Carceri, le Commissioni remano contro la riforma. Oggi in Cdm l’ok “tecnico” di Eleonora Martini Il Manifesto, 22 febbraio 2018 Ieri si è tenuta l’ultima riunione della commissione Bilancio del Senato di questa legislatura. O meglio, avrebbe dovuto tenersi, ma siccome all’ordine del giorno c’era il parere (non vincolante) sul decreto legislativo atteso oggi in Consiglio dei ministri per gli ultimi passi di questa piccola ma importante parte della riforma dell’ordinamento penitenziario (misure alternative), nella V Commissione è mancato guarda caso il numero legale. E non ci sarà un’altra occasione, perché, come ha spiegato al presidente Grasso il numero uno della commissione Tonini, non ci sono le condizioni per riunirsi nuovamente entro il 2 marzo, data entro la quale Camera e Senato dovrebbero esprimersi sul testo che verrà licenziato oggi dal governo. Il parere delle commissioni però non è vincolante (i tecnici del Senato in ogni caso non hanno sollevato obiezioni economiche), e dunque il Cdm andrà avanti con un via libera “tecnico”, sia oggi che tra dieci giorni, a ridosso delle elezioni, quando è previsto il definitivo varo del primo dei decreti legislativi partoriti da una commissione presieduta dal prof. Glauco Giostra dopo un processo di studio dei problemi delle carceri durato due anni. Il nodo da sciogliere oggi in Cdm riguarda invece il parere della commissione Giustizia del Senato, che ha bocciato di fatto la riforma e l’ha corretta stravolgendone completamente il senso. In particolare, per quanto riguarda l’articolo 4bis dell’attuale ordinamento penitenziario che, secondo una concezione del carcere e della società di oltre 40 anni fa, vieta l’accesso ai benefici e alle misure alternative per alcune tipologie di reato. Se il governo oggi seguirà l’impulso dato dai 200 esperti che per mesi hanno messo a punto la riforma, approverà il testo del dlgs senza le correzioni volute dal Senato. Lo ha chiesto ieri anche Magistratura democratica che ha auspicato che “lo schema di decreto deliberato dal Cdm il 22 dicembre 2017, integrante il tentativo di riforma dell’ordinamento penitenziario più organico e costituzionalmente orientato mai posto in essere dopo la riforma Gozzini, sia condotto in porto nella versione licenziata dalla Commissione Giostra”. Rischio stand-by sulle soglie di accesso alle pene alternative di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 22 febbraio 2018 È ormai appesa a un filo la riforma dell’ordinamento penitenziario. Oggi il testo, un densissimo decreto legislativo, sarà approvato dal Consiglio dei ministri in seconda lettura. E tuttavia non potrà entrare in vigore perché dovrà essere rinviato in Parlamento. Una conseguenza della scelta del ministero della Giustizia di non accogliere (totalmente o in parte, è ancora da vedere) le condizioni espresse dalle commissioni di Camera e Senato. In questo modo, però, i tempi di approvazione si dilatano di un’altra decina di giorni almeno, sino a coincidere in pratica con quelli delle elezioni. E tuttavia la decisione del Governo rappresenta una scelta almeno comprensibile, se non si intende snaturare la riforma. Molte delle condizioni messe appunto soprattutto al Senato, infatti, se approvate, minerebbero alcuni dei cardini dell’intervento che punta a limitare il più possibile l’uso della detenzione, forte dei dati relativi al tasso di recidiva, assai più elevato tra chi ha scontato la pena in carcere rispetto a chi ha potuto utilizzare misure alternative. In questa prospettiva, il decreto alza il limite di pena al di sotto del quale non scatta la detenzione, estende il ricorso a permessi, all’esecuzione a domicilio, all’affidamento ai servizi sociali. Tutte previsioni che ovviamente in piena campagna elettorale soggette almeno al rischio dell’impopolarità anche se al ministero della Giustizia contrastano le fake news sulle scarcerazioni a raffica, oltretutto automatiche, senza controlli della magistratura di sorveglianza, sull’abbassamento dei livelli di sicurezza per l’apertura a strumenti di comunicazione come la posta elettronica o Skype. Alle perplessità espresse soprattutto dal Senato si sono poi aggiunti i dubbi di alcuni magistrati di peso ascoltati m Parlamento. E segnatamente del procuratore antimafia Federico Cafiero de Raho e del pm di Catania Sebastiano Ardita. Per il primo andrebbe conservato un potere di veto della Direzione antimafia sulla decisione che ritiene superati i presupposti per il carcere duro del 41bis, mentre per il secondo è la possibilità di concessione di benefici ai condannati per criminalità organizzata a non convincere. Molto difficilmente però il Governo potrà pensare all’approvazione finale a poche ore dal voto, come pure sarebbe possibile. Di certo sarebbe un segnale in totale controtendenza rispetto al mainstream di una campagna elettorale in buona parte giocata proprio sui temi della sicurezza. Il decreto rappresenta l’ultimo tassello da completare del pacchetto di deleghe affidato all’Esecutivo dalla legge di riforma del processo penale, in vigore dall’agosto scorso. Al traguardo tra qualche tormento è arrivata la riforma di alcuni punti della disciplina delle intercettazioni, quella delle impugnazioni, quella condizioni di procedibilità, quella sulla riserva di Codice. Carceri, la riforma in bilico di Samuele Cafasso lettera43.it, 22 febbraio 2018 In Consiglio dei ministri arrivano i decreti sull’ordinamento penitenziario. Il ministro Orlando tira dritto nonostante la richiesta di un giro di vite da parte del Senato. Ma i tempi per l’ok definitivo sono stretti. La riforma dell’ordinamento penitenziario può essere l’ultima approvata dal governo Gentiloni prima della sua uscita di scena. Oppure tutto può finire nel cassetto delle iniziative senza seguito, vanificando così i due anni di lavoro degli Stati generali dell’esecuzione penale coordinati da Glauco Giostra con l’obiettivo di individuare le strade migliori per evitare il sovraffollamento delle carceri e la detenzione in condizioni degradanti, costate all’Italia una condanna da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo nel 2013 (sentenza Torreggiani). Il cdm decide. La questione è all’ordine del giorno del Consiglio dei ministri fissato per il 22 febbraio. La strada è stretta: da una parte ci sono i tempi brevi per l’approvazione definitiva, dall’altra la pressione della campagna elettorale e il timore che la riforma sia usata dal centrodestra per accreditare l’idea di un governo “debole” con i criminali. Tecnicamente la riforma è “spezzettata” in diversi decreti attuativi che, dopo essere licenziati dal governo, devono passare attraverso l’esame di Camera e Senato. Il primo decreto, incentrato sull’accesso alle pene alternative alla detenzione, è stato già consegnato dall’esecutivo e visionato dal parlamento. La Camera ha chiesto solo piccole modifiche, il Senato è intervenuto più pesantemente. Pomo della discordia è l’articolo 4bis che, varato nei primi Anni 90, impediva in automatico l’accesso alle pene alternative per i reati di mafia e terrorismo con l’obiettivo di controbattere all’offensiva che Cosa Nostra aveva lanciato ai danni dello Stato. Nel corso degli anni, il 4bis si è progressivamente gonfiato fino a comprendere anche altri tipi di reato considerati particolarmente odiosi dall’opinione pubblica e oggettivamente gravi, come la pedopornografia e lo stupro di gruppo. Ora il governo ha proposto di tornare alle origini, confermando il divieto di accesso alle pene alternative per i condannati con 41bis, ma cancellando gli automatismi per tutti gli altri casi. Il Senato, che pure ha dato parere positivo sul decreto nel suo complesso, ha invece chiesto di mantenere il divieto per alcuni reati gravi. La staffetta, a questo punto, continua: il ministro Andrea Orlando è orientato a non recepire le osservazioni del Senato e tornare al testo originario. Così facendo, però, è necessario un nuovo parere entro 10 giorni delle commissioni parlamentari, dopodiché il decreto può essere licenziato. Calendario alla mano, arriviamo alla prima settimana di marzo. Visto che il nuovo parlamento si insedia il 23 marzo, i tempi sono stretti, ma ci sono. Il 21 febbraio sulla scrivania di Gentiloni è arrivato l’appello dell’associazione Antigone: “C’è bisogno della riforma penitenziaria che cambi la legge del 1975, che faciliti l’accesso alle misure alternative, che consenta di rendere la vita in carcere una vita dignitosa e più vicina alla vita normale. C’è bisogno di nuove norme sulla salute fisica e psichica. Troppe persone soffrono oggi in carcere senza possibilità di avere una chance di supporto. C’è bisogno di una legge che tenga conto che sono passati 43 anni dal 1975 e da allora tutto è cambiato. Per questo ci siamo rivolti al presidente del Consiglio Gentiloni a cui abbiamo chiesto di portare nel Consiglio dei ministri il decreto legislativo di riforma dell’ordinamento penitenziario”, ha dichiarato il presidente dell’associazione Patrizio Gonnella. A quanto pare, l’appello sarà accolto almeno per questo primo decreto. Rimane però aperta la questione degli altri decreti che devono ancora iniziare il loro iter e che riguardano, tra gli altri temi, il lavoro in carcere, la detenzione dei minori, il diritto all’affettività in carcere. Il Guardasigilli è determinato a portare a termine il percorso avviato tre anni fa, ma i tempi stringono e tutto lascia supporre che il nuovo parlamento e il nuovo governo non avranno come priorità la riforma del sistema carcerario qualora questa rimanga in sospeso. Dopo una flessione nel numero dei detenuti seguita alla sentenza Torreggiani e alla demolizione da parte della Corte Costituzionale della legge Fini-Giovanardi sulle droghe, negli ultimi tre anni si è assistito a un aumento costante delle presenze in carcere. Si è infatti passati dai 53.889 detenuti del gennaio 2015 ai 58.087 di gennaio 2018. Anche i pm chiedono la riforma del carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 febbraio 2018 Oggi all’esame del Consiglio dei ministri i Decreti attuativi. Giorno cruciale per la sorte della riforma dell’ordinamento penitenziario e grande mobilitazione del mondo giuridico, politico e di tanti semplici cittadini. Da qualche giorno, infatti, è stato lanciato un appello a firma di importanti giuristi e intellettuali, indirizzato al governo per chiedere l’approvazione definitiva della riforma. Un appello che con il passar del tempo è diventato una clamorosa mobilitazione di giuristi e intellettuali a sostegno della lotta nonviolenta del Partito Radicale. L’iniziativa, a prima firma del filosofo Aldo Masullo e del giurista Luigi Ferrajoli, vede impegnati anche il presidente del Cnf Andrea Mascherin, il numero uno delle Camere penali Beniamino Migliucci, numerosi presidenti degli ordini degli avvocati, il professore di Diritto costituzionale nell’Università di Ferrara Andrea Pugiotto, il presidente emerito della Corte Costituzionale Valerio Onida, il professore di diritto penale dell’università di Palermo Giovanni Fiandaca e il senatore Luigi Manconi. Insieme a loro magistrati del calibro di Armando Spataro, procuratore capo della Repubblica di Torino e Francesco Cozzi, procuratore della Repubblica di Genova. on mancano le firme dei garanti regionali e locali come Stefano Anastasia, Bruno Mellano e Andrea Nobili, quelle dei direttori dei penitenziari come Massimo Parisi, di Milano Bollate e Rita Romano, dirigente del penitenziario di Eboli. Tutte le firme dell’appello sono pubblicate sul sito di Radio Radicale. Come già annunciato dal premier Paolo Gentiloni, oggi si dovrebbe riunire il Consiglio dei ministri per l’approvazione del decreto delegato della riforma. Un momento cruciale, perché non si sa in quali termini verrà licenziata almeno questa prima parte dei decreti, visto che finora sono stati accantonati quelli riguardanti l’affettività, l’ordinamento penitenziario minorile, misure di sicurezza, giustizia riparativa e lavoro penitenziario. Ma rimane comunque una parte fondamentale, perché riguarda principalmente l’implementazione delle misure alternative come l’affidamento in prova che verrà allargato a una parte consistente di detenuti, l’assistenza sanitaria che va a regolamentare soprattutto la salute mentale e, infine, la modifica del 4bis dove una fascia importante di detenuti - tranne per chi si è macchiato di reati mafiosi e terrorismo - potrà essere valutata dai magistrati per ottenere o meno le misure alternative, utilissime per l’abbassamento della recidiva e, quindi, per il reinserimento nelle società. Ora ci troviamo a un bivio: potrà essere l’ultima riunione e ciò significherebbe approvarla accogliendo tutte le osservazioni delle commissioni giustizia, comprese quelle del Senato, svuotando la riforma; oppure sarà il penultimo passo della riforma accogliendo i miglioramenti proposti dal parere della Commissione giustizia della Camera ma non i rilievi demolitori del Senato sul 4bis -, e poi il passo definitivo entro i 10 giorni dell’ultimo parere. Un rischio, quello della demolizione della riforma, che viene denunciato soprattutto dal Partito Radicale con un appello pubblicato ieri da Il Dubbio. A questo sia aggiunge l’incertezza dei tempi. La società civile, soprattutto quella che opera nell’ambito del diritto penitenziario, preme affinché si realizzi la riforma nella sua interezza, senza snaturarla. Se da una parte ci sono alcune forze politiche e una componente, minoritaria, della magistratura che si oppongono alla riforma, dall’altra ci sono forze intellettuali, personalità politiche trasversali, giuristi, associazioni che la difendono. I principali detrattori della