Se tocchi il carcere ti scotti. Per ora la riforma slitta di Damiano Aliprandi ed Errico Novi Il Dubbio, 23 febbraio 2018 Il decreto principale avrà l’ultimo ok solo dopo il voto. Iter appeso a un filo. Non esaminato il decreto su 4bis, pene alternative e sanità. Era il timore, neppure troppo nascosto, di detenuti e sostenitori della riforma: il sospirato via libera al decreto principale del nuovo ordinamento penitenziario non è arrivato. Nel Consiglio dei Ministri di ieri, il provvedimento che elimina le preclusioni nell’accesso ai benefici non è stato neppure esaminato. Torna ai box di via Arenula, per un’ulteriore revisione, che dovrebbe estendere ad altri reati lo sbarramento lasciato per mafia e terrorismo. Sono stati varati, in via preliminare, tre decreti “minori”, su giustizia riparativa, esecuzione minorile e lavoro dei detenuti. Ma il cuore della riforma, che dovrebbe finalmente rafforzare il ricorso alle misure alternative, è ora appeso al filo delle scadenze: Gentiloni pensa di licenziarlo dopo il 4 marzo, con tutti i rischi “politici” del caso. Forte delusione tra i garanti dei detenuti come tra i giuristi e gli intellettuali che hanno sottoscritto l’appello al governo. Ieri il Consiglio dei ministri ha messo in stand by il decreto attuativo della riforma dell’ordinamento penitenziario già esaminato, con tanto di osservazioni, dalle Commissioni giustizia. “Del resto della riforma ce ne occuperemo nelle prossime settimane e nei prossimi mesi”, ha affermato in conferenza stampa il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni a dieci giorni dalle elezioni politiche. Durante la riunione sono stati invece licenziati preliminarmente tre decreti, in materia di giustizia riparativa, di mediazione tra il reo e la vittima e di revisione dell’ordinamento penitenziario minorile che però dovranno affrontare il complesso iter dell’esame delle commissioni Giustizia delle due camere. In estrema sintesi, la riforma dell’ordinamento penitenziario non è stata ancora approvata come è stato più volte promesso dal guardasigilli e, recentemente, dallo stesso premier Gentiloni. La cosa ha colto tutti di sorpresa. A partire da figure istituzionali come il garante dei detenuti Mauro Palma che non a caso aveva inviato una nota al ministro Orlando per chiedergli di far approvare il testo originale della riforma, senza prendere in considerazione le osservazioni espresse dalla commissione del Senato, le quali rischiano di proporre l’annullamento del sistema degli automatismi che impediscono per ampi settori di detenuti l’accesso ai benefici penitenziari e alle misure alternative al carcere. Eppure è proprio questo il decreto che il Cdm ha deciso di mettere nel cassetto. “Ci lascia attoniti e sbalorditi”, scrivono i Garanti locali e regionali attraverso una nota del coordinamento nazionale. Duro il commento del presidente dell’Associazione Antigone, Patrizio Gonella: “Siamo delusi. Speravamo che non vincessero la tattica e la preoccupazione elettorale. Oggi si è sprecata un’occasione storica per riformare le carceri italiane. Speriamo che anche dopo le elezioni le autorità vogliano portare a compimento una riforma storica. Il tempo tecnico c’è. I decreti - scritti da persone della massima competenza e supportati dagli Stati Generali dell’esecuzione penale - anche. Bisogna solamente avere la volontà politica di farlo”. In un solo colpo, con questo atto politico, il governo ha reciso il dialogo messo in moto dal Partito Radicale con il Satyagraha di 10.000 detenuti, di centinaia di cittadini “liberi”, dei Garanti regionali e locali, dello sciopero della fame di Rita Bernardini e con la importante presa di posizione a favore della riforma di oltre 300 giuristi, avvocati, magistrati e professori. Il decreto che è stato messo da parte, infatti, rappresenta il fulcro della riforma. Parliamo principalmente della implementazione delle misure alternative, la modifica del 4bis e l’assistenza sanitaria. Il più criticato è stato quello relativo al 4bis. Si tratta di una modifica che, elidendo molti automatismi e presunzioni, restituisce alla magistratura di sorveglianza il potere di valutare appieno i percorsi individuali dei condannati e di bilanciare in concreto, caso per caso, l’obiettivo rieducativo della pena con l’esigenza di tutela dei diritti dei cittadini liberi. Originariamente il 4bis era nato esclusivamente per mafia e terrorismo, poi, come una calamita, con il passar degli anni ha attirato a se altri reati diventati ostativi a seconda le varie emergenze. In sintesi, la modifica consisteva nel far ritornare il 4bis nella forma originaria e quindi preclusione e automatismo esclusivamente per reati di mafia e terrorismo. Poi, sempre nel decreto non varato, ci sono le misure alternative con la loro valorizzazione ed estensione prendendo in esame anche una maggiore responsabilizzazione del detenuto con l’affidamento in prova: all’atto dell’affidamento ci sarà un piano di trattamento individuale in cui ci sono i rapporti con l’Uepe (Uffici per l’esecuzione penale esterna) e con altri soggetti pubblici o privati con finalità di cure e sostegno. Viene considerata anche l’assunzione di specifici impegni per attenuare le conseguenze del reato e, cosa molto importante, l’adoperarsi anche a favore della vittima. Altro aspetto importante è che il decreto attuativo anche l’istituzione di una specie di affidamento in prova per le persone con infermità psichica e sarà una sorta di presa in carico terapeutica. Questo e tanto altro per rivedere le norme dell’ordinamento penitenziario a fine di garantire i principi costituzionali. Tutto congelato. Ora se ne parlerà dopo le elezioni del 4 marzo, o addirittura nei prossimi mesi come ha detto il premier Gentiloni. La riforma tradita sulle carceri di Liana Milella La Repubblica, 23 febbraio 2018 La paura di perdere qualche voto (forse più dì uno) vince sulla Costituzione. Su quell’articolo 27 che al terzo comma recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. E chissenefrega allora se sul carcere dal volto umano s’è giocata una larga parte di questa legislatura. Buttiamo alle ortiche gli Stati generali sulla detenzione, che pure sono stati il fiore all’occhiello del Guardasigilli Andrea Orlando. Nel cestino mesi e mesi di lavoro della commissione Giostra. Nel dimenticatoio il vanto - assolutamente legittimo e meritato - dello stesso Orlando che al suo attivo, dopo un lavoro certosino, può dire di aver eroso la sfiducia della Corte di Strasburgo verso l’Italia, al punto da cancellare le condanne milionarie per le celle da terzo mondo. E infine: Rita Bernardini è al 3lesimo giorno di sciopero della fame per la riforma; i Garanti dei detenuti protestano; altrettanto fanno le associazioni; si temono perfino possibili reazioni nelle “patrie galere”. Ma tutto questo, messo sul piatto della bilancia dove, dall’altra parte, c’è il rischio di perdere voti in una partita già difficilissima per il Pd, non conta granché. A nove giorni dal voto, bisogna partire da tutto questo per spiegare l’ulteriore rinvio, durante il consiglio dei ministri, della parte più pregnante della riforma dell’ordinamento penitenziario. Parliamo di regole de11975, codificate nella legge Gozzini dell’86, stravolte con l’ex-Cirielli di berlusconiana memoria del 2005, che ha stretto i cordoni dei permessi per tutti i recidivi, al punto da renderli di fatto impraticabili. Consegnando i detenuti alla negazione di ogni speranza. Anche quando questa potrebbe contribuire a creare uno spiraglio per quel dettato costituzionale, “la rieducazione del condannato”. Non, quindi, la sua dannazione perenne, la fine anticipata della sua stessa vita. Perché carcere non può voler dire morte anticipata, ma la via equa, in uno Stato civile, per scontare il debito contratto con la giustizia. Orlando cerca di indorare la pillola, parla di “giornata importante” perché tre parti della riforma (giustizia riparativa, lavoro in carcere, regole per i minori) sono passate. Ma sa bene che queste dovranno affrontare ancora il parere delle commissioni Giustizia di Camera e Senato. Saremo già nella nuova legislatura, con gli equilibri spostati tra centrodestra e M5S, certamente non favorevoli alla manica larga sulle galere. Decreti di fatto condannati. Ma uno aveva chance di sopravvivere, il più importante, quello sull’ordinamento penitenziario, anche se avversato da toghe che temono una mano troppo morbida sul 41bis, il carcere duro per i mafiosi. Preoccupazione infondata, come spiegano in coro i magistrati di sorveglianza, che saranno inani da guardia della riforma, padroni di valutare possibili e solo motivate eccezioni. Ma che accade del decreto? Il Consiglio dei Ministri lo fa slittare di una settimana, proprio sotto il voto. Una promessa che il premier Gentiloni non potrà mantenere. Del resto, perché dovrebbe accollarsi il peso delle scontate polemiche del centrodestra e di M5S, pronti a sparare in coro contro una riforma che umanizza le carceri? Loro le vogliono il più possibile cattive, per sostenere la propaganda becera contro gli immigrati, per illudere i cittadini, vittime di ladri e scippatori, che basta armarsi e poi sbattere in cella chi sopravvive per garantire la sicurezza. Allora meglio aspettare. Per la stretta sulle intercettazioni non si è aspettato, per il carcere dal volto umano sì. Ordinamento penitenziario, riforma in stand by di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 23 febbraio 2018 Alla fine la riforma delle carceri resta appesa a un filo sempre più esile. Il consiglio dei ministri di ieri, inaspettatamente, ha deciso di non decidere. Non ha cioè approvato in seconda lettura il testo del decreto di riforma, sia pure rinviandolo al Parlamento per non avere voluto recepire le condizioni già espresse nei pareri delle commissioni. Ha invece soprasseduto e rinviato la discussione a una prossima riunione che, come ha confermato il premier Paolo Gentiloni, sarà calendarizzata dopo le elezioni. Intanto, a volere sottolineare la volontà politica di procedere sulla strada di un intervento complessivo, ieri sono stati approvati, ma in prima lettura, gli altri 3 provvedimenti che ancora mancavano: i decreti sull’ordinamento minorile, sulla giustizia riparativa e sul lavoro. Gentiloni ha sottolineato che “è un lavoro in progress, alcuni provvedimenti sono stati adottati, altri lo saranno nelle prossime settimane, anche tenendo conto delle indicazioni del Parlamento”. E sugli obiettivi, “la nostra impostazione è che lavoriamo, con strumenti diversi, innanzitutto con un obiettivo, cioè che questo sistema carcerario contribuisca a ridurre notevolmente il tasso di recidiva da parte di chi è accusato o condannato per reati. Se vogliamo rintracciare un filone che unisce i diversi provvedimenti, è esattamente questo: abbiamo il rischio che questo sistema, se non ha delle correzioni, rischia di non essere sufficientemente efficace nel ridurre la recidiva”. A restare sempre più nell’incertezza è stata però la riforma dell’ordinamento penitenziario. Dove elementi di incertezza politica si aggiungono alla ristrettezza dei tempi. Lo slittamento di ieri, si ricorda al ministero della Giustizia, è stato reso necessario per approfondire la questione cruciale dei reati che potrebbero rendere più ardua, o impossibile, la concessione dei benefici alternativi alla detenzione. Senza però, si sottolinea, volere assolutamente accogliere le condizioni messe a punto soprattutto al Senato, per non compromettere irrimediabilmente l’impianto. Ma se questa è la spiegazione, la constatazione dei tempi a disposizione per l’approvazione porta a un realistico pessimismo. Tecnicamente ci potrebbe essere ancora tempo fino alla data di insediamento del nuovo Parlamento, il 23 marzo, con la considerazione poi che i pareri non sarebbero neppure indispensabili dopo la seconda lettura del consiglio dei ministri e il rinvio alle Camere. E forse si potrebbe andare oltre, in caso di permanenza in carica del governo Gentiloni. E però il nodo è soprattutto politico: può un Governo verosimilmente privo di una maggioranza parlamentare, in una fase iniziale della legislatura, assumersi la responsabilità di varare una riforma così impegnativa? Carceri, ha vinto la paura della destra di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 23 febbraio 2018 La riforma dell’ordinamento penitenziario non è stata approvata. Ieri il Consiglio dei Ministri ha lasciato in naftalina le norme sulle misure alternative, sulla sanità penitenziaria e sulla vita interna alle carceri. Il 4 marzo è vicino e una variegata compagnia ha già intascato il primo risultato. Ha vinto Salvini con le sue truci volgarità. Ha vinto Luigi Di Maio che insultava la riforma definendola l’ennesimo svuota-carceri. Ha vinto chi in Forza Italia ha sposato tesi leghiste. Ha vinto chi nel Governo e nel Partito Democratico era da sempre contrario, soffrendo il percorso riformatore. Ha vinto chi ha spostato l’asse del governo verso posizioni securitarie. Hanno vinto quei sindacati autonomi di polizia penitenziaria che si sono sempre dichiarati contrari a ogni tentativo di umanizzazione della vita penitenziaria e che intendono confinare gli agenti al ruolo di gira-chiavi e i detenuti al ruolo di camosci. Hanno vinto soprattutto quei magistrati che hanno detto e fatto di tutto per bloccare la riforma nel nome della lotta alla mafia. Ha vinto il procuratore di Catania Sebastiano Ardita che da mesi solleva dubbi e resistenze, alcune delle quali espresse nella convention di Casaleggio e amici. Pensa di aver vinto, ma in realtà ha perso, chi pensa che la politica sia tattica, attendismo. Chi pensa che una riforma vada trattata come una partita di calcio, ossia una lunga melina con vittoria ai supplementari quando tutti sono oramai distratti. Ha perso chi tra i partiti ha rinunciato al coraggio delle idee. Non ha perso invece il mondo delle associazioni e di chi lotta per i diritti dei detenuti. È un mondo abituato a combattere. E non si rassegnerà. Continueremo a chiedere l’approvazione della riforma anche dopo il 4 marzo. Lo faremo anche rispetto a quelle parti della legge delega (ad esempio l’ordinamento penitenziario minorile) che solo ieri hanno fatto il primo passo in avanti. Non sappiamo se mai ce ne sarà un altro. Continueremo a farlo in quanto oggi le prigioni d’Italia sono regolate da norme vecchie 43 anni. E la loro età si sente tutta. Norme pensate per una tipologia di detenuto nel frattempo profondamente cambiata. Norme scritte quando ad esempio non c’erano gli agenti di Polizia penitenziaria ma il corpo militare degli agenti di custodia. È un attimo che la crescita quantitativa dei detenuti sia tale da tornare ai numeri che hanno portato alla condanna da parte dei giudici di Strasburgo. Una condanna che ha portato alcune novità nel sistema penitenziario italiano che fortunatamente reggeranno agli scossoni elettorali. Tra le più importanti vi è l’istituzione del Garante nazionale delle persone private della libertà. Dunque quel percorso avviato con determinazione dal Capo dello Stato Giorgio Napolitano con il suo messaggio alle Camere dell’8 ottobre 2013 e proseguito con gli Stati Generali voluti dal Ministro Orlando si è scontrato con la paura di perdere consenso su un tema ostico. La paura però fa commettere errori gravi. A dieci giorni dal voto il mondo progressista, laico e cattolico, avrebbe apprezzato il coraggio della riforma mancata. Carceri, la riforma è “congelata” di Danilo Paolini Avvenire, 23 febbraio 2018 Una nuova, brusca frenata che potrebbe significare, di fatto, l’affondamento sulla linea del traguardo dell’attesa riforma delle carceri. Il Consiglio dei ministri di ieri, con ogni probabilità l’ultimo prima delle elezioni, non ha infatti varato il decreto attuativo della delega parlamentare sulle pene alternative, preferendo accantonarlo. E ha dato un via libera preliminare, invece, ad altri tre decreti legislativi in materia di detenuti minorenni (e giovani adulti), di lavoro penitenziario e di giustizia riparativa. Ma questi provvedimenti devono ancora affrontare tutto l’iter nelle commissioni, per poi tornare a Palazzo Chigi per il varo definitivo. Nel frattempo si saranno tenute le elezioni politiche, e la riforma ha buone possibilità di finire stritolata negli ingranaggi degli assetti politici del post-voto. Di decisione “tattica” ed “elettorale” parlano, non a caso, le realtà che maggiormente avevano sollecitato l’esecutivo a sbloccare la riforma. Per esempio l’associazione Antigone, il cui presidente Patrizio Gonella esprime “delusione” perché “si è sprecata un’occasione storica per riformare le carceri italiane”. Una delusione condivisa dal Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma e dal coordinamento dei garanti regionali. L’esponente radicale Rita Bernardini, che prosegue il suo lungo sciopero della