abbia l’uomo al centro come titolare di diritti; l’eliminazione di ogni automatismo che precluda o limiti l’accesso di alcune categorie di reati e, dunque, alle persone che li hanno commessi, alle misure alternative al carcere e, quindi, alle aspirazioni di recupero e di libertà. Non appena approda alla Camera, la legge delega subisce il primo sbarramento ai suoi contenuti riformatori. L’eliminazione degli automatismi, con riguardo ai delitti puniti con l’ergastolo, non si applica ai reati di particolare gravità o allarme sociale, ovvero ai reati di mafia e terrorismo. Nulla di fatto e tutto da rifare per quel che riguarda l’ergastolo ostativo, perché è evidente che in carcere con l’ergastolo ostativo ci sono soltanto persone che hanno commesso reati di particolare gravità, di mafia e di terrorismo. Quindi l’ inciso di fatto menoma, toglie ogni senso sul punto, al progetto di delega. Ma c’è tanto altro da fare: lavoro, affettività, territorialità, salute, sovraffollamento, solo per citare alcune delle note più dolenti del pianeta dei reclusi. A luglio 2017, Orlando nomina le commissioni perché scrivano la riforma dell’ordinamento penitenziario, dell’ordinamento penitenziario minorile, delle misure di sicurezza, della giustizia riparativa. In fretta, prima possibile. A marzo scadrà la legislatura e le anime del giustizialismo esaspereranno le spinte oscurantiste. I testi vengono licenziati i primi di novembre ma soltanto il 22 dicembre viene varato il primo dei decreti dal Consiglio del ministri. Tutte le speranze si concentrano su quello. Si comprende con dolore che gran parte del progetto originario rimarrà in un cassetto. Non c’è tempo, non c’è volontà politica. Il Garante Nazionale delle persone private della libertà, dà il suo parere positivo con delle osservazioni. I testi passano alle Commissioni giustizia di Camera e Senato. Segnali di schizofrenia politica. Dal Senato arriva un alt ai propositi di cambiamento riguardo ai reati (diversi da mafia e terrorismo) inclusi nell’art. 4bis: ai magistrati di sorveglianza resti il compito di santificare l’esclusione dei detenuti per quei reati dai benefici trattamentali, costretti da uno schema legislativo che preclude loro di valutare i percorsi positivi delle persone ristrette e i loro sforzi di reinserimento. Il tempo passa. Rita Bernardini inizia uno sciopero della fame a oltranza. Aderiscono diecimila persone, per lo più detenute. Con un appello, oltre trecento giuristi chiedono con urgenza l’approvazione della riforma. Tra i primi firmatari, Aldo Masullo, Luigi Ferraioli, Giovanni Fiandaca. Il Consiglio dei ministri si riunisce inutilmente senza mettere il decreto all’ordine del giorno, fino al 22 febbraio. Tantissima attesa e la speranza tra le pareti dei reclusi. Certo, se il governo resisterà agli sbarramenti delle commissioni giustizia, ci vorranno ancora dieci giorni almeno per emanare la riforma e la nuova legislatura con le sue promesse giustizialiste è alle porte. Arrivano, confortanti, le promesse del ministro Orlando e le rassicurazioni del Presidente del Consiglio dei ministri, Gentiloni. E si spera, ancora. Fino alla notizia giunta in tarda mattinata: presi in esame, per la prima volta, i decreti su lavoro in carcere, minori e giustizia riparativa. Una occasione irripetibile perduta, al macero l’impegno di tanti nella sola direzione possibile, verso lo Stato di Diritto, anche per i detenuti, soprattutto per i detenuti, perché vulnerabili, perché presi in custodia dallo Stato. Uno strappo feroce alla speranza di chi attendeva da anni un cambiamento doveroso e possibile. Una cocente delusione per quanti hanno lavorato e lavoreranno ancora perché il carcere non sia un luogo di eliminazione ma di restituzione. *Commissione Carcere Camera Penale di Roma Slitta la riforma delle carceri, niente udienze penali il 13 e 14 marzo Il Sole 24 Ore, 24 febbraio 2018 Astensione nazionale dell’Unione delle Camere penali italiane. Due giornate di astensione dalle udienze a livello nazionale. Le ha indette l’Unione delle Camere penali italiane per il 13 ed il 14 marzo in segno di protesta contro il provvedimento adottato dal Consiglio dei Ministri, che rinvia la possibile entrata in vigore della riforma penitenziaria”. Facendo, in questo modo, spiegano i penalisti, “di fatto prevalere timori in tema di consenso elettorale rispetto alla concreta realizzazione delle condivise scelte valoriali; ponendo evidentemente a rischio la effettiva realizzazione di una riforma fondamentale nell’ambito della esecuzione penale e dell’ordinamento penitenziario che ha creato grandi e giustificate aspettative di adeguamento del sistema ai principi costituzionali”. Occorre dare - secondo l’Unione - “ulteriore appoggio e solidarietà alla lunga e civile protesta di Rita Bernardini e di oltre 10.000 detenuti che stanno attuando lo sciopero della fame”, di qui la necessità di “un’immediata presa di posizione dell’Avvocatura penale che unifichi e coordini gli sforzi di tutti coloro che vogliono l’attuazione della Riforma”. Di qui l’astensione, che sarà preceduta da una conferenza stampa a Roma, presso la sede dell’Ucpi, il 27 febbraio, alle ore 11. L’obiettivo è sollecitare il governo all’immediata approvazione del decreto, “affinché si riprenda una politica riformatrice di attuazione dei principi della Costituzione e della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Nel mirino delle critiche “una politica che calpesta i diritti fondamentali dei detenuti, negando i principi propri della Costituzione e dei Trattati Internazionali da tempo sottoscritti dall’Italia, mentre i dati statistici ministeriali sulla recidiva dimostrano come l’effettiva applicazione delle misure alternative, piuttosto che la indistinta carcerizzazione, costituisce un effettivo incremento della sicurezza di tutti i cittadini”. Intervista a Andrea Mascherin (Cnf): “possiamo ancora salvare la riforma del carcere” a cura di Valentina Stella* Il Dubbio, 24 febbraio 2018 “Dobbiamo essere ottimisti fino a prova contraria”. Il presidente del Consiglio nazionale forense, Andrea Mascherin, è stato intervistato ieri dalla giornalista di Radio Radicale, Lorenza D’Urso, per commentare lo slittamento dei decreti attuativi della riforma carceraria. “Inutile nascondere ha precisato Macherin - che la fase politica sta vivendo un momento delicato, siamo alle soglie delle elezioni, e sappiamo che il tema è sensibile dal punto di vista elettorale”. Da qui “l’auspicio - da persone che devono anche essere realistiche che si tratti di un passaggio strategico non destinato ad affossare la riforma o a stravolgerla ma semplicemente a far maturare i tempi elettorali e quindi a definire il pacchetto subito dopo le elezioni”. L’avvocato Mascherin è stato uno dei primi firmatari dell’appello degli oltre 300 giuristi che hanno sollecitato nei giorni scorsi il Governo proprio sul varo dei decreti. Presidente Mascherin, come giudica questa mancata approvazione: è una occasione ormai perduta? Dobbiamo essere ottimisti fino a prova contraria. Inutile nascondere che la fase politica sta vivendo un momento delicato, siamo alle soglie delle elezioni, e sappiamo che il tema è sensibile dal punto di vista elettorale, e può spostare degli equilibri sul piano del consenso. L’auspicio - da persone che devono anche essere realistiche - è che si tratti di un passaggio strategico non destinato ad affossare la riforma o a stravolgerla ma semplicemente a far maturare i tempi elettorali e quindi definire il pacchetto subito dopo le elezioni, cosa che è tecnicamente possibile. Tale scenario politico non è neppure fantascientifico. Se invece questo fosse un passaggio a vuoto, determinato dall’impossibilità all’interno del Consiglio dei ministri di trovare un accordo, allora il fatto sarebbe grave per quella che è l’idea dello Stato di Diritto che soprattutto noi avvocati abbiamo: una idea che si fonda su uno Stato rispettoso delle regole del Diritto, e tra queste c’è soprattutto la corretta interpretazione della funzione della pena che deve essere mirata al recupero dell’individuo. Dall’altro lato occorre anche riconoscere alla magistratura la necessaria discrezionalità che in questi campi non può essere negata. Le preclusioni e le concessioni automatiche, che penalizzano la professionalità del magistrato, non sono compatibili con lo Stato di Diritto, per cui ad ogni caso concreto va applicata una soluzione. Questo sia quando si tratta di una condanna ad una pena piuttosto che ad un’altra, sia quando si tratta di misure alternative, di recupero del detenuto. Allora o si ha fiducia nella magistratura e gli si danno gli strumenti, i mezzi e la discrezionalità da esercitare, oppure si crea un sistema burocratico che nulla ha a che fare con lo Stato di Diritto. Avvocato Mascherin non aveva dunque ragione l’esponente del Partito Radicale Rita Berdardini - che prosegue il suo sciopero della fame arrivato a 33 giorni - a lamentarsi delle tempistiche dell’iter della riforma che ci hanno condotto vicinissimi alle elezioni? Sono certo che quando noi parliamo del Consiglio dei ministri non abbiamo a che fare con persone incapaci di valutare l’importanza della riforma, la sua delicatezza e anche il peso scientifico e quello sociale sottolineato da Rita Bernardini, dai radicali e da altri intellettuali che si occupano della questione. Sicuramente siamo in mezzo a delle dinamiche politico-elettorali; quello che dice Rita Bernardini è assolutamente ovvio, ossia è sempre bene fare le cose per tempo e non arrivare mai all’ultimo momento. Questo è l’ideale. Poi, tuttavia, per me vincere la partita anche al novantacinquesimo su autogol va bene lo stesso. Cosa