riforma sono il Movimento Cinque Stelle, Lega, Fratelli d’Italia e una parte di Forza Italia. A loro si affiancano le critiche - nei confronti di alcune parti del testo, soprattutto la modifica del 4bis - del procuratore aggiunto Sebastiano Ardita, del procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho e delle associazioni vittime del dovere e familiari vittime della strage di via dei Georgofili. Invece, i sostenitori della riforma nella sua interezza - chiedendo di approvarla tutta e prendendo in considerazione le osservazioni migliorative - sono i magistrati dell’Associazione nazionale magistrati, in particolar modo il presidente Eugenio Albamonte, il Consiglio superiore della magistratura, i rappresentanti del Coordinamento nazionale magistrati di sorveglianza, perfino gli esponenti di Magistratura democratica come Piergiorgio Morosini che sul Fatto Quotidiano smentisce le obiezioni del suo collega Ardita. A sostenere l’approvazione della riforma poi c’è il mondo politico. In primis il Partito Radicale con l’azione nonviolenta di Rita Bernardini che è giunta al 31esimo giorno dello sciopero della fame, e ad appoggiare l’azione ci sono personalità politiche differenti tra loro come Luigi Manconi del Pd e Renata Polverini di Forza Italia. Senza però dimenticare i 10.000 detenuti che stanno scegliendo il metodo della no violenza all’interno dei penitenziari. All’azione del Partito Radicale si è aggiunta la mobilitazione dei garanti regionali e locali che ha indetto, per oggi, uno sciopero della fame di 24 ore. Un importante sostegno della riforma, consigliando il governo a non accogliere le osservazioni del Senato, proviene dal garante nazionale dei detenuti Mauro Palma. A sostenere la riforma c’è anche l’associazione Antigone, che ha promosso recentemente un convegno, l’Unione camere penali e la redazione di Ristretti Orizzonti. A tutto ciò si aggiunge il volere del parlamento: il governo è obbligato ad attuare la delega parlamentare della legge 103 del 23 giugno 2017. Riforma ordinamento penitenziario: Antigone si appella a Gentiloni Ristretti Orizzonti, 22 febbraio 2018 “C’è bisogno della riforma penitenziaria che cambi la legge del 1975, che faciliti l’accesso alle misure alternative, che consenta di rendere la vita in carcere una vita dignitosa e più vicina alla vita normale. C’è bisogno di nuove norme sulla salute fisica e psichica. Troppe persone soffrono oggi in carcere senza possibilità di avere una chance di supporto. C’è bisogno di una legge che tenga conto che sono passati 43 anni dal 1975 e da allora tutto è cambiato. Per questo ci siamo rivolti al Presidente del Consiglio Gentiloni a cui abbiamo chiesto di portare nel Consiglio dei Ministri di domani il decreto legislativo di riforma dell’ordinamento penitenziario”. A dichiararlo è Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. Dopo una flessione nel numero dei detenuti seguita alla sentenza Torreggiani, con la quale la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo condannò l’Italia per trattamenti inumani e degradanti, negli ultimi tre anni si è assistito ad un aumento costante delle presenze in carcere. Si è infatti passati dai 53.889 detenuti del gennaio 2015 ai 58.087 di gennaio 2018. La riforma dell’ordinamento penitenziario, che contiene importanti novità in particolare sulle misure alternative alla detenzione, darebbe l’opportunità di tornare a far calare gli attuali numeri e questo avrebbe positive ripercussioni sulla vita penitenziaria. Esistono infatti questioni aperte ormai da tempo che, proprio a causa del sovraffollamento, non riescono a trovare soluzioni. Tra queste ad esempio la necessità di ampie ristrutturazioni degli istituti. In più della metà delle strutture da noi visitate (50 su 84) ci sono celle senza doccia e in ben 36 ci sono celle senza acqua calda, il tutto in violazione di quanto prevede la legge. In 4 istituti visitati ci sono addirittura celle in cui il WC non sta in un ambiente separato dalla cella in cui i detenuti mangiano e dormono. È poi particolarmente urgente l’intervento previsto dalla riforma in materia di salute psichica in carcere. Dalla nostra attività di osservazione risulta infatti che almeno un quinto dei detenuti è affetto da una patologia psichiatrica. “Chi oggi si sta opponendo a questa riforma - dichiara ancora Gonnella - utilizza argomenti pretestuosi e strumentali. Argomenti sollevati in modo conservativo, reazionario. Argomenti miopi che strizzano l’occhio ai populisti”. Riccardo De Vito (Md): “ma quale svuota-carceri?, così cadono gli automatismi” di Giulia Merlo Il Dubbio, 22 febbraio 2018 “Non è una legge svuota-carceri, ma anzi elimina gli automatismi per l’immediata fuoriuscita dal circuito giudiziario e restituisce alla magistratura di sorveglianza della sua autonomia decisionale”. Ecco perché Riccardo De Vito, presidente di Magistratura democratica, auspica l’approvazione della riforma penitenziaria nella sua versione originale, senza le eccezioni sollevate dalle commissioni. Presidente, perché condivide nel merito i contenuti di questa riforma? Perché oggi l’ordinamento penitenziario, a causa di una serie di preclusioni e automatismi, impedisce alla magistratura di scrutinare i percorsi individuali di ogni detenuto. La riforma, invece, riporta al centro l’importanza delle misure alternative al carcere e il potere- dovere del magistrato di sorveglianza di analizzare ogni percorso rieducativo, per capire se il detenuto è meritevole di accedere ai benefici e in caso di non meritevolezza, meglio un “no” spiegato e motivato che non una mera dichiarazione di inammissibilità. Come mai ha suscitato contrasti così aspri all’interno della stessa magistratura? L’esecuzione della pena è un tema naturalmente molto sensibile, perché è la plastica concretizzazione dell’ordinamento penale nei confronti dei cittadini. Tuttavia, ritengo che per contestare la riforma sono stati utilizzati argomenti capziosi. È stato sostenuto che si tratti dell’ennesima misura “svuota-carceri”. Non è così: questo intervento è diverso dai precedenti, che erano di carattere emergenziale e volti a ridurre i numeri all’interno delle carceri. La riforma, invece, elimina proprio gli automatismi finalizzati all’immediata fuoriuscita del detenuto. Non a caso viene ridisegnato il parametro dell’osservazione penitenziaria in maniera più conforme ai moderni approcci criminologici, offrendo al magistrato un quadro trattamentale più funzionale a cogliere le molteplici cause dei crimini. In questo modo, noi giudici di sorveglianza riprendiamo in mano il ruolo di garanzia che l’articolo 27 della Costituzione ci attribuisce. Lei vede con favore le misure alternative al carcere. Alcuni interlocutori le hanno, però, contrapposte alla certezza della pena. La certezza della pena deve essere intesa come pena tempestiva. È una distorsione di pura campagna elettorale, invece, pensare che significhi la sua immutabilità. Anzi, le dico di più: proprio l’immutabilità della pena è il peggiore nemico della sicurezza, perché non cogliere quando un detenuto è rieducato e può uscire dal carcere significa lasciarlo incattivire nella scuola del crimine. Quanto più la pena rieduca, tanto più la sicurezza dei liberi viene salvaguardata. Aggiungo anche che le cosiddette “misure di comunità” non sono un’alternativa a poco prezzo del carcere, ma impegnano l’uomo come se fosse il carcere, collocandolo però nel mare stesso in cui deve di nuovo imparare a nuotare. Si tratta di strumenti efficaci, come testimoniato dai numeri in materia di recidiva. Un altro tema sensibile è legato al 41bis. Questa riforma lo modificherà in qualche modo? Assolutamente no, perché la stessa legge delega esclude il 41bis dalla materia di riforma. Si è sostenuto che potesse essere messo sotto attacco dalla norma sullo scioglimento del cumulo delle pene. Questo principio consente ai detenuti che cumulano condanne per reati di mafia e comuni, che la pena espiata per prima riguardi i reati di stampo mafioso, facendo sì che la pena residua - se ricorrono i presupposti possa essere espiata in modo alternativo. Questo, del resto, è già codificato dalla giurisprudenza di Cassazione e costituzionale, ma si tratta di un principio che non si applica al 41bis, che è norma speciale. Il magistrato di sorveglianza che disponesse lo scioglimento del cumulo per chi è sottoposto al 41bis lo farebbe in violazione della legge. L’attuale clima politico e la campagna elettorale stanno complicando l’iter di approvazione, sulla scia dell’ansia dell’opinione pubblica? È più difficile che venga approvata solo se si rinuncia a spiegare in modo convincente che un detenuto che sconta la pena in un ambiente che tutela i suoi diritti è più facilmente rieducabile e utilmente inseribile nel circuito sociale. Altrimenti, il rischio è che si finisca preda della democrazia emozionale, in cui prevalgono paura e rancore. La lettera di una mamma. “Mio figlio e gli altri detenuti sperano in questa riforma” di Mirca Bassani Il Dubbio, 22 febbraio 2018 Ho mio figlio detenuto e ho potuto vedere le aspettative che avevano lui e tutti i suoi compagni. Per la prima volta vedevano questa riforma non come uno strumento per uscire prima ma come uno strumento che facilita l’ottenimento dell’affidamento in prova e il miglioramento delle condizioni di vita carceraria. Ho visto e sentito anche la delusione e l’amarezza sui loro volti e nelle loro parole quando si delineava la possibilità che non venisse approvata. Se venisse approvata con le limitazioni espresse dalla commissione del Senato ho paura che questo porti a un aumento della loro rabbia e alla delusione e amarezza verso le forze politiche e non ho idea di quale reazione possa esserci. Io ho sempre votato Pd e adesso trovandomi in questa situazione, che può succedere a tutti e che non immaginavo fosse così, ho pregato che il mio partito portasse finalmente a compimento questi decreti con la loro effettiva approvazione e nella loro versione originale e non vorrei essere delusa perché ho creduto da sempre e con la mia famiglia a questo partito. Mi sono anche iscritta al Partito Radicale che stimo e ringrazio tutti i loro attivisti e soprattutto Rita Bernardini che mi auguro stia bene per il loro grande lavoro e passione per queste riforme. Ringrazio anche tutte le grandi personalità che si sono espresse a favore di questa riforma perché questi decreti non sono svuota-carceri come dicono i Cinque Stelle e la Lega ma semplicemente danno la possibilità ai detenuti di vedere uno spiraglio di luce in fondo a un tunnel fatto di inciviltà, di condizioni di vita inumane e cambiarle in condizioni più umane perché loro, anche se hanno sbagliato sono sempre esseri umani e come tali vanno trattati. Io quando vedo e parlo con mio figlio soffro nel sentire che in pieno inverno deve farsi la doccia con l’acqua fredda, che le celle sono fredde e questo lo sento anche io quando vado ai colloqui in quelle sale fredde e brutte, dove una guardia ti guarda e controlla cosa fai, come se durante un colloquio si possa fare chissà che cosa e vedo quando mio figlio vuole stare vicino e abbracciare la moglie questa persona si alza e li separa. Questa è l’affettività che c’è in carcere che serve solo per separare quando si possono vedere solo sei volte al mese. Mi auguro che il mio partito non mi deluda, e che abbia il coraggio di approvare i decreti nella loro stesura originale e credo anche che se facesse questo i voti aumenterebbero e non viceversa. Per favore fate vedere che siete diversi dagli altri partiti anche su questi temi. Grazie a tutti quelli che si sono adoperati e si adopereranno per questo risultato per persone che hanno sbagliato e che non possono fare sentire la loro voce. Angelo è sottoterra. Politica e giornali son contenti così... di Piero Sansonetti Il Dubbio, 22 febbraio 2018 Mi ha scritto un certo Alessandro. Non so chi sia. Mi ha scritto così: “A caldo, ho appena appreso dal suo giornale la brutta notizia della morte di Angelo, che purtroppo credo che sia lui... eh sì... Angioletto er nigeriano, o er Niger, così era conosciuto e chiamato dagli amici più vicini. Oltre ad avere la cirrosi, dormiva a casa col respiratore e la bombola dell’ossigeno, avendo un solo polmone. E in più era seguito dal Sert di Montesacro. Aveva trovato a modo suo il suo equilibrio per poter vivere nonostante le mille difficoltà. Un giorno vengo a sapere che Angioletto è in carcere per una sentenza definitiva di un anno arrivata dopo oltre 10 anni. Io glieli farei fare a chi so io 12 mesi di carcere inutile nonché dannoso per un essere umano inerme buono e sfortunato come Angelo”. Tutto qui. Non so se “il Niger”, come lo chiama Alessandro, sia davvero Angelo Di Marco, morto la settimana scorsa in carcere, dove era tenuto per una condanna a un anno per piccoli furti: morto solo, vomitando sangue, perché il tribunale gli aveva negato i servizi sociali, nonostante l’irrilevanza del reato, e il tribunale di sorveglianza gli aveva negato i domiciliari, nonostante il suo stato di salute pessimo. Non ha molta importanza. Se il Niger non è Angelo vuol dire che c’è in prigione un altro come lui, e che nessuno se ne sta occupando. Speriamo di no. Mi ha stupito la lettera di Alessandro perché non ho ricevuto nessun’altra reazione agli articoli che abbiamo pubblicato l’altro giorno sul Dubbio. Sembra che Alessandro sia l’unica persona che è rimasta colpita. Eppure denunciavamo un fatto gravissimo. Del quale è responsabile direttamente lo Stato. A una persona umana, molto malata, è stato negato il diritto di curarsi, e gli è stata negata la dignità, la possibilità di ricevere calore, affetto, carezze. Non