fame proprio per il varo dei decreti attuativi della legge delega, la spiega così: “Il Consiglio dei ministri ha deciso di mettere nel cassetto la riforma dell’ordinamento penitenziario. Lo ha fatto nel peggiore dei modi, ipocritamente, licenziando preliminarmente altri tre decreti delegati che devono ancora compiere tutto l’iter parlamentare. Mentre quello sulle pene alternative, che aveva già compiuto un passaggio nelle commissioni e che avrebbe richiesto solo 10 giorni di tempo per la definitiva approvazione, è stato messo in stand by, a futura memoria”. Insomma, Palazzo Chigi avrebbe tirato il freno a mano per il timore che l’approvazione di un testo già etichettato come “svuota carceri” dalla Lega, da Fratelli d’Italia e dal Movimento 5 Stelle, a dieci giorni dalle urne, avrebbe avuto ripercussioni negative sui risultati dei partiti della maggioranza. La versione del governo, ovviamente, è differente, ma lo stesso premier Paolo Gentiloni, al termine del Consiglio di ieri, ha affermato che i provvedimenti mancanti “saranno approvati nelle prossime settimane”. Cioè dopo le elezioni. Anche al ministero della Giustizia fanno notare che “c’è il tempo per concludere il lavoro prima della convocazione delle prossime Camere”. E assicurano che non c’è alcuna intenzione di gettare a mare il lavoro fin qui fatto dal ministro Andrea Orlando per dare nuove regole alle carceri italiane. Lo stesso Guardasigilli ha promesso ieri che si arriverà “alla stretta finale con l’interlocuzione delle Camere”. Il motivo dello stop, assicurano a Via Arenula, è solo l’esigenza di “una riflessione per sottopone alle Camere, in terza lettura, un testo condiviso”. Ma il problema è proprio l’ampliamento delle possibilità di scontare le condanne con modalità diverse dalla detenzione in carcere, considerato evidentemente “scomodo” anche all’interno dell’attuale maggioranza. Per il resto, i tre decreti legislativi approvati ieri in via preliminare contengono alcune novità che dovrebbero offrire maggiori opportunità di lavoro ai detenuti, disegnare un nuovo modello di giustizia riparativa, con al centro le vittime dei reati, e introdurre nell’ordinamento penitenziario minorile maggiori occasioni di rieducazione e reinserimento sociale. L’obiettivo “è abbassare il tasso di recidiva”. Ma la strada è ancora lunga, incerta e molto probabilmente disseminata di ostacoli. Carceri, la riforma lasciata a metà che scontenta tutti di Gianni Barbacetto Il Fatto Quotidiano, 23 febbraio 2018 Riforma a metà, sulle carceri. Ieri il governo ha varato tre decreti attuativi della riforma dell’ordinamento penitenziario, la legge che nelle ultime settimane ha raccolto sostegni entusiasti (norme civili che favoriscono il reinserimento dei detenuti) e critiche durissime (legge svuota-carceri che finirà per aiutare anche i mafiosi). “Lavoriamo innanzitutto con l’obiettivo che il sistema carcerario contribuisca a ridurre il tasso di recidiva da parte di chi è accusato o condannato, per favorire il reinserimento nella società”, ha dichiarato il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni. I tre decreti riguardano lavoro, giustizia minorile e giustizia riparativa. Il via libera al decreto complessivo che ridisegna l’ordinamento delle carceri è rinviato al prossimo Consiglio dei ministri. Delusi i vertici dell’associazione Antigone, che speravano in un’approvazione rapida anche delle misure alternative al carcere, che invece sono tra quelle rimandate: “Ha vinto la tattica e la preoccupazione elettorale. Si è sprecata un’occasione storica per riformare le carceri italiane”, ha affermato il presidente di Antigone Patrizio Gonnella. “Poteva allargare il campo delle misure alternative alla detenzione, la cui capacità di ridurre la recidiva e dunque di garantire maggiore sicurezza ai cittadini è ampiamente dimostrata”. Di segno opposto le proteste di Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili: “Il pericolo dell’uscita di tanti boss dal regime speciale del 41bis, paventato dal magistrato Sebastiano Ardita, esiste eccome. Il governo ripensi bene alle stragi del 1993 mentre firma i decreti attuativi per la salvaguardia dei diritti dei carcerati. Ci sono anche i nostri di diritti, quelli della certezza della pena per il torto che abbiamo subito”. Critiche anche dall’Anft, l’Associazione nazionale funzionari del trattamento, la quale sostiene che la riforma aumenterà il lavoro in carcere degli educatori che si occupano della risocializzazione dei detenuti e dunque ne peggiorerà la qualità. Dura anche Emanuela Piantadosi, dell’Associazione vittime del dovere. Fa osservare che i sostenitori della riforma dicono che la recidiva, cioè il ritorno a delinquere, è inferiore tra chi sconta pene alternative, rispetto a chi resta in carcere: “Ma non è vero, i dati sulla recidiva sono incerti e opinabili e la stessa amministrazione penitenziaria non dispone di dati aggiornati, corretti ed esaustivi. Dunque ci impongono una riforma disegnata sulla base di dati non certi”. Anche i magistrati si dividono sul tema. Contrario fin dall’inizio alla riforma, con motivazioni tecniche, è Sebastiano Ardita, ex direttore dell’Ufficio detenuti del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e oggi procuratore aggiunto a Catania, il quale segnala il pericolo che l’allargamento delle misure alternative al carcere finisca per arrivare anche ai condannati per mafia detenuti al 41bis, il carcere duro. Contrario anche il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho. Favorevoli invece il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Eugenio Albamonte ed Edmondo Bruti Liberati, ex procuratore di Milano, che consiglia la lettura dell’articolo sull’argomento uscito due giorni fa sul Corriere della sera, firmato da Luigi Ferrarella: “È una serrata critica alle approssimazioni, inesattezze e demagogici allarmi, alla cui diffusione purtroppo contribuiscono anche alcuni magistrati”. Favorevole alla riforma anche Piergiorgio Morosini, membro del Consiglio superiore della magistratura, il quale ha spiegato l’altro ieri sul Fatto quotidiano che “la riforma non è per i boss”, perché non scatta alcun automatismo per “l’apertura a percorsi riabilitativi extra-carcerari a categorie di detenuti prima escluse”, come i condannati per partecipazione, con ruolo minore, ad associazioni criminali che “bordeggiano ambienti mafiosi”: a decidere sarà pur sempre “il magistrato di sorveglianza che si avvale del parere del procuratore distrettuale”. E comunque la possibilità di pene alternative è in ogni caso “preclusa a tutti i detenuti per reati di mafia e terrorismo”. Ardita si sottrae a nuove polemiche e non vuole aggiungere altre dichiarazioni. Ma spiega come le nuove norme siano ambigue - forse volutamente? - perché se non si applicano ai detenuti al 41bis sono inutili, perché già ora è così; se invece si applicano, allora un buon numero di detenuti al 41bis usciranno dal regime speciale: “Le nuove norme mettono una bomba nel sistema”. Altri ritocchi al testo, sì finale dopo il voto: l’iter appeso a un filo di Errico Novi Il Dubbio, 23 febbraio 2018 Via Arenula amplierà la lista dei reati che restano esclusi, come mafia e terrorismo, dai benefici. Gentiloni non teme di varare il cuore della riforma dopo il 4 marzo: “se vuole, la nuova maggioranza potrà cancellarla”. È una corsa sul filo. Ad altissimo rischio di caduta. L’esecutivo opta per un curioso stop and go sulla riforma dell’ordinamento penitenziario, forse la più qualificante, in materia di diritti, dell’intera legislatura. Lo fa secondo uno schema insolito, che espone l’intero pacchetto carcere a un nulla di fatto soprattutto nel caso in cui la futura maggioranza fosse di centrodestra o, peggio, di ispirazione pseudo-lepenista, con Lega e Cinque Stelle alleati. Si è scelto di non portare neppure in Consiglio dei ministri il decreto principale, quello che elimina finalmente le preclusioni nell’accesso ai benefici. Ma non si tratta di una resa definitiva, spiegano da via Arenula: il testo ieri mattina non era sul tavolo di Palazzo Chigi perché è tornato nelle mani dell’ufficio legislativo del ministero. In queste ore è sottoposto a un ulteriore affinamento. Non si pensa di accogliere le osservazioni della commissione Giustizia del Senato. Non si tratta di dare ragione a Sebastiano Ardita, il pm che teme possa uscirne indebolito il 41bis. Ci sarà però un’interlocuzione anche con il Parlamento per “migliorare” la selezione dei reati per i quali resteranno le “ostatività” dell’articolo 4bis. Molto probabile che a restare esclusi dall’accesso a misure alternative, semilibertà e permessi siano molti degli altri reati oggi esposti alle preclusioni: dalla pedo-pornografia fino, forse, al traffico internazionale di droga. E quando si avrà il nuovo testo? A breve. Prima del 4 marzo. O al massimo per la settimana successiva al voto. Detta così sembrerebbe la conferma del naufragio. E invece pare che non ci sia da disperarsi. Il premier Gentiloni avrebbe preso un impegno solenne con Orlando: si andrà fino in fondo, anche dopo la data delle elezioni. Persino se ci fosse una clamorosa, schiacciante vittoria del centrodestra o dei Cinque Stelle, di chi insomma osteggia la riforma. Perché, è il ragionamento del presidente del Consiglio, “nessuno potrà accusarmi di abuso istituzionale: se la nuova maggioranza non condividesse il contenuto del decreto, potrà assumere un successivo provvedimento che riporti tutto a com’era prima”. Formalmente, non fa una piega, Ma all’attuale capo del governo servirà un coraggio da leone, nel caso in cui il Pd restasse fuori dalla nuova maggioranza. Ed è questo il punto che mette in pericolo la riforma. Anche perché sarà indispensabile concedere in ogni caso i famosi ulteriori dieci giorni alle Camere per prendere atto del testo finale. Se infatti non saranno testualmente accolte le richieste di modifica di Palazzo Madama, come prefigurato dal ministero della Giustizia, l’esecutivo sarà costretto ad attendere che i parlamentari in scadenza ricevano le motivazioni addotte dallo stesso governo per spiegare il diniego. Poi finalmente il provvedimento principale, quello che tocca appunto l’articolo 4bis, oltre ad aspetti importanti come le cure mediche, potrà essere emanato in via definitiva. Se tutto va bene si andrà a un passo dall’insediamento delle nuove Camere, fissato per il 23 marzo. In realtà c’è un’altra parolina, a sconcertare i sostenitori della riforma, da Rita Bernardini ai Garanti dei detenuti, fino agli intellettuali e ai giuristi che hanno firmato l’appello dei giorni scorsi. È quell’espressione, “nei prossimi mesi”, che Gentiloni ha pronunciato davanti ai giornalisti. Fonti del governo provano a fornire anche qui una chiave “tranquillizzante”: il premier non si riferiva al decreto principale, quello sull’accesso ai benefici, ma agli altri tre varati ieri in via preliminare. Si tratta delle misure su esecuzione minorile, giustizia riparativa e alcuni aspetti del lavoro dei detenuti. Interventi in apparenza innocui, dinanzi ai quali non si è placato il nervosismo di Giorgia Meloni: “Noi siamo dalla parte delle vittime, non dei delinquenti: potenzieremo le carceri e faremo pagare chi sbaglia”. In ogni caso Gentiloni intendeva ricordare come queste parti della riforma debbano seguire l’iter previsto dalla delega (e dalle norme generali): 45 giorni di tempo massimo a disposizione delle commissioni parlamentari per l’esame dei testi e la formulazione dei pareri. Con tutto ciò che ne consegue, ovvero l’ulteriore eventuale tempo necessario al (nuovo) Consiglio dei ministri per rimandare eventualmente i decreti alle Camere, i dieci giorni per l’ultima presa d’atto e il varo finale. Se ne parlerà a primavera inoltrata, se non ai primi bagliori d’estate. È chiaro. E se per il decreto principale ci vorrà un miracolo, per questi vascelli più piccoli messi solo ora in mare aperto servirà una vera e propria benedizione. Tutto chiaro? Di certo non sfugge una certa esitazione politica. Legata, è evidente, alla scadenza elettorale. Non ci sarebbe però un conflitto interno all’esecutivo. Non andrebbe letta in questa chiave neppure l’assenza di Orlando in conferenza stampa. In realtà il ministro avrebbe ritenuto di non intervenire giacché la gran parte dell’incontro tra Gentiloni e i cronisti era destinata alle misure economiche. Orlando è andato via anche per rispettare la tabella di marcia della campagna elettorale, che ieri lo ha visto impegnato a Torino. È tutto sotto controllo. Come per gli acrobati sul filo, appunto, anche se stavolta, di sotto, la rete non c’è. Carceri, la riforma è buona. Ma non c’è di Giovanni Maria Flick Il Fatto Quotidiano, 23 febbraio 2018 Nel 2015 gli Stati generali sul carcere e una successiva commissione ministeriale hanno avviato la riforma dell’ordinamento penitenziario, giungendo alla legge delega e al decreto legislativo oggi in fibrillazione con tre anni di lavori. A questi hanno partecipato numerosi magistrati, operatori, avvocati, studiosi, esponenti della società civile di diversa estrazione, esperti nei problemi della realtà drammatica del carcere, con un dibattito trasparente e pubblico. Non ho partecipato a quei lavori, perciò non ho un conflitto di interessi per difendere la riforma. Ho l’esperienza istituzionale di ministro della giustizia e di giudice costituzionale, ormai molto tempo addietro, e quella culturale di cittadino e di studioso, per porre a confronto l’articolo 27 della Costituzione (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”) con la realtà e la quotidianità del carcere. È un confronto impietoso: è sintetizzato nella condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei diritti umani, per le condizioni di sovraffollamento; è denunziato, fra i tanti, dalle voci del Pontefice e del Presidente della Repubblica; è espresso dai 52 suicidi (uno alla settimana!) dello scorso anno in carcere. È un confronto emblematico del fatto che in molte parti la nostra Costituzione è attuale per i valori che propone, ma non è attuata per il modo con cui sono tradotti nella realtà. Contro la riforma è stata evocata la convinzione di alcuni magistrati (non molti) sul rischio che l’eccesso di garanzie consenta ai mafiosi di approfittarne per uscire dal regime del 41bis (il carcere duro per evitare contatti con l’esterno). Aggiungerei a quel timore la perplessità di quei magistrati sulla eliminazione di alcuni automatismi, con i quali la legge vincola l’intervento del giudice di sorveglianza nel trattamento penitenziario; nonché la loro perplessità sulla parificazione fra i padri mafiosi e le madri decedute o impossibilitate, per provvedere ai figli minori di dieci anni o in condizioni di handicap. La maggioranza dei magistrati (fra cui giudici di sorveglianza) - alcuni dei quali hanno partecipato ai lavori - contesta invece quei rischi, perché la legge delega esclude esplicitamente dalle previsioni della riforma i detenuti condannati per criminalità organizzata o per terrorismo. L’art. 41bis non può diventare un carcere “ancora più duro” - condannato dalla Corte Costituzionale - al fine di spingere i detenuti esclusi dai benefici alla collaborazione per ottenerli. Gli automatismi legislativi possono essere e spesso sono in contrasto con il diritto del detenuto al trattamento rieducativo (anche e soprattutto attraverso le c.d. misure alternative); e sono in contrasto con il principio della riserva di giurisdizione, per il rispetto dei “residui” di libertà compatibili con la reclusione. Infine la parità fra madre e padre è espressione di un principio fondamentale di eguaglianza, affermato dalla Corte Costituzionale in questo caso. A conferma, alcuni fra i magistrati più decisi nell’opposizione alla riforma hanno ammesso tardivamente che l’uscita in massa dei boss forse non vi sarebbe stata; e che la riforma avrebbe se mai provocato molti ricorsi e contenziosi (che sono un diritto dei detenuti, per difendere quei “residui”). Essa è stata giudicata positivamente dal Consiglio Superiore della Magistratura, dalla magistratura nel suo insieme, dal Garante dei detenuti e da chi conosce un poco la realtà del carcere e la sua differenza dagli alberghi a 4 o 5 stelle cui viene troppo spesso paragonato da chi ignora quella realtà. Il Presidente del Consiglio si era impegnato a portare a compimento il primo passo della riforma: il decreto legislativo ritornato ieri al Consiglio dei Ministri dopo i rilievi e i suggerimenti non vincolanti proposti dalla Camera e in maniera molto più radicale dal Senato. Tuttavia l’approvazione in articulo mortis non v’è stata. V’è stato un rinvio al prossimo Consiglio dei ministri - sembra il 7 marzo prossimo, dopo le elezioni - per decidere se e in quale misura accogliere le raccomandazioni del Parlamento. In cambio (si fa per dire) sono stati presentati al Consiglio tre schemi di