aspettarsi dal futuro per questa riforma? Per quel che è stata la mia esperienza di questa legislatura sono convinto che il ministro della Giustizia Orlando sia assolutamente convinto dell’opportunità di portare a casa il risultato finale, anche per quel che è stato l’impegno degli Stati Generale dell’Esecuzione Penale. Non decide solo lui, ci sono delle dinamiche politiche, e in questo momento non siamo in grado di dire quali dinamiche alla fine la spunteranno. Possiamo sperare che in qualche maniera ci sia una strategia per evitare di decidere prima delle elezioni. Se così fosse non sarebbe un percorso pienamente ortodosso, ma dovremmo essere sempre ragionevoli e quindi capire che alle volte le mediazioni, i tempi di una soluzione dipendono sicuramente anche dalle evidenze elettorali. Speriamo che sia così, se non lo fosse sarebbe una grande delusione e un tradimento di quella democrazia voluta dalla nostra Costituzione che non è ancora realizzata per molti aspetti. Non lo è sicuramente per quel che riguarda il sistema di espiazione della pena e non sarebbe certamente un bel modo di ricordare i settanta anni della Costituzione fare una scelta che sarebbe un tradimento dei principi costituzionali. *Questa è la trascrizione dell’intervista all’avvocato Andrea Mascherin, presidente del Consiglio Nazionale Forense, rilasciata alla giornalista di Radio Radicale Lorenza D’Urso, per commentare la mancata approvazione della riforma carceraria. Che fine hanno fatto i braccialetti elettronici per i detenuti? E se ci affidassimo ad Amazon... di Carlo Alberto Romano* Il Dubbio, 24 febbraio 2018 Davvero unico il nostro Paese, capace di trovare schieramenti divisivi, peraltro con argomentazioni a sostegno assolutamente rispettabili, anche su temi apparentemente innocui, quali l’utilizzo di un braccialetto. La vicenda di questi giorni è nota: Amazon progetta di far indossare ai propri addetti un braccialetto che, se ho capito bene, perché sul punto la dinamica diffusiva della notizia temo abbia prodotto una serie di rimandi descrittivi non sempre vicini alla realtà, grazie a un sistema di controllo incrociato consentirebbe di rilevare la prossimità fra la posizione del lavoratore e la merce da recuperare in magazzino, evidenziando in modo percepibile al lavoratore stesso l’eventuale errore di posizione; il vantaggio per la produttività pare evidente, il mantenimento della tutela dei diritti del lavoratore un po’ meno e i sindacati dovranno vigilare affinché in Amazon l’eventuale utilizzo di un ausilio tecnologico non si traduca in una azione discriminatoria e selettiva. Cambiando decisamente scenario ricordiamo come l’Unione delle Camere Penali abbia intrapreso una pluriennale denuncia e opera di sensibilizzazione sulla mancata applicazione della normativa vigente, causata dal numero esiguo, ma sarebbe meglio dire irrisorio, di dispositivi di controllo elettronici disponibili; situazione che non consente ai detenuti di essere scarcerati come invece la norma prevede laddove, appunto, il carcere possa essere sostituito con il cd. braccialetto elettronico. La denuncia è condivisibile, e lo stesso Governo per bocca del sottosegretario alla Giustizia Ferri si è impegnato a individuare un nuovo partner capace di garantire al sistema penitenziario un utilizzo dei braccialetti coerente con il fabbisogno. Il fatto che il numero dei detenuti abbia purtroppo ricominciato a crescere, terminati gli effetti deflattivi conseguenti ai provvedimenti post sentenze Cedu, e la memoria storica di quanto accaduto in questi 17 anni in cui pure la norma era vigente ma il numero dei braccialetti disponibili invece era del tutto insufficiente a consentirne una adeguata applicazione, suscita qualche preoccupazione. Staremo a vedere, auspicando che il nuovo gestore, che dovrebbe garantire la messa in esercizio di 1000 braccialetti al mese per tre anni, sappia mantenere le promesse. Se davvero l’uso dei braccialetti si espandesse, essi potrebbero essere positivamente utilizzati non solo per consentire una diversa gestione delle misure cautelari ma anche per una concessione meno timorosa delle misure alternative e per agevolare l’accesso al lavoro all’esterno dei detenuti. E il futuro della esecuzione penale in Italia, forse, si avvicinerebbe. Ora, scherzando un poco, la proposta nasce quasi spontanea… e se dessimo ad Amazon l’incarico di occuparsi anche dei detenuti? Parrebbero tecnologicamente in grado di farlo, senza grossi problemi e probabilmente a costi concorrenziali. Di sicuro eviterei di considerare l’ipotesi contraria, cioè quella di affidare i lavoratori Amazon al Ministero della Giustizia; non tanto e non solo per gli inevitabili aspetti di stigma, ma soprattutto perché, per lavorare, dovrebbero mettersi in lista d’attesa - braccialetti liberi… *Docente di criminologia penitenziaria, Università degli studi di Brescia Intercettazioni, il ministero cancella il “metodo Falcone” di Roberto Scarpinato* Il Fatto Quotidiano, 24 febbraio 2018 Uno degli aspetti più ambigui ed insidiosi della nuova disciplina delle intercettazioni introdotta con il decreto legislativo n. 216 del 2017, riguarda la ridefinizione dei rapporti tra pubblico ministero e organi di polizia nella selezione delle conversazioni rilevanti per le indagini. L’attuale normativa prevede che il pubblico ministero può procedere all’ascolto personalmente (articolo 267, comma 4, c.p.p.) oppure avvalendosi, come sua longa manus, di un ufficiale della polizia giudiziaria al quale l’articolo 268 c.p.p. attribuisce il compito meramente esecutivo di trascrivere anche sommariamente il contenuto delle comunicazioni intercettate, senza operare alcuna selezione. Tali trascrizioni, in gergo definite brogliacci, vengono quindi esaminate dal pubblico ministero al quale è attribuito dalla legge il potere di individuare le comunicazioni rilevanti per le indagini. La nuova disciplina, che entrerà in vigore il prossimo 25 luglio, attribuisce invece agli ufficiali di polizia giudiziaria il potere di selezionare le comunicazioni rilevanti, stabilendo per essi il divieto di trascrivere, anche in modo sommario, le comunicazioni o conversazioni a loro giudizio irrilevanti ai fini delle indagini, sia per l’oggetto che per i soggetti coinvolti, nonché di quelle sempre a loro giudizio parimenti non rilevanti, che riguardano dati personali definiti sensibili dalla legge. L’articolo 268 bis c.p.p. di nuovo conio stabilisce inoltre che gli ufficiali di polizia giudiziaria non solo devono omettere di trascrivere le conversazioni da essi ritenute irrilevanti, ma devono altresì omettere in tali casi qualsiasi indicazione sull’identità delle persone dialoganti e sull’oggetto delle loro conversazioni. Nel verbale delle operazioni devono essere indicate soltanto la data, l’ora e il dispositivo su cui la registrazione è intervenuta. Per evitare che a causa di tale modalità di trascrizione delle conversazioni intercettate, che determina il totale oscuramento di quelle ritenute irrilevanti dalle forze di polizia, il pm sia privato di ogni potere di autonoma e successiva valutazione sulla rilevanza o meno delle predette conversazioni, un altro articolo della nuova disciplina (articolo 267, comma 4, c.p.p. come modificato), prevede che gli ufficiali di polizia giudiziaria devono provvedere a trasmettere al pubblico ministero “annotazioni” contenenti una sintesi delle conversazioni da essi non ritenute rilevanti e la cui trascrizione è stata omessa. In tal modo viene conseguito un triplice scopo: 1) mantenere integro il ruolo di dominus del potere di indagine e di valutazione del materiale probatorio esclusivamente in capo al pubblico ministero, il quale sulla base di tali annotazioni delle forze di polizia viene messo in grado di conoscere anche il contenuto sommario delle conversazioni di cui è stata omessa la trascrizione perché ritenute irrilevanti dalla polizia giudiziaria, operando eventualmente una valutazione difforme di rilevanza; 2) garantire ai difensori, ai quali pure è attribuito il diritto di esaminare le annotazioni, di individuare eventuali conversazioni scartate dalla polizia giudiziaria ed invece aventi a loro giudizio rilevanza processuale per i propri assistititi, chiedendone così la successiva trascrizione al giudice; 3) garantire il diritto alla privacy dei terzi o degli stessi indagati in quanto la nuova normativa prevede che le “annotazioni” sul contenuto delle conversazioni ritenute irrilevanti siano coperte dal segreto e custodite presso un archivio riservato del pubblico ministero unitamente alle registrazioni delle intercettazioni a cui afferiscono (articolo 89 bis delle norme di attuazione), senza che i difensori possano estrarne copia essendo loro attribuito solo il diritto di esaminarle, così come ad essi è attribuito solo il diritto di ascoltare le conversazioni intercettate ritenute irrilevanti ma non il diritto di avere copia delle registrazioni. A causa dell’ambigua formulazione della norma sulle annotazioni, il ministero della Giustizia nella relazione illustrativa del decreto legislativo n. 216 del 2017, ha invece fornito l’indicazione che tale norma deve essere interpretata nel senso che gli ufficiali di polizia giudiziaria non hanno l’obbligo di informare sistematicamente il pubblico ministero con apposite annotazioni sul contenuto di tutte le conversazioni da essi ritenute irrilevanti e dunque radicalmente omissate, ma solo nei casi in cui essi nutrano il dubbio se si tratti di conversazioni rilevanti o meno e quindi se procedere alla loro trascrizione. Tale interpretazione riduttiva sposta l’asse del potere selettivo delle conversazioni rilevanti per le indagini