è stato negato da un gruppo di sequestratori, di malviventi: no, è stato negato dalle istituzioni. A me non risulta che le istituzioni si siano mobilitate per capire cosa è successo e come è potuto succedere. Angelo stava nell’infermeria di Rebibbia. Su un lettino. Accanto al lettino di Marcello Dell’Utri. È stato proprio Dell’Utri l’unico a mobilitarsi, a provare a fare qualcosa. Ha avvertito la sua avvocata, le ha chiesto di intervenire. La sua avvocata è intervenuta, ha preso le difese di Angelo, ha chiesto immediatamente la sua scarcerazione, ha ottenuto che si tenesse una udienza per decidere. Ma ormai era troppo tardi. È rimasta con un pugno di mosche in mano. Con quel senso di impotenza e di rabbia che ti viene quando cerchi di fare una cosa giusta, cerchi di salvare una vita e non ci riesci. C’è qualcuno che è in grado di spiegarmi perché della morte di Angelo Di Marco non frega assolutamente niente a nessuno? Perché neppure un giornale gli ha dedicato due righe? Perché nemmeno un deputato o un senatore ha sollevato la questione? Perché non si trova in giro un magistrato - anche uno solo, dico: uno solo - che abbia il coraggio di dichiarare che la morte di Angelo è molto grave ed è una ferita e una offesa al nostro sistema giudiziario? È possibile che la vita e la morte degli esseri umani che sono finiti in prigione non sia considerata da nessuno degna di attenzione? Quando ho scritto su questo giornale per chiedere la liberazione di Dell’Utri mi hanno risposto indignati in tanti. Mi hanno dato del mafioso. Mi hanno detto che difendo i potenti. Che Dell’Utri deve stare in prigione perché ha fondato Publitalia e Forza Italia. Bene, Angelo non è potente, non ha fondato nessun partito, ma mi pare che della sua vita se ne sbattano altamente tutti, esattamente come della vita di Dell’Utri. Il carcere livella. Quando sei dentro non conta più chi eri fuori. Quando stai dentro sei dimenticato, e se muori solo e disperato, poco male. Io sono per l’uguaglianza. Sono sempre stato per l’uguaglianza. Ma per l’uguaglianza dei diritti: non per l’uguaglianza della sopraffazione. Non credo che un establishment politico e giornalistico che si gloria di questi atteggiamenti, e sa ripetere solo “certezza della pena” e “buttate la chiave”, sia dentro i confini della modernità e della civiltà. A me sembra un establishment che vive bene nella barbarie. Mi sbaglio, c’è qualcosa che non vedo? Datemi almeno qualche argomento per convincermi. Per ora mi tengo cara la lettera di Alessandro, che almeno lascia qualche speranza di umanità. Verso il voto, i rischi della violenza politica di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 22 febbraio 2018 La violenza non può mai essere giustificata né tollerata: e certe azioni e reazioni sono preoccupanti non solo per gli effetti che provocano sulle persone coinvolte, ma perché non si sa a quali ulteriori conseguenze possono portare. Come in una reazione a catena, all’agguato contro il responsabile palermitano di Forza nuova è seguito a Perugia il ferimento di un militante di Potere al popolo. Due episodi che richiamano anche nelle modalità (l’appostamento in attesa della vittima designata e l’aggressione durante l’attacchinaggio dei manifesti) ciò che negli anni Settanta era quasi all’ordine del giorno. Che ci sia o meno un collegamento tra i due episodi, il risultato è che a un assalto attribuibile all’ultrasinistra se n’è aggiunto un altro di probabile marca neofascista; le indagini chiariranno meglio la dinamica dei fatti, ma comunque si è trattato di uno scontro tra opposte fazioni. Manifestazioni di violenza politica a cui si aggiungono le scritte oltraggiose sulla lapide in costruzione per le vittime di via Fani, che dimostra la confusione mentale di chi inneggia a un’azione delle Brigate rosse firmandosi con la svastica, e la tentata irruzione dei “camerati” di Forza nuova negli studi de La7. C’è da augurarsi che la catena non si allunghi, ma non è affatto certo. Anzi, il pericolo di un’escalation non si può escludere. Naturalmente, i paragoni con gli anni cosiddetti “di piombo” si fermano alle apparenze e a qualche similitudine in alcuni accadimenti, giacché il clima e le condizioni sono (quasi) del tutto diverse. Ciononostante gli investigatori e gli esperti di sicurezza notano un incremento di numeri e di tensioni che destano preoccupazione. Dall’inizio dell’anno gli episodi catalogati come “contrapposizione violenta” (sebbene non sempre sfociati in scontri) sono circa settanta; più di uno al giorno, una media ben più alta rispetto al passato. Per via della competizione elettorale in corso, in cui sono coinvolti anche gruppi dichiaratamente neofascisti che reclamano il diritto alla piazza, ma l’impennata si è registrata soprattutto dopo il raid del nazista di Macerata. Come se la naturale e giusta condanna di ogni forma di razzismo avesse sdoganato l’aggressione fisica nei confronti dell’estrema destra. Che fascismo e antifascismo non siano la stessa cosa è fuori discussione, e su questo punto il capo dello Stato Sergio Mattarella ha detto parole chiare e inequivocabili. Il problema è la violenza che non può essere mai giustificata né tollerata. In nome di nulla. Non ci può essere ragione o colorazione che tenga rispetto a un’imboscata con tanto di spranghe, un accoltellamento o un pestaggio. L’Italia è un Paese dove la violenza politica ha fatto danni incalcolabili segnando profondamente il corso della storia, dal dopoguerra in poi. E se è vero che il passato non ritorna perché mancano le premesse, che una stagione come quella della “strategia della tensione” e del terrorismo nostrano non sembra riproponibile e perciò non è il caso di creare indebiti allarmismi, è anche vero che certe azioni e reazioni sono preoccupanti non solo per gli effetti che provocano sulle persone coinvolte, ma perché non si sa a quali ulteriori conseguenze possono portare. Non c’è bisogno dei morti e delle pistolettate per innescare spirali dalle quali è difficile tornare indietro, e in ogni caso lasciano segni che possono costituire lo spunto per altre degenerazioni. Per questo, tanto più in un tratto finale di campagna elettorale che non ha bisogno di ulteriori pretesti e strumentalizzazioni, che inevitabilmente può accendere gli animi e fornire occasioni di ribalta a chi non conosce le regole della democrazia, o se ne infischia, o vuole approfittarne per guadagnare visibilità, sarebbe opportuno che tutti i protagonisti della competizione politica valutassero bene il peso dei comportamenti e delle parole, e si ponessero il problema di non alimentare nuove scintille. Anche se non c’è pericolo di incendi, possono bastare piccoli fuochi per intossicare la convivenza civile. La trappola ideologica che inquina le elezioni di Carlo Nordio Il Messaggero, 22 febbraio 2018 Quando, mesi addietro, fu approvata la nuova legge elettorale, molti pensarono che la classe politica avesse raggiunto il livello più basso di credibilità. I partiti - si disse - hanno preferito accettare una inevitabile ingovernabilità piuttosto di consentire ad uno di loro di vincere le elezioni. Una sorta di suicido istituzionale ispirato dal timore nelle capacità altrui e dalla sfiducia nelle proprie. Quando poi questi stessi partiti hanno presentato i programmi, si è visto che al peggio non c’è mai limite, avendo gli stessi fatto a gara per coniugare una scriteriata varietà di promesse con l’oggettiva impossibilità di mantenerle. L’istituzione del reddito di cittadinanza, l’abolizione delle tasse universitarie, l’abbattimento delle aliquote fiscali, l’aumento di opinabili indennità ed altre generose elargizioni senza la minima indicazione di coperture finanziarie, hanno smascherato - si disse ancora - il dilettantismo improvvisato e irresponsabile dei nuovi candidati. A queste disgrazie se n’è ora aggiunta un’altra. Una violenza fisica che, pur limitata a episodi occasionali, costituisce una triste novità, o meglio un ritorno a un passato che ritenevamo sepolto e dimenticato. Le simmetriche aggressioni di Palermo e di Perugia si saldano con l’invasione di una sede televisiva, l’imbrattamento della lapide di Moro, e altre simili nefandezze disgustose. E il cittadino sgomento si domanda se questa sia la fine dell’inizio, o l’inizio della fine. In realtà, quanto alla violenza, il nostro Paese ha conosciuto ben di peggio. Alla fine degli anni sessanta si scatenarono i conflitti tra gli opposti estremismi che condussero, poco dopo, allo stragismo brigatista rosso e al terrorismo bombarolo nero. Oggi per fortuna la situazione è assai diversa, e credo che non si corra il pericolo di ripetere quel funesto periodo di lacrime e sangue. Tuttavia per certi aspetti è una situazione anche più difficile, e cerco di spiegarne il perché. Gli estremisti di cinquant’anni fa avevano una loro strategia, che a sua volta poggiava su convinzioni politiche aberranti, ma solide e radicate. I rossi, ipnotizzati dalle teorie di Marx e di Lenin, miravano ad aggregare la classe operaia in una lotta contro i partiti costituzionali, in nome della “Resistenza tradita”. Ad una ideologia rivoluzionaria, avallata da alcuni intellettuali dissennati, faceva riscontro un progetto eversivo lucido e coerente. Esso fallì perché la politica di allora - essenzialmente la Dc e il Pci - si trovarono d’accordo per fronteggiarlo con vigore. Le Brigate Rosse, prima ancora degli arresti della magistratura e del generale Dalla Chiesa, furono sconfitte dalla risolutezza e dal coraggio dimostrata dalle istituzioni durante il sequestro dell’on Moro. I neri, dal canto loro, avevano una strategia uguale e contraria. Miravano a far leva sui sentimenti di una “maggioranza silenziosa”, terrorizzata dai disordini e dalle stragi, per instaurare, sull’esempio della Grecia dei colonnelli e del Cile di Pinochet, un regime autoritario. Superfluo dire che questo programma era ancor più irrealizzabile del primo. Ma questo non significa che non fosse altrettanto lucido e determinato. Anch’esso fu sconfitto dalla fermezza di una politica saldamente fiduciosa della sua legittimazione elettorale. E oggi? Oggi invece pare di assistere a una situazione paradossalmente opposta. Questi gruppuscoli non hanno né consistenza culturale né convinzioni politiche, né programmi definiti né tantomeno forza militare. Eppure la politica, davanti a loro, arranca e balbetta, e non trova di meglio che trarne spunto per polemizzare con gli avversari nella petulante litania di una irreale lotta antifascista. Un dibattito sterile, che rievoca un passato fortunatamente remoto, affievolisce le energie del presente e compromette le riforme future. E che si inserisce in quella limacciosa transizione iniziata con la fine della Prima Repubblica, dalla quale sembra non siamo capaci di uscire. Caso Fanpage. I confini di uno scoop e il primato della legge di Caterina Malavenda Corriere della Sera, 22 febbraio 2018 Etica e deontologia che, ancor prima del codice penale, debbono guidare i bravi giornalisti che “costruiscono” la notizia, che si forma sotto i loro occhi o, meglio, sempre più spesso, sotto l’occhio implacabile di una videocamera nascosta. Il giornalista di inchiesta, che acquisisce “direttamente” e “attivamente” la notizia è, per la Cassazione, “l’espressione più alta e nobile dell’attività di informazione” ed ha l’obbligo di ispirarsi ai criteri etici e deontologici della sua professione. Etica e deontologia che, ancor prima del codice penale, dunque, debbono guidare i bravi giornalisti che “costruiscono” la notizia, che si forma sotto i loro occhi o, meglio, sempre più spesso, sotto l’occhio implacabile di una videocamera nascosta; ed è inevitabilmente orientata dalla individuazione discrezionale delle potenziali “vittime”, sulla scorta di criteri controvertibili e soggettivi. La riflessione che si impone, dunque, non è facile, involge profili e punti di vista differenti, anche in conflitto fra loro e prescinde dal caso specifico, pur non potendosi sottovalutare il coinvolgimento, nelle indagini che loro stessi hanno agevolato, dei giornalisti, indagati a Napoli, insieme con alcuni protagonisti dei loro video. È proprio questo il dato da cui partire, visto che spesso il lavoro del cronista presenta profili di palese rilevanza penale, non sempre bilanciati e, quindi, vanificati dallo scopo che persegue; cronista che, nella encomiabile ricerca della verità, qualche volta corre anche il rischio di anticiparla, magari forzandola un po’. Si può essere condannati, perciò, anche quando la notizia è di indiscutibile rilevanza sociale, sulla scorta di valutazioni giuridiche, prevedibili quanto un terno al lotto; e si può fare un buon servizio per la collettività, sacrificando, però, qualche reputazione di troppo. Il giornalista che, nel 2005, si è finto clandestino a Lampedusa, per raccontare dall’interno il locale Cpt, è stato processato e poi assolto, per il valore della sua inchiesta, giudicato prevalente sul reato di false generalità, che gli era stato contestato. Quello stesso giornalista, però, era già stato condannato in Svizzera, per lo stesso reato, commesso al solo scopo di rivelare l’infame commercio dei passatori. Grandi cronisti sono andati ad intervistare noti latitanti, facendosi condurre bendati al loro covo, per non dover mentire, se interrogati sulla sua ubicazione; e l’agente provocatore è una figura codificata solo come eccezione alla regola generale, che impone di incriminarlo insieme con il provocato, valutando poi, caso per caso, la sua punibilità. Invece, il mito della notizia, nonostante tutto e dell’inviolabilità della redazione, tempio laico di un sacerdote che non gode, però, di