decreti (sui minori, sul lavoro in carcere, sulla giustizia riparatoria) importanti nel contenuto, ma appena all’inizio della loro “lunga marcia”. In questa situazione temo di dover in gran parte condividere il giudizio formulato da Antonio Padellaro (Senza Rete, Fatto di domenica 18 febbraio scorso): il rischio di “salvarsi la coscienza con una riforma studiata male per poi scegliere di lasciare tutto immutato”, attraverso i ritardi nella presentazione della riforma. Sono ritardi certamente inaccettabili, ma non imputabili ad essa. Dissento da Padellaro solo in un punto: la riforma non è stata studiata male, per il modo e il tempo con cui è stata pensata, elaborata, discussa ed approvata; è stata presentata male. E mi auguro che tutte le riforme vengano studiate con l’ampiezza e la profondità che hanno caratterizzato i lavori di quella del carcere. Carceri, la riforma nella tomba. Gentiloni congela Orlando di Eleonora Martini Il Manifesto, 23 febbraio 2018 Il Consiglio dei ministri affossa il primo decreto attuativo ad un passo dal via libera. Avviato l’iter di altri tre decreti da concludersi dopo il voto. Il Garante Palma: “Deluso”. Tutto rinviato a dopo le elezioni. Il primo dei decreti attuativi della riforma dell’ordinamento penitenziario voluta dal ministro Andrea Orlando, quello sulle misure alternative - il più importante dei decreti legislativi e più incisivo nel contrastare il sovraffollamento carcerario e la recidiva dei reati - è finito nel calderone delle promesse mancate del governo bipartisan. Mancavano solo le controdeduzioni alle obiezioni sollevate dalle commissioni Giustizia di Camera e Senato, l’ultimo passo prima dell’approvazione finale prevista per il 2 marzo, giusto sul filo di lana dopo tante promesse, e invece ieri il Consiglio dei ministri non se l’è sentita e ha rimandato la gatta da pelare alla prossima riunione prevista per il 7 marzo. In compenso - si fa per dire - ha messo in moto l’iter di altri tre decreti attuativi della riforma (ordinamento minorile, giustizia riparativa e lavoro) che fino ad ora non avevano visto la luce, malgrado un processo di studio durato due anni da parte di oltre 200 esperti nominati dal Guardasigilli al fine di cambiare volto ad un sistema concepito oltre 40 anni fa e che è costato all’Italia la condanna dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Non a caso il ministro Orlando ieri non si è fatto vedere in conferenza stampa, malgrado fosse presente a Palazzo Chigi mentre il premier Paolo Gentiloni dava brevemente conto (e senza spazio per le domande) del “lavoro in progress”. Il presidente del Consiglio, evidentemente ottimista sull’esito del voto, ha spiegato che l’iter dei decreti proseguirà “nelle prossime settimane e mesi” anche “tenendo conto delle indicazioni del Parlamento”. Ed è questo il nodo: ufficialmente il primo Dlgs è stato messo in stand by perché occorrerebbe più tempo per ricalibrare le correzioni apportate all’articolo 4bis (selezione dei reati esclusi dai benefici) che proprio non sono piaciute alla commissione Giustizia del Senato, presieduta dal centrista D’Ascola. Anche se in via Arenula assicurano che la riforma non sarà svuotata come vorrebbe Ncd. Eppure l’ululato delle destre, Lega capofila, ma anche del M5S e di alcuni sindacati di polizia penitenziaria, come il Sappe che ieri esultava per lo stop a quello che in certi ambienti viene definito come “l’ennesimo svuota carceri”, evidentemente fa molta paura. Tanto da indurre il governo a chiarire che l’obiettivo non è tanto quello di riportare la pena nel solco del dettato costituzionale e delle norme internazionali (privazione della libertà, non della dignità, come spiega bene Emma Bonino), ma quello di “ridurre notevolmente il tasso delle recidive”. Lo ha precisato ieri Gentiloni: “Se vogliamo rintracciare un filone che unisce i diversi provvedimenti il filone è esattamente questo: abbiamo un rischio che questo sistema se non ha delle correzioni utili, in parte adottate oggi, in parte lo si farà nelle prossime settimane e mesi, non sia sufficientemente efficace nel ridurre la recidiva. Perché i comportamenti criminali continuano a generare comportamenti criminali, invece di favorire il reinserimento nella nostra società”. “Non è un rischio, è una certezza”, ribatte la radicale Rita Bernardini, in sciopero della fame dal 22 gennaio, insieme a migliaia di detenuti e centinaia di garanti regionali, magistrati, avvocati e cittadini, per ottenere il varo definitivo della riforma prima delle elezioni ed evitare così di buttare a mare soldi, energie, tempo e giustizia. “Arrogantemente - insiste la leader del Prntt - ritiene di conoscere già i risultati elettorali, probabilmente pensa che gli esiti di una legge elettorale incostituzionale saranno quelli da lui e da Napolitano previsti”. “Parecchio deluso” si è detto anche il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma: “Ci si aspettava la capacità di approvare il provvedimento, che è stato più volte esaminato dal governo e in sede parlamentare. Ci aspettavamo una capacità di risposta che è mancata. Mi auguro che nel prossimo Consiglio dei ministri non vengano sollevate questioni di opportunità politica e che prevalga invece la volontà di non lasciare al palo la riforma”. La riforma penitenziaria finisce sul binario morto di Samuele Cafasso lettera43.it, 23 febbraio 2018 Gentiloni decide di prendere tempo sul decreto per rendere più accessibili le pene alternative. L’ira della radicale Bernardini: governo ipocrita. L’esame finale della riforma slitta a dopo le elezioni. La riforma dell’ordinamento penitenziario è finita su un binario morto: nonostante il pressing del ministro della Giustizia Andrea Orlando, il governo Gentiloni nel Consiglio dei ministro del 22 febbraio - probabilmente l’ultimo prima delle elezioni, come ha detto lo stesso premier - ha preferito non licenziare il decreto principale attorno a cui ruota tutta la riforma, ovvero quello che disciplina il ricorso alle pene alternative rispetto al carcere. Radicali all’attacco. Anche se formalmente il governo ha fatto un passo in avanti, avviando l’iter di approvazione di altri tre decreti che riguardano i minori, il lavoro in carcere e la giustizia riparativa, nei fatti lo stop sul decreto riguardo le pene alternative rischia di inficiare tutta la riforma. L’attivista radicale Rita Bernardini, in sciopero della fame per l’approvazione, ha parlato di “governo ipocrita”. L’associazione Antigone per i diritti dei detenuti, che pure spera ancora in un’approvazione ai tempi supplementari dopo le elezioni, parla di “occasione storica sprecata” e il presidente Patrizio Gonnella accusa: “Siamo delusi. Speravamo che non vincessero la tattica e la preoccupazione elettorale”. Carceri: Gentiloni, decreti in Cdm 22/2 L’idea di una grande riforma delle norme che regolano la detenzione in Italia era stata lanciata dallo stesso ministro Andrea Orlando il 19 maggio del 2015 dal carcere lombardo di Bollate, con l’obiettivo di superare definitivamente le criticità che avevano portato l’Italia a essere condannata dalla Corte europea per i diritti dell’uomo nel 2013 (sentenza Torreggiani) per il sovraffollamento delle carceri e le condizioni disumane di detenzione. I 18 tavoli al lavoro. Furono formati 18 tavoli di discussione che riunivano i maggiori esperti in Italia e che, al termine di un lavoro lungo un anno, produssero un documento che avrebbe dovuto ispirare la riforma. Coordinatore scientifico degli Stati generali dell’esecuzione penale fu nominato Glauco Giostra. Le indicazioni contenute nel documento consegnato ad aprile 2016 furono poi tradotte in una legge delega approvata a giugno 2017 le cui linee guida indicavano la necessità di rendere più semplice il ricorso a pene alternative al carcere, una rinnovata attenzione all’architettura degli istituti di pena perché fossero più permeabili al mondo esterno e non completamente separati da questo, l’incremento delle occasioni di lavoro all’interno delle carceri, più attenzione al diritto all’affettività. A quel punto, però, il quadro si è complicato, soprattutto per l’avvicinarsi dell’appuntamento elettorale che ha reso sempre più difficile parlare di pene da scontare fuori dalle carceri, nonostante diversi studi dimostrino che politiche del genere abbattono la recidiva e hanno tassi di successo molto alti nel processo di rieducazione. Il primo e più importante decreto attuativo è stato licenziato dal governo il 22 di dicembre e trasmesso alle Commissioni di Camera e Senato per il parere. Il Senato, pur dando parere positivo, ha criticato la riforma dell’articolo 4bis che, nella forma attuale, vieta il ricorso a forme di pena alternativa per i reati associativi (mafia e terrorismo), più altri reati particolarmente gravi e considerati odiosi dall’opinione pubblica che sono stati aggiunti nel corso degli anni, come lo stupro di gruppo o la pedo-pornografia. Il decreto rimane nel cassetto. La proposta del governo criticata dal Senato era quella di tornare alla formulazione originaria del 1991, escludendo in automatico dalle pene alternative solo i condannati per 41bis. Il governo poteva a quel punto fare due cose: accogliere i rilievi del Senato e approvare il 22 gennaio un testo condiviso, oppure insistere nella sua formulazione che, dopo un nuovo parere delle commissioni non vincolante da esprimere entro dieci giorni, poteva essere confermata definitivamente. Invece ha scelto una terza via: lasciare il decreto nel cassetto, promettendo di occuparsene in un prossimo Consiglio dei ministri. A questo punto, però, si va dopo le elezioni. “Alcuni decreti sono stati adottati, altri lo saranno nelle prossime settimane, tenendo conto delle indicazioni del parlamento” ha commentato il premier Paolo Gentiloni. L’orientamento del ministro Andrea Orlando, però, era quello di tirare dritto e confermare la propria versione nonostante il parere del Senato, per evitare di stravolgere le indicazioni degli Stati generali. Il problema è che adesso la questione sarà affrontata solo dopo le elezioni in un clima generale che si prevede molto ostile. “Al posto di costruire nuovi penitenziari, e assumere conseguentemente altro personale carcerario, il governo del Pd preferisce continuare a inventarsi misure alternative per permettere a chi delinque di restare fuori e poter colpire ancora”, ha commentato a caldo il deputato della Lega Paolo Grimoldi poche ore dopo il Consiglio dei ministri. A meno di sorprese clamorose, difficilmente nel prossimo parlamento ci sarà una maggioranza in grado di chiudere la strada intrapresa dal ministro Orlando. E questo vale sia per il primo decreto che per gli altri tre approvati il 21 febbraio dal Consiglio dei ministri. Crescono i detenuti: a gennaio 2018 sono 58 mila. Dopo una flessione nel numero dei detenuti seguita alla sentenza Torreggiani e alla demolizione da parte della Corte costituzionale della legge Fini-Giovanardi sulle droghe, negli ultimi tre anni si è assistito a un aumento costante delle presenze in carcere in Italia. Si è infatti passati dai 53.889 detenuti del gennaio 2015 ai 58.087 di gennaio 2018. Il governo, scrive in una nota l’associazione Antigone, “ha preferito farsi spaventare dall’avvicinarsi dell’appuntamento elettorale piuttosto che pensare alla tutela dei diritti dei detenuti. Ma la speranza non è del tutto persa. Speriamo che anche dopo le elezioni le autorità vogliano portare a compimento una riforma storica. Il tempo tecnico c’è”. Quello politico, però, sembra ampiamente scaduto. Carcere: approvati i decreti su lavoro, minori e giustizia riparativa di Teresa Valiani Redattore Sociale, 23 febbraio 2018 Il Consiglio dei ministri ha approvato i decreti inizialmente rimasti al palo. Resta indietro il decreto sulla riforma complessiva dell’ordinamento penitenziario. Anastasia: “Siamo delusi, speriamo sia solo un rinvio”. “Abbiamo varato 3 decreti attuativi della riforma dell’ordinamento penitenziario. Il nostro è un lavoro in progress nel senso che alcuni sono stati adottati, altri lo saranno nelle prossime settimane, anche tenendo conto delle indicazioni del Parlamento. La nostra impostazione si riassume così: lavoriamo con strumenti diversi innanzitutto con l’obiettivo che questo sistema carcerario contribuisca a ridurre notevolmente il tasso di recidiva”. Queste le parole del presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, nella conferenza stampa seguita alla riunione di oggi del Consiglio dei Ministri che ha visto, tra i punti all’ordine del giorno, la riforma dell’ordinamento penitenziario. Un testo che dopo 40 anni rimette mano al sistema carcere con un intervento frutto di anni di lavoro e ricerca, confluito nell’opera delle commissioni ministeriali nominate dal ministro della Giustizia Andrea Orlando nel luglio scorso per riportare nel solco tracciato dalla Costituzione un sistema che è già costato all’Italia una condanna dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Ma il Consiglio dei ministri ha approvato i decreti relativi a lavoro, minori e giustizia riparativa, inizialmente rimasti al palo, lasciando indietro quello sulla riforma complessiva dell’ordinamento penitenziario, su cui si erano già espressi Camera e Senato (quest’ultimo con pesanti ritocchi) e che interveniva sul nodo centrale: l’ampliamento delle misure alternative. “Siamo delusi che non sia stato approvato il decreto principale - commenta Stefano Anastasìa, garante dei detenuti del Lazio, in sciopero della fame per sollecitare il varo della riforma - e capiamo le ragioni che possono stare dietro al rinvio: ragioni tattiche tese ad evitare polemiche che già si sono presentate pretestuosamente. Ma a questo punto ci auguriamo che all’indomani delle elezioni possa essere approvato e che si sia trattato semplicemente di un rinvio per evitare che questa materia fosse oggetto di polemica negli ultimi giorni di campagna elettorale. Speriamo che all’indomani delle elezioni il governo, che sarà comunque nel pieno delle sue facoltà per approvare il decreto, chiuda definitivamente il suo iter”. Carceri, riforma spacchettata. Varata (in via preliminare) solo una parte dei decreti di Claudia Morelli Italia Oggi, 23 febbraio 2018 Riforma del sistema carcerario spacchettata con parti importanti che “saltano il giro”. In attesa di un prossimo consiglio dei ministri. Chissà se in questa legislatura. Ieri il consiglio dei ministri ha approvato, ancora in via preliminare, solo una parte dei decreti delegati di attuazione della delega contenuta nella riforma del sistema penale (legge 106/2017): l’esecuzione della pena dei condannati minorenni, la riforma delle condizioni di vita detentiva e del lavoro penitenziario; e le nuove modalità di giustizia riparativa e mediazione tra il reo e la vittima. Tutto il resto, cioè il potenziamento delle misure alternative al carcere e della concessione dei benefici penitenziari con la eliminazione degli automatismi ostativi e l’innalzamento della pena del reato non ostativa alla concessione a 4 anni, è stato accantonato in vista di una approvazione (in via definitiva visto che camera e senato hanno già espresso i pareri) in un prossimo futuro. In piena campagna elettorale la riforma ambiziosa del sistema penitenziario, ispirata a una concezione avanzata e costituzionale di esecuzione penale, portata avanti nell’arco di quasi una legislatura dal ministro guardasigilli Andrea Orlando, ha dovuto perdere alcuni pezzi importanti per non lasciare campo libero alle forze di opposizione, che sulla sicurezza dei cittadini hanno improntato il braccio di ferro elettorale. “Abbiamo varato tre decreti attuativi della riforma dell’ordinamento penitenziario”, ha detto ieri il premier Paolo Gentiloni in conferenza stampa al termine del Consiglio dei ministri. “Il nostro è un lavoro in progress. Lavoriamo con strumenti diversi con l’obiettivo innanzitutto che il sistema carcerario contribuisca a ridurre il tasso recidiva da parte di chi è accusato o condannato per reati”. I tre decreti delegati, sui quali le camere dovranno comunque esprimere il parere, attuano la riforma con riguardo ai commi 82, 83 e 85 lettere f, g, h, p, r dell’articolo 1 della legge 106, relativi a esecuzione penale per i condannati minorenni, condizioni di vita detentiva e giustizia riparativa. Esecuzione penale per i condannati minorenni e al di sotto dei 25 anni. Centrale è la disciplina delle misure penali di comunità e la previsione di un modello che punti a “personalizzare” il trattamento. Le autorità competenti metteranno a fuoco un programma rieducativo tenendo conto della specificità di ogni giovane condannato, volto al reinserimento sociale. La detenzione sarà l’ultima ratio, qualora non si riesca a contemperare le esigenze di sicurezza e sanzionatorie con quelle pedagogiche. Viene posto un limite alla possibilità di concessione dei