a favore delle forze di polizia, che così vengono abilitate a stabilire autonomamente quali tra quelle da essi ritenute irrilevanti siano meritevoli di essere sottoposte o meno al vaglio del pubblico ministero. Si tratta di un’interpretazione che oltre a non avere una base testuale nella lettera della norma, non appare costituzionalmente orientata ponendosi in contrasto con i principi costituzionali di cui agli articoli 112, 104, 24 e 111 che sanciscono rispettivamente l’obbligatorietà dell’azione penale, l’indipendenza e autonomia della magistratura da ogni altro potere, l’inviolabilità del diritto alla difesa in ogni stato e grado del procedimento, l’attuazione della giurisdizione mediante il giusto processo: principi tutti che verrebbero sacrificati sull’altare del diritto alla privacy di cui all’art. 15, con un evidente sbilanciamento nel contemperamento dei valori che appare tanto più irragionevole ove si consideri che il regime di segretezza assicurato alle annotazioni è pienamente idoneo a garantire pure quest’ultimo diritto. Ove venisse seguita l’indicazione ministeriale il pubblico ministero verrebbe infatti privato, a favore delle forze di polizia, della pienezza del potere-dovere di operare una autonoma valutazione di tutte le risultanze processuali acquisite, nessuna esclusa, ivi comprese quelle a favore della persona sottoposta ad indagini, obbligo quest’ultimo imposto espressamente dall’articolo 358 del c.p.p. solo a carico del pubblico ministero e non anche a carico delle forze di polizia. Verrebbe inoltre pregiudicata l’effettività del diritto di difesa, essendo evidente che i difensori in assenza di annotazioni che riguardino tutte le conversazioni ritenute irrilevanti e dunque non trascritte, verrebbero privati di una indispensabile bussola per orientarsi nell’individuare quelle per essi rilevanti e dunque da trascrivere. In assenza delle annotazioni, l’unica alternativa, impraticabile, sarebbe quella di procedere personalmente al riascolto di migliaia di ore di intercettazioni a volte protrattesi per lunghi mesi su varie decine di soggetti. Purtroppo l’interpretazione riduttiva del ministero è stata fatta propria da alcuni procuratori della Repubblica i quali hanno già emanato direttive agli organi di polizia e ai magistrati dei loro uffici con ricadute sul piano degli equilibri generali che si profilano tanti più gravi quanto più tale interpretazione dovesse divenire maggioritaria. Poiché, come accennato, la nuova normativa entrerà in vigore solo il prossimo 25 luglio, è bene assumere consapevolezza che sul terreno dell’interpretazione e dell’applica zione pratica della nuova normativa si giocherà nei prossimi mesi una partita di grande rilevanza istituzionale il cui esito è destinato ad incidere anche sulla latitudine dei poteri di indagine e di acquisizione delle prove del pubblico ministero nel settore del contrasto alla criminalità mafiosa e terroristica. Infatti in tale strategico settore, la rilevanza delle conversazioni intercettate ai fini delle indagini non viene valutata solo in relazione all’oggetto e ai soggetti coinvolti nel singolo procedimento penale nel quale sono disposte le intercettazioni, ma anche con riferimento ad altri procedimenti penali pendenti presso la stessa Procura della Repubblica e in tutte le altre procure italiane sedi di direzioni distrettuali antimafia e di dipartimenti antiterrorismo. Conversazioni ritenute irrilevanti in un procedimento instaurato per traffico di droga presso la Procura di Milano possono rivelarsi rilevantissime per un procedimento per omicidio alla Procura di Palermo e per un procedimento per misure di prevenzione patrimoniali alla Procura antimafia di Torino. Gli esempi concreti tratti dalla quotidianità della prassi operativa potrebbero essere migliaia. L’obbligo della circolazione delle informazioni, eredità preziosa del metodo Falcone, finalizzato ad evitare il pericolo di dispersione di risultanze processuali irrilevanti nel procedimento in cui sono state acquisite, ma rilevanti in altri procedimenti, è sancito dal l’articolo 102 del decreto legislativo n. 159 del 2011 (codice antimafia) e viene realizzato mediante l’i n s e r i me n t o costante dei flussi informatici di tutte le indagini concernenti reati in materia di mafia nelle banche dati logiche delle singole procure distrettuali antimafia, consultabili non solo dai magistrati di quelle procure ma anche dal Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo nell’ambito della banca dati nazionale condivisa gestita dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo quale prezioso supporto per il proficuo svolgimento della sua funzione di coordinamento. Tale metodo di lavoro si è reso sinora possibile grazie all’attuale disciplina normativa delle intercettazioni che ha consentito di popolare costantemente le banche dati con le trascrizioni ed i brogliacci di tutte le intercettazioni eseguite nelle varie procure distrettuali italiane, trascrizioni che riguardano tutte le conversazioni sia quelle immediatamente rilevanti per il procedimento in cui sono state disposte sia quelle irrilevanti per quel procedimento ma potenzialmente rilevanti per altri procedimenti. A seguito della entrata in vigore della nuova disciplina normativa sulle intercettazioni, tale metodo di lavoro potrà essere mantenuto solo se gli ufficiali di polizia giudiziaria oltre a trascrivere le conversazioni da essi ritenute rilevanti con esclusivo riferimento al procedimento in cui sono state disposte, redigeranno sistematicamente annotazioni per tutte le altre conversazioni da essi ritenute irrilevanti in quel procedimento ma che potrebbero avere grande rilevanza in altri procedimenti di cui essi non possono e non debbono avere cognizione. Se invece dovesse affermarsi l’interpretazione secondo cui gli ufficiali di polizia giudiziaria possono omettere completamente non solo di trascrivere ma anche di annotare per il successivo controllo da parte del pubblico ministero, tutte o gran parte delle conversazioni da essi ritenute non rilevanti per quel singolo procedimento, si verificherebbe la dispersione di un enorme patrimonio informativo di cui non resterebbe traccia documentale, con gravi ricadute negative per l’efficacia del contrasto alla mafia ed al terrorismo. *Procuratore generale a Palermo Corte dei conti. “Noi giudici-sentinella, vigiliamo su chi maneggia il denaro pubblico” di Massimiliano Peggio La Stampa, 24 febbraio 2018 “In un momento storico in cui i diritti fondamentali che si ritenevano acquisiti potrebbero essere rimessi in discussione, i giudici hanno un ruolo essenziale. La Corte dei Conti avverte in pieno la crucialità della sua missione per far rispettare la pretesa della comunità che le risorse pubbliche siano gestite nel modo migliore così da assicurare l’effettività delle prestazioni fondamentali”. Suonano solenni le parole del presidente della sezione giurisdizionale della Corte dei Conti del Piemonte, Cinthia Pinotti, scelte con cura per inaugurare l’anno giudiziario della magistratura contabile. E suonano solenni malgrado le liturgie della cerimonia, frutto di una tradizione giuridica ormai datata, legata alla storia d’Italia, quando nel 1862 si insediò a Torino la prima Corte dei Conti del Regno. Ma oggi come allora la Corte vigila sul buon uso dei soldi pubblici, spulciando i bilanci delle amministrazioni e inseguendo sprechi. Materie ostiche, dove non è facile maneggiare termini e funzioni per chi non è un addetto ai lavori. Tra i più importi il “giudizio di conto”, i raggi x dei bilanci. “Il giudizio di conto - ha affermato Pinotti - è essenziale in quanto assicura che un giudice controlli d’ufficio la regolarità dell’operato di chi maneggia soldi pubblici”. Ma il giudizio, ha rimarcato, “deve poi evolversi per consentire un controllo su nuove forme di illecito che non sarebbero accertabili né in sede penale né in altre sedi”. Le condanne sono triplicate nel 2017 rispetto al 2016. “Il primo anno di applicazione del codice di giustizia contabile - ha osservato - è positivo, anche se non si possono tacere alcuni aspetti critici”. Fra i quali la presidente ha citato anche il fatto che “la sezione ha operato con solo quattro magistrati a tempo pieno e uno a tempo parziale”. Al di là delle difficoltà di organico e di procedura, scrivere in sentenza che vanno restituiti dei soldi, non vuole dire che automaticamente saranno incassati. E un percorso ad ostacoli, dove le amministrazioni pubbliche spesso inciampano. Le sentenze emesse nel 2017 dalla Corte dei Conti hanno previsto di riportare oltre 13 milioni di euro nelle casse pubbliche. Un incremento del 146% rispetto al 2016. Ma è in questi numeri che si può percepire il malcostume delle pubbliche amministrazioni piemontesi, che si sono macchiate di vari illeciti con riflessi contabili: appalti “conseguiti a seguito del pagamento di tangenti o procedure non corrette”, convenzioni per sevizi sanitari prive di requisiti, incarichi affidati a funzionari senza autorizzazione, distrazioni di fondi nazionali e europei. Tra le sentenze del 2017 citate nella relazione del presidente, compare quella relativa “alle gravi illegittimità accertate nello svolgimento di gare pubbliche indette dal consorzio La Venaria e dalla Regione Piemonte, a seguito di reati tra i quali la turbativa”. I giudici hanno ritenuto “sussistente il danno alla concorrenza a fronte di procedure irrimediabilmente inquinate dalla violazione di norme imperative”. “I risultati raggiunti nel 2017 - ha detto ancora la presidente - sono significativi non solo in termini numerici ma soprattutto qualitativi, specie se si assume come indicatore di effettività