alcuna immunità, acuito dalla romantica e recente beatificazione cinematografica di scoop del passato, potrebbe indurre qualche giornalista a credere di essere legibus solutus, sottratto alle regole dei comuni mortali, siccome investito di un compito che, invece, se pur nobile ed indispensabile, non esonera certo dal rispetto della legge. Lo sa bene la giornalista che sta scontando una condanna a quattro mesi per omesso controllo, affidata ai servizi sociali, come racconta, vox clamantis in deserto, un sito siciliano. Sorprende, perciò, la sorpresa per l’incriminazione dei cronisti di Fanpage, visto che l’azione penale non è un optional; e che, a determinate condizioni, quantomeno l’iscrizione nel registro degli indagati è un atto dovuto, anche a garanzia degli interessati, che hanno così diritto ad un avvocato, presidio essenziale, meglio se in funzione preventiva, per chi si avventura sugli impervi tornanti del diritto penale. Certo si può scegliere coscientemente di violarlo, in nome della libertà di stampa, che deve fermarsi, però, quando rischia di causare danni irreversibili ed ingiustificati a diritti altrettanto importanti. Senza un freno etico e deontologico, infatti, quei diritti rimarrebbero in balìa di trucchi, vecchi come il mondo, ma ancora capaci di ingannare chi non aspetta altro che di essere indotto a delinquere, pur non avendolo ancora fatto e che forse, chissà, non lo farebbe mai, se non adeguatamente sollecitato. La Corte europea ha stigmatizzato l’uso dell’agente provocatore, se determinante nella commissione del reato, perché inciderebbe “negativamente sull’equità complessiva della procedura se la condanna si fonda essenzialmente sugli esiti di tale attività”. La Cassazione le ha fatto eco, stabilendo che il suo contributo non deve “inserirsi con rilevanza causale nell’iter criminis”, dovendo rimanere, invece, nell’ambito di “un’attività di osservazione, di controllo e di contenimento delle azioni illecite altrui”. La condanna sociale che arriva assai prima di quella penale, che potrebbe non arrivare mai, a volte finisce per essere la sola punizione possibile. Ma quando è indotta da scelte individuali e da sollecitazioni decisive, se pure fatte per un fine altissimo; ed è inflitta senza filtri e senza intermediazioni, può davvero essere inappellabile e, ahimè, a volte anche profondamente iniqua. Commissione Antimafia: “Infiltrazioni al Nord”. Minniti: “Clan possono condizionare il voto” di Salvo Palazzolo La Repubblica, 22 febbraio 2018 La relazione finale dell’organismo parlamentare presieduto da Rosy Bindi: “Dopo la morte di Riina le cosche si stanno riorganizzando e ora sono più libere”. Il ministro dell’Interno: “In campagna elettorale troppo silenzio sulle cosche”. “In questa campagna elettorale, c’è troppo silenzio sulle mafie”. Alla presentazione della relazione finale della commissione parlamentare antimafia, al Senato, il ministro dell’Interno Marco Minniti invita a una maggiore attenzione sulle infiltrazioni dei clan. “Siamo nel pieno della competizione elettorale, dire questo non appaia irrituale, è cogente: nel momento in cui c’è il rischio concreto che le mafie possano condizionare il voto libero degli elettori - una minaccia alla cosa più importante in una democrazia, la libertà di voto - non ci può essere silenzio in campagna elettorale; vedo troppo silenzio su questi temi. Le mafie sono in grado di condizionare istituzioni e politica”. Nonostante i colpi inferti da magistratura e forze dell’ordine, le mafie mostrano ancora una grande capacità di riorganizzazione. E i problemi sono anche nei capisaldi dell’antimafia. Il carcere duro, ad esempio. Sono 730 i mafiosi rinchiusi al 41bis, ma la maggiore parte, “circa 640, sono ospitati in strutture penitenziarie che non rispondono ai requisiti di legge”. La relazione finale della commissione antimafia lancia un allarme. Ci sarebbero pesanti falle nel sistema del 41bis, solo il nuovo penitenziario di Sassari (che ospita 90 detenuti) “è idoneo ad ostacolare le comunicazioni interne tra detenuti”; in tutti gli altri, “è di fatto possibile la comunicazione tra soggetti di eterogenei gruppi di socialità”. La commissione presieduta da Rosy Bindi ha fatto un certosino monitoraggio del sistema 41bis, ed è emersa “una grave catena di ritardi - così è scritto nella relazione - non solo per completare le costruzioni in corso, ma anche per adeguare le vecchie strutture”. E si denuncia il caso del penitenziario di Cagliari: “Ancora lungi dall’essere completato (...) si presenta pressoché abbandonato e in via di deterioramento ancor prima della sua definizione”. La relazione della commissione è la fotografia più aggiornata sulla situazione delle mafie in Italia. Situazione preoccupante nelle regioni del Nord. L’Antimafia parla di “un movimento profondo e uniforme, con una particolare intensità in Lombardia”, e anche di una “presenza pervasiva dei clan nel tessuto produttivo delle aree più dinamiche e ricche del Paese”. Un allarme che tante volte magistrati ed esponenti della società civile hanno ribadito, ma non è stato mai colto a pieno. La commissione antimafia denuncia che l’espansione delle mafie al Nord è stata favorita “fino a tempi recenti da diffusi atteggiamenti di sottovalutazione e rimozione”. I commissari ricordano “i preoccupati episodi di corruttibilità in seno alla pubblica amministrazione e alla politica, emersi dalle indagini”. “Cosa nostra mostra una straordinaria capacità di rigenerazione”, scrive l’Antimafia. La morte di Totò Riina non ha indebolito l’organizzazione, “costituisce paradossalmente un ulteriore elemento di forza, i clan sono infatti liberi di ridarsi un organismo decisionale centrale e quindi una strategia comune”. La ‘ndrangheta, “a lungo sottovalutata, è oggi l’organizzazione criminale più ricca, agguerrita e potente” anche a livello transnazionale, “in quanto leader mondiale del traffico di stupefacenti”. È presente “in tutte le regioni del Paese”, ha capacità di “condizionare l’economia locale grazie non solo al ricorso alla violenza e all’intimidazione, ma soprattutto alla convergenza di interessi con imprenditori senza scrupoli e alla rete di complicità con il mondo delle professioni e della politica locale”. La Camorra viene definita “forte e dinamica”, caratterizzata da uno “stretto rapporto con la politica e le istituzioni di alcune aree”. Un capitolo della relazione è dedicato alle mafie pugliesi, in particolare alle cosche foggiane e garganiche, “in questa fase rappresentano per la loro ferocia l’elemento di maggiore pericolosità”. Le mafie italiane continuano a prediligere il traffico dei rifiuti, gli investimenti nella sanità, ma anche le truffe sui finanziamenti pubblici, il contrabbando di gasolio e le scommesse illegali. La commissione richiama l’attenzione anche su “Mafia Capitale”: “È necessario riconoscere - scrive - pure le forme originali di nuove mafie, che esprimono ugualmente la capacità di intimidazione e di assoggettamento di spazi economici, di ambiti sociali, di infiltrazione nella pubblica amministrazione”. Non solo il presente, anche il passato delle stragi di mafia, che continua a pesare. “Le troppe domande ancora aperte difficilmente potranno essere soddisfatte da nuove indagini”. Per la commissione antimafia, “la sede naturale in cui cercare la verità storica complessiva sulle stragi è quella politica” e si invita il nuovo Parlamento a proseguire nella ricerca. Anche perché l’Antimafia dubita che “le conclusioni del processo Trattativa Stato-mafia, qualunque saranno, potranno rispondere alle domande”. Alcuni interrogativi importanti li aveva posti Fiammetta Borsellino davanti alla commissione antimafia, a proposito del depistaggio istituzionale che ha sviato per molti anni la ricerca della verità. La relazione finale, però, non entra nello specifico della spinosa questione del depistaggio attorno alle indagini sulla strage Borsellino. Restano gli interrogativi di Fiammetta, ancora senza risposta, su magistrati e investigatori: “Venticinque anni buttati, a costruire falsi pentiti con lusinghe e con torture”. Un contributo più dettagliato sul tema delle bombe del 1992-1993 è arrivato da uno dei componenti della commissione, il senatore del Pd Giuseppe Lumia, che nel suo intervento finale ha indicato una decina di tracce su cui sarebbe necessario proseguire le indagini, per cercare di dare un volto ad esempio al misterioso artificiere che caricò di esplosivo la 126 utilizzata per l’eccidio Borsellino. Passato e presente delle mafie in Italia. I segreti degli anni Novanta sono ancora la forza del superlatitante Matteo Messina Denaro, imprendibile dal 1993. “Toghe e social network”. L’Anm prepara la stretta di Michela Allegri e Sara Menafra Il Messaggero, 22 febbraio 2018 Non barricate ma discussione “aperta”, a cominciare dalla modifica del codice etico delle toghe associate che regolamenti l’utilizzo dei social. Il presidente dell’Anm, Eugenio Albamonte, ammette che su deontologia e comportamento pubblico dei magistrati si potrebbe fare di più. Ieri, sulle pagine de Il Messaggero, il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, ha aperto il dibattito spiegando che in molti casi, specie quando i magistrati sono responsabili di comportamenti deontologicamente discutibili ma non previsti dalle regole della Disciplinare, non si può fare nulla per fermarli o per valutare le loro azioni. E che per questo dovrebbe intervenire il Parlamento migliorando la legge, mentre lo stesso Csm potrebbe valutare che in alcuni casi i comportamenti non deontologici pesino sull’andamento della carriera. L’apertura - Non tutto il discorso piace ad Albamonte, che fa però un’apertura importante. Sabato prossimo, il consiglio di presidenza proporrà alla giunta dell’associazione di modificare il codice deontologico dell’Anm con un intervento diretto sui social network: “Il senso - spiega Albamonte - è che i magistrati devono considerare il comportamento sul web analogo a quello in una manifestazione pubblica”. Un po’ come se si fosse in tv, insomma: “Un post sbagliato su Facebook ha più rilevanza di un intervento improprio in un convegno e persino su un giornale. Ho fiducia che l’iniziativa troverà il consenso dell’associazione”. Albamonte si dice contrario all’ipotesi - avanzata da Legnini - che ci sia nel regolamento disciplinare una norma “di chiusura”, ovvero un varie ed eventuali in cui ricomprendere tutti i comportamenti lesivi che non sono tipizzati nella legge sull’ordinamento giudiziario. “Semmai discutiamo dei comportamenti considerati gravi, ma la violazione deve essere sempre ben specificata”, continua il presidente dell’Anm. I casi - La proposta del codice di condotta per il web arriva dopo che negli ultimi anni diversi magistrati sono finiti sotto procedimento disciplinare proprio per un uso troppo disinvolto dei social. I casi esaminati al Csm sono già parecchi. Uno è finito con l’ammonimento della pm romana Desirèe Digeronimo, che nel 2015 aveva riservato una frecciata social all’allora sindaco Ignazio Marino: “Ha applaudito beotamente per essere stato messo sotto tutela”. C’è poi la pratica sul pm Michele Ruggiero, di Trani, che si era sfogato sul web dopo che il Tribunale aveva assolto gli imputati di un suo processo. Sotto procedimento era finita anche la pm di Imperia, Barbara Bresci, per gli apprezzamenti virtuali all’attore Gabriel Garko, da lei interrogato. È stata assolta perché quei commenti facevano parte di una chat tra amiche. C’è poi il caso della pm di Trani, Simona Merra, che in una foto sui social era stata immortalata mentre, a una festa, l’avvocato di un suo indagato le baciava per gioco un piede. Giro di vite sulle misure antimafia di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 22 febbraio 2018 Corte costituzionale - Sentenza 33/2018. La Corte costituzionale mette i paletti alla confisca allargata, uno dei cardini del sistema delle misure di prevenzione. E, pur promuovendo l’inserimento della ricettazione tra i reati presupposto, invita il legislatore a evitare forzature. Un allargamento indiscriminato porterebbe a snaturare l’istituto. Difficile non avvertire l’eco delle polemiche che, pochi mesi fa, hanno accompagnato le modifiche al Codice antimafia, con l’allargamento delle misure di prevenzione ai principali reati contro la pubblica amministrazione. La sentenza n. 33, depositata ieri, scritta da Franco Modugno, interviene sulla questione di legittimità sollevata dalla Corte d’appello di Reggio Calabria. Quest’ultima infatti aveva chiamato in causa la Consulta, sostenendo l’illegittimità dell’inserimento della ricettazione tra quelli che rendono obbligatoria la confisca allargata in caso di condanna. Quel tipo particolare di confisca, che può essere disposto anche in via cautelare, in caso di sproporzione tra patrimonio dichiarato ed effettiva disponibilità. Per i giudici calabresi la presunzione legale di provenienza illecita del patrimonio del condannato è destituita di fondamento: non si tratta infatti di un reato normalmente commesso “in forma quasi professionale”, che rappresenta “fonte ordinaria di illecito accumulo di ricchezza”. L’ordinanza di rinvio metteva in luce, tra l’altro, come l’eventualità che l’indagine sulla sproporzione investa periodi di tempo ampiamente anteriori a quello dell’accertamento del reato, con la conseguente difficoltà nel dimostrarne la provenienza lecita, rende evidente il rischio che la confisca allargata, disposta indiscriminatamente, possa colpire anche beni acquisiti lecitamente. La Corte costituzionale non è stata però di quest’avviso ricordando come l’istituto è stato modificato nell’ambito del nuovo