benefici previsto dall’ordinamento penitenziario ai detenuti sottoposti a regime di 41bis. Giustizia riparativa. Lo schema di decreto si propone di promuovere percorsi di giustizia riparativa coinvolgendo il reo e le vittime che acconsentano al percorso (sono già stati tentati percorsi del genere con successo). L’obiettivo è responsabilizzare il reo garantendo nel contempo alla vittima di partecipare alla fase di esecuzione della pena. I servizi di giustizia riparativa sono promossi attraverso convenzioni e protocolli tra il ministero della giustizia, gli enti territoriali o le regioni. Lavoro e vita detentiva. Promuove l’incremento delle opportunità di lavoro retribuito, sia intramurario (con progetti orientati all’autoconsumo) sia esterno, nonché di attività di volontariato individuale e di reinserimento sociale dei condannati, attraverso il potenziamento del ricorso al lavoro domestico e a quello con committenza esterne o a quello di pubblica utilità, da realizzare all’interno degli istituti o, sulla base di apposite convenzioni, in favore di amministrazioni dello stato, enti territoriali, enti o organizzazioni, anche internazionali, di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato. Il Dlgs interviene per garantire il miglioramento della vita carceraria, attraverso la previsione di norme volte al rispetto della dignità umana mediante la responsabilizzazione dei detenuti e la massima conformità della vita penitenziaria a quella esterna introducendo disposizioni per l’adeguamento degli edifici penitenziari. La riforma rende più attuale la disciplina, ormai risalente al 1975, e la adegua agli innovativi orientamenti della giurisprudenza costituzionale, di legittimità e delle corti europee. Riforma delle carceri, slitta l’ok del governo: nodo bonus ai detenuti di Michela Allegri Il Messaggero, 23 febbraio 2018 Uno stop che ha il sapore della mossa pre-elettorale. Il decreto legislativo, che modifica le norme sulla vita carceraria e sull’ordinamento penitenziario approdato in Consiglio dei ministri, è finito in stand by. L’approvazione definitiva slitta a giovedì, a due giorni dal voto. Il nodo riguarda le categorie di detenuti che resteranno fuori dai “nuovi” benefici, finora preclusi solo a terroristi e mafiosi. Se non si troverà un accordo potrebbe essere tutto rinviato a una data successiva alle elezioni. La Lega aveva ribattezzato il testo “svuota- carceri” e anche ieri Matteo Salvini l’ha bollato come “una follia che lascia libera migliaia di spacciatori”. In realtà, il decreto attuativo non spalanca le porte delle celle in modo indiscriminato, ma amplia la possibilità di accedere a misure alternative al carcere. Le modifiche - “Del decreto in Cdm non si è discusso, è in corso una riflessione che, in caso di modifiche riporterebbe alle Camere, in terza lettura, un testo condiviso - fanno sapere da via Arenula - gli uffici sono al lavoro per migliorare la selezione dei reati gravi la cui condanna comporti la preclusione a determinati benefici penitenziari”. Proprio su quei benefici aveva chiesto modifiche la commissione Giustizia del Senato. La concessione dei vantaggi alla popolazione carceraria, anche se prevede il vaglio di un giudice, ha lasciato perplessi anche alcuni magistrati, compreso il procuratore nazionale Antimafia Federico Cafiero de Raho. Deluso per lo stop, invece, Mauro Palma, garante nazionale dei Detenuti, che ha parlato di “una capacità di risposta che è mancata”. Se ne discuterà la prossima settimana, oppure, servirà un Cdm straordinario post-voto entro il 23 marzo. Ieri sono stati invece approvati in via preliminare altri tre decreti in materia penitenziaria, “efficaci contro le recidive”, ha annunciato il premier Paolo Gentiloni. Il primo prevede l’incremento delle opportunità di lavoro retribuito e dell’attività di volontariato per i detenuti. Il secondo riguarda invece le misure per i minorenni e gli adulti sotto i 25 anni, con interventi educativi. Viene anche posto un limite alla possibilità di concessione dei benefici previsto dall’ordinamento penitenziario ai detenuti sottoposti a regime di 41bis. L’ultimo decreto riguarda la giustizia riparativa e le nuove forme di mediazione tra il reo e la vittima. “Il nostro è un lavoro in progress - ha spiegato Gentiloni - Lavoriamo con strumenti diversi con l’obiettivo innanzitutto che il sistema carcerario contribuisca a ridurre il tasso recidiva da parte di chi è accusato o condannato per reati. Alcuni decreti attuativi sono stati adottati, altri lo saranno nelle prossime settimane, tenendo conto delle indicazioni del Parlamento”. Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha parlato di “una giornata importante in materia di riforma del sistema penitenziario, abbiamo approvato tre parti importanti. Ora dobbiamo arrivare alla stretta finale con l’interlocuzione delle Camere”. Critiche per il mancato via libera al decreto complessivo che ridisegna l’ordinamento sono invece arrivate dai Radicali e dall’associazione Antigone. Carceri, la riforma passa solo a metà. Un’occasione persa di Antonio Mattone Il Mattino, 23 febbraio 2018 Il Consiglio dei ministri ha approvato provato i decreti attuativi riguardanti disposizioni su minori, lavoro e giustizia ripartiva previsti dalla legge delega che modifica le norme sulla vita in carcere e l’ordinamento penitenziario, lasciando invece “nel cassetto”, come ha affermato l’esponente radicale Rita Bernardini, le modifiche che interessano le misure alternative. Un colpo di scena inatteso che ha lasciato delusi tutti coloro che speravano in una conclusione positiva last-minute del decreto complessivo, frutto del lavoro di oltre 200 esperti del mondo penitenziario, accademici, magistrati, volontari, intellettuali che nei mesi scorsi con gli Stati generali dell’esecuzione penale hanno modellato la Riforma che avrebbe dovuto prevedere un modo più umano e nello stesso tempo più efficace di scontare una pena detentiva. Così i tre decreti approvati inizieranno l’iter di discussione nelle commissioni Giustizia e Bilancio di Camera e Senato, a cui era peraltro già giunto il testo sulle misure di comunità, come vengono chiamate le misure alternative alla detenzione, che oggi sarebbe invece potuto diventare legge dello Stato. Appare evidente che si tratta di una scelta politica, frutto del clima e delle polemiche che stanno avvelenando questa campagna elettorale attorno ai temi della sicurezza della società e della certezza della pena, e soprattutto della preoccupazione azione di un uso strumentale nella competizione del 4 marzo. Un dibattito acceso dove alcune forze politiche soffiano sul fuoco della paura della gente, generando un corto circuito alimentato dalla benzina di una falsa percezione della realtà. Occorre innanzitutto ricordare che in Italia il 2016 è stato quello in cui negli ultimi 25 anni, si è registrato il minor numero di omicidi, un dato che dovrebbe ridimensionare il timore di una recrudescenza della vita nelle nostre città. La vera questione è comprendere se “pene cattive” e più carceri dove le persone “marciscano fino all’ultimo giorno”, permettano sogni tranquilli ai cittadini. Poiché quasi tutti i carcerati tornano prima o poi in libertà, tranne quelli che scontano l’ergastolo ostativo, è evidente che le nostre esistenze saranno più sicure se queste persone rientrano nella società cambiate nel profondo. Chi un poco conosce il carcere, sa bene che una reclusione dura e senza speranza difficilmente restituirà individui rieducati. Una detenzione che si basa sull’abbrutimento, sull’infantilizzazione del linguaggio e dei comportamenti e sulla mortificazione della dignità del condannato può al massimo plasmare un buon detenuto, difficilmente un buon cittadino. Sappiamo come il carcere è il luogo dove ci si sottomette ai detenuti più forti, dove tanto spesso si perdono i legami familiari e il lavoro, e da dove si esce più poveri, più soli e più malati. È miope interessarsi solo di quando il condannato deve tornare in libertà, disinteressandoci del come ha vissuto all’interno di quelle mura. Ebbene la riforma penitenziaria, e in particolare la parte accantonata dal governo, non è ispirata ad alcun buonismo, elimina piuttosto degli automatismi dei benefici come la possibilità automatica di espiare alcune pene in detenzione domiciliare e prevede la concessione di misure alternative e permessi premio a seconda della condotta del detenuto, che viene monitorato e valutato dalla magistratura di sorveglianza e dagli operatori penitenziari. Così come non corrispondono al vero le preoccupazioni espresse da alcuni magistrati sul fatto che la Riforma aprisse degli spiragli per far uscire dal carcere i boss di mafia. Si tratta di una fake news perché la delega data dal Parlamento ha imposto al governo di escludere nei decreti attuativi qualsiasi modifica al regime sia del “carcere duro”, sia dei reati di associazione mafiosa e terroristica. Intanto la vita nelle carceri italiane scorre tra mille criticità. Al 31 gennaio scorso erano poco più di 58mila i detenuti presenti, a fronte di una capienza di 50.017 posti disponibili, ben 7.500 in più di quelli previsti. Sessantadue sono i bambini reclusi assieme alle loro madri e oltre 750 quelli che anno superato i 70 anni di età. Inoltre, nel 2017, si è registrato il più alto numero di detenuti non condannati definitivamente rispetto agli ultimi 4 anni. In Campania sono 7.321 i reclusi, ben 1.150 oltre la capienza regolamentare. Qui dobbiamo registrare gravi carenze nella medicina penitenziaria. Continui turnover del personale medico e infermieristico come nel carcere di Secondigliano, dove ieri si è tenuto un convegno con il ministro della salute Beatrice Lorenzin, e dove manca un medico di reparto fisso. È come se il nostro medico di famiglia cambiasse ogni volta, e ad ogni visita gli dobbiamo rispiegare tutto, e non è detto che segua la terapia del collega precedente. Per non parlare della presenza di detenuti con problemi psichiatrici conclamati o dovuti alla carcerazione, dove dagli ultimi dati forniti emerge una forte psichiatrizzazione del disagio mentale. Lunghe liste di attesa per ricoveri, per le visite ed esami specialistici con i posti nei reparti detentivi degli ospedali ancora insufficienti completano il “cahier de doléances”. Basti pensare che nell’ospedale di Caserta da anni è pronto il reparto detentivo, ma mancano gli operatori sanitari assegnati. Questo spaccato ci fa capire come sia insostenibile la situazione all’interno delle carceri e, come sarebbe stato urgente approvare questa Riforma. Una impresa che sembra ormai ardua e, come ha detto il filosofo Aldo Masullo, da sempre attento al grado di civiltà delle nostre galere, fa emergere come “la politica mette in luce la propria oscurità”. Il vero sconfitto dalla mancata riforma delle carceri è Orlando di Massimo Bordin Il Foglio, 23 febbraio 2018 Si è chiusa l’ultima finestra per farla passare. A perderci è il ministro della giustizia, che pure aveva saputo incardinare una legge che tardava da decenni. Oggi si apriva l’ultima finestra per far passare la legge di riforma dell’ordinamento penitenziario. Si è chiusa. A nulla è valso il lungo sciopero della fame di Rita Bernardini, che ancora non lo ha interrotto, a sua volta sostenuto da oltre diecimila detenuti che l’hanno fatto loro in una staffetta non violenta durata settimane in quest’ultimo tratto del percorso legislativo che si è interrotto. Né è bastato un appello che aveva fra i primi firmatari un filosofo come Aldo Masullo, giuristi come Luigi Ferraioli e Giovanni Fiandaca, il procuratore capo di Torino Armando Spataro e altre centinaia di firme di esperti del settore. Tutti questi che si sono battuti perché la riforma arrivasse in porto escono sconfitti ma non quanto chi quella finestra l’ha chiusa o peggio ancora non è riuscito ad aprirla. Il vero sconfitto è il ministro di Giustizia Andrea Orlando, proprio perché non si può dire sia stato un cattivo ministro, per più di un motivo, a cominciare da una riforma che tardava da decenni e che proprio lui aveva saputo incardinare. Viene trascinato nella sconfitta anche tutto il governo che non ha saputo aiutare il ministro a superare ostacoli inevitabili ma non insormontabili. In fondo i magistrati che si sono spesi pubblicamente per bloccare la riforma sono stati meno del previsto, qualcuno alla fine ha anche ammorbidito e ridimensionato le sue critiche. La sconfitta del governo è tutta politica. Hanno preferito arrendersi allo scomposto berciare di Salvini e dei Cinque stelle senza nemmeno combattere. A meno di due settimane dalle elezioni diventa un segnale equiparabile al peggiore dei sondaggi. Le carceri agitano i ministri di Alessandro De Angelis e Silvia Barocci huffingtonpost.it, 23 febbraio 2018 Confronto teso nel Cdm, sedia vuota di Orlando. Minniti e Boschi per il rinvio. Alla fine del consiglio dei ministri, il guardasigilli Andrea Orlando evita di metterci la faccia. La sua sedia, in conferenza stampa, è vuota. Il premier Paolo Gentiloni, a stento riesce a coprire l’insuccesso di una riforma annunciata, quella dell’ordinamento carcerario e rinviata nella sua parte sostanziale: “È un lavoro in progress” dice. Dei quattro decreti delegati in cui si articola la riforma, ne passano tre, manca il più importante, e il più politicamente sensibile in questo clima, che riguarda le misure alternative al carcere. Slitta. Rinvio politicamente pesante, frutto di una spaccatura tutta interna al governo. Che si manifesta nel consiglio dei ministri, dopo giorni in cui era nell’aria. Tanto che ieri sera era andata deserta la commissione Bilancio del Senato, che avrebbe dovuto dare parere sulla delega. Segno che erano già iniziate le manovre per frenare il provvedimento che sta particolarmente a cuore a Gentiloni e al capo dello Stato. Torniamo al cdm, dove si manifestano le diverse “sensibilità”. Da un lato il guardasigilli Orlando e il premier, col sostegno di Graziano Delrio; dall’altro il ministro dell’Interno Minniti e Maria Elena Boschi, vera titolare di “palazzo Chigi 2”, secondo la famosa battuta di Pier Carlo Padoan, in un rapporto di dualità con “palazzo Chigi 1”, il cui titolare è Gentiloni. Sul tavolo c’è la riforma. Sacrosanta perché l’ordinamento penitenziario è fermo al 1975. Ma ad alto impatto politico, in questo clima di ansia securitaria, alimentata dalle campagne della destra. Perché la riforma riscrive le regole con l’obiettivo di “alleggerire” le carceri: maggiore possibilità di ottenere, senza più automatismi, misure alternative al carcere, permessi premio e collegamenti con la realtà esterna, basandosi sul principio che un carcere “chiuso” produce più recidiva a maggiore propensione di tornare a delinquere. Benzina, nel gran falò degli impresari della paura. Sentite Giorgia Meloni, a consiglio dei ministri in corso: “Il governo vuole meno galera e più misure alternative. Noi saremo dalla parte delle vittime e non dei delinquenti: più carceri e meno moschee abusive”. Le fa eco Salvini, a stretto giro: “Il consiglio dei ministri, invece di parlare di nuove carceri mi parla di lasciar liberi migliaia di spacciatori, è folle”. È chiaro che, il minuto dopo l’approvazione il provvedimento diventa il gran finale di una campagna tutta giocata all’attacco sulla sicurezza, dopo Macerata che ha radicalmente e definitivamente mutato il clima. Ecco, il punto è tutto politico. C’è un pezzo di governo che considera questa riforma un suicidio, in questo clima e a pochi giorni dal voto, col Pd in evidente affanno. È una frenata brusca imposta al premier che, solo qualche giorno fa, aveva assicurato come certa l’approvazione oggi. La seconda, in due giorni, dopo che l’accordo politico Renzi-Salvini al Copasir ha costretto il governo a ritirare il decreto per il rinnovo dei vertici dei servizi. Una riappropriazione di sovranità dei leader di partito, a partire dal segretario del Pd, rispetto alla strategia messa in campo da Gentiloni di assicurare il massimo di continuità possibile, nelle nomine degli apparati dello Stato, in vista di un post elezioni che si annuncia lungo e complicato (leggi qui l’accordo politico che fa saltare i piani del governo). Sulle carceri il secondo colpo. E adesso la questione diventa complicata davvero. Perché la delega deve essere esercitata entro il 3 marzo. Dunque o viene approvata al prossimo Cdm, a ridosso del voto, oppure il decreto rischia di non essere convertito. Iter reso difficile, oltre che dalle divisioni nel governo, anche dalle richieste di modifica da parte della commissione Giustizia del Senato, volte a indurire il provvedimento, segno che il Pd non è compatto sul tema. È un parere tecnicamente non vincolante, di cui il governo può non tener conto, ma che renderebbe necessario un nuovo passaggio in commissione entro dieci giorni. Insomma, è evidente che a dieci giorni dal