ed efficacia del servizio di giustizia la sua funzione di prevenzione oltre che di deterrenza”. I magistrati urlano all’allarme corruzione di Filippo Facci Libero, 24 febbraio 2018 Niente da fare, in questa campagna elettorale il fattore giustizia sembra latitante (niente colpi di scena o improvvise e clamorose inchieste) e allora si tenta di ridestarlo col massaggio cardiaco, con iniezioni mediatiche di adrenalina, addirittura con interviste a Nino Di Matteo e Piercamillo Davigo: ma niente da fare, è come se non ci credesse più nessuno. Soprattutto, non c’è nessuno che ne parli: paiono ben altri i temi in grado di far cambiare idea a quella percentuale di indecisi (esigua, in realtà) che può ancora fare la differenza. E questi temi non sono propriamente l’inchiesta di Napoli sulla spazzatura, o le “operazioni sotto copertura” auspicate da Davigo per scoprire i corruttori, o il pizzo che Fininvest più di trent’anni fa pagò alla mafia siciliana (come da prassi, purtroppo) per evitare che i picciotti dessero fuoco alla Standa e ai ripetitori televisivi. Mai come stavolta si vota col portafoglio e con il fattore sicurezza: ed ecco che paiono allora più dirompenti - a proposito di giustizia - i 34 milioni di euro che lo Stato ha dovuto pagare nel 2017 per gli errori dei giudici, o le 1.013 persone arrestate ingiustamente nel corso dello stesso anno. La giustizia che sembra più interessare l’elettore, ormai, è questa, che assieme ad altri disastri ormai noti - i tempi dei procedimenti in primis - sono finiti da tempo in un unico calderone che l’opinione pubblica, ormai, assomma a tutte le altre inefficiente dello Stato e della pubblica amministrazione. L’intervista - Il resto è surrealismo. C’è il magistrato siciliano Antonino Di Matteo che è stato intervistato da El Pais (subito ripreso da Repubblica) ed è perfettamente normale che il quotidiano spagnolo non sappia che trattasi di magistrato sostenuto dalla peggiore antimafia, uno che va raccogliendo solo insuccessi dopo infinite sentenze che hanno smontato la cervellotica tesi della “trattativa”. Figurati se al Pais sanno che Di Matteo è corresponsabile del credito concesso per 15 anni a Vincenzo Scarantino, falso pentito che, dapprima, fece condannare svariati innocenti nei processi per la strage di via D’Amelio che uccise Paolo Borsellino. Sono cose che non ricordano neanche i giornalisti italiani, spesso. Ma è un magistrato esposto, graditissimo alla deriva grillina - tanto da essere informalmente indicato come futuro Guardasigilli - e allora per l’intervista è perfetto, e così può ricordare - dal niente che Silvio Berlusconi “ha sovvenzionato la mafia per vent’anni”, frase a effetto che trasforma in finanziatore della mafia chiunque abbia pagato il pizzo a Cosa Nostra o comprato qualche bustina di cocaina negli anni Novanta. Il grillino Alessandro Di Battista, il 9 febbraio scorso, aveva detto casualmente la stessa cosa, aggravata: “Berlusconi ha pagato la mafia, dovrebbe stare in carcere”. Di Matteo m compenso ha aggiunto che in Italia “si vuole dimostrare che mafia e corruzione non sono il problema principale della nostra democrazia”. Cosa che, in effetti, anche la stragrande maggioranza degli italiani non sembra credere. “Nelle carceri italiane ci sono più di 60.000 detenuti, ma i condannati per corruzione non arrivano a 30”, lamenta ancora Di Matteo. Un bilancio di cui il magistrato, in ogni caso, dovrebbe chiedere conto ai suoi colleghi. Fine dell’intervista, che scivola come acqua nel lavandino: a parte la ripresa di Repubblica - che col Pais ha un link storico non se n’è accorto nessuno o quasi. Sotto copertura - Allora Repubblica ci riprova con Piercamillo Davigo, tutt’altra pasta di magistrato (ex pm di Mani pulite, ex presidente dell’Anni, presidente di sezione della Cassazione) che parla a sua volta di corruzione e toma su un cavallo di battaglia caro a lui e a Marco Travaglio: le operazioni sotto copertura da estendere anche ai reati di corruzione e non solo a quelli di droga, armi, mafia, terrorismo eccetera. Un ufficiale di polizia giudiziaria, cioè, dovrebbe poter corrompere qualcuno al fine di arrestarlo, insomma, dovrebbe creare un reato per poi punirlo: uno schema che non piace neppure alla maggioranza dei giuristi e dei magistrati. Ma a Davigo sì: “Non ho dubbi, se l’Italia vuole uscire dalla corruzione deve ammetterle anche per questi reati”. Non solo: servono riduzioni di pena per chi collabora, fino all’impunità. Perché chi collabora realmente diventa onesto per necessità. Ma volete che porti ancora soldi a un funzionario pubblico che una volta arrestato fa l’elenco di quelli che l’hanno pagato?”. Interessante: seguirà dibattito. O forse no, l’impressione è che non seguirà alcun dibatti to. Resta roba da addetti ai lavori, da malati come noi giornalisti, o come Marco Travaglio che alla trovata degli agenti provocatori, tempo fa, aggiunse che chiunque partecipasse a un appalto dovrebbe mettere a disposizione anche tutte le proprie conversazioni telefoniche e dunque quelle dei suoi amici e familiari. Molto bello. Molto interessante. Resta che a dispetto di ogni sforzo, in questa campagna elettorale, la giustizia non riesce a entrare dalla porta principale e, neppure, disperatamente, dalla finestra. E sta per fare molto freddo. Platì, il comune commissariato a vita di Alessia Candito La Repubblica, 24 febbraio 2018 Dopo la ‘ndrangheta, la rivolta dei consiglieri di maggioranza che hanno voltato le spalle al sindaco. È durato meno di due anni il mandato della Giunta e del Consiglio comunale di Platì, piccolo paese della provincia di Reggio Calabria considerato roccaforte storica dei clan. Arrampicato sulle pendici joniche dell’Aspromonte, casa delle più potenti famiglie di ‘ndrangheta della Locride, nel giugno del 2016 il paese era riuscito a darsi un sindaco dopo 10 anni di commissariamento per mafia. Ma adesso nel palazzo comunale sono tornati i prefetti. Questa volta però la ‘ndrangheta non c’entra. A condannare Platì ad una nuova stagione di gestione commissariale sono stati i consiglieri di maggioranza, che hanno voltato le spalle al sindaco Rosario Sergi. In quattro nelle scorse settimane si sono dimessi, dimezzando il consiglio comunale già mutilato dall’abbandono in blocco dei consiglieri di opposizione, arrivato subito dopo le elezioni. Il passato - All’epoca, la minoranza guidata dalla candidata sindaca sconfitta Ilaria Mittiga non aveva fatto passare neanche 24 ore dalla proclamazione del nuovo sindaco per dimettersi in blocco. Lo stesso avevano fatto tutti gli altri candidati della lista chiamati in surroga. “Non ci sono le condizioni per lavorare insieme” aveva spiegato ai tempi Mittiga. Sebbene la commissione parlamentare antimafia avesse da subito acceso un faro su Sergi, a causa di “rapporti di affinità” con il clan Barbaro, la sua sfidante non aveva mai apertamente parlato di ‘ndrangheta. “So che il mio modo di amministrare sarebbe stato libero e trasparente, ma non ho elementi per parlare degli altri” si era limitata a dire. I veleni nella maggioranza - Due anni dopo, ad abbandonare Sergi è stata la sua stessa maggioranza. Ufficialmente, per “motivi personali”. Ufficiosamente, si dice in paese, per “insanabili controversie”. Orfano della sua maggioranza, Sergi sperava di poter continuare la propria esperienza amministrativa. Per il 28 febbraio, aveva già convocato i “reduci” del Consiglio Comunale per procedere alla surroga dei dimissionari, ma la Prefettura ha bloccato tutto reputando assolutamente insufficiente la presenza di tre soli consiglieri più il sindaco per raggiungere il numero legale. L’ormai ex primo cittadino non ha però intenzione di fare ricorso. “Al di là del fatto tecnico-legislativo - ha detto alla stampa locale - rimane il fatto politico innegabile, ovvero che i cittadini sono stati traditi due volte: prima dalla minoranza consiliare, i cui esponenti si dimisero subito dopo le elezioni, e poi dai quattro consiglieri dimissionari dei giorni scorsi”. Questa volta, Sergi non ce l’ha con lo Stato, in passato accusato di eccessiva durezza nei confronti di Platì. Anzi, ha parole di miele nei confronti della Prefettura. “Devo ringraziare tutti, dallo Stato centrale all’ufficio del Governo. Stavolta - afferma - non è colpa loro. Purtroppo alcuni platiesi hanno deciso in autonomia che questa esperienza amministrativa dovesse finire”. L’aspirante sindaco - Non canta vittoria, ma non riesce a nascondere una certa soddisfazione Anna Rita Leonardi, giovane militante del Pd calabrese, presentata da Renzi alla Leopolda come futuro sindaco di Platì, ma sei mesi dopo incapace di chiudere le liste per presentarsi. A causa del boicottaggio del suo stesso partito, ha sempre dichiarato lei. “Per quasi due anni - ha scritto ieri in una nota - ho atteso in silenzio, sopportando il peso di chi sa di avere ragione. E non starò qui a dirvi che avevo ragione io perché sono i fatti ad averlo dimostrato. Non starò qui a gioire perché, per l’ennesima volta, un popolo è stato preso in giro da “certa politica”. Non sarò io a dirvi tutto questo. Perché - annuncia - lo ha fatto la storia per me”. In realtà, al momento non c’è nulla di chiaro. Per i prossimi giorni, l’ex sindaco Sergi ha annunciato una conferenza stampa per svelare i reali motivi delle dimissioni dei suoi ex consiglieri. I diretti interessati invece tacciono. Nel frattempo, in Comune è tornato il commissario. No a impugnazioni personali. Solo gli avvocati possono fare ricorso in Cassazione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 24 febbraio 2018 No al ricorso presentato personalmente dalla parte. Lo vieta la riforma del processo penale