Codice antimafia, irrobustendo l’elenco dei reati presupposto, ma senza che questo possa avere come effetto la restituzione degli atti alla Corte d’appello: identici ne sono rimasti i presupposti e la ricettazione non è stata esclusa dal perimetro della confisca. La sentenza inquadra poi l’istituto all’interno di una linea di tendenza che vede altri Stati europei individuare forme di contrasto all’accumulo di ricchezze illecite alternative alla confisca classica. Non sempre è infatti possibile dimostrare il nesso tra quanto oggetto della misura e il reato contestato. La Consulta, davanti alle perplessità della Corte d’appello concentrate sullo snaturamento dell’istituto che andrebbe a colpire con la ricettazione delinquenti solo occasionali, osserva che in realtà da subito la confisca allargata non è stata circoscritta al solo contrasto della criminalità organizzata. Non sempre cioè a essere colpiti sono delinquenti seriali; lo stesso riciclaggio copre in realtà fattispecie assai diverse. E la Corte costituzionale non nasconde che il catalogo dei reati presupposto è stato arricchito in modo progressivo e alluvionale. Tuttavia, proprio la ricettazione, nella lettura della Consulta, può essere delitto idoneo a provocare un illecito arricchimento, suscettibile poi di essere commesso in forma professionale o comunque continuata. La presunzione poi può in ogni caso essere confutata dall’interessato attraverso la giustificazione della legittima provenienza dei propri beni. Tutto bene allora? Non proprio, perché la sentenza sottolinea anche i pericoli di una così estesa applicazione della confisca: la dilatazione della sfera temporale non può allora arrivare sino al monitoraggio patrimoniale dell’intera vita del condannato, serve una “ragionevolezza temporale”, che tenga conto anche delle diverse caratteristiche della vicenda concreta. E poi, conclude la pronuncia, “questa Corte non può astenersi, peraltro, dal formulare l’auspicio che la selezione dei delitti matrice da parte del legislatore avvenga, fintanto che l’istituto conservi l’attuale fisionomia, secondo criteri ad essa strettamente coesi, e, dunque, ragionevolmente restrittivi”. Depenalizzazione: la revoca della condanna fa venire meno la confisca di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 22 febbraio 2018 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 21 febbraio 2018 n. 8421. La revoca della condanna per reati tributari per l’abolizione del reato, come effetto dell’introduzione del Dlgs 158/2015 che alza la soglia di punibilità, comporta anche la revoca della confisca dei beni. La Corte di cassazione, con la sentenza 8421, accoglie il ricorso contro la decisione del Tribunale di confermare la misura. Nel caso esaminato il giudice dell’esecuzione, aveva revocato la condanna per il reato di omesso versamento dell’Iva, previsto dall’articolo 10 -bis del Dlgs 74/2000, perché sotto la soglia di punibilità fissata dal Dlgs 158/2015, confermando però la confisca di un veicolo e di somme sui conti correnti. Alla base della decisione la convinzione che la confisca per equivalente fosse una misura di sicurezza patrimoniale con la conseguenza che il passaggio in giudicato della sentenza comportava l’immediata acquisizione dei beni da parte dello Stato, anche in caso di abolitio criminis o di illegittimità costituzionale della norma. La Cassazione chiarisce però che la confisca per equivalente ha una natura sanzionatoria, e la sua esecuzione non è di ostacolo, né dal punto di vista concettuale né operativo, alla restituzione dei beni illegittimamente acquisiti. Lo Stato non può, infatti, trattenere i beni in assenza di un titolo venuto in seguito alla norma abrogatrice. Il notaio non può citare la compagnia nel giudizio penale di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 22 febbraio 2018 Corte costituzionale - Sentenza 34/2018. Il notaio imputato in un procedimento penale, per reati commessi nell’ambito della sua attività, non può chiamare in giudizio l’assicuratore, come responsabile civile. La Corte costituzionale (sentenza n. 34), respinge al mittente i dubbi di costituzionalità, sollevati dal Giudice per le indagini preliminari, rispetto all’articolo 83 del Codice di procedura penale, per la parte in cui non prevede la possibilità per l’imputato di citare in giudizio il suo assicuratore, in quanto responsabile civile per legge, per i danni da attività professionale. I chiarimenti del giudice delle leggi erano stati sollecitati dal Gup, investito di un procedimento penale che coinvolgeva sette persone, tra le quali un notaio, accusate di aver messo in atto, attraverso la costituzione di un trust, un’operazione per sottrarre beni alla fallita in danno dei creditori. A parere del giudice remittente le questioni in merito di illegittimità erano rilevanti. Secondo il Gup, andava estesa anche al professionista la possibilità - affermata dalla sentenza della Consulta 112/1998 - di chiamare in giudizio l’assicurazione per il danno provocato dalla circolazione di veicoli soggetti alla polizza obbligatoria. Anche per il notaio c’era, infatti, un’assicurazione obbligatoria stipulata dal Consiglio nazionale del notariato. Ad avviso della parte privata, ciò che vale per la responsabilità legata agli incidenti stradali dovrebbe valere anche per una responsabilità professionale di natura colposa, rispetto alla quale la legge impone la copertura. La Corte costituzionale nega la possibilità richiesta ricordando in primo luogo la diversa posizione che caratterizza la figura del responsabile civile da quella dell’assicuratore. L’assicurazione obbligatoria dei notai, da una lato garantisce, come tutte, l’assicurato e dall’altro tutela l’interesse del terzo danneggiato alla certezza del ristoro del pregiudizio. Il legislatore però “non si è spinto - si legge nella sentenza - sino a prevedere un’azione diretta del danneggiato nei confronti dell’assicuratore, analoga a quella che contraddistingue la responsabilità civile automobilistica”. Un elemento dirimente per escludere che l’assicuratore possa essere assimilato al responsabile civile (articolo 85 secondo comma del Codice penale). In questo contesto non c’è alcun margine per pronunce “additive”: qualunque innovazione del sistema rientra nella discrezionalità del legislatore. Il datore di lavoro è responsabile per la mancata consegna di materiale antinfortunistico di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 22 febbraio 2018 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 21 febbraio 2018 n. 8404. Il datore di lavoro che abbia una struttura complessa costituita da più filiali per non rispondere degli inadempimenti sulla sicurezza deve dimostrare da documenti scritti di aver delegato specificamente un soggetto. Questo il principio espresso dalla Cassazione con la sentenza n. 8404/18. La vicenda - La Corte si è trovata alle prese con un datore condannato per non aver fornito a un proprio dipendente le scarpe antinfortunistiche. I Supremi giudici hanno rilevato come da un lato il datore avesse consegnato su richiesta dell’ufficiale di pg un documento sottoscritto dal dipendente, attestante la consegna dei dispositivi di sicurezza, poi disconosciuto dallo stesso lavoratore, dall’altro non poteva dirsi provato oltre ogni ragionevole dubbio, che l’odierno imputato sapesse o potesse avere dei dubbi sulla bontà del documento, posto che la filiale era gestita da un soggetto terzo delegato dall’imprenditore. La Corte, tuttavia, non potendo rientrare nel merito della vicenda ha respinto la richiesta del datore in quanto nel ricorso era stato affermato in modo del tutto generico l’esistenza di una struttura di lavoro complessa e il ruolo di un terzo che in realtà non risultava essere un soggetto specificamente delegato dal datore di lavoro. Il principio. Si legge in conclusione nella sentenza che “il datore di lavoro è il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l’assetto dell’organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell’organizzazione stessa o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa”. Crotone: Quintieri (+Europa): sollecita l’istituzione del Garante dei diritti dei detenuti Ristretti Orizzonti, 22 febbraio 2018 Finalmente, dopo una battaglia, abbiamo ottenuto il potenziamento del personale di Polizia Penitenziaria presso la Casa Circondariale di Crotone. Lo dichiara soddisfatto Emilio Enzo Quintieri, membro del Comitato Nazionale di Radicali Italiani e candidato alla Camera dei Deputati nel Collegio Plurinominale Calabria Nord nella Lista Più Europa con Emma Bonino, all’esito della visita effettuata presso l’Istituto Penitenziario di Crotone, autorizzata dal Vice Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia Marco Del Gaudio. L’aspirante Deputato Quintieri, nella circostanza accompagnato dall’esponente radicale Valentina Moretti, stante l’assenza del Direttore Emilia Boccagna e del Comandante di Reparto, Commissario Capo Giuseppe La Forgia, è stato accolto dall’Ispettore Superiore Francesco Tisci, Vice Comandante del Reparto di Polizia Penitenziaria nonché dal Capo dell’Area Giuridico Pedagogica Concetta Froio, con i quali dopo un breve colloquio a cui ha preso parte anche il Cappellano Don Stefano Cava, si è recato all’interno della struttura per verificare sia le condizioni di vita dei detenuti che di lavoro del personale. La delegazione radicale è stata accompagnata anche dall’Ispettore Superiore Gaetano Megna e dall’Assistente Capo Francesco Caruso. Ero stato a visitare il Carcere di Crotone il 4 agosto scorso ed il 12 ottobre, in una relazione inoltrata, tra gli altri, al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Santi Consolo ed al Provveditore Regionale Reggente della Calabria Cinzia Calandrino, avevo rappresentato proprio la cronica carenza del personale di Polizia Penitenziaria, ritenendolo inadeguato per far fronte alle numerose esigenze di lavoro. Infatti, a Crotone, negli ultimi tempi, nonostante la presenza media di 120/130 detenuti, il personale del comparto sicurezza risultava essere di 52 unità, con una pianta organica che ne prevedeva sole 33. Per tali ragioni, continua il candidato Deputato, avevo invitato l’Amministrazione a rivedere, con cortese urgenza, l’organico del Corpo di Polizia Penitenziaria addetto al Reparto di Crotone. Successivamente, anche a seguito di alcuni accertamenti, con Decreto del Capo del Dipartimento del 29 novembre si è deciso di incrementare la pianta organica di Crotone da 33 unità (1 Commissario, 3 Ispettori, 2 Sovrintendenti e 27 Agenti/Assistenti) ad 85 unità (2 Commissari, 7 Ispettori, 13 Sovrintendenti e 63 Agenti/Assistenti). Al momento 9 Poliziotti Penitenziari hanno già preso servizio nell’Istituto, altri 11 arriveranno entro il 28 febbraio ed altri 20 entro il 20 marzo, a conclusione delle assegnazioni del 171 e 172 corso. Anche il Commissario Capo La Forgia, prima distaccato al Reparto di Frosinone e poi mandato in missione a quello di Cosenza, rientrerà stabilmente in servizio a Crotone. Inoltre, conclude Quintieri, nell’Istituto di Località Passovecchio, oltre alle numerose unità di Polizia Penitenziaria, è stato pure assegnato, in pianta stabile, un Funzionario Contabile nonché un altro Funzionario Giuridico Pedagogico. Al termine della visita alla Casa Circondariale, gli esponenti radicali Quintieri e Moretti, hanno incontrato alcuni Consiglieri ed Assessori del Comune di Crotone, ai quali hanno chiesto l’istituzione del Garante dei Diritti dei Detenuti nonché l’avvio di una collaborazione con la Direzione dell’Istituto per la stipula di una convenzione finalizzata all’assegnazione di alcuni detenuti a prestare la propria attività a titolo volontario e gratuito, tenendo conto anche delle loro specifiche professionalità e attitudini lavorative, nell’esecuzione di progetti di pubblica utilità in favore della collettività da svolgere presso il Comune di Crotone secondo quanto previsto dall’Art. 21 comma 4 ter dell’Ordinamento Penitenziario. Dopo il Carcere di Crotone, Emilio Enzo Quintieri insieme ad altri colleghi candidati alla Camera dei Deputati ed al Senato della Repubblica nella Lista Più Europa con Emma Bonino ed esponenti di Radicali Italiani, proseguirà le visite negli Istituti Penitenziari di Catanzaro (22), Castrovillari (23), Paola (24) e Cosenza (28). Bari: sciopero della fame per 343 detenuti “Satyagraha per Marco Pannella” bariviva.it, 22 febbraio 2018 Anche dai detenuti delle carceri pugliesi sono arrivate le adesioni al grande Satyagraha dedicato a Marco Pannella che Rita Bernardini, del coordinamento del Partito Radicale, giunta al 30° giorno di sciopero della fame, sta conducendo per sollecitare l’approvazione definitiva, da parte del Consiglio dei ministri, dei Decreti attuativi del Nuovo Ordinamento Penitenziario. La riforma dovrebbe essere il frutto di un lungo lavoro che è iniziato dalla convocazione degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale, che nell’Aprile del 2016 hanno portato a termine il loro compito consegnando al ministro della Giustizia, Andrea Orlando, un importante documento, un vero e proprio patrimonio di ricerca, analisi, riflessioni e proposte, volte a riformare un settore nevralgico del sistema-giustizia in Italia, quello dell’espiazione della pena, fermo a una formulazione datata 1975. A quell’anno risale, infatti, l’ultima riforma organica del settore. Non è difficile comprendere come la realtà carceraria negli anni 70 mostrasse uno scenario oggi non più attuale, a seguito dei profondi cambiamenti avvenuti nella comunità dei detenuti, basti, ad esempio, pensare al numero crescente di ingressi in carcere di detenuti stranieri avvenuto negli ultimi anni, nonché al dato oramai inequivocabile, reso dalle statistiche di stessa fonte ministeriale, in cui si evidenzia come lo scontare la pena attraverso misure alternative alla detenzione, nei casi in cui ciò sia possibile, fatte salve le necessarie salvaguardie, consenta di avere una bassissima recidiva. Così, dal 22 gennaio Rita Bernardini, affiancata da alcune centinaia di cittadini liberi e da circa 10.000 detenuti sta conducendo un digiuno di dialogo che consenta al Governo di attuare la Riforma, così come da delega ricevuta dal Parlamento. Nel carcere di Bari sono 343 i detenuti che con uno o più giorni di sciopero della fame o del carrello stanno accompagnando l’esponente del Partito Radicale nella lotta, con loro 92 detenuti del carcere di Brindisi e 500 del carcere di Taranto. Giovedì 22 Febbraio è stato convocato un Consiglio dei ministri con all’ordine del giorno i decreti attuativi. Rita Bernardini, a questo proposito ha dichiarato che: “C’è da porsi una domanda: in quale versione? Accogliendo la contro-riforma contenuta nel parere del Senato? È domanda cruciale perché se non l’accoglie (come si spera), ci vogliono altri 10 giorni per le commissioni giustizia se le controdeduzioni del Governo vengono trasmesse immediatamente. E siamo al 4 marzo, cioè al giorno del voto in cui Gentiloni dovrebbe convocare il Consiglio dei ministri e approvarli definitivamente nel testo originale. È plausibile, ministro Andrea Orlando? Visto che si parla al plurale di “decreti”, ci saranno anche quelli mancanti su lavoro, affettività, minorile, misure di sicurezza e giustizia riparativa?”