voto il rischio è che il rinvio di oggi sia sine die. E che essere arrivati all’ultimo momento non ha aiutato l’approvazione del provvedimento che, solo qualche settimana fa, sarebbe stato più indolore. Rita Bernardini: “sono molto delusa, calpestato il Satyagraha di diecimila detenuti” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 febbraio 2018 Ci ha messo passione, coraggio, forza fisica e intellettuale per chiedere l’approvazione della riforma dell’ordinamento penitenziario. Non solo ha seguito l’iter, ma ha anche contribuito alla sua formulazione attraverso gli Stati Generali dell’esecuzione penale. Dal 2015 ad oggi, è stata una continua azione nonviolenta attraverso marce, carovane che hanno attraversato tutta la penisola per visitare i penitenziari, ma soprattutto, a più riprese, ha condotto lo sciopero della fame. Durante questa sua lotta nonviolenta che cercava un dialogo con le istituzioni, ha ricevuto delle promesse che puntualmente sono state deluse dai fatti. Parliamo di Rita Bernardini della presidenza del Partito Radicale, giunta oggi al 32esimo giorno dello sciopero della fame. Che emozioni ha provato, appena si è resa conto della mancata approvazione del decreto attuativo? Intanto, leggendo l’ordine del giorno, mi sono accorta subito che qualcosa non quadrava. Subito ho notato che si trattava di nuovi decreti e non di quello già esaminato dalle Commissioni giustizia. Poi ho ascoltato la frase di Gentiloni che ha dato certezza alle mie perplessità. In maniera generica, in conferenza stampa ha detto che nei prossimi mesi si occuperanno di completare la riforma. In quel momento ho provato sconcerto, amarezza e una fortissima delusione. Ma ci sono le elezioni politiche... Infatti da parte di Gentiloni è stato un gesto di arroganza: ritiene di conoscere già il risultato elettorale e che sarà comunque lui a governare? Come si permette di dire che ci penseranno loro dopo le elezioni? Indirettamente mi aveva fatto sapere che mi sarei dovuta tranquillizzare, perché avrebbe approvato la riforma prima del 4 marzo. Lo ribadì pure in tv rispondendo a Paolo Mieli e indicò proprio la data di oggi. Anche il guardasigilli l’ha tranquillizzato più volte. Sì, e ora da parte sua c’è il silenzio più assoluto. Da via Arenula trapela che il governo sarebbe intenzionato ad approvare la riforma e per quanto riguarda il decreto attuativo già licenziato dalle commissioni, ad esaminarlo la prossima settimana o dopo il 4 marzo per riformularlo e restringere un po’ le maglie del 4bis. Lo farebbero per non disattendere completamente le osservazioni del Senato. Se è vero, ribadiscono la loro arroganza. Già sanno che dopo il 4 marzo avranno l’opportunità politica di andare avanti. Anche se il governo attuale rimane in carica fino al 23 marzo, non è detto che abbia la forza necessaria per riunirsi e varare la riforma se c’è nel frattempo una maggioranza diversa. A prescindere da questo, non è una bella notizia l’eventuale riformulazione del decreto attuativo. Quindi non c’è nessuna speranza? Ma, soprattutto, in quale modo crede di portare avanti la lotta nonviolenta per ottenere l’attuazione della riforma nella sua interezza e versione originale? Finra, come detto, sia Gentiloni che Orlando sono stati inattendibili. Non si rendono conto di cosa vuole dire accettare uno Stato che si disinteressa dei diritti umani. Loro sanno benissimo che nelle nostre carceri vengono sistematicamente violati i diritti, come sanno che la riforma è la sintesi di quanto già acquisito per normazione nazionale. Sanno anche che i regolamenti penitenziari europei dicono di incrementare le pene alternative e contemplare il carcere come estrema ratio. Sapendo tutto questo, decidono comunque di non fare nulla. Secondo lei, perché hanno deciso di non varare la riforma? Il motivo è chiaramente elettorale. Vogliono evitare strumentalizzazioni politiche. Però a quanto pare hanno fatto male i conti. Salvini e Meloni hanno comunque protestato e parlato di “svuota-carceri”. Quindi il governo ne è rimasto ugualmente vittima. Ci sono oltre 10.000 detenuti che attraverso l’azione non violenta erano in attesa della riforma. Ora che è rimasta disattesa, in preda dalla disperazione, potrebbero commettere qualche sciocchezza? Penso che il governo lo debba mettere in conto. Finora i detenuti hanno utilizzato dei metodi nonviolenti, grazie soprattutto al lavoro che ha fatto negli anni Marco Pannella. Però non vorrei che la disperazione abbia il sopravvento. D’altra parte il governo ha letteralmente calpestato il dialogo messo in moto con il Satyagraha di 10.000 detenuti, di centinaia di cittadini “liberi”, dei Garanti nazionali, del mio sciopero della fame e con la clamorosa presa di posizione a favore della riforma di oltre 300 giuristi, avvocati, magistrati e professori. In effetti attraverso questa enorme mobilitazione, con il ministro Orlando non solo dialogavate, ma avete offerto degli strumenti per poter andare avanti con coraggio. A sostenere la riforma non c’erano solo giuristi o intellettuali, ma anche dei magistrati come Armando Spataro. Al ministro Orlando abbiamo offerto un sostegno enorme. Ma ha fallito. E dico di più. Se nonostante questo enorme sostegno da parte della società civile, compresa la magistratura, il governo non c’è stata una tenuta forte, allora vuol dire che non c’è più tenuta per lo Stato di Diritto. Ora cosa succederà? Quali saranno le prossime azioni? Non rimane che presentare ricorsi agli organi internazionali come la Corte Europea dei diritti dell’uomo. Non ci resta che denunciare lo Stato italiano. Ma a questo punto lei smette lo sciopero della fame? Per il momento no, ci sto riflettendo con i miei compagni. C’è una cosa che però vorrei sottolineare. Non stiamo parlando solo di detenzione. Noi stiamo parlando in realtà anche di questa campagna elettorale dove da più parti si evoca repressione, inasprimento delle pene, costruzioni di nuove carceri, scardinamento del giusto processo già messo in crisi dalla riforma - questa sì, che è passata - della procedura penale. Proprio per questo motivo ancora sto riflettendo se smettere o meno. Di fronte a tutto questo, in questo preciso periodo storico, io penso che ci debba essere qualcuno che mantenga alta la bandiera dello stato di Diritto. Carceri. Lorenzin: consentire a detenuti di curarsi in istituti pena Dire, 23 febbraio 2018 “Il tema centrale è garantire una presa in carico del paziente, più organizzata e meno frammentata. Ed anche garantire la presenza sanitaria, consentendo ai detenuti di curarsi permanendo nelle carceri. Occorre puntare sulla presa in carico del paziente ristretto, sul trattamento e sulla prevenzione, garantendo tutte quelle opzioni di salute necessarie per salvare la vita”. Così il ministro della salute Beatrice Lorenzin concludendo i lavori, questa mattina a Napoli, del convegno “Campania, le buone pratiche in sanità penitenziaria”, organizzato al centro congressi del carcere di Secondigliano dal Garante dei Detenuti della Regione Campania, Samuele Ciambriello. Per la titolare del dicastero serve un intervento “molto serio, anche nei prossimi anni per quanto riguarda proprio la metodologia e le best practice da utilizzare in carcere, sia nell’arrivo sia nella presa in carico. Abbiamo previsto, nelle more dei decreti attuativi della riforma penitenziaria, tutta una serie di misure da attuare proprio in carcere. Cioè permettere l’accesso alle prestazioni sanitarie all’interno delle strutture carcerarie”. Nelle sue conclusioni, Lorenzin ha ricordato che il ministero ha investito 500mila euro, per la prima volta, nel 2015, per lo screening della salute della popolazione carceraria, sulla quale non c’era un dato. Da esso sono emersi numeri sconfortanti: il 7% dei detenuti ha l’epatite C che, se non debitamente curata, conduce alla morte, e il 2% ha l’Hiv. Un altro capitolo da affrontare riguarda le malattie dovute a difficoltà neuropsichiatriche. “Il lavoro fatto su Opg non è banale - ha spiegato il ministro -, anche in Conferenza Stato Regioni abbiamo insistito per la presa in carico pazienti con patologie psichiatriche. Questo Ministero si è fortemente impegnato sulla salute delle donne in carcere e su quella dei minori, perché la sfida più grande è restituire alla società i nostri giovani, in condizioni di salute psico-fisica, e contrastare l’emergenza delle tossicodipendenze, che presenta numeri impressionanti anche per il ritorno all’ eroina da parte dei giovani, un fenomeno connesso alla dipendenza e alla criminalità”. Su questi argomenti, Beatrice Lorenzin ha annunciato un convegno, che si terrà il 28 febbraio al ministero e, nel concludere i lavori, ha ringraziato tutta la Polizia Penitenziaria e i volontari per “l’immenso e prezioso lavoro” che svolgono ogni giorno negli Istituti penitenziari. Ogni anno più di mille cittadini sono arrestati ingiustamente di Claudia Osmetti Libero, 23 febbraio 2018 Aumentano i risarcimenti per detenzione di innocenti: nel 2017 pagati oltre 24milioni, 650 in un quarto di secolo con oltre 26mila persone finite dietro le sbarre senza colpa. Toghe che sbagliano. Nel 2017 sono aumentati i casi di “ingiusta detenzione”, cioè quelli che hanno mandato dietro le sbarre cittadini e indagati che alla fine, guarda un po’, sono usciti dal tribunale con la fedina penale più pulita di prima. Della serie, anche i giudici prendono delle cantonate. E pure belle grosse. Basti pensare che, da Palermo a Torino, la somma complessiva degli indennizzi in questione ha superato, in dodici mesi appena, i 34 milioni di euro (34.319.865,10 euro, per essere precisi al centesimo). I procedimenti che gli “ex galeotti” dello Stivale hanno intentato nei confronti dello Stato, e quindi della sua magistratura, sono stati la bellezza di 1013: oltre venti in più rispetto a quelli registrati l’anno prima (quando toccavano quota 989). E niente. Già la giustizia ha i tempi da bradipo che siamo abituati a conoscere, già il calvario di passare per avvocati, scartoffie e udienze infinite rischia di impantanare chi ci si trova di mezzo a ragion veduta, ma se tra il verdetto finale e le pieghe dell’iter forense ci si mettono persino gli equivoci la frittata è bella che servita. Guida il sud - A stillare la classifica delle manette un po’ troppo facili è il sito Errori Giudiziari, un database sterminato di processi e incartamenti giuridici da far impallidire il portale del ministro Orlando. È a Catanzaro che si registrano gli abbagli bollati più clamorosi: in un solo anno nella cittadina calabrese ne sono avvenuti 158, cinque volte tanti rispetto a quelli ammessi a Lecce e quattro in confronto a quelli elencati dalle corti messinesi. Tra l’altro Catanzaro tiene la testa di questo (impietoso) elenco dal 2012, seguita a ruota da Roma (134 errori accertati al dicembre passato) e da Napoli (113). Sarà forse un caso di “recidiva”, per usare un termine tanto caro agli azzeccagarbugli di casa nostra, ma (al di là dell’ovvia distinzione tra sbaglio e reato che non va messa in discussione) la situazione non sembra proprio delle più floride. Anzi. I primi dieci tribunali d’Italia che incappano sempre più spesso in errori e in sviste “alla sbarra” sono quasi tutti del Sud: con le uniche eccezioni della Capitale e del foro di Milano, infatti, la geografia dei verdetti ribaltati tocca luoghi come Bari, Catania, Salerno e Lecce. “Vuole farsi una vacanza a Poggioreale?”, pare abbia detto recentemente il pm Woodcock per incalzare un testimone chiave nel procedimento Consip. Ecco, di vacanza nel carcere partenopeo di Poggioreale non c’è proprio nulla. I costi - In compenso c’è un sovraffollamento preoccupante, ci sono celle minuscole dove i detenuti vengono stipati e c’è pure il rischio (concreto) di finirci per qualche inghippo. Intendiamoci, di granchi nella vita ne prendiamo tutti. Ma quelli che incidono sulle libertà altrui dovrebbero pesare un po’ di più. Anche a livello economico perché questo resta il Paese in cui per non mettere mano alle riforme (come quella sulla responsabilità diretta dei magistrati o quella sulle condizioni penitenziarie) le mettiamo al portafoglio. Pagando noi prima e poi rivalendoci su chi ha firmato il certificato sbagliato. Solo nell’ultimo anno a Catanzaro sono stati staccati quasi 9 milioni di euro a titolo di risarcimento, a Roma poco meno di 4, a Bari tre e mezzo. Negli ultimi 25 anni, specificano gli analisti di Errori Giudiziari, al gabbio, e senza motivo, sono state portate 26.412 persone che una volta uscite all’aria fresca hanno deciso di fare causa. E senza contare quelle condannate e scagionate da un processo di revisione, magari dopo decenni. Per risarcire questo esercito di disgraziati abbiamo speso 656 milioni di euro. Fosse solo una questione di soldi, però. Contributi Ue per la giustizia. Fondi per migliorare la condizione di imputati e vittime di Massimiliano Finali Italia Oggi, 23 febbraio 2018 Sono gli obiettivi dei bandi 2018 della Commissione che ha stanziato 16,2 milioni. Migliorare i diritti dei sospettati e degli accusati di reato, nonché delle vittime di reati, ma anche investire sulla digitalizzazione della giustizia, favorire la cooperazione a livello europeo e la formazione nel settore giudiziario sono gli obiettivi dei bandi 2018 del programma comunitario “Diritti, uguaglianza, cittadinanza” 2014-2020. In particolare, la commissione europea ha stanziato 16,2 milioni di euro a favore del sotto-programma “giustizia”. Gli enti pubblici interessati possono richiedere contributi a fondo perduto a copertura dell’80% delle spese ammissibili. I cinque inviti prevedono diverse date di apertura e di chiusura, a partire dal 6 marzo 2018 e fino al 25 ottobre 2018. I progetti possono interessare i territori degli stati membri comunitari, inclusi i territori oltre-oceano, con l’aggiunta dell’Albania e l’esclusione di Regno Unito e Danimarca. La presentazione delle domande avviene telematicamente attraverso il portale dei partecipanti della commissione europea, raggiungibile all’indirizzo http://ec.europa.eu/research/participants/portal/desktop/en/home.html. Gli obiettivi del sostegno sono incrementare la consapevolezza e conoscenza del diritto e delle politiche comunitarie da parte dell’opinione pubblica, migliorare la conoscenza del diritto, promuovere la cooperazione transfrontaliera nel settore giudiziario, migliorare la conoscenza e la comprensione dei potenziali ostacoli al buon funzionamento di uno spazio europeo di giustizia, nonché migliorare l’effi cacia dei sistemi giudiziari. Cinque bandi per oltre 16 milioni di euro. Sono cinque gli inviti di prossima apertura a valere sul sotto-programma “giustizia”, tutti pubblicati a fi ne gennaio 2018. Il primo bando concede contributi a sostegno di progetti transnazionali per migliorare i diritti dei soggetti sospettati o accusati di atti criminali, nonché i diritti delle vittime di reati, attraverso uno stanziamento di 4,6 milioni di euro. Il secondo bando concede un sostegno ai progetti nazionali o transnazionali sulla giustizia elettronica e mette in gioco risorse per oltre 1,2 milioni di euro. Il terzo bando prevede contributi per progetti transnazionali finalizzati a promuovere la cooperazione giudiziaria in materia civile e penale, grazie a risorse comunitarie per complessivi 2,9 milioni di euro. Il quarto bando è destinato a finanziare progetti dei membri della rete giudiziaria europea, delle autorità nazionali, delle corti e delle associazioni professionali, mettendo peraltro a disposizione la somma di 5,53 milioni di euro. Infine, il quinto e ultimo invito concede sovvenzioni a sostegno di progetti transnazionali in materia di formazione giudiziaria su diritto civile, diritto penale e diritti fondamentali. Giudizi dinanzi alla Consulta, in dieci anni da 950 a 308 di Claudia Morelli Italia Oggi, 23 febbraio 2018 Una legislazione oscura, che a volte gli stessi giudici costituzionali fanno fatica a interpretare per valutarne la correttezza costituzionale. Un parlamento che molto spesso trascura i moniti per una “più congrua disciplina delle materie” sottoposte al vaglio di legittimità costituzionale. Nel contempo un calo della litigiosità “costituzionale” anche tra poteri dello stato”, misurata nel numero dei giudizi instaurati nel 2017, nonostante la percezione di un livello aspro di scontro tra poteri dello stato e nella politica. Ieri il presidente della Corte costituzionale, Paolo Grossi, ha tenuto la relazione sulla giurisprudenza costituzionale del 2017, alla presenza del presidente della repubblica e delle massime cariche dello stato. Dopo nove anni di vigilanza sulla tenuta costituzionale del Paese Grossi si è dichiarato fiducioso: “Il diritto è come un ghiacciaio: si espande pur apparendo immobile. E non si sta sciogliendo”. I giudizi instaurati nel 2017 sono diminuiti a 308 (erano 950 nel 2007), “il più basso