approvata con la legge n. 103 del 2017, in vigore dall’agosto scorso, e lo confermano le Sezioni unite penali della Cassazione con la sentenza n. 8914 depositata ieri. È così legittima la decisione del tribunale di Caltanissetta che, in veste di giudice del riesame, aveva respinto la richiesta di revoca o sostituzione degli arresti domiciliari contro la quale l’interessato aveva presentato personalmente l’impugnazione. La Corte, tra l’altro, ritiene che l’abolizione del ricorso personale da parte dell’imputato non ha problemi di legittimità costituzionale e neppure di compatibilità con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come invece sosteneva l’ordinanza di rinvio. Infatti la necessità della rappresentanza tecnica per l’esercizio del diritto di impugnazione in Cassazione costituisce principio valido per le caratteristiche del giudizio di legittimità, un’esigenza ormai riconosciuta dalla stessa Corte costituzionale. Sin dal 1988, così, con la sentenza n. 588, la Consulta ha sottolineato le particolarità del giudizio in Cassazione, ritenendo che fossero “più che sufficienti a giustificare l’esigenza di una maggiore qualificazione culturale del difensore, attesa la delicatezza dei problemi giuridici che vanno discussi in quella sede”. È vero poi che dalla giurisprudenza della Corte dei diritti dell’uomo emerge sì che la partecipazione e la difesa personale dell’imputato sono principi cardine del processo penale, ma ne è tuttavia ammessa una gradazione a seconda della fase processuale. E la Cassazione stessa si è soffermata a chiarire anche nel recente passato che l’esercizio del potere di difesa non può essere affidato all’imputato, neppure quando questo è avvocato per evitare che il coinvolgimento emotivo possa compromettere l’efficacia delle azioni di tutela. Nel sistema del diritto processuale penale, del resto, il legislatore ha delineato un modello di esercizio del diritto di difesa differenziato in rapporto alle varie fasi e tipologie di processo. La stessa partecipazione personale dell’imputato deve essere considerata un diritto costituzionalmente tutelato solo in quei procedimenti nei quali viene trattato il merito dell’accusa. Napoli: terza città in Italia per gli errori giudiziari di Titti Beneduce Corriere del Mezzogiorno, 24 febbraio 2018 Nel solo 2017 i risarcimenti ammontano a 2,87 milioni di euro. Napoli è al terzo posto in Italia per errori giudiziari, dopo Catanzaro e Roma; a ruota segue Bari. I dati dei ministeri della Giustizia e dell’Economia, diffusi in questi giorni, sono allarmanti: nel 2017 gli errori giudiziari e le ingiuste detenzioni sono costati allo Stato quasi 37,7 milioni di euro nel 2017, con 1.013 casi di persone arrestate per sbaglio. Napoli è al terzo posto per gli errori giudiziari, dopo Catanzaro e Roma; a ruota segue Bari. I dati dei ministeri della Giustizia e dell’Economia, riportati dall’AdnKronos, sono allarmanti: nel 2017 gli errori giudiziari e le ingiuste detenzioni sono costati allo Stato quasi 37,7 milioni di euro nel 2017, con 1.013 casi di persone arrestate per sbaglio. Catanzaro con 158 casi guida la classifica anche dei risarcimenti - quasi 8,9 milioni, seconda Roma con 137 vittime e poco meno di 4 milioni versati. Il fenomeno prevale al Sud, con 8 città nella top 10; a Napoli ci sono stati 113 casi, per un totale di 2,87 milioni di risarcimento. A Bari gli indennizzi sono più cospicui (ammontano a oltre 3,5 milioni), ma il numero delle persone vittime di sentenze sbagliate è inferiore: sono 94. A raccogliere e divulgare i casi è il sito errorigiudiziari.com, ideato da due giornalisti. Sono 25, per esempio, le vicende che riguardano la provincia di Napoli, più o meno recenti. I protagonisti sono svariati: appartenenti alle forze di polizia, professionisti, operai, politici, esponenti del mondo dello spettacolo. Diversi anche i reati di cui erano stati accusati: dall’omicidio all’associazione camorristica, dal traffico di droga alla rapina. Storie molto diverse che però hanno un elemento in comune: l’errore nelle indagini, che spesso ha avuto come conseguenza l’arresto e la detenzione. Un errore dovuto a volte a una trascrizione sciatta delle intercettazioni, a volte a una testimonianza fuorviante, altre volte ancora a un’accusa volutamente falsa. Il caso di Gerardo De Sapio, ex brigadiere dei carabinieri di Avellino, per molti anni impegnato a contrastare il crimine in caserme di prima linea come quella di Castello di Cisterna, è emblematico. Arrestato nel 2008 per favoreggiamento del clan Genovese, trascorre 19 giorni nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere. Il Riesame annulla poi l’ordinanza di custodia cautelare e l’anno successivo, al termine del processo con rito abbreviato, il gup Nicola Miraglia del Giudice lo assolve, come del resto aveva chiesto lo stesso pm ammettendo di avere commesso un errore nelle indagini. Altra storia amara è quella di Gioia Scola, attrice che nel 1995, quando venne arrestata per traffico di droga, aveva davanti una carriera brillante. Un pentito l’aveva accusata di essere complice del trafficante Vincenzo Buondonno, con cui effettivamente aveva avuto una breve storia, ma che aveva poi denunciato per avere usato la sua carta di credito senza autorizzazione. I tempi di definizione del processo sono lunghissimi. Gli atti passano da Napoli a Roma, la sentenza definitiva di assoluzione arriva 12 anni dopo. Della lentezza dei processi ha fatto le spese anche Clemente Mastella, attuale sindaco di Benevento, che nel 2008, quando era ministro della Giustizia, fu accusato di tentativo di concussione. Le sue dimissioni provocarono la caduta del governo presieduto da Romano Prodi. Le contestazioni si riferivano a presunte pressioni per alcune nomine. Fra queste anche quella ipotizzata su Antonio Bassolino, all’epoca presidente della Regione, per una nomina all’Asl di Benevento. Pressione smentita dallo stesso Bassolino, ascoltato in aula come teste. L’assoluzione dalle accuse è arrivata lo scorso settembre, dopo nove anni. Forlì: inaugurazione del nuovo Laboratorio “Manolibera” in carcere forlitoday.it, 24 febbraio 2018 Ieri il taglio del nastro per i nuovi spazi all’interno della Casa Circondariale di Forlì che ospita il laboratorio della cartiera Manolibera dopo il trasferimento in seguito al cedimento del tetto, consentendo così la ripresa dell’attività produttiva in tempi brevi. Il Laboratorio “Manolibera”, con la produzione di carta da riciclo artigianale, si è consolidato come progetto sostenibile e mirato alla crescita professionale ed occupazionale dei detenuti. L’esperienza nasce nel 2011 dalla progettazione congiunta di Techne, Hera e Casa Circondariale, partenariato che si è ampliato nel tempo coinvolgendo la Cooperativa Cils, la legatoria Berti, l’Ispettorato Territoriale del Lavoro di Ravenna-Forlì-Cesena-sede di Forlì, la Provincia di Forlì Cesena, la Camera di Commercio della Romagna - Forlì-Cesena e Rimini, il Comune di Forlì, l’Unione dei Comuni Valle del Savio e l’Unione Rubicone e Mare. Il nuovo partenariato, che ha voluto e fortemente sostenuto la realizzazione del Laboratorio, ha rinnovato nel tempo Protocolli di intesa a sostegno dell’attività produttiva (il più recente siglato il 2 febbraio scorso) secondo il quale ciascun partner si impegna, a vario titolo, allo sviluppo ed alla crescita del laboratorio stesso. Al taglio del nastro, a fianco di Palma Mercurio, direttrice della Casa Circondariale, il sindaco Davide Drei, i consiglieri regionali Valentina Ravaioli e Paolo Zoffoli, la direttrice di Techne Lia Benvenuti, il direttore di Confindustria Massimo Balzani nonché esponenti di imprese ed enti del territorio. Drei ha ribadito il suo sostegno al progetto rilevandone il valore sociale, sottolineando la ricaduta sul territorio in termini di maggiore sicurezza e come fattore propulsivo per l’ampliamento di reti sociali di sviluppo mirate al reinserimento di persone in esecuzione penale. “Un sentito ringraziamento - ha esordito Benvenuti - direttore generale di Techne - va prioritariamente agli agenti che hanno permesso di mettere in sicurezza le attrezzature e il materiale immediatamente dopo il cedimento del tetto e di fatto hanno consentito una sollecita ripresa della produzione nei nuovi spazi”. “L’attività del laboratorio - sottolinea Palma Mercurio, direttrice della Casa Circondariale - è uno strumento efficace ai fini del reinserimento sociale, in un’ottica rieducativa e di crescita personale e professionale”. Il laboratorio impiega oggi quattro detenuti e dal 2010 complessivamente oltre 40 persone sono state coinvolte, garantendo loro un’indennità economica, a dimostrazione della continua crescita e sviluppo della cartiera. Ancona: i detenuti del Barcaglione, attori de “I malati immaginari” cronachemaceratesi.it, 24 febbraio 2018 Sono i detenuti della Casa di reclusione Il Barcaglione di Ancona i protagonisti dell’originale spettacolo che il Rotary Macerata Matteo Ricci in collaborazione con l’associazione Art’ò, l’Associazione rovine circolari e con il comune di Macerata organizza a scopi benefici per il prossimo 2 marzo alle 21 al teatro Lauro Rossi di Macerata. Si tratta de “I malati immaginari” uno studio scenico liberamente ispirato a Il malato immaginario di Molière a cura di Isabella Carloni e Francesca Marchetti con la amichevole partecipazione di Angela Lello dell’Accademia56 di Ancona e Daria Graciotti del liceo Corridoni-Campana di Osimo. L’iniziativa è stata presentata oggi nella sala Castiglioni della biblioteca Mozzi Borgetti da Stefania Monteverde, vice sindaco e assessore alla Cultura, Silvana Lisi, presidente del Club Rotary Macerata Matteo