. Molte quindi le perplessità e le questioni che rimangono aperte. Nel frattempo, nelle ultime ore sono arrivate adesioni importanti al Satyagraha, come quella dei Garanti dei detenuti, come si legge nel comunicato: “La mobilitazione dei Garanti dei Detenuti assumerà la forma di un’adesione per 24 ore allo sciopero della fame in corso - iniziativa nonviolenta promossa dal Partito Radicale Nonviolento e da Rita Bernardini e fatta propria da oltre 10.000 detenuti ristretti nelle 190 carceri italiane - e si svolgerà appunto nel giorno in cui si riunisce il Consiglio dei Ministri che, secondo il Presidente Gentiloni ed il Ministro Orlando, dovrebbe adottare importanti decisioni sull’iter del decreto già presentato e sugli altri necessari per la piena attuazione della delega parlamentare della legge 103 del 23 giugno 2017. La partecipazione allo sciopero della fame di oltre 30 Garanti delle persone detenute rappresenta l’inizio di una mobilitazione per i prossimi 10 giorni affinché tutti i passaggi istituzionali e tutti gli spazi di manovra siano percorsi al fine di ottenere una riforma il più ampia e significativa possibile”. Anche il Garante dei detenuti della Regione Puglia, Piero Rossi ha aderito alla mobilitazione e digiunerà per 24 ore in concomitanza del Consiglio dei ministri del 22 febbraio. Attendiamo dunque, prestando grande attenzione, l’evolversi degli eventi, augurandoci che il ministro Orlando e il Presidente del Consiglio, Gentiloni non vogliano rinunciare a portare a termine una riforma necessaria, non più procrastinabile, che renderebbe il nostro Paese un poco più somigliante a quello descritto nella Carta Costituzionale. Brindisi: 92 detenuti in sciopero della fame per Satyagraha promosso dal Partito Radicale brindisireport.it, 22 febbraio 2018 Anche in Puglia centinaia di adesioni al grande Satyagraha promosso dal Partito Radicale in memoria di Marco Pannella. Nel carcere di Brindisi si sono registrate 92 adesioni allo sciopero della fame promosso dal Partito Radicale, per l’approvazione definitiva, da parte del Consiglio dei ministri, dei Decreti attuativi del Nuovo Ordinamento Penitenziario. Il grande Satyagraha dedicato a Marco Pannella è stato intrapreso dalla leader dei Radicali, Rita Bernardini, giunta oggi al 30esimo giorno di sciopero della fame. Stanno scioperando anche 33 detenuti del carcere di Bari e 500 della casa circondariale di Taranto. “La riforma - si legge in un comunicato dei Radicali - dovrebbe essere il frutto di un lungo lavoro che è iniziato dalla convocazione degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale, che nell’Aprile del 2016 hanno portato a termine il loro compito consegnando al ministro della Giustizia, Andrea Orlando, un importante documento, un vero e proprio patrimonio di ricerca, analisi, riflessioni e proposte, volte a riformare un settore nevralgico del sistema-giustizia in Italia, quello della espiazione della pena, fermo ad una formulazione datata 1975. A quell’anno risale infatti l’ultima riforma organica del settore”. “Non è difficile comprendere - spiegano ancora i Radicali - come la realtà carceraria negli anni ‘70 mostrasse uno scenario oggi non più attuale, a seguito dei profondi cambiamenti avvenuti nella comunità dei detenuti, basti, ad esempio, pensare al numero crescente di ingressi in carcere di detenuti stranieri avvenuto negli ultimi anni, nonché al dato oramai inequivocabile, reso dalle statistiche di stessa fonte ministeriale, in cui si evidenzia come lo scontare la pena attraverso misure alternative alla detenzione, nei casi in cui ciò sia possibile, fatte salve le necessarie salvaguardie, consenta di avere una bassissima recidiva”. Così, dal 22 gennaio Rita Bernardini, affiancata da alcune centinaia di cittadini liberi e da circa 10.000 detenuti sta conducendo un digiuno di dialogo che consenta al Governo di attuare la Riforma, così come da delega ricevuta dal Parlamento. Nelle ultime ore sono arrivate adesioni importanti al Satyagraha, come quella dei Garanti dei detenuti, fra cui quello della Regione Puglia, Piero Rossi, che digiunerà per 24 ore in concomitanza del Consiglio dei ministri del 22 febbraio. “Attendiamo dunque, prestando grande attenzione - concludono i Radicali - l’evolversi degli eventi, augurandoci che il ministro Orlando e il Presidente del Consiglio, Gentiloni non vogliano rinunciare a portare a termine una riforma necessaria, non più procrastinabile, che renderebbe il nostro Paese un poco più somigliante a quello descritto nella Carta Costituzionale”. Napoli: lettera dal carcere di Poggioreale: “condizioni igieniche critiche, rischio malattie” di Andrea Aversa vocedinapoli.it, 22 febbraio 2018 La lettera di un carcerato alla nostra redazione: la denuncia della vita dentro il penitenziario. Intanto continua la lotta del Partito Radicale. Un grido urlato a bassa voce. Parole passate dalla bocca alla penna che un detenuto del carcere di Poggioreale, di cui non facciamo il nome per ovvi motivi di privacy, ha deciso di utilizzare per scrivere una lettera. Quest’ultima è stata consegnata alla redazione di VocediNapoli.it. Una denuncia che non ha nulla di clamoroso, nessuna incredibile richiesta se non quella del minimo rispetto delle condizioni umane. Proprio come prevede l’articolo 27 della Costituzione. “Non funzionano le docce, macchie di muffa ovunque. L’umidità si mangia le mura e le ossa”. E poi, “docce che non funzionano e tanta sporcizia. C’è il serio rischio di un epidemia tra queste celle”. Il lancio di un allarme igienico-sanitario. Una situazione esplosiva quella delle carceri italiane e Poggioreale risulta essere una delle più problematiche. Un contesto che penalizza l’intera comunità penitenziaria. Anche gli agenti della polizia penitenziaria lavorano ogni giorno tra mille difficoltà. Aggressioni tra detenuti, tra questi ultimi e gli agenti. Continui tentativi di suicidio da parte dei carcerati e purtroppo molti di essi vanno a buon fine. Tuttavia, la politica è del tutto sorda e cieca rispetto a questa tematica. Una delle campagne elettorali peggiori di sempre, sterile e priva di sostanza. Protagonisti, argomenti di distrazione di massa da dare in pasto all’opinione pubblica. Siamo sotto elezioni, ormai mancano pochi giorni alla fatidica data del 4 marzo ma di carceri e giustizia non si sente affatto parlare. Sono come mosche bianche i continui comunicati del Sappe (Sindacato autonomo della polizia penitenziaria) e l’inesauribile battaglia del Partito Radicale per l’approvazione dei decreti attuativi da parte del governo per la riforma dell’ordinamento penitenziario. Una misura che arriverebbe dopo 40 anni dall’ultimo provvedimento di legge in merito. Eppure, l’attuale governo si è ridotto all’ultimo minuto con il rischio di annullare il tutto e buttare al macero il lavoro svolto dal ministro della giustizia Andrea Orlando. A proposito, la lotta non violenta di Rita Bernardini e il suo Satyagraha sono giunti al 26esimo giorno di sciopero della fame. A sostenerli, migliaia di cittadini, un appello firmato da giuristi e intellettuali, il vice presidente del Csm (Consiglio superiore della Magistratura) Giovanni Legnini, i Garanti dei detenuti e una miriade di questi ultimi. Il filosofo Aldo Masullo, sulle colonne de Il Mattino, ha accolto questa iniziativa come il simbolo della partecipazione alla vita civile e politica dei carcerati. In Campania il numero di adesione più alto d’Italia: 1.572 detenuti. Novara: detenuti di nuovo al lavoro nei parchi in città con Assa e Atc novaraoggi.it, 22 febbraio 2018 Detenuti impegnati martedì 20 febbraio con il programma del Protocollo di intesa tra Comune, Casa circondariale, Assa e Atc. Assa ha provveduto all’intervento di manutenzione straordinaria del parco di via Galvani intitolato a Vincenzo Muccioli, che versava in pessime condizioni. Hanno prestato la loro attività volontaria i detenuti in uscita dal carcere in permesso premio, sotto il coordinamento di Assa e coadiuvati dai cantieristi del Comune attivi in azienda. È stata rimessa in sicurezza la delimitazione, ampiamente vandalizzata, di tutta l’area. Sono poi state sistemate le altalene ancora utilizzabili e rimosse quelle completamente obsolete, sostituendole con quelle nuove. Sono state sistemate anche le altre attrezzature ludiche, tra le quali i castelli, provvedendo a mettere i gradini mancanti e a trattare e verniciare le strutture. È stata effettuata la raccolta delle foglie e dei rifiuti, sono state chiuse le buche presenti. Nei prossimi giorni, non appena saranno asciugate le gittate di cemento, i cantieristi, sotto il coordinamento di Assa, provvederanno a terminare le finiture. Un’altra area verde verrà restituita in stato decoroso alla città e sarà nuovamente fruibile. Foggia: progetto “Una pena più dolce” nel carcere, consegna attestati e giacche da chef Ristretti Orizzonti, 22 febbraio 2018 Lettera aperta dei detenuti: “Questa attività dimostra come anche la frequentazione di un corso di formazione possa contribuire a un migliore inserimento nella società esterna e ad abbattere la recidiva”. “È stato un bel progetto, breve ma intenso. Si è formato un gruppo affiatato, abbiamo superato alcune difficoltà, dovute a differenze caratteriali e realizzato tutti insieme torte, crostate e ciambelle”. Grande entusiasmo, ieri, nella Casa Circondariale di Foggia per la conclusione del progetto “Una pena più dolce”, iniziato il 22 novembre 2017 per volontà della dirigente del Cpia1 Foggia, Antonia Cavallone e del vicario, Luigi Talienti. Il corso, realizzato grazie al Decreto Ministeriale 663, art 13 ‘scuola in carcerè, ha coinvolto 15 detenuti della Casa circondariale di Foggia, che hanno acquisito le nozioni di base dell’arte pasticcera. Il progetto ha visto la collaborazione sinergica della Direzione della Casa Circondariale, dell’Area Trattamentale, del Corpo di polizia penitenziaria e, per l’aspetto della comunicazione, del Csv Foggia. “Siamo qui presenti, con umiltà - hanno scritto i detenuti in una lettera aperta - per ringraziare l’Amministrazione Penitenziaria e, in particolare, Direzione, polizia Penitenziaria e Area educativa del carcere di Foggia, di averci dato la possibilità di frequentare con costanza questo corso. Questa attività dimostra come anche la frequentazione di un corso di formazione possa contribuire a un migliore inserimento nella società esterna e ad abbattere la recidiva del reato. Per questo, un caloroso ringraziamento va al prof Luigi Talienti e alla scuola Cpia non solo per il corso appena concluso, ma per tutte le attività che vengono organizzate, da anni”. “Per realizzare attività di questo tipo - ha sottolineato il dirigente scolastico, durante la consegna degli attestati - occorre superare le non poche difficoltà che si annidano nelle maglie della burocrazia. Sforzi ben ripagati, se si guarda ai risultati. Ora tocca a tutti voi fare tesoro di tale esperienza, che potrete presentare a un futuro datore di lavoro”. Il docente e volontario Luigi Talienti, tutor e motore del progetto, ha voluto donare a tutti i partecipanti anche una giacca da chef, come augurio per il futuro professionale, ma non solo. “La prima torta che realizzerete fuori dalla Casa circondariale dovrà essere per la vostra famiglia, che rappresenta la forza e il coraggio anche in questo periodo di detenzione. Abbiamo trascorso insieme un periodo di formazione positivo e uno degli aspetti più belli è stata la generosità che avete mostrato mettendo, a volte, a disposizione alcuni ingredienti e realizzando dolci speciali nel periodo natalizio anche per i detenuti delle altre sezioni”. Alcuni dei detenuti partecipanti al corso, che attualmente lavorano nelle cucine dell’Istituto, hanno ricevuto l’attestato con il grembiule, durante una breve pausa dall’attività lavorativa. “Speriamo che presto possano essere attivati nuovi corsi del genere, anche più lunghi. Ci fanno bene e ci consentono di confrontarci e imparare qualcosa di nuovo”. “Cattività”, le detenute recitano nel carcere di massima