valore negli ultimi dieci anni”, ha evidenziato Grossi. Diminuiscono sia le ordinanze di rimessione di questioni di legittimità da parte dei giudici; sia il numero dei ricorsi per conflitto di attribuzione. Nei giudizi incidentali, i parametri costituzionali che si assumono essere lesi sono nella maggior parte dei casi l’articolo 3, il principio di uguaglianza sotto il profilo della ragionevolezza, l’articolo 117 con riguardo agli obblighi comunitari, l’articolo 41 sulla libertà di libera iniziativa economica, l’articolo 77 sul potere legislativo delegato al governo e l’articolo 136 per violazione del giudicato costituzionale. Tra gli atti normativi statali censurati il primato spetta alle leggi e alle disposizioni del codice di procedura penale. Le dichiarazioni di illegittimità sono state nel complesso intorno al 60%. Alla vigilia della scadenza del suo novennato Grossi ha poi voluto incontrare la stampa, come segno di apertura comunicativa all’esterno, alla quale la Corte sta lavorando portando avanti iniziative diverse tra cui gli incontri nei licei. E il confronto si è spostato sui temi più attuali: la legge elettorale (la Corte non aveva ammesso i ricorsi sull’Italicum pur indirizzando al parlamento molto moniti, trascurati), l’ordinanza del tribunale di Milano sulla vicenda del Dj Fabo, la nuova ordinanza del tribunale di Milano sulla legge Merlin. “Sul piano dell’etica sociale l’astensionismo non è ammissibile”, ha detto Grossi pur riconoscendo lo scollamento tra cittadini e “apparato”. E infine una monito grave al parlamento: la necessaria, e doverosa, ricomposizione del collegio con la elezione dei componenti mancanti che da dopodomani saranno due. Resta la colpa medica “lieve” di Riccardo Borsari Il Sole 24 Ore, 23 febbraio 2018 Corte di cassazione - Sentenza 8770/2018. Sono state depositate ieri le motivazioni della sentenza 8770/18, con la quale le Sezioni unite della Cassazione hanno affrontato il contrasto giurisprudenziale sul perimetro della nuova disciplina della responsabilità sanitaria (legge 24/2017) e i correlati profili di diritto intertemporale. Le Sezioni unite affrontano una pluralità di temi nell’intento di offrire un’interpretazione costituzionalmente conforme della nuova legge e di individuare il significato più coerente del dato precettivo, alla luce delle finalità perseguite dal legislatore. La Corte, pur evidenziando come in ciascuna delle due sentenze alla base del contrasto (Tarabori e Cavazza) siano state formulate osservazioni condivisibili, rimarca la mancanza di una sintesi interpretativa complessiva, capace di delineare l’effettiva portata del nuovo articolo 590-sexies del Codice penale. Si segnala l’attenzione rivolta alle linee guida, le quali, anche a seguito della procedura introdotta dalla nuova disciplina, non perdono la loro intrinseca essenza di condensato delle acquisizioni scientifiche, tecnologiche e metodologiche concernenti i singoli ambiti operativi, enucleate dopo accurata selezione, pur senza pretese di fissità e vincolatività. La Corte, poi, non condivide l’impostazione delle due sentenze sull’estensione della causa di non punibilità introdotta dal nuovo articolo 590-sexies: l’una commette infatti l’errore di non conservarne alcuno spazio di operatività, offrendone un’interpretazione abrogatrice collidente con l’intento del legislatore di contrastare la “medicina difensiva”; l’altra valorizza la norma in modo assoluto, attribuendole una portata impropriamente lata. Presupposto per l’operatività della causa di non punibilità è il fatto che il sanitario abbia cagionato per colpa da imperizia l’evento lesivo o mortale, pur essendosi attenuto alle linee guida adeguate al caso di specie. Le fasi dell’individuazione, selezione ed esecuzione delle linee guida adeguate sono, infatti, articolate al punto che la mancata realizzazione di un segmento del relativo percorso giustifica ed è compatibile tanto con l’affermazione che le linee guida sono state nel loro complesso osservate, quanto con la contestuale rilevazione di un errore parziale che, nonostante ciò, si sia verificato, con valenza addirittura decisiva rispetto all’evento morte o lesioni colpose. Per le Sezioni unite la mancata evocazione esplicita della “colpa lieve” da parte del legislatore non impedisce di tenerne conto, posto che l’esenzione da pena per il sanitario rispettoso delle raccomandazioni in tanto si comprende in quanto tale osservanza sia riuscita a eliminare la commissione di errore colpevole non grave, eppure causativo dell’evento. La Corte affronta anche il tema dell’individuazione della legge più favorevole, enucleando i casi immediatamente apprezzabili: la disciplina previgente (legge 189/2012) risulta più favorevole in relazione alle contestazioni per comportamenti negligenti o imprudenti del sanitario, commessi prima della riforma, con colpa lieve, nonché nell’ambito della colpa da imperizia, qualora l’errore determinato da colpa lieve sia caduto sul momento “selettivo” delle linee guida e, cioè, sulla valutazione della loro appropriatezza. Infine, sempre nell’ambito della colpa da imperizia, l’errore determinato da colpa lieve nella sola fase attuativa andava esente per la legge Balduzzi ed è oggetto di causa di non punibilità in base all’articolo 590-sexies, essendo, in tale prospettiva, ininfluente, in relazione all’attività del giudice che si trovi a decidere con la nuova legge su fatti verificatesi antecedentemente alla sua entrata in vigore, la qualificazione giuridica dello strumento tecnico attraverso il quale giungere al verdetto liberatorio. Intercettazioni utilizzabili anche se non masterizzate dalla Pg di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 23 febbraio 2018 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 21 febbraio 2014 n. 8409. Via libera alla masterizzazione dei dati contenuti nelle conversazioni intercettate, da parte di soggetti diversi dagli ufficiali di polizia giudiziaria. L’operazione è, infatti, estranea alla nozione di registrazione, e la sua esecuzione da parte del personale civile non pregiudica le garanzie della difesa alla quale è sempre consentito l’accesso agli originali nel server della Procura. La Corte di cassazione, (sentenza 8409) ha respinto il ricorso di quattro imputati, tre fratelli e il loro commercialista, indagati, per associazione a delinquere, costituita al fine di commettere una lunga serie di reati di natura fiscale: dall’emissione di fatture inesistenti alle illecite compensazioni. Il Tribunale della libertà, aveva confermato nei loro confronti gli arresti domiciliari disposti dal Gip, per i gravi indizi di colpevolezza desunti dal contenuto di intercettazioni, la cui regolarità era contestata nei tempi, per aver sforato i termini, e nei modi dai ricorrenti. Secondo la difesa le captazioni era stato utilizzato un sistema (Mcr) comprensivo di server, probabilmente installato presso la Procura ma collegato al server base di una società che forniva servizi di intercettazione. Per i ricorrenti tutta l’attività di registrazione era stata effettuata illegalmente dalla società in contemporanea, facendo così scattare un’illecita duplicazione sugli impianti della ditta. Per la Cassazione però, la duplicazione anche se avvenuta non sarebbe illecita, perché resterebbe rilevante la registrazione incontrovertibile sul server della Procura, con garanzia di accesso agli originali per il difensore. Non passa neppure la censura sui tempi, prorogati, senza necessità di motivazione “rafforzata” perché alle originarie imputazioni per reati tributari si era aggiunta l’accusa dell’associazione e delinquere, prevista dall’articolo 416 del Codice penale. La giurisprudenza di legittimità non ha dunque per ora risentito, come auspicato dall’Unione camere penali, dell’entrata in vigore (il 31 gennaio 2017) delle prescrizioni del garante della privacy. I penalisti auspicavano un effetto dirompente proprio sulla giurisprudenza della Cassazione in tema di possibilità di masterizzazione Campania: Garante detenuti “incrementare le strutture sanitarie nelle carceri” napolivillage.com, 23 febbraio 2018 “Su 7.293 detenuti nella nostra regione, ci sono appena 34 posti nelle aziende ospedaliere: vanno incrementati e bisogna garantire nelle strutture sanitarie delle carceri macchinari essenziali, come la tac e la risonanza magnetica, e la presenza stabile del personale medico ed infermieristico perché a chi è diversamente libero va pienamente garantito il diritto alla salute ed un’organizzazione che consenta di dare una risposta sanitaria di qualità”. È quanto ha affermato il Garante dei Detenuti della Regione Campania, Samuele Ciambriello, intervenendo, stamani, al convegno - da egli stesso organizzato - sul tema “Campania, le buone pratiche in sanità penitenziaria”, al centro congressi del carcere di Secondigliano con la partecipazione del Ministro della Salute Beatrice Lorenzin. “In questa ottica è apprezzabile il lavoro che sta svolgendo il Governo che, proprio stamani, ha approvato i decreti attuativi della riforma dell’ordinamento penitenziario, puntando ampiamente su nuovi strumenti per allargare la sanità penitenziaria - ha sottolineato Ciambriello, un grande supporto è stato dato dall’Asl Napoli 1 Centro per affrontare le grandi problematiche che affliggono particolarmente le carceri di Secondigliano e di Poggioreale dove, grazie all’impegno delle Direzioni carcerarie e del Corpo della Polizia Penitenziaria, si sta lavorando su progetto di sviluppo della sanità penitenziaria”. Tra gli intervenuti, Giulia Russo, direttrice dell’istituto penitenziario “P. Mandato” di Secondigliano, Giuseppe Martone, Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria per la Campania, Mario Forlenza, Direttore generale dell’Asl Napoli 1 Centro, Maria Gemmabella, Direttore del Centro per la giustizia minorile della Campania, Claudio D’Amario, direttore generale Prevenzione nazionale Ministero della Salute, Maurizio D’Amora. Forlenza ha evidenziato che “l’Asl Napoli 1 Centro ha fortemente investito sulla sanità carceraria, facendo un grande sforzo, a cominciare dal 2008, per Secondigliano e Poggioreale, nonostante un piano di rientro che ci penalizza sempre più” e “nonostante il taglio del 50 per cento delle strutture complesse, abbiamo confermato la struttura complessa per la sanità carceraria”. Forlenza ha, quindi, dato disponibilità per la dotazione di un primo macchinario tac e di un maggior numero di infermieri, anche se - ha sottolineato - per contrastare la precarietà del personale e favorire la stabilizzazione, bisogna cambiare le normative”. Martone ha ricordato che “la Campania è una delle regioni più affollate come popolazione carceraria e che occorrono medici e infermieri stabili, non può esserci turn over, per le particolarità della condizione carceraria. Per D’Amario “anche sul piano della riduzione dei costi, bisogna implementare la medicina penitenziaria di primo livello e concentrare l’attenzione sul grande problema delle patologie psichiatriche affinché le attuali Rems non diventino, a causa del loro isolamento, nuovi Opg”. D’Amora ha, inoltre, sottolineato che “nelle Regioni va implementata medicina preventiva e penitenziaria per tutelare la popolazione carceraria dalle malattie e salvaguardare la società tutta nell’ottica del reinserimento dei detenuti nella società”. Nelle sue conclusioni, il Ministro Lorenzin ha ricordato che il Ministero ha investito 500 mila euro, per la prima volta, nel 2015, per lo screening della salute della popolazione carceraria, sulla quale non c’era un dato, e da esso sono emersi dati sconfortanti: il 7 per cento dei detenuti ha l’epatite C che, se non debitamente curata, conduce alla morte, e il 2 per cento ha l’ hiv; un altro capitolo da affrontare riguarda le malattie dovute a difficoltà neuropsichiatriche. Il lavoro fatto su Opg non è banale, anche in Conferenza Stato Regioni abbiamo insistito per la presa in carico pazienti con patologie psichiatriche. Questo Ministero si è fortemente impegnato sulla salute delle donne in carcere e su quella dei minori, perché la sfida più grande è restituire alla società i nostri giovani, in condizioni di salute psico fisica, e contrastare l’emergenza delle tossicodipendenze, che presenta numeri impressionanti anche per il ritorno all’ eroina da parte dei giovani, un fenomeno connesso alla dipendenza e alla criminalità”. “Il tema centrale - ha sottolineato Lorenzin - è garantire una presa in carico del paziente, più organizzata e meno frammentata, e la presenza sanitaria, consentendo ai detenuti di curarsi permanendo nelle carceri, puntare sulla presa in carico del paziente ristretto, sul trattamento e sulla prevenzione, garantendo tutte quelle opzioni di salute necessarie per salvare la vita. Dobbiamo fare un intervento molto serio, anche nei prossimi anni - ha aggiunto - per quanto riguarda proprio la metodologia e le best practice da utilizzare in carcere sia nell’arrivo sia nella presa in carico. Abbiamo previsto, nelle more dei decreti attuativi della riforma penitenziaria, tutta una serie di misure da attuare proprio in carcere - ha spiegato - cioè permettere l’accesso alle prestazioni sanitarie all’interno delle strutture carcerarie”. Su questi argomenti, il Ministro della salute ha annunciato un convegno, che si terrà il 28 febbraio al Ministero e, nel concludere i lavori, ha ringraziato tutta la Polizia Penitenziaria e i volontari per l’immenso e prezioso lavoro che svolgono ogni giorno negli Istituti penitenziari. Livorno: isola di Gorgona, i detenuti creano i sentieri dei percorsi turistici Redattore Sociale, 23 febbraio 2018 Una convenzione tra Parco Nazionale Arcipelago Toscano e Dap per realizzare interventi di manutenzione straordinaria di percorsi per la fruizione dell’isola. Il Presidente del Parco Nazionale Arcipelago Toscano Giampiero Sammuri e il Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Santi Consolo hanno sottoscritto la convenzione per la realizzazione di interventi di manutenzione straordinaria di percorsi per la fruizione dell’isola di Gorgona. L’accordo prevede interventi di sistemazione della rete sentieristica per i quali il Parco metterà a disposizione dell’Amministrazione penitenziaria le risorse necessarie per pagare la manodopera delle persone detenute impiegate per la sistemazione del piano di calpestio dei sentieri, per la realizzazione di piccole opere di manutenzione e per la posa in opera di staccionate, bacheche e cartelli segnaletici. Con il finanziamento di 90.390,00 euro, messo a disposizione del Pnat, verranno acquistati i materiali necessari per risistemare alcuni percorsi al fine di favorire la visita eco-turistica del Parco, per la quale saranno impiegati detenuti appositamente formati per i servizi di accompagnamento. L’accordo si inserisce nel più ampio progetto di riqualificazione dell’isola di Gorgona promosso dal Ministro della Giustizia Andrea Orlando e affidato alla Struttura Organizzativa di Coordinamento delle Attività Lavorative costituita nell’ambito dell’Ufficio del Capo del Dipartimento, congiuntamente alla Direzione della Casa di Reclusione di Livorno-Gorgona e al Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria per la Toscana e l’Umbria, finalizzato ad avviare sull’isola attività di ristorazione, alberghiera e di accoglienza turistica. L’azione congiunta del Parco Nazionale Arcipelago Toscano e del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria ha l’obiettivo di promuovere buone pratiche per la formazione e l’inserimento lavorativo delle persone detenute, di riqualificazione dell’ambiente e di sviluppo delle attività turistiche sull’isola di Gorgona. Terni: detenuti, dal progetto “Sfide2” l’opportunità di riscattarsi con il lavoro orcianonline.it, 23 febbraio 2018 Un’opportunità in più per chi si trova nella delicata fase di passaggio tra mondo carcerario e società civile. È quella offerta dal progetto “Sfide 2: una buona pratica di presa in carica multi-professionale”, finanziato dalla Regione Umbria e realizzato dall’Associazione Temporanea di Impresa composta dalle cooperative sociali Frontiera Lavoro di Perugia, Cultura e Lavoro di Terni e Quadrifoglio di Orvieto, in collaborazione con gli Uffici di Esecuzione Penale Esterna di Perugia e di Spoleto. Il progetto ha visto protagoniste ottanta persone in carico al servizio sociale del Ministero della Giustizia, che sono state impegnate attraverso un tirocinio formativo della durata di sei mesi all’interno di aziende umbre. A Corciano le aziende coinvolte nel progetto sono state sei appartenenti ai settori ristorazione, commercio e artigianato. L’obiettivo del progetto è quello di aiutare queste persone a trovare un’identità lavorativa e di conseguenza anche un maggiore benessere personale. “Il cittadino in esecuzione penale esterna - ha spiegato Luca Verdolini, coordinatore