Ricci, Massimiliano Fraticelli, past president del Club e organizzatore dell’evento e Isabella Carloni della direzione artistica. La serata fortemente voluta da Massimiliano Fraticelli del Rotary di Macerata è condivisa con interesse dal Comune di Macerata perché ritiene che l’attività teatrale costituisce uno strumento utile per i soggetti in stato di detenzione, sia sotto il profilo culturale che di crescita personale e di grande valenza rieducativa. Un evento, quello del 2 marzo, che nasce da un progetto collettivo in un’ottica di grande collaborazione e che si inserisce in un momento in cui Macerata, come il territorio, ha bisogno di ricostruirsi. L’evento ha scopi benefici - l’incasso sarà devoluto all’Associazione Noa Pet Therapy che opera nel reparto Oncologia dell’ospedale di Macerata - ma anche finalità sociali, poiché nasce in collaborazione con la Casa di Reclusione Il Barcaglione di Ancona dove Francesca Marchetti e Isabella Carloni dell’Associazione Art’ò e dell’Associazione Rovine Circolari, conducono da anni con i detenuti un laboratorio sui linguaggi scenici, che testimonia il valore socializzante e rieducativo del teatro. “La possibilità di vivere ed elaborare emozioni e conflitti - dicono le conduttrici, attraverso la capacità mimetica e il gioco scenico, ne fa uno strumento fondamentale di evoluzione personale, di costruzione di relazione e di cittadinanza, che possono rivelarsi preziosi nella realtà del carcere e negli intenti rieducativi della reclusione. Sono queste convinzioni che ci guidano nell’accompagnare i detenuti in un percorso teatrale coinvolgente e personalizzato, che si rivela importante come momento di rielaborazione creativa all’interno di un gruppo, come messa in gioco delle proprie potenzialità e come acquisizione di un saper fare che diventa tappa di ricostruzione di un nuovo percorso. La possibilità di un confronto con un pubblico esterno in occasione dell’evento del 2 marzo è un momento importante di verifica di questo percorso per i detenuti, che incontrano anche allievi di teatro e studenti che lavorano con loro e condividono, attraverso il teatro, una relazione di conoscenza reciproca e di scambio creativo”. Il costo del biglietto per assistere allo spettacolo è di 15 euro. Si può acquistare alla biglietteria dei teatri (0733230735, boxoffice@sferisterio.it) e la sera stessa dello spettacolo alla biglietteria del teatro Lauro Rossi. Roma: 60 detenuti in gara per la VII edizione del Premio “Goliarda Sapienza” di Roberta Barbi e Marina Tomarro vaticannews.va, 24 febbraio 2018 Il prossimo 10 maggio al Salone del Libro di Torino, si svolgerà la premiazione del primo concorso letterario dedicato ai detenuti. Tra le novità, la possibilità di votare attraverso Vaticannews.va e Radio Vaticana Italia. Scrivere per essere liberi, perché la fantasia porta lontano, certamente oltre quelle sbarre e quei muri all’interno dei quali si è stati condannati a vivere, ma anche la scrittura e la lettura come strumento di educazione e rieducazione: sono anche questi i sentimenti e gli obiettivi con cui, ormai sette anni fa, è stato creato il Premio Goliarda Sapienza, concorso letterario nazionale rivolto alle persone detenute, curato dalla giornalista Antonella Bolelli Ferrera, e promosso dalla onlus Inverso, dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e dalla Siae. Oltre 60 i racconti arrivati al Premio - A partecipare, quest’anno, sono stati 60 detenuti (15 donne e alcuni delle sezioni Alta Sicurezza) di quattro istituti penali: Rebibbia femminile, Rebibbia reclusione, Santa Maria Capua Vetere e Saluzzo, tra i quali sono stati selezionati i 15 finalisti esaminati da una giuria di esperti e giornalisti presieduta da Elio Pecora. Ma la grande novità di questa settima edizione è che a decretare il vincitore che verrà premiato il 10 maggio nell’illustre cornice del Salone del Libro di Torino, tra le manifestazioni letterarie più importanti del panorama nazionale, saranno anche grandi lettori, studenti, ma soprattutto gli ascoltatori di Radio Vaticana Italia, che iscrivendosi attraverso il portale Vaticannews.va potranno leggere e votare il proprio racconto preferito on line, entro l’11 marzo prossimo. Un laboratorio con tutor d’eccezione - Per arrivare al fatidico appuntamento del 10 maggio a Torino - per la prima volta un luogo “fuori” dal carcere e per questo molto simbolico - gli aspiranti scrittori hanno affrontato un percorso piuttosto lungo, composto da 15 lezioni svoltesi settimanalmente tra ottobre 2017 e gennaio 2018 con tutor letterari d’eccezione: oltre all’ormai habitué Dacia Maraini, da sempre madrina del Premio, anche Erri De Luca, Nicola Lagioia, Gianfranco Carofiglio, Cinzia Tani, Romana Petri, Serena Dandini, Paolo Di Paolo, Antonio Pascale, Maria Pia Ammirati, Marcello Simoni, Pino Corrias, Andrea Purgatori, Federico Moccia, Massimo Luglio e Giulio Perrone. E sarà proprio pubblicato da Giulio Perrone editore la raccolta con i 15 racconti giunti in finale, sotto il titolo “Racconti dal carcere”. L’esperimento dell’e-Writing, la “scrittura a distanza” - Tra le novità di quest’anno, rispetto alle passate edizioni, c’è sicuramente quella dell’eWriting, cioè della scrittura a distanza. Le lezioni, infatti, si sono svolte in diretta web dalla sede dell’Università telematica eCampus, partner dell’iniziativa, dove si trovavano i docenti, e quattro aule allestite per l’occasione all’interno delle strutture prescelte e dotate di schermi, microfoni e computer. “Rispetto agli anni precedenti - sottolinea Antonella Bolelli Ferrera - abbiamo voluto far precedere il premio da un laboratorio di scrittura, per aiutare i detenuti ad acquisire una base letteraria per scrivere i loro racconti”. I partecipanti alle lezioni, così, ogni settimana per due ore, hanno avuto la possibilità di potersi confrontare con professionisti della scrittura “I racconti che sono venuti fuori - continua la curatrice - sono stati tutti molto belli. Alla fine abbiamo scelto i 15 finalisti, facendo attenzione allo stile e alla capacità d’intreccio nella narrazione. Tanti di loro si sono ispirati alle proprie situazioni personali, ma c’è anche chi ha preferito scrivere, ad esempio, un racconto di fantascienza, molto realistico in realtà”. Racconti per sorridere, riflettere e commuoversi - Ed è proprio tra queste insormontabili mura, tra un incontro su come sviluppare un soggetto e come rendere brillante un dialogo, una lezione tra la differenza fra romanzo e racconto e una sull’autobiografia, che sono nate e cresciute le 15 perle che avrete il piacere di leggere e il privilegio di votare. Ci sono storie di amore puro e di amore rubato con la violenza; il dramma di una faida familiare il cui odio è capace di coinvolgere perfino due giovani di 15 anni, età che dovrebbe essere spensierata per definizione; altri ragazzini, stavolta riuniti in una gang, che s’illudono di conquistare il mondo con furti e rapine senza capire che il mondo, invece, bisogna cambiarlo. E ancora: c’è chi si cimenta con un testo teatrale, cantando ribellione e follia, chi sposa l’ambientazione futuristica per tornare poi all’oggi, e chi descrive la realtà carceraria perché è l’unica che abbia mai vissuto. C’è spazio per ridere, anche, nel primo giorno di permesso premio - una delle poche occasioni che si hanno di essere felici quando si è reclusi - o con la storia del narcotrafficante che parte per il Marocco con il suo carico di hashish… ma solo con l’immaginazione. Scrivere è gettare un ponte tra “dentro” e “fuori” - Tante storie, dunque, di vita vissuta o di fantasia, tanti modi di intendere la scrittura, come unico veicolo di evasione, come sfogo catartico che ci fa immaginare, anche solo per poco e davanti a un foglio bianco, di essere qualcun altro, come doloroso modo di fare i conti con il proprio passato e venirne a patti. Comunque si tratta di gettare un ponte, tra la realtà “dentro” e quella “fuori”, tra chi vive “dentro” e chi vive “fuori”, uno di quei “ponti e non muri” tante volte invocati anche da Papa Francesco. “In carcere - conclude Antonella Ferrera - si scrive moltissimo, un po’ per non sentire la solitudine, ma anche per far passare quel tempo che tra quelle mura sembra eterno. È un atto di libertà, alla fine, e mi piace ricordare le parole di Erri De Luca, anche lui tra i tutor, che definisce la scrittura come un atto di evasione che non contravviene ad alcuna regola”. Saremo tutti spiati dai droni? di Leonard Berberi Corriere della Sera, 24 febbraio 2018 Le nuove regole nella bozza Ue: nessun patentino, né registrazioni per i modelli leggeri (e addio alla privacy). Non potranno andare troppo velocemente. Non dovranno pesare molto. E nemmeno presentare spigoli vivi, giusto per evitare di fare male in caso di caduta improvvisa. Ma potranno volare - pur dotati di fotocamere ad alta risoluzione e zoom - vicini alle persone, sopra i luoghi pubblici, di fianco alle abitazioni. E saranno molto difficili da identificare dal momento che non avranno l’obbligo di registrazione. Né loro, né i rispettivi proprietari. Diventando così l’arma perfetta per spiare. Vip o coniugi, parenti o sconosciuti. La bozza - Dopo anni di caos (e vuoto) legislativo, con regole diverse a seconda del Paese, l’Agenzia europea per la sicurezza aerea (Easa, organo di controllo del settore aeronautico continentale), ha consegnato alla Commissione europea la sua prima “opinione” sulla regolamentazione dei droni, i piccoli velivoli a pilotaggio remoto sempre più presenti nelle nostre vite. Si tratta di un documento di 161 pagine pieno di osservazioni e proposte che dovranno essere valutati (quindi suscettibili di modifiche, anche