sicurezza di Viola Brancatella cinecitta.com, 22 febbraio 2018 “Tre anni fa lavoravo al settore maschile del carcere di Vigevano e sono passato a quello femminile di alta sicurezza”, ha esordito il regista Mimmo Sorrentino presentando il progetto “Educarsi alla libertà” e il documentario Cattività di Bruno Oliviero. “Un giorno - ha proseguito durante l’incontro al Ministero di Giustizia - una detenuta mi ha detto “Io i fatti miei non li voglio raccontare” e ho capito subito che, anche se sosteneva il contrario, mi stava dicendo tantissimo di sé. Allora mi sono chiesto come raccontare queste donne”. Un “come” che il regista teatrale Mimmo Sorrentino ha trovato 3 anni fa, realizzando, insieme alle detenute della casa di reclusione di Vigevano, lo spettacolo “L’infanzia dell’alta sicurezza”, all’interno del progetto di teatro partecipato “Educarsi alla libertà”. Un’iniziativa sostenuta dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, dal Coordinamento Nazionale Teatro Carcere e dal Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo dell’Università degli Studi Roma Tre, che nel 2014 hanno firmato la prima convenzione per favorire lo svolgimento delle cosiddette attività trattamentali all’interno delle case penitenziarie (iniziative sportive, teatrali, ricreative, religiose, culturali), l’attivazione di seminari e corsi di formazione del personale carcerario, la celebrazione della Giornata Nazionale del Teatro in Carcere, la promozione e la sensibilizzazione al tema della “rieducazione” dei detenuti e tanto altro. Prima che lo spettacolo “uscisse” dal carcere, ha raccontato Sorrentino, bisognava porsi il problema delle vittime delle detenute di alta sicurezza - tutte incriminate per associazione mafiosa - tanto da rivolgere l’invito a uno dei massimi studiosi di criminalità organizzata, Nando Dalla Chiesa, docente ordinario alla Statale di Milano e vittima di mafia, il quale, una volta visto lo spettacolo, ha scritto su Il Fatto Quotidiano: “quelle donne, anche se non denunciano, non tradiscono, possono diventare un fatto esemplare per il paese”. Dopo di allora, “L’infanzia dell’alta sicurezza” è uscito dal carcere e ha avuto un enorme successo nei teatri, tanto da attirare 6.000 spettatori in tutta Italia, tra Milano, Vigevano, Torino, Roma e Bologna, grazie al permesso di uscita per “necessità con scorta” (di solito ottenuto per motivi medici), concesso dai magistrati alle detenute, alla luce dell’articolo 27 della Costituzione che afferma la necessità della “rieducazione del condannato”. Un’educazione alla libertà diffusa che il regista Bruno Oliviero ha raccontato nel documentario Cattività, a cura di Luca Mosso, Bruno Oliviero e Mimmo Sorrentino, con direttore creativo Leonardo Di Costanzo e prodotto da Quality Film e Rai Cinema. Un’opera che nasce dalla necessità di “diffondere la possibilità di ripercorrere la vita di chi ha sbagliato, metterla in ordine, per cambiare i destini”, ha spiegato il regista, aggiungendo che l’effetto di “circolazione dei destini” è dovuto al fatto che ogni detenuta non racconta la propria storia, ma quella di un’altra. “Il film è una storia sociale d’Italia - ha detto Oliviero - perché oltre a documentare gli spettacoli teatrali, racconta i retroscena dell’iniziativa di Sorrentino”, rappresentando un prolungamento ideale di Nato a Casal di Principe, presentato a Venezia, in cui il regista ha raccontato un altro aspetto della criminalità organizzata. Un progetto di cui andare fieri secondo il direttore del carcere di Vigevano Davide Pisapia, che ha sottolineato l’importanza del coinvolgimento del personale penitenziario, che prende parte alle prove e segue le detenute anche in trasferta. Nell’ottica di contaminare il carcere con il mondo esterno, ha detto Roberto Piscitello, il Direttore Generale Detenuti e Trattamento, per restituire alla società degli individui migliori di quando sono entrati in carcere, anche grazie all’interesse dei registi che riescono a puntare l’obiettivo sulla zona grigia del carcere. Uno strumento di liberazione, secondo il docente dell’Università degli Studi di Roma Tre Marco Ruotolo, che insieme alle sue classi l’anno prossimo sarà al Palladium di Roma per assistere allo spettacolo di Mimmo Sorrentino “Sangue”, in cui le detenute ripercorreranno gli episodi cruenti che hanno vissuto in passato. Cui seguiranno “Benedetta”, che andrà al festival di drammaturgia Teatri di primavera a Castrovillari, e “Scappa” che sarà messo in scena alla 40esima edizione di Asti Teatro, uno spettacolo realizzato insieme a una quindicina di detenuti della Casa di Reclusione di Asti, tra cui alcuni parenti delle donne di Vigevano. A concludere l’incontro, Mauro Palma, il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, che ha parlato di “recupero di soggettività” per i detenuti che fanno teatro in carcere e Santi Consolo, il capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria (Dap) che ricordato i traguardi lusinghieri dell’Italia, in cui ben 156 istituti su 190 organizzano attività teatrali, che hanno come effetto anche la riduzione dell’isolamento dei detenuti. Un trend positivo che richiede una collaborazione costante con le istituzioni, hanno ribadito Tiziana Coccoluto, il Vice Capo di Gabinetto Vicario del Mibact, che ha proposto l’organizzazione di uscite culturali per i detenuti, nei musei e nei parchi archeologici italiani, e il Sottosegretario di Stato al Ministero della Giustizia Gennaro Migliore, che ha sottolineato l’importanza del coinvolgimento del Ministero della Giustizia nella messa a sistema del progetto “Educarsi alla libertà” e ha esteso l’invito a tutte le istituzioni a “rompere il muro di paura verso il carcere”. Un rapido e chiaro “Vademecum” per chi vuol conoscere il carcere dall’interno di Manlio Triggiani barbadillo.it, 22 febbraio 2018 Cavallini, Colanero, “Vademecum del detenuto”, Aga ed., pagg. 109, euro 11,00; (ordini: orionlibri@gmail.com). Entrare in un cellulare, essere trasportati fino al cancello o portone esterno di un carcere, con le manette ai polsi, poi l’ingresso nell’ufficio matricola con tutte le procedure lunghe e penose. Sbattuti ad attendere il proprio turno nel transito (celle provvisorie vicine all’ufficio), poi la chiamata e la perquisizione, le foto segnaletiche, la presa delle impronte digitali sul brogliaccio (si fa ancora così?), la consegna degli effetti personali (che vengono conservati nel magazzino), l’assegnazione nella cella d’isolamento per almeno due-tre giorni, fino all’interrogatorio del magistrato. Poi, l’assegnazione “in compagnia”, la ripartizione dei compiti nella cella, gli equilibri fra detenuti e fra comuni e politici, fra criminalità organizzata e piccoli delinquenti ecc. E poi l’iter per ottenere un colloquio, la domandina per richiedere un oggetto, per parlare con l’educatore, con l’avvocato, come gestire il conto corrente e la spesa allo spaccio ecc. Insomma, quello che sembra un “collegio”, per chi si è comportato male, diviene qualcosa di più: un girone dantesco che con il tempo mostra gli aspetti di pena ulteriore, sovrapponibile a quella decisa dalla Corte: sovraffollamento nella cella, tensione con altri detenuti, tempi lunghi per una visita specialistica (proprio come fuori…), per ottenere una risposta dalla direzione del carcere, per sapere se si può essere ammessi fra i lavoranti ecc. Tutto questo inframmezzato da momenti in cui si attendono con ansia notizie da casa, si vivono non sempre bene i rapporti con gli agenti, si sviluppa la psicosi dell’abbandono da parte di amici/fidanzata/famiglia, lo sviluppo di fissazioni: l’igiene, la smania del sesso (quale, se si è dietro le sbarre e i cancelli?), il timore di contrarre malattie, il timore di perdere la forma fisica che spinge a un iperattivismo ginnico (nelle carceri del Sud è molto diffuso il “bigliardino”, percorrere i pochi metri di una cella o del passeggio ad andatura veloce, per fare movimento e per provare a stancarsi un po’), la tv come unico elemento di contatto con l’esterno (quotidiani ci sono, ma chi li legge?) e il rischio di divenire teledipendenti. La voglia di parlare, di confidarsi, sempre sconsigliabile con i compagni di pena. Di libri sul carcere ne sono stati scritti tanti (spesso da chi non è stato mai dietro le sbarre) e i racconti di casi limite sono stati spesso estremizzati, specie nelle versioni cinematografiche (Papillon, Fuga da Alcatraz, Fuga di mezzanotte ecc.) con l’esito di dare implicitamente una visione edulcorata del carcere ordinario. Nessuno però ha parlato della quotidianità, della vita fra detenuti, di come si vive e come si evitano guai dietro le sbarre ecc. Due detenuti, Gilberto Cavallini ed Erminio Colanero, “con esperienza nel settore” hanno deciso di scrivere un agile vademecum del detenuto che non solo offre una visione dei problemi quotidiani, ma offre anche consigli, illustra certe realtà ignote a chi non ha mai superato la soglia del carcere, riporta gli schemi - utili - delle domandine da presentare alla direzione, al magistrato di sorveglianza ecc. È un viaggio sapido e veritiero far alcune dinamiche carcerarie ma offre, in prospettiva, anche una lettura sociologica di come si vive in un microcosmo che rimanda a certe logiche che sono riprodotte anche nella società: chi vuole essere leader, chi vuole sfangarsi inimicizie, come farsi voler bene, come tenere rapporti con gli agenti e soprattutto con i compagni di cella, che fare, dopo un periodo di buona condotta, per lavorare all’esterno ecc. Un vademecum che forse non serve ai detenuti perché quelle cose le vivono quotidianamente, ma che serve senz’altro a quanti non hanno idea di cosa sia il carcere e vogliono conoscere in maniera diretta, senza giri di parole e con una buona dose di consigli, ciò che avviene dietro quei muri di cinta al di là degli stereotipi e di certe rappresentazioni di film. Chi soffia sul fuoco della paura di Norma Rangeri Il Manifesto, 22 febbraio 2018 L’onda nera che riporta a galla la violenza xenofoba e fascista può stupire solo chi non vede l’avvelenamento di una campagna elettorale dominata dal tema della sicurezza, annaffiata ogni giorno con dosi massicce di odio contro gli emarginati. Un diffuso sentimento di paura è la benzina sparsa a piene mani da una destra che aspira al governo del paese, che fa immaginare a milioni di italiani, impoveriti e impauriti, di potergli cambiare la vita ingaggiando una battuta di caccia nazionale contro altri poveri diseredati ma con un diverso colore della pelle. Questo vento di destra che attraversa l’Europa, in Italia è alimentato da politici di primo piano come Berlusconi, Salvini e Meloni, veri e propri “imprenditori della paura”, secondo la definizione felice e anticipatrice del sociologo francese Pierre Musso che la coniò ormai dieci anni fa. Con l’accoltellamento di un ragazzo a Perugia mentre affiggeva i manifesti elettorali di Potere al popolo, con la svastica a Roma sulla lapide di Moro, con l’irruzione di Forza Nuova negli studi del programma di Giovanni Floris, e con il pestaggio a Palermo di un dirigente di estrema destra, questa istigazione alla violenza è passata dalle parole ai fatti. E rapidamente, dall’irruzione, a novembre, degli skinead di Como nella sede di un’associazione per i migranti, al fascio-leghista di Macerata armato di pistola per il tiro al bersaglio contro i neri, le organizzazioni di estrema destra chiedono e ottengono le piazze per i loro comizi, alimentando un clima di alta tensione. Le leggi italiane vietano la ricostituzione del partito fascista, ma questi gruppi sono ben attenti a presentare liste e simboli evitando di nominare il fascismo, così da essere ammessi alla campagna elettorale come tutti gli altri. Salvo poi andare nel salotto di Porta a Porta e rivendicare, come ha fatto Simone Di Stefano, segretario di Casapound: “Siamo eredi dell’esperienza del fascismo, della Rsi e del Msi”. E dunque non bisogna contrastarli su loro stesso piano, cadendo così nella trappola degli “opposti estremismi”, cioè replicando una sceneggiatura che purtroppo abbiamo già vissuto. Presidi e manifestazioni sono l’antidoto giusto per contrastarne i rigurgiti e impedirgli di camuffarsi nei panni delle vittime. Ha ragione Laura Boldrini quando condanna la brutale aggressione ai danni di un esponente di Forza Nuova a Palermo, invitando a non usare l’antifascismo per giustificare azioni violente perché, dice la presidente della camera, “l’antifascismo è una cultura di pace”. Ha ragione il presidente del senato Grasso quando avverte che “l’odio politico sta divorando il paese e per evitare il morto non bisogna aspettare oltre”. Bisogna reagire ai fascisti che rialzano la testa in modo democratico, come a Macerata, come a Bologna. Occupando le piazze con cortei e manifestazioni pacifiche. Altro che abbassare i toni, come invita a fare il Pd. Altro che invitare i cittadini a chiudere negozi e scuole per starsene a casa, come ha fatto il sindaco di Macerata, provocando l’annullamento di una presenza forte già organizzata da Anpi, sindacati e forze di sinistra. Quelle stesse organizzazioni che sabato saranno in piazza a Roma, questa volta anche con il Pd che ora cerca di cavalcare stantii richiami all’ordine pensando di lucrarne qualche voto. Renzi porta in tourné il ministro dell’interno come l’uomo forte contro gli immigrati, nel tentativo di incassare qualche voto destinato ai leghisti di Salvini. Ma c’è da dubitare sul successo dell’operazione. Perché è proprio nelle periferie, nei territori di maggiore disagio che il partito di Renzi in questi anni ha conosciuto il grande esodo sociale. E perché tra la brutta copia e l’originale, è sempre