del progetto - è portatore di una complessa situazione personale, determinata dalla inattività forzata, aggravata da problematiche quali la perdita del proprio ruolo nella società e nella propria famiglia, e la conseguente privazione dei più elementari punti di riferimento esterni”. I partecipanti dopo un percorso di orientamento al lavoro sono stati inseriti in regime di tirocinio formativo extracurriculare all’interno di diverse attività produttive e commerciali dove poter sperimentare in maniera diretta le condizioni lavorative reali ed i ritmi di produzione di un’azienda. “Il valore aggiunto di questa iniziativa - dichiara la Dr.ssa Maria Biondo dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Perugia - sta nell’importanza attribuita alla fase di orientamento e quindi agli aspetti di valorizzazione delle attitudini, competenze e aspettative dei partecipanti”. Secondo i dati forniti da Frontiera Lavoro il tasso di recidiva dei detenuti che non hanno avuto accesso a percorsi di inserimento lavorativo è del 27%, mentre scende al 2,8% fra i detenuti che hanno avviato tirocini guidati in contesti produttivi. Con il lavoro infatti si aprono non solo importanti opportunità di socializzazione e reinserimento, ma anche un percorso individuale della scoperta di sé, della propria identità, e della relazione con l’altro. Al termine del tirocinio 34 destinatari sono stati assunti con regolare contratto di lavoro dalle aziende ospitanti. Ravenna: al via un laboratorio di mosaico per gli ospiti del carcere ravennatoday.it, 23 febbraio 2018 L’Associazione DisOrdine lavora a questo importante progetto dal 2016 con il coinvolgimento attivo di oltre 160 ex-allievi delle Scuole d’Arte di Ravenna e Provincia. È stato presentato mercoledì dall’associazione DisOrdine dei Cavalieri di Malta e di tutti i colori, assieme alla Direttrice del carcere Carmela De Lorenzo e al fotoreporter Giampiero Corelli, il laboratorio di mosaico agli ospiti della casa circondariale di Ravenna. A partire da questa settimana, fino ad aprile 2018 si concretizza uno degli obiettivi principali del progetto: un percorso di consapevolezza, con il coinvolgimento dei detenuti nell’intervento di street art musiva eco green per il giardino di fronte al carcere di Ravenna. L’Associazione lavora a questo importante progetto dal 2016 con il coinvolgimento attivo di oltre 160 ex-allievi delle Scuole d’Arte di Ravenna e Provincia. Contatti e open lab con Associazioni, Enti, Istituzioni e privati, laboratori nelle scuole, partecipazione ad eventi pubblici da Cortina d’Ampezzo alla Sardegna, da Parigi alla Norvegia, nel segno della cooperazione volontaria, per la costruzione di un’opera permanente in mosaico per la città di Ravenna partecipata da tutte le realtà artistiche legate all’antico linguaggio del mosaico e per la diffusione di un messaggio con risvolti sociali, sia per la natura del soggetto scelto per contestualizzare l’intervento, sia per lo spirito particolare che accomuna i maestri mosaicisti che ne hanno tramandato i principi e gli insegnamenti. 12 gli ex-allievi e insegnanti del DisOrdine di diverse generazioni coinvolti nella programmazione del laboratorio, assieme, per l’occasione, a Paolo Gueltrini, agronomo e progettista del verde, e a Giovanni Gardini, esperto di iconografia del mosaico. Ai detenuti, incuriositi dagli aspetti tecnici degli esempi proposti, sono state illustrate le finalità del progetto e le tappe finora realizzate. Con molti di loro, che hanno espresso la volontà di partecipare, si è dato appuntamento alle lezioni successive per progettare e realizzare opere di fantasia sul tema degli elementi della natura o ispirate da segni e colori dei rispettivi paesi di provenienza, incoraggiando creatività e libera espressione per la conquista di un piccolo traguardo: la costruzione di una particella di una grande opera collettiva. Bologna: nelle carceri troppe criticità di Beppe Facchini Corriere di Bologna, 23 febbraio 2018 Tra atti di autolesionismo, sovraffollamento, carenza di personale e aggressioni agli agenti, alla Dozza e al Pratello è allarme. Nelle carceri dell’Emilia-Romagna, tra il 2016 e il 2017, gli atti di autolesionismo da parte dei detenuti sono saliti da 1.221 al 1.283, mentre i tentativi di suicidio sono passati da 88 a 125. È quanto emerso durante un’udienza conoscitiva in Comune sulle condizioni di lavoro degli agenti di polizia penitenziaria nella Casa Circondariale Dozza e nell’Istituto Penale minorile Pietro Siciliani. Presenti sia i due direttori, Claudia Clementi e Alfonso Paggiarino, che i rappresentanti delle diverse sigle sindacali. Per quanto riguarda il primo istituto, le principali criticità emerse vanno dal sovraffollamento (a fronte di una capienza massima di 500 persone, la media è di 750 detenuti) alle numerose aggressioni nei confronti degli agenti, che per la mancanza di educatori e di altre figure professionali svolgono anche mansioni diverse rispetto al proprio ruolo. Carenze e mancanze - Non solo: i veicoli a disposizione sono vecchi e qualcuno ha oltre 300mila chilometri sul groppone, il personale è carente (541 agenti in organico, ma oltre un centinaio in diversi distaccamenti), i campi di calcio e di tennis sono inutilizzabili e l’edificio presenterebbe diversi problemi strutturali, mentre la caserma nella quale alcuni agenti alloggiano perderebbe acqua dal tetto durante le giornate di pioggia. Al Pratello ci sono invece 22 detenuti fra i 14 e i 25 anni, molti dei quali over 21, e una quarantina di poliziotti, che però si alternano anche in altre strutture. Le problematiche maggiori qui riguardano la mancanza di ispettori, di un sovrintendente e di un comandante fisso al fianco del direttore da almeno 6 anni. I rappresentanti della polizia penitenziaria, infine, hanno esortato l’amministrazione comunale a valutare la possibilità di realizzare sia un asilo aziendale per le loro necessità che un piano di edilizia agevolata per le forze dell’ordine. Avellino: pochi infermieri nelle carceri, la nota della Cgil avellinotoday.it, 23 febbraio 2018 Poco personale in carcere e turni di lavoro che non tengono conti dei riposi obbligatori. Questa la denuncia della Cgil di Avellino relativa all’assistenza sanitaria nelle carceri irpine, in particolare per quanto riguarda gli infermieri. Lo si legge in una nota del segretario provinciale Responsabile Funzioni Centrali Licia Morsa. “La Funzione pubblica Cgil, congiuntamente alla Cgil di Avellino ed alla categoria Nidil (nuove identità lavoro) - scrive il sindacato - denuncia agli enti preposti la disorganizzazione da parte dell’Asl di Avellino dell’assistenza sanitaria obbligatoria prevista negli istituti penitenziari di Avellino, Ariano Irpino, Sant’Angelo dei Lombardi e l’icam di Lauro. Vane sono risultate le reiterate richieste di incontro con la direzione dell’Asl al fine di definire, anche seguendo i loro stessi provvedimenti programmatici, un’organizzazione del lavoro tale da garantire i livelli essenziali di assistenza ai detenuti. A seguito del decreto del commissario ad acta del 22/06/2008, la Regione Campania ha trasferito all’Asl le funzioni sanitarie afferenti la medicina penitenziaria, da gestire con fondi vincolati nazionali, per cui risulta davvero incomprensibile il motivo della gravissima carenza di personale e dell’abbattimento immotivato dei costi. Viste le scarse unità in servizio, oramai con esperienza decennale, che svolgono il proprio ruolo nella quasi totale di assenza di garanzie e di tutele non vengono organizzate in turni rispettando le disposizioni normative sull’orario di lavoro. I turni di lavoro non tengono conto dei riposi obbligatori ed in alcuni casi vengono notificati alla fine del mese di riferimento, vale a dire a lavoro svolto, in quanto nessun dirigente è disponibile a firmarli preventivamente. Presso l’istituto a custodia attenuata per madri di Lauro che dovrebbe ospitare le detenute madri con bambini fino a 6 anni di età, con capienza di posti pari a n. 35 detenute, unico istituto del centro sud, risulta in servizio una sola unità di personale infermieristico che ovviamente non può da sola ricoprire i turni ed assicurare i servizi essenziali di assistenza nelle 24 ore giornaliere. Si stigmatizza il superficiale comportamento dei vertici dell’Asl di Avellino nell’esercizio di un così delicato servizio, nonostante l’incremento del numero dei detenuti che, ad oggi, nei 4 istituti, si aggira intorno alle 1000 unità”, conclude la nota. Bari: detenuto affetto da tubercolosi, il caso denunciato dal sindacato Cosp baritoday.it, 23 febbraio 2018 Il presunto caso, relativo ad un detenuto 30enne, segnalato dal sindacato di polizia penitenziaria, che denuncia anche la mancanza - da circa un anno - di controlli di routine per gli operatori. Caso di detenuto affetto da tubercolosi nel carcere di Bari denunciato dal sindacato Cosp. Un detenuto ristretto nel carcere di Bari sarebbe risultato positivo alla tubercolosi, e per questo ricoverato nel reparto malattie infettive del Policlinico, dove si trova piantonato. A denunciare il presunto caso, relativo ad un 30enne italiano, il sindacato di polizia penitenziaria Cosp. “Il rischio di contagio - sottolinea il sindacato - preoccupa gli operatori del carcere a causa del contatto diretto con altri detenuti e con gli agenti di polizia penitenziaria”. “Il personale addetto alla sicurezza - si legge ancora nella nota diffusa dal Cosp - lamenta da tempo la mancanza di visite di controllo che non verrebbero effettuate da diversi anni, in violazione delle norme sulla sicurezza e sulla tutela della salute dei lavoratori. Il segretario generale nazionale del sindacato, Domenico Mastrulli, chiede con urgenza “l’adozione delle misure previste al fine di tutelare la salute del personale e dei detenuti del carcere barese”. Il Coordinamento sindacale penitenziario, nell’esprimere preoccupazione per quanto sta accadendo chiede l’immediata verifica delle condizioni igienico sanitarie poiché, come denuncia il Co.s.p. “da oltre un anno gli agenti di polizia penitenziaria non vengono sottoposti ai controlli di routine previsti”. La seconda sezione del carcere di Bari - ricorda ancora il Cosp - ospita circa un centinaio di detenuti. Velletri (Rm): la pet therapy aiuta anche i detenuti, lunedì un convegno nel carcere castellinotizie.it, 23 febbraio 2018 La Direzione della Casa Circondariale di Velletri ha organizzato per il 26 febbraio un Convegno “Guardarsi dentro… per imparare a vedere fuori”. Interventi Assistiti con Animali in ambito penitenziario: Esperienze a prospettive future. L’evento presenta i risultati di alcuni Laboratori di Zooantropologia applicata che si sono svolti presso l’Istituto nei mesi scorsi grazie al supporto tecnico e specialistico degli Operatori di Pet Therapy della Cooperativa Sociale Nuove Risposte Onlus. “Sono sempre stata convinta - ha affermato la dott.ssa Maria Donata Iannantuono, Direttore dell’Istituto di Velletri - che gli interventi trattamentali attivati in ambito penitenziario nei confronti dei detenuti debbano avere lo scopo principale di stimolare un cambiamento sostanziale, al fine di reinserire nella società una persona che abbia svolto un processo di riflessione profonda rispetto a se stessa, all’atto deviante ed al danno causato alla società. Ed in questa ottica ho accolto con entusiasmo la proposta dei miei collaboratori Funzionari Giuridico Pedagogici di iniziare alcuni Laboratori di Zooantropologia, soprattutto quando mi è stato prospettato il target a cui erano destinati e le modalità di intervento. L’idea era innovativa ed i presupposti teorici su cui si basava erano concreti ed applicabili. Tutti sappiamo che gli elementi del trattamento penitenziario, tra cui l’istruzione, il lavoro, la religione, le attività culturali, ricreative e sportive, l’agevolare opportuni contatti con il mondo esterno ed i rapporti con la famiglia, hanno il fine di rispondere all’art. 27 della Costituzione, che sancisce il valore rieducativo della pena, e permettono anche di espletare la cosiddetta “osservazione scientifica della personalità del detenuto. L’Osservazione scientifica della personalità - ha continuato la dottoressa - è diretta all’accertamento dei bisogni di ciascun soggetto connessi alle eventuali carenze fisico-psichiche, affettive, educative e sociali, che sono state di ostacolo all’instaurazione di una normale vita di relazione e che hanno potuto determinare l’atto deviante, al fine di promuovere un processo di correzione degli atteggiamenti pregiudizievoli. Basandoci su altre esperienze di pet therapy, attuate in ambito penitenziario, e sui risultati ottenuti, abbiamo pensato di inserire ed utilizzare questa nuova tecnica, per coloro che avessero voluto, per modulare un cambiamento di ottica rispetto ai danni causati alle vittime e pervenire pertanto ad una modifica profonda e sostanziale. Abbiamo attuato la prima sperimentazione a livello nazionale in cui, utilizzando per l’appunto la metodologia innovativa degli Interventi Assistiti con Animali, siamo intervenuti nei confronti di detenuti condannati per reati di maltrattamento in famiglia facendoli interagire con cani che erano stati maltrattati. Volevamo incidere in tal modo sensibilmente, anche a livello emotivo, nel far riconoscere le conseguenze di un maltrattamento e nella percezione della sofferenza di un altro essere “diverso da se”, consapevoli che un cambiamento si attua nel momento in cui affrontiamo i danni causati. Ed i risultati di tale sperimentazione, che ci apprestiamo a presentare nel Convegno del 26 febbraio con il supporto di Esperti in questo campo a livello nazionale, hanno superato le nostre aspettative. Una sperimentazione che stiamo pensando di estendere anche ai sex offenders. In un momento in cui l’attenzione dei media è quotidianamente sollecitata da atti di femminicidio e reati similari, ci rendiamo conto dell’importanza che ha per tutti gli operatori che operano in ambiente penitenziario individuare metodologie ed interventi che riescano ad incidere sostanzialmente sulla presa di consapevolezza di coloro che sono già detenuti per tali reati, e che prima o poi saranno reimmessi nel tessuto sociale, al fine di restituire persone che abbiano effettuato una sostanziale revisione critica. Perché pervenire a questo obiettivo significa fare prevenzione e fare prevenzione è un elemento fondamentale del concetto di Sicurezza sociale. E su questi obiettivi ci siamo concentrati in maniera congiunta, Area Pedagogica e Polizia Penitenziaria, nel riconoscimento del nostro ruolo e delle competenze specifiche”. Odio e mobilitazione: il Rapporto 2017-2018 di Amnesty International di Riccardo Noury Corriere della Sera, 23 febbraio 2018 È uscito il Rapporto 2017-2018 di Amnesty International (Infinito Edizioni), sulla situazione dei diritti umani in 159 paesi. Le parole chiave sono odio e mobilitazione. Dal discorso d’odio, che avvelena la vita pubblica e la convivenza civile in molti paesi, fino al crimine motivato dall’odio nutrito nei confronti degli appartenenti a determinate categorie di persone (si pensi ai rohingya di Myanmar), per lo più persone particolarmente vulnerabili che vengono strumentalmente presentate come un problema o come una minaccia da eliminare. L’ostilità di molti governi tende ad estendersi anche contro chi si schiera a difesa delle vittime: contro organizzazioni della società civile, intimidite e criminalizzate in un numero crescente di paesi. Retorica divisiva e politiche di demonizzazione stanno dando ovunque i loro frutti. Il “là” lo hanno dato gli Stati Uniti d’America, dove l’amministrazione Trump ha inaugurato il 2017 con un atto, il “Muslim ban”, finalizzato a impedire l’ingresso nel paese a persone in quanto provenienti da alcuni stati a maggioranza musulmana. L’amministrazione Usa non è isolata nel proporre atteggiamenti xenofobi. Basta guardarsi intorno per constatare come i leader di non pochi paesi trattino rifugiati e migranti unicamente come un ostacolo da rimuovere. Un altro tema che sta diventando ogni giorno più rilevante, riguarda le classiche libertà civili, da quella di associazione a quelle di espressione e di manifestazione, fino alla libertà di informare. Ad aggravare la situazione è un contesto nell’ambito del quale molti leader politici incoraggiano o promuovono attivamente “fake news” per manipolare l’opinione pubblica e, contemporaneamente, sferrano attacchi contro gli organismi di controllo sull’esercizio dei loro poteri. Lo scorso anno almeno 312 attivisti per i diritti umani sono stati uccisi, soprattutto in America Latina mentre almeno 262 sono giornalisti finiti in prigione per il loro lavoro (in Messico ne sono stati addirittura assassinati 11, mai così tanti dal 2000). Le più grandi carceri per i giornalisti sono la Turchia, l’Egitto e la Cina. In Turchia, il 2017 ha inoltre