importanti) e approvati dall’organo esecutivo comunitario entro dicembre e fatti entrare in vigore nel primo trimestre del 2019. Del resto uno studio curato da Eurocontrol stima che entro il 2050 nel Vecchio Continente ci saranno almeno 7 milioni di droni per uso ricreativo e personale. L’esigenza di regole comuni - L’esigenza di legiferare e armonizzare la materia è chiesta da tempo da diverse categorie. Dagli enti dell’aviazione civile, visti i troppi incidenti tra droni e aerei. Dai produttori, che vogliono certezze così da poter produrre dispositivi in conformità. Dagli utilizzatori stessi che, negli ultimi mesi, hanno persino smesso di fare i corsi e prendere i patentini in attesa di norme condivise. “Questa regolamentazione consentirà la libera circolazione dei droni su un comune terreno europeo”, spiega Patrick Ky, direttore esecutivo di Easa. “Il tutto rispettando la privacy e la sicurezza dei cittadini della Ue”. L’Easa, contattata dal Corriere per avere chiarimenti su alcuni aspetti, non ha dato alcuna risposta. Perché a sfogliare la bozza - che suddivide i droni sulla base del luogo in cui vola, di chi li manovra, delle caratteristiche - si nota la creazione di una classe “privilegiata” di ultraleggeri (non eccedenti i 250 grammi di peso) che però sfuggiranno a diverse restrizioni. “Rischio residuale per la privacy” - La stessa “opinione” ammette che “resta il rischio residuale per la privacy”. Questi droni, infatti, non avranno alcun obbligo di registrazione presso le autorità competenti, potranno volare sopra le persone scendendo fino a tre metri dal suolo (cioè a 1,3 metri da una persona alta 1,7 metri). Non dovranno stare sopra le folle, anche se il documento non identifica quante persone fanno la “folla”. La loro altitudine massima, poi, sarà incrementata da 50 a 120 metri, consentendo ai malintenzionati di utilizzarli anche per riprendere gli appartamenti nei grattacieli, ma - sottolinea la bozza - “il pilota dovrà comunque restare a distanza di 50 metri”. Un’altra limitazione è la velocità massima che non potrà superare i 19 metri al secondo, cioè pari a 68,4 chilometri orari. Non viene proposto il limite d’età: i tecnici dell’Agenzia europea ritengono debba essere stabilito dai singoli Stati. Non viene richiesta nemmeno l’installazione del localizzatore Gps che consentirebbe ai droni ultraleggeri - sul mercato ce ne sono almeno una dozzina - di stare alla larga da luoghi sensibili come gli aeroporti. Con il rischio che, oltre alla privacy, questi mini oggetti volanti mettano in pericolo pure l’incolumità fisica. I due ragazzi inventori del social anti-bullismo di Federico Taddia La Stampa, 24 febbraio 2018 Un complimento, solo un semplice complimento. Eccolo il colorato, spiazzante e roboante ceffone - puramente metaforico - scagliato con un click per sbriciolare i bulli, cyber e non cyber indistintamente. “È sempre sorridente”, “Non sbaglia una domanda delle verifiche”, “Fa un sacco di battutacce ma è simpatico”, “Riesce sempre a stupirmi”, “Vincerebbe di sicuro MasterChef”. Passa dalla fantasia di Tommaso e Filippo, fratelli milanesi di 10 e 12 anni, il lato bello della rete. Passa da una loro intuizione, dal desiderio di creare uno spazio protetto da insulti e offese, la nascita del primo social network creato per scambiarsi messaggi positivi tra ragazze e ragazzi tra i 10 e i 16 anni. Si chiama “Olly”, è un’applicazione gratuita facilmente scaricabile dal web, ed è stata programmata da un padre per assecondare il desiderio dei due figli. “Si sono inventati questo gioco per dirsi le cose belle tra coetanei - spiega infatti Federico Bolondi. Loro hanno scritto le domande e le frasi tutte nel segno dell’apprezzamento reciproco. Poi, insieme, ci siamo inventati il gioco che sta alla base del social e lo abbiamo lanciato tra i compagni di classe”. Aumentare l’autostima. Scoprire sfumature di sé ignorate o mai viste. Sperimentare, con leggerezza, il piacere - sempre più raro e a cui si è sempre meno abituati - della gentilezza. Dal “Mi piace” al “Mi piace, per come sei”: questa la risposta alla “cultura dell’odio”, all’hater di turno, al coniglio da tastiera che con le parole ferisce e infierisce. “Spesso, non sempre, il bullismo è generato dalla noia e da una sorta di frustrazione che gli adolescenti rischiano di provare mentre sono alla ricerca di un proprio equilibrio - aggiunge Bolondi -. La carenza di autostima può portare a sfogare sugli altri il senso di noia e di inadeguatezza, e si arriva a cercare l’attenzione degli altri riempiendo le bacheche di messaggi negativi. L’obiettivo è proprio quello di ribaltare questo atteggiamento, evidenziando e usando i messaggi positivi come elemento di vicinanza e connessione”. Una rivoluzione minima. Silenziosa. Che parte dal basso. Un’autodifesa - sotto lo sguardo di adulti lucidi - per esplorare nuove dinamiche e nuove interazioni. Una goccia nell’oceano della rete, dove ogni giorno oltre 175.000 bambini accedono per la prima volta, un bambino ogni mezzo secondo; con più di 2 giovani su 5 connessi almeno 5 ore. E dove le difese contro bulli, fake news, pornografia e rischi vari non possono che essere, prima di tutto, culturali. Acquisire consapevolezza. Non tanto per padroneggiare il mezzo - in quello i nostri figli spesso sono più avanti di noi genitori - quanto per saper riconoscere e discernere linguaggi e contenuti. Un percorso che richiede preparazione e competenze, fondi e strategie, quotidianità e conoscenze. Ma di cui si sente tutta l’urgenza, un’urgenza non procrastinabile. “Sai papà - ha detto l’altra sera Tommaso a suo padre -. È bello andare a dormire dopo che qualcuno mi detto su Olly che sono bravo in matematica”. Una frase. Un sassolino. Un sassolino che muove le onde. E chi naviga lo sa quanto un’onda possa fare la differenza. Siria. L’inferno senza fine di Goutha, duemila morti nel silenzio del mondo di Domenico Quirico La Stampa, 24 febbraio 2018 L’assedio di Assad e dei russi alla provincia ribelle: “Vogliono lo sterminio”. All’Onu si negozia la tregua. Merkel e Macron a Putin: “È il momento di agire”. Un abitante di Douma(provincia di Ghouta) cammina tra le macerie dopo il bombardamento. La zona è una delle poche ancora in mano ai ribelli nemici del regime di Damasco e sostenuti dai turchi. Un luogo e dei numeri; il luogo è una scaglia periferica di Damasco che si chiama Ghouta, l’area a Est della capitale siriana. I numeri sono quattrocentomila persone, i suoi abitanti assediati dalla guerra, dai bombardamenti serrati dell’esercito governativo e dall’aviazione degli alleati russi. I numeri sono duemila civili, 38 solo ieri: sì, le vittime, quelli che sono rimasti sotto le macerie, o massacrati dalle scaglie di metallo delle bombe. È il numero che riportano gli oppositori di Bashar al-Assad, i leader della Coalizione nazionale siriana che accusa e inveisce dall’esilio in Turchia, parlando di “guerra di sterminio e di crimine contro l’umanità”. Forse bisogna ricordare un altro numero, una data; il 2014. Fu allora che l’assedio di Goutha da parte dell’esercito siriano iniziò. Bisognerebbe contare i giorni le ore i secondi per capire. Ma forse soltanto coloro che ci vivono possono capire. È il problema eterno del dolore della guerra che separa implacabile le vittime dagli spettatori. Da sette anni la Siria accumula numeri, numeri tremendi: i cinquecentomila morti i milioni di rifugiati l’ammontare delle distruzioni. Si specchia nella propria tragedia, invano cerca di ascoltare il rumore della pietà, della solidarietà che si fa politica o diplomazia. Intanto scorrono immagini dalla Goutha a inchiodarci implacabili un’altra volta, alla nostra impotenza; il fumo dei crolli, maschere di polvere che emergono macchiate di sangue dalle rovine, corpi straziati tratti fuori dalle macerie con le mani, con le pale, raspando, bestemmiando dio e gli uomini, invocando vendetta o pietà, le sirene, le urla di chi chiede perché. Già perché? Perché la guerra non finisce mai, nonostante la proclamata distruzione del califfato, i muscoli della nuova presidenza americana, le ambizioni dell’Europa? Poi, senza soluzione di continuità, altre immagini; New York, le Nazioni Unite, le riunioni furibonde per distillare gli aggettivi e gli avverbi di uno straccio di risoluzione su Goutha, per un cessate il fuoco che tenga conto di tutto, degli americani che inveiscono, ma per figura, contro il regime di Bashar (“dalla Russia e dall’Iran una sciagura umanitaria”, dice Trump), di Mosca che dice sì alla tregua, ma vuole garanzie che i miliziani la rispetteranno e che tiene pronto il veto per impedire qualsiasi denuncia che imbarazzi il suo alleato Bashar, la Francia che annuncia, con la comoda retorica dei comprimari, che un mancato intervento delle Nazioni Unite segnerebbe, nientemeno!, che la fine delle Nazioni Unite. Parole: da sette anni le Nazioni Unite e l’Occidente non fanno nulla e sono ancora lì, vivacissime nel loro burocratico trafficare nel vuoto. Il presidente francese e Angela Merkel scrivono una lettera a Putin chiedendo di appoggiare la risoluzione e di “assumersi le proprie responsabilità. È l’ora di agire”. Mentre Macron annuncia: “Siamo pronti ad accogliere gli evacuati di Goutha”. Il regime siriano, metodico, prosegue nella sua campagna di pulizia dell’Ovest del Paese, la parte che gli interessa. Sente la vittoria vicina. Ghouta è una macchia che bisogna cancellare, proprio accanto al cuore del potere. Intanto si procede a scalpellare l’altra slabbratura più a Nord, Idlib, che chiude fastidiosamente la via verso Aleppo e le montagne degli alawiti, la tribù del presidente. Per respingere le accuse che arrivano dall’Occidente