l’originale ad avere la meglio. Cyber-attacchi, manipolazioni e sorveglianza: ecco gli usi malevoli dell’intelligenza artificiale di Carola Frediani La Stampa, 22 febbraio 2018 Uno studio analizza gli scenari in cui questa tecnologia può essere impiegata per attaccare. Dalla cyber-sicurezza alla propaganda. L’intelligenza artificiale, e le sue diverse, molteplici incarnazioni, sono un tema sempre più caldo. Molte le applicazioni utili già esistenti, che usiamo tutti i giorni, o che sono in corso di sviluppo. Pensiamo anche solo alle traduzioni automatiche; all’analisi d’immagini in ambito medico; ai filtri antispam; ai motori di ricerca. E, guardando più in avanti, anche agli assistenti digitali che saranno sempre più elaborati; o alle sperimentazioni di auto senza pilota; o alla possibilità di usare droni in aree disastrate in grado di prendere decisioni. Certo, esistono timori e discussioni sugli effetti collaterali, gli imprevisti e i problemi etici di alcune di queste applicazioni, anche quando nascono con le migliori intenzioni. E c’è chi si sta ponendo il problema. Ma che dire invece degli utilizzi volutamente malevoli dell’intelligenza artificiale? Di quando viene impiegata per attaccare qualcuno o qualcosa? Che scenari si prevedono su questo fronte? Lo studio sugli usi malevoli nel futuro prossimo - A delinearli ci prova ora un autorevole rapporto, appena uscito e firmato da numerosi ricercatori dell’università di Cambridge, Oxford, di associazioni dei diritti digitali come l’Electronic Frontier Foundation, di società di cyber-sicurezza e di gruppi come OpenAI, cofondato dall’ad di Tesla, Elon Musk. Lo studio - intitolato L’uso malevolo dell’intelligenza artificiale (The Malicious Use of Artificial Intelligence) - pur riconoscendo tutti i benefici di questa tecnologia, s’imbarca dunque nella scomoda impresa di prevedere come potrebbe essere usata da un attaccante. Ma di che tipo di tecnologie stiamo parlando? I ricercatori considerano quelle già esistenti o che potrebbero essere plausibili entro i prossimi 5 anni, concentrandosi soprattutto sugli sviluppi del machine learning. Per chiarire subito, lo stesso studio definisce i due termini: l’intelligenza artificiale si riferisce a “sistemi in grado di eseguire compiti che si ritiene richiedano intelligenza”; il machine learning è un suo sotto-campo, ed è un “sistema che migliora nel tempo l’esecuzione di un certo compito attraverso l’esperienza”. Gran parte delle applicazioni citate prima si basano proprio sul machine learning. Ora, gli attacchi individuati dai ricercatori che possono essere potenziati dall’intelligenza artificiale si dividono in tre ambiti: la sicurezza digitale, ovvero lo sviluppo di attacchi informatici più incisivi; la sicurezza fisica, ovvero la possibilità di sequestrare dispositivi autonomi altrui e usarli come un’arma (ad esempio proprio i droni); e la sicurezza politica, nel senso di un utilizzo statale di queste tecnologie per profilare, sorvegliare, o disinformare una popolazione. Sorvegliare e manipolare - L’intelligenza artificiale, notano i ricercatori, può infatti automatizzare una serie di compiti utili ai fini della sorveglianza, ad esempio attraverso l’analisi di dati raccolti in massa; per obiettivi di persuasione, attraverso la creazione di messaggi di propaganda mirati; e per l’inganno, attraverso la manipolazione di video. Sono preoccupazioni “più significative sotto regimi autoritari, ma che possono indebolire anche la capacità delle democrazie di sostenere dibattiti pubblici autentici”. Ad esempio, si cita la possibilità di fare analisi dei social network per individuare specifici influencers, persone con ampio seguito e ruoli chiave, verso le quali esercitare sorveglianza o indirizzare disinformazione. Tra le manipolazioni, viene fatto l’esempio di video falsificati, di cui è previsto un aumento in qualità e quantità. Questa è una tecnologia già esistente, comparsa mentre gli autori scrivevano il rapporto. A fine 2017 infatti si sono diffusi online vari casi di deepfakes, in cui programmi che permettono di inserire la faccia di qualcuno sul corpo di un altro, all’interno un video, hanno trovato un primo sbocco nella creazione di finti porno (in cui ai protagonisti del girato originario sono sostituite le facce di altre persone, spesso celebrità). Un piccolo caso mediatico che ha portato Reddit, una delle comunità online dove si erano diffusi i deepfakes, a un giro di vite e a una messa al bando di tale pratica. Ovviamente, il trasferimento di queste tecniche nell’ambito della lotta politica per la creazione di video finti non è affatto improbabile. “Alcune di questi scenari possono essere più o meno preoccupanti a seconda del Paese preso in considerazione”, commenta a La Stampa Miles Brundage, ricercatore al Future of Humanity Institute di Oxford e tra gli autori del rapporto. “Governi autoritari tenderanno a usare l’intelligenza artificiale per sorvegliare e sopprimere il dissenso, e i governi democratici vedranno una proliferazione di contenuti media manipolati. La diffusione di notizie false, già esistente, potrebbe essere molto più preoccupante se fosse accompagnata da video apparentemente realistici di un leader politico che dica cose oltraggiose; o se mostrasse molte versioni diverse di uno stesso evento, con il risultato di produrre confusione. Tutto ciò era già possibile senza intelligenza artificiale, ma con questa si abbattono i costi e si aumenta la scala di diffusione”. Phishing e cyber-attacchi - Ma l’ambito in cui ci si aspetta quanto prima sviluppi tangibili è probabilmente quello della cyber-sicurezza. Già oggi esistono aziende e startup che usano l’intelligenza artificiale come strumento di difesa da attacchi informatici. E lo stesso studio riconosce l’importanza di questo approccio. Tuttavia, il timore è che anche gli attaccanti possano giovarsi di questa tecnica. I ricercatori fanno l’esempio dello spear phishing, cioè dell’invio mirato di mail finte, che sembrano provenire da qualcuno che si conosce. Più la mail è personalizzata, più l’inganno sarà efficace, più alte saranno le probabilità per la vittima di cascarci. Per questo inviare mail di questo tipo richiede un certo lavoro di scavo e raccolta informazioni da parte dell’attaccante, sui contatti e le relazioni del target. Tuttavia se questa fase può essere automatizzata, allora gli attacchi di spear phishing possono diventare ancora più diffusi e temibili. Tra gli scenari del futuro i ricercatori immaginano anche una situazione in cui la vittima abbia ricevuto una brochure infetta con un software malevolo, dopo aver cliccato su una pubblicità mirata che gli sia stata servita dagli attaccanti, dopo una sua profilazione. Ma l’intelligenza artificiale potrebbe essere usata anche per rendere più incisiva la ricerca di vulnerabilità nel software (che già oggi può essere automatizzata). O per aggiornare continuamente un certo malware. O per identificare meglio possibili target. “Le tecniche per individuare questi attacchi sono giù sviluppate ma di fatto è una rincorsa continua tra chi attacca e difende, e non sappiamo a lungo termine cosa accadrà. Per questo è necessario pianificare prima cosa vogliamo fare”, commenta ancora Brundage. Di qui le raccomandazioni dei ricercatori: imparare dalla comunità che si occupa di cyber-sicurezza, perché il suo ruolo sarà fondamentale in questa fase. E allargare il dibattito e la discussione sull’uso dell’intelligenza artificiale a molteplici soggetti, non solo ai tecnici, per prevenire e mitigare usi malevoli. Fondazione Migrantes: “è ora di uscire dal vicolo cieco della riforma di Dublino” di Giovanni Stinco Il Manifesto, 22 febbraio 2018 Il rapporto della Fondazione Migrantes. Chi si ostina a parlare di invasione non sta dicendo la verità. Anzi a ben guardare l’emergenza è prima di tutto umanitaria, perché il Mediterraneo - spiegano - resta la frontiera più letale del mondo. “Taxi del Mediterraneo”, “stop all’invasione”, “aiutiamoli a casa loro”. Sui migranti si è detto, e si continua a dire di tutto, con un clima elettorale che non aiuta di certo la discussione. A dare una mano potrebbero essere i dati del rapporto 2018 della Fondazione Migrantes. “Il Diritto d’asilo. Accogliere, proteggere, promuovere, integrare”, il titolo del volume presentato ieri a Ferrara. Prima notizia: sulle rotte del Mediterraneo nel 2017 hanno raggiunto via mare l’Europa 171 mila persone, erano 363 mila nel 2016 e poco più di milione nel 2015. Chi si ostina a parlare di invasione non sta dicendo la verità. Anzi a ben guardare l’emergenza è prima di tutto umanitaria, perché il Mediterraneo - spiega Migrantes - resta la frontiera più letale del mondo, più di quella tra Usa e Messico di cui tanto si parla. Tra il 2015 e il 2017 sono morte 12 mila persone nella traversata. Una strage. La “buona” notizia è che nel 2017 in termini assoluti i morti sono scesi a 3 mila 771, contro i 5 mila 143 dell’anno precedente. La pessima è che è aumentata, sia pure di poco, l’incidenza dei morti sul totale di coloro che si sono imbarcati: oggi perdono la vita nelle acque del Mare Nostrum (ma si tratta sempre di stime per difetto) quasi 2 persone ogni 100 partite, mentre nel 2016 il dato si era attestato su poco più di una su 100. Un dato che potrebbe essere utile leggere anche alla luce delle polemiche furiose di questa estate che hanno preso di mira le ong “taxi del Mediterraneo”. Mentre Lega e 5 Stelle si scagliavano contro i salvataggi e Minniti rendeva la vita più difficile alle organizzazioni non governative, il Mare Nostrum diventava sempre più letale per coloro che tentavano di attraversarlo con mezzi di fortuna. Altri dati dal rapporto: nel 2017 il contatore degli arrivi di migranti e profughi in Italia si è fermato a 119.369 persone, il 34% in meno rispetto alle 181.436 del 2016 (erano state 153.842 nel 2015). Primo Paese di provenienza si conferma la Nigeria, seguita da Guinea, Costa d’Avorio, Bangladesh, Mali ed Eritrea. Dove è finito quel 34% in meno, in tutto 60 mila persone? Forse sono tutti bloccati in Libia, probabilmente nei lager sparsi per il paese. “Dove siano finiti è una domanda serissima che dobbiamo farci - commenta la curatrice del rapporto Cristina Molfetta - Sicuramente le politiche del governo sono riuscite a tenere lontane dai confini molte persone, ma non a cancellare le motivazioni che inducono quelle persone a migrare. La verità è che li stiamo proteggendo sempre meno”. Secondo i dati del Viminale nel 2017 hanno chiesto protezione in Italia circa 130 mila persone (per la prima volta il numero supera gli arrivi via mare durante l’anno). Nel 2016 i richiedenti asilo erano stati 123.600, e 83.970 nel 2015. Un trend in ascesa che si spiega con le politiche sempre più respingenti dei vari Stati della fortezza Europa. “Se tutto attorno all’Italia i confini si chiudono e l’accoglienza diminuisce - commenta la curatrice - è fisiologico che ci sia un aumento delle richieste nel nostro paese”. Nel dettaglio nel 2017 sono stati esaminati circa 80 mila richiedenti asilo e accordata protezione a oltre 30 mila di essi. Ma una larga maggioranza, poco sotto il 60%, si sono visti respingere la loro domanda. Nel dossier si parla anche di chi ha deciso di accogliere i migranti in casa. Oltre 400 famiglie in tutta Italia negli ultimi tre anni per un totale di 500 tra rifugiati e richiedenti asilo. Forse poche, comunque un esempio di accoglienza diffusa e di altissima qualità. Alla fine del rapporto le proposte per superare quella che la Fondazione Migrantes chiama il “vicolo cieco” del diritti d’asilo in Europa: un nuovo regolamento di Dublino finalmente aderente al principio di solidarietà e di equa ripartizione delle responsabilità tra gli Stati; l’introduzione di un regolamento a livello europeo che disciplini il reinsediamento dei rifugiati da Paesi terzi prevedendo per gli Stati membri obblighi chiari; un’estensione della protezione sussidiaria, ancorandola alla tutela dei diritti e delle libertà fondamentali garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Spagna. L’ergastolo ostativo e l’estensione della “prision permanente revisable” camerepenali.it, 22 febbraio 2018 L’Unione delle Camere Penali Italiane si unisce alla lotta dei giuristi spagnoli per il rispetto di una visione costituzionale della pena e per il superamento dell’ergastolo ostativo in Europa. Il 9 febbraio scorso il Governo spagnolo ha approvato un disegno di legge volto ad estendere la prisión permanente revisable ad ulteriori delitti, oltre a quelli già previsti dalla Legge organica 1/2015. La “prisión permanente revisable” è traducibile come una pena perpetua soggetta a revisione, un ergastolo le cui garanzie sono affidate alla verifica giurisdizionale del permanere delle necessità restrittive, che presuppone però l’aver scontato integralmente una consistente parte di pena (da venticinque a trentacinque anni, in base ai delitti per cui è intervenuta condanna) e con importanti limitazioni per l’accesso al tercer grado (una forma di custodia attenuata). L’introduzione nell’ordinamento spagnolo dell’ergastolo, pena non contemplata in precedenza nel codice penale, aveva destato preoccupazioni e proteste da più parti, ed è pendente un ricorso presentato al Tribunal Constitucional per violazione dell’articolo 25 della Costituzione spagnola, che prevede al secondo comma la necessità che tutte le pene siano finalizzate alla rieducazione e al reinserimento sociale del condannato. L’ipotesi di ampliamento del novero dei reati sanzionabili con la prisión permanente revisable, in un momento in cui l’opinione pubblica è particolarmente sensibile alle sirene