visto l’arresto, senza precedenti, della direttrice e del presidente di Amnesty International. Mentre Idil Eser attende ora fuori dal carcere che si celebri un processo fondato su accuse assurde, Taner Cilic è, ad oggi, ancora detenuto, sulla base di accuse altrettanto grottesche. Anche in Egitto vengono chiuse le Ong, bloccati i siti, incarcerati i giornalisti per avere pubblicato notizie definite false dal governo. E la collaborazione finalizzata a ottenere verità e giustizia per Giulio Regeni, a sei mesi dalla decisione di rimandare il nostro ambasciatore al Cairo, è del tutto insufficiente, mentre le autorità si accaniscono contro coloro che hanno avuto il coraggio di collaborare con la famiglia Regeni nella ricerca della verità. In Cina, il governo ha continuato ad applicare, con il pretesto della “sicurezza nazionale”, leggi liberticide. Il leggendario attivista Liu Xiaobo, premio Nobel per la pace, è morto, malato e senza cure mediche, dopo anni di prigione per aver espresso pacificamente critiche al proprio governo. Altri attivisti e attiviste sono stati arrestati e processati per accuse vaghe di “sovversione contro i poteri dello stato”. Anche tra gli stati membri dell’Unione Europea ve ne sono diversi, dalla Francia alla Polonia in cui, viste le restrizioni importanti che sono state introdotte, la libertà di manifestazione pacifica non può essere più data per scontata. Il 2017 si è caratterizzato inoltre, come l’anno precedente, per la mancanza di una risposta adeguata da parte della comunità internazionale a fronte dei crimini particolarmente gravi, dei crimini di guerra e contro l’umanità commessi in Iraq, in Siria, in Yemen, nel Sud Sudan. E mentre perdono interesse per la punizione dei crimini internazionali, molti governi non rinunciano ad autorizzare forniture di armi che vengono poi usate per colpire indiscriminatamente i civili - è il caso delle forniture dall’Italia all’Arabia Saudita di armi usate nel conflitto yemenita. Insomma, si rinuncia sia alla punizione che alla prevenzione. Infine, se rifugiati e migranti sono dipinti e visti come una minaccia, ciò - oltre a renderli vittime privilegiate del discorso e dei crimini di odio quando giungono sul territorio di un altro stato - tende a tradursi in scelte politiche e in prassi il cui fine è di tenerli lontani, negando loro a priori ogni forma di protezione internazionale. In Australia sono ancora in vigore le politiche di confinamento dei richiedenti asilo in centri oltremare di Papua Nuova Guinea e Nauru, in condizioni che sono di punizione più che di protezione. Quanto all’Europa e all’Italia, la situazione della Libia - in cui i migranti sono sottoposti a detenzione arbitraria, tortura, estorsioni, traffico di esseri umani, rapimenti e riduzione in schiavitù - è tale da rendere del tutto inaccettabile la scelta di collaborare con i più svariati attori della scena libica al fine di impedire ai migranti e ad eventuali richiedenti asilo o protezione internazionale di avvicinarsi alle nostre coste. Altrettanto inaccettabili sono le prassi di alcuni paesi europei - come la Francia e la Norvegia - di rimpatriare i richiedenti asilo afgani, in un paese dove nel 2017 le morti tra i civili hanno raggiunto livelli record. In questo scenario mondiale decisamente cupo, c’è forse, nell’anno in cui ricorre il 70esimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani, un barlume di speranza. L’odio e la discriminazione, da un lato, la privazione di beni essenziali dall’altro, nonostante le limitazioni gravi delle libertà di espressione, associazione e manifestazione, sembrano avere spinto più persone, e non meno persone, ad alzare la voce, a protestare. Osserviamo la crescita di un movimento di vecchi e nuovi attivisti impegnati in campagne per la libertà e la giustizia, che fanno sperare che lo scivolamento verso l’oppressione possa essere fermato. Il Rapporto di Amnesty International dà conto anche di questo. Vi si parla delle non poche importanti vittorie che le attiviste e gli attivisti per i diritti umani hanno contribuito a ottenere: dalla eliminazione del divieto totale d’aborto in Cile, ai passi avanti verso il matrimonio egualitario a Taiwan fino al blocco degli sgomberi forzati ad Abuja, la capitale della Nigeria. Negli Stati Uniti attiviste e attivisti hanno lanciato, ad esempio, la Women’s March, ripresa in altre parti del mondo, mentre nella denuncia della violenza contro le donne e le bambine una crescente influenza hanno avuto i nuovi movimenti digitali, come MeToo e Ni Una Menos, in America Latina. In un anno nero per i diritti umani, i segnali di speranza arrivano dalla società civile di molti paesi. Il grido di Amnesty: “La cultura dell’odio minaccia il mondo” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 23 febbraio 2018 Uno spettro si aggira per il mondo, trascinandolo rovinosamente verso il basso. Lo chiamiamo l’hate speech, il linguaggio dell’odio: quella particolare attitudine all’intolleranza che, secondo il rapporto 2017- 2018 sui diritti umani lanciato da Amnesty International, rischia di inquinare irreversibilmente la società civile dei 159 paesi coinvolti nella ricerca. Il Rapporto fornisce un’analisi approfondita sulla situazione attuale dei diritti umani nel mondo, e punta il dito contro le “politiche di demonizzazione” messe in campo dagli Stati attraverso una retorica intrisa d’ostilità e razzismo, che finiscono per normalizzare le massicce discriminazioni ai danni dei gruppi marginalizzati. “In questi tempi difficili, sono ben pochi i governi che stanno dalla parte dei diritti umani. Al contrario, leader come al- Sisi, Duterte, Maduro, Putin, Trump e Xi stanno spietatamente mettendo a rischio i diritti di milioni di persone”, ha sottolineato Salil Shetty, segretario generale di Amnesty International, che lanciando il Rapporto a Washington D. C. ammonisce apertamente gli Stati Uniti di Trump per aver creato, con il Muslim Ban, un pericoloso precedente per gli altri governi che si mostrano sempre più inadeguati alla regolamentazione dell’emergenza migranti. “La debole risposta ai crimini contro l’umanità e ai crimini di guerra commessi in Myanmar, Iraq, Sud Sudan, Siria e Yemen sottolineano la mancanza di leadership nel campo dei diritti umani. I governi stanno vergognosamente facendo arretrare le lancette dell’orologio a scapito di decenni di conquiste per le quali si era lottato duramente”, ha proseguito Shetty, che tra i segnali di regressione nell’odio a livello globale evidenzia la limitazione della libertà d’espressione in Turchia, Egitto e Cina, e la violazione dei diritti delle donne in Russia e Polonia. Migranti, persone Lgbti, donne e minoranze etniche sono i soggetti che più di tutti soffrono l’emarginazione e l’ingiustizia sociale da una parte all’altra del mondo, sotto lo sguardo “evasivo” dei leader politici e dietro la scure di tantissimi vecchi e nuovi attivisti. Se l’Ong infatti lancia un preoccupante allarme, sottolinea anche l’emergere di una rinata mobilitazione sociale impegnata nella lotta per i diritti umani e orientata a “un futuro di maggiore speranza”. Tra le più importanti conquiste degli attivisti nel mondo, l’eliminazione del divieto totale d’aborto in Cile, i passi avanti verso il matrimonio egualitario a Taiwan, il blocco degli sgomberi forzati ad Abuja, la capitale della Nigeria. Buone notizie anche da oltreoceano, come ha spiegato Margaret Huang, direttrice generale di Amnesty International Usa, sottolineando l’importanza del Women’s Day e del movimento digitale femminista # MeeToo. Il clima di ostilità e razzismo non sembra risparmiare l’Italia, che anzi sembra concentrare più di altri Paesi le dinamiche di tendenza all’odio, come ha lamentato Gianni Rufini, direttore generale di Amnesty Italia. Alla soglia delle elezioni politiche infatti, si registra nel nostro paese un grave declino del dibattito politico e culturale verso posizioni xenofobe e discriminatorie con l’esplodere di numerosi episodi di violenza. Il linguaggio dell’odio imperversa nei media, attraverso il terreno fertile dei social con la proliferazione di fake news che rischiano di creare una società sempre più divisa. Droghe. Dalla battaglia (dimenticata) alla politica della riduzione del danno di Antonio Polito Corriere della Sera, 23 febbraio 2018 Nella gara al colpevole c’è chi fa la lotta agli immigrati, chi al razzismo, ma nessuno parla di lotta alle droghe. Da un programma politico che coinvolgeva destra e sinistra, si è passati a un sistema che è ipocrita usare come forma di controllo sociale. La chiesetta in cima alla strada bianca non è né bella né brutta. È anonima, fredda. Non ti viene da pensare che lì dentro c’è Gesù. La povera Pamela, poi, ci deve essere arrivata col fiatone, tutta quella salita trascinandosi appresso il suo trolley; lo stesso che di lì a poche ore, dopo il vilipendio, sarebbe stato utilizzato dai carnefici per trasportare i suoi resti. È su quella strada che incontra l’ultima persona disposta ad aiutarla della sua vita: un’operatrice della comunità Pars che la riconosce, capisce che se ne sta andando, la invita a tornare indietro con lei. Non ci riuscirà. Inizia da lì la catena di eventi, in gran parte ancora misteriosi, che hanno sconvolto l’Italia: i fatti di Macerata, destinati a far sentire la loro eco fin nelle urne del 4 marzo. Da quel giorno, infatti, infuria lo scontro sulle cause di quegli eventi. Di chi la colpa di ciò che è successo? Mirko Canevaro, sul Fatto, ne ha stilato un amaro catalogo: è colpa degli immigrati, e di chi li ha fatti entrare; no, è colpa dei razzisti che sparano contro immigrati che non c’entrano niente; però se ci sono i razzisti è perché gli immigrati sono troppi; no, è colpa del nuovo fascismo che ci fa credere che gli immigrati siano troppi. E così via. Per averla vinta, alcune frange violente hanno ripreso anche a pestarsi reciprocamente, tanto per cambiare. Ultima entry nel novero dei capri espiatori perfino la comunità che ospitava Pamela su richiesta del Sert di Roma: perché non l’hanno fermata lì, in mezzo ai campi? Ma, per fortuna, nessuno può fermare nessuno in Italia, a meno che non ci sia un ordine del magistrato o un “trattamento sanitario obbligatorio”. Pamela era una donna libera, anche se ancora disperatamente bisognosa di protezione. La comunità avvisò, come da prassi, famiglia e forze dell’ordine, le uniche che da quel momento in poi avrebbero potuto aiutarla. Eppure è significativo che, in questa spasmodica gara a trovare un presunto colpevole, nessuno dica che un colpevole certo c’è, e che si chiama droga. C’è chi fa la lotta agli immigrati e chi fa la lotta al razzismo, ma nessuno fa più la lotta alle droghe. Un tempo fu un programma politico che coinvolgeva destra e sinistra. Dall’inizio della Seconda repubblica la lotta alla droga, dicitura rimasta appiccicata solo a un fondo ministeriale sempre più vuoto di soldi e di iniziative di prevenzione, è stata sostituita dalla politica della “riduzione del danno”. Ma mentre è essenziale aiutare il percorso di recupero da una dipendenza riducendo il danno per il paziente, è ipocrita usarla nella realtà come una forma di controllo sociale. Sostanze sostitutive nei Sert e psicofarmaci nel reparti di psichiatria non bastano per combattere una battaglia culturale contro l’uso delle droghe e contro il disagio esistenziale che ne è alla base. Il danno viene sì ridotto, quando va bene; ma il problema è spazzato sotto il tappeto. E basta una sola volta che falliamo, come con Pamela, per farci capire che questa non è la via. Anche le comunità sono in crisi; crisi ideale dopo che un po’ alla volta si è esaurita la spinta carismatica delle prime pionieristiche esperienze. Prevale la burocrazia: le Regioni pagano una retta per ogni ospite, in alcune realtà è troppo bassa per garantire un’alta qualità del lavoro di recupero, e lo sanno tutti. Casi complessi come Pamela, che in gergo vengono definiti di “doppia diagnosi”, in cui cioè alla dipendenza si somma un serio problema psichico, vengono rifiutati da molti; per questo dal Lazio era arrivata fin qui, nella comunità vicino Macerata (dove ha conosciuto anche altri nigeriani, come i cinque bambini figli della grande ondata di profughi scappati dai massacri di Boko Haram, che vi sono ospitati). Del resto la legge che regolamenta il sistema dei servizi risale ai tempi di Andreotti, è del 1990. La conferenza nazionale sulle politiche anti-droga, che quella legge prevedeva ogni tre anni per adeguarsi ai cambiamenti, si è tenuta l’ultima volta nel 2009, nove anni fa. Il grande silenzio. E nel frattempo le droghe sono cambiate, sono cambiati i principi attivi che contengono, è cambiato il mercato dove si possono trovare fino a mille sostanze psicotrope diverse. La domanda è dunque legittima: ci abbiamo rinunciato? Abbiamo dato per persa la battaglia per ridurre l’uso delle sostanze stupefacenti? In trincea sono rimasti solo pochi genitori coraggiosi, come i due eroi civili Giampietro Ghidini e Carolina Bocca, cui il settimanale “Buone notizie” ha dedicato una copertina. Sinistra e destra, in tutt’altro affaccendate, si guardano in cagnesco, ognuna avvolta in una bandiera, proibizionista o libertaria che sia; e sul tema non si parlano più neanche dopo una tragedia come quella di Macerata. “Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate nude isteriche, trascinarsi in cerca di droga rabbiosa”, scriveva Allen Ginsberg nel 1955. Oggi lo chiamiamo “uso ricreativo” Messico. Italiani scomparsi, arrestati tre poliziotti. Un quarto agente ricercato di Fabio Postiglione Corriere della Sera, 23 febbraio 2018 Non si hanno notizie dei tre italiani dal 31 gennaio. Per gli inquirenti messicani erano in Centro America per vendere generatori elettrici. Tre agenti della polizia messicana sono stati arrestati per la scomparsa dei tre napoletani. Un quarto agente è ricercato. La zona è considerata un feudo del Cartel Jalisco Nueva Generación, una delle organizzazioni criminali più potenti del Messico. Non è raro, riferiscono i media locali, che gli agenti della polizia locale agiscano al servizio di tali gruppi. È dal 31 gennaio che non si hanno più notizie di Raffaele Russo, di suo figlio Antonio e di suo nipote Vincenzo Cimmino. I tre sono scomparsi nella località di Tacalitlan, nello stato di Jalisco in Messico, dove erano per lavorare. Ed è proprio sulla natura della loro attività che il pm locale e il responsabile italiano dell’Interpol nel paese del Centro America che stanno concentrando le ultime indagini dopo le denunce dei familiari che hanno fatto il giro del mondo. Innanzitutto, trentatré agenti della polizia della cittadina che affaccia sul Pacifico, una località di 16.500 abitanti dove per l’ultima volta sono stati visti i tre, in via precauzionale sono stati trasferiti. Tutti, in massa, nella capitale Guadalajara e sostituiti da altri trentatré agenti. Questo perché la Procura locale, retta da Raul Sanchez, vuole cercare di indagare senza alcuna interferenza o depistaggio. C’è un audio che conferma che almeno due di loro, Antonio e Vincenzo, il giorno della loro scomparsa erano stati fermati dalla polizia. Sono stati loro stessi ad inviare un sms audio ad un altro parente, Daniele, che era in Messico come loro ma in un’altra località. Lo stesso che ha detto di aver chiesto informazioni alla polizia che in un primo momento aveva confermato e poi ritrattato di averli arrestati. Ma c’è una indagine parallela e punta all’attività che i tre facevano in quella cittadina ad ovest di Città del Messico. Da quanto è stato accertato dalle autorità investigative, i tre avevano messo su un piccolo commercio di generatori elettrici che importavano da Napoli e rivendevano in Messico. “Erano di fattura cinese ma li rivendevano per originali”, ha detto nel corso di una conferenza stampa il procuratore di Guadalajara. Gli inquirenti messicani, in questa fase, puntano la loro attenzione su appartenenti al cartello criminale “Jalisco new generation” che controlla alcune aree della zona e con cui i tre italiani potrebbero essere entrati in contatto. Sulla vicenda la Procura di Roma ha avviato una indagine coordinata dal pm Sergio Colaiocco. “I magistrati indugiano su dicerie legate agli interessi dei nostri cari in Messico per coprire il loro insuccesso e la situazione di stallo nelle operazioni di ricerca”, hanno denunciato i familiari dei tre napoletani. “Il procuratore è a conoscenza di questo caso fin dal primo giorno e, anziché attivarsi nelle ricerche facendo tesoro delle nostre indicazioni riguardanti il coinvolgimento della polizia locale, continua a concentrarsi sui precedenti di Raffaele Russo, di suo figlio Antonio e di suo nipote Vincenzo Cimmino. Raffaele è solo un ambulante, un magliaro, non un camorrista e meno che mai un narcotrafficante”, concludono i parenti delle persone scomparse.