e dalle associazioni dei diritti umani, per aggirare l’implacabile orrore dei numeri, duemila morti e cinquemila feriti, e delle immagini, Bashar ribadisce che a Ghouta, a battersi facendosi scudo di civili e di edifici come moschee e scuole, sono in realtà non gli antichi ribelli siriani ma i pestilenziali combattenti delle infinite sigle della nebulosa jihadista, al Qaeda e peggio ancora l’Isis in cerca di nuovi santuari. Tattica vincente: è l’argomento con cui Assad e la Russia hanno conquistato in questi anni indiscutibili successi. A chi, attonito, osserva il dispiegarsi dell’ennesimo massacro non resta che ascoltare dal buio di Goutha i racconti che arrivano come non verificabili gocce di orrore. Quante volte in questi sette anni ci hanno soffocato, messo di fronte allo scandalo del terzo millennio? Da Homs, da Aleppo, da Raqqa nelle mani dei jihadisti, ecco la guerra che si impadronisce di una città, diventa il pane quotidiano di coloro che, a decine di migliaia, ci vivono: il sibilo degli aerei, i proiettili di artiglieria, i palazzi che si piegano uno sull’altro nel disperato tentativo di sorreggersi e poi precipitano nella polvere, i forni che non danno più pane, l’acqua che manca, l’elettricità che diventa ricordo, i presidi medici che saltano in aria, l’abitudine infernale del morire. Quante volte avete ascoltato, dalla Siria, le storie di gente che ha vissuto cinque mesi in cantina con un chilo di riso e mastelli di acqua putrida, la ricerca inutile di parenti scomparsi perché il quartiere dove vivevano è diventato polvere, il cibo che si fa raro e costa una fortuna perché gli sciacalli crescono attorno a queste tragedie? Goutha si aggiungerà, solo un altro numero, all’elenco della nostra colpevole impotenza. Cina. I vestiti di H&M prodotti nelle carceri, inchiesta del Financial Times di Valentina Corvino ilsalvagente.it, 24 febbraio 2018 I giganti europei della moda H&M e C&A nonché la società tecnologica 3M sono finiti nel mirino di un’inchiesta del Financial Times perché si servirebbero della manodopera dei detenuti delle carceri cinesi per confezionare i loro prodotti. Le tre aziende hanno fatto sapere di “prendere seriamente in considerazione le rilevazioni del quotidiano”. Peter Humphrey è un ex reporter dell’agenzia “Reuters” ed ex investigatore privato che nel 2013 è stato arrestato con l’accusa di aver pagato tangenti a cliniche cinesi: ha scontato 23 mesi nelle prigioni di Qingpu, a Shanghai, in Cina. Quasi due anni di galera in cui ha guardato e annotato con cura tutto quello che gli passava sotto gli occhi, per poi tornare a casa e svelare ogni cosa ad un giornalista del “Financial Times”. Secondo quanto raccontato da Humphrey, in quella prigione della periferia di Shanghai si porta avanti un vero e proprio business: i detenuti confezionano abiti per i giganti dell’abbigliamento come H&M e C&A. “Le mattine, i pomeriggi e spesso anche dopo pranzo, i prigionieri lavorano nelle sale comuni. I nostri uomini hanno confezionato parti per l’imballaggio dei vestiti. Ho riconosciuto i loghi di marchi noti come H&M”, racconta Humphrey secondo cui le aziende coinvolte “potrebbero anche non essere al corrente che nelle carceri cinesi nascano buona parte dei loro prodotti”. H&M, nel suo statuto, non permette il lavoro carcerario, ma ha fatto sapere che “è inutile dire che prenderemo molto sul serio le informazioni pubblicate dal Financial Times”. Una posizione simile l’ha espressa anche C&A che non ammette il lavoro carcerario “in nessuna forma” e che, sempre tramite un portavoce, spiega che nella revisione annua delle 273 aziende che lavorano per il gruppo in Cina sono sono stati riscontrati casi sospetti. Anche 3M nega di avere utilizzato il lavoro dei carcerati, e sempre tramite un portavoce promette di indagare a fondo sulle parole dell’ex investigatore privato. Va anche detto, per completare il quadro, che l’occupazione dei carcerati non viola le regole dell’International Labour Organization, organizzazione delle Nazioni Unite specializzata nel verificare gli standard del lavoro, a patto però che la pratica non si trasformi in una redditizia forma di lavori forzati. A smentire almeno in parte questo ci sono le parole di Humphrey, che parla comunque di un pagamento mensile, per quanto irrisorio, pari 120 yuan (poco più di 15 euro) per il lavoro, con in più la possibilità di accedere anche ad uno sconto della pena. Somalia. Human Rights Watch: ex bambini di al-Shabaab torturati dal governo sicurezzainternazionale.luiss.it, 24 febbraio 2018 I bambini somali sospettati di avere legami con il gruppo terroristico al-Shabaab vengono detenuti in celle come gli adulti. È quanto ha denunciato Human Rights Watch (HRW) in un report pubblicato il 21 febbraio, in cui fa luce sulle violazioni e gli abusi subiti dai ragazzi presi in custodia dal governo di Mogadiscio, poiché ritenuti essere legati ai jihadisti somali. Nonostante il governo abbia promesso all’Onu di liberare i minori, facendoli passare sotto la protezione dell’Unicef per essere riabilitati, finora, le autorità regionali non sono state in grado di mantenere la parola data, continuando a commettere violazioni dei diritti umani. Una ricercatrice di HRW, Laetitia Bader, ha riferito che i bambini, dopo aver sofferto molto nelle mani dei jihadisti, continuano a subire abusi anche una volta sotto la custodia del governo. Il report di HRW è basato sulle interviste a 80 minori che, dopo aver trascorso molto tempo tra le fila di al-Shabaab, sono stati trattenuti dall’intelligence somala, hanno subito processi presso corti militari e sono stati messi in prigione più volte. Secondo le Nazioni Unite, dal 2015, le autorità della Somalia hanno trattenuto centinaia di ragazzi sospettati di essere associati al gruppo terroristico, nonostante il Paese sia obbligato a riconoscere la situazione speciale in cui versano i bambini, in linea con il diritto internazionale, i quali necessitano assistenza e di intraprendere un processo di reintegrazione. Le forze di sicurezza somale, al contrario, non hanno trattato i casi che riguardavano i minori nel modo adeguato. Una volta arrestati, i ragazzi vengono generalmente interrogati dagli ufficiali dell’intelligence, della National Intelligence and Security Agency (Nisa) a Mogadiscio, o ralla Puntland’s Intelligence Agency (PIA) a Bosasso. Queste decidono poi come categorizzarli, quanto trattenerli e in che modo poi passarli sotto la protezione dell’Unicef. Tuttavia, in queste fasi, i bambini subiscono maltrattamenti e abusi, venendo spesso isolati dai genitori e minacciati, talvolta anche torturati e picchiati per ottenere confessioni. Un 16enne ha riferito a HWR di essere stato chiuso in una cella per settimane, venendo picchiato di notte, senza che nessuno gli fornisse poi assistenza medica. Alla luce di tutto ciò, HRW chiede al governo somalo di interrompere immediatamente tali pratiche, e di permettere l’intervento dell’Unicef per assicurare la protezione dei minori. Rivolgendosi ai partner internazionali, l’organizzazione umanitaria ha chiesto di segnalare qualsiasi caso sospetto di maltrattamento per prevenire e contrastare l’abuso dei minori. Al-Shabaab, in arabo “la gioventù”, è un’organizzazione jihadista fondata nel 2006 e affiliata ad al-Qaeda, che mira a rovesciare il governo di Mogadiscio, appoggiato dall’Onu, per prendere il potere e imporre la propria visione della legge islamica, la sharia. Il Country Report on Terrorism 2016 del governo americano ha inserito la Somalia al primo posto tra i Paesi considerati “safe heavens” (rifugio sicuro) del terrorismo in Africa. Con tale termine, vengono indicati quegli Stati in cui le organizzazioni terroristiche sono in grado di operare liberamente per colpa di una governance locale inadeguata e incapace di contrastare le attività terroristiche. Secondo il rapporto, la capacità di al-Shabaab di operare indisturbatamente nel Paese è stata dovuta, in larga parte, alla fallibilità delle operazioni anti-terrorismo portate avanti dal governo. L’attacco più mortale compiuto da al-Shabaab in Somalia si è verificato il 14 ottobre 2017, a Mogadiscio, dove l’esplosione di autobombe ha ucciso più di 500 persone. Guinea Equatoriale. 147 attivisti minacciati di esecuzione di Riccardo Noury Corriere della Sera, 24 febbraio 2018 Ribellione, attacchi alle autorità e disordini pubblici. Sono i reati dei quali sono accusati 147 attivisti dell’opposizione della Guinea Equatoriale, che secondo il ministro della Sicurezza avrebbero recentemente tentato un colpo di stato, aiutati da stranieri provenienti da Ciad, Repubblica Centrafricana e Camerun. Data l’impossibilità, per la stampa indipendente, di operare nel paese, non è possibile capire se le cose siano andate esattamente così. Gli attivisti hanno denunciato di aver subito pesanti torture nella stazione centrale della polizia della capitale Malabo, tristemente denominata “Guantánamo”. Il presidente Teodoro Obiang (a sinistra nella foto insieme all’ex dittatore del Gambia, Yahya Jammeh) governa il paese da quasi 40 anni, distinguendosi tra i leader africani più attivi nello stroncare ogni forma di dissenso. I rapporti delle organizzazioni per i diritti umani segnalano regolarmente uccisioni illegali da parte delle forze di sicurezza, torture sistematiche ai danni dei detenuti, arresti arbitrari e sparizioni. Quanto alla pena di morte, nel 2017 Obiang aveva proclamato una moratoria ma secondo la Convergenza per la democrazia sociale, all’opposizione, da allora otto condannati a morte sarebbero stati fucilati in segreto. Qui la scheda sul paese tratta dal Rapporto 2017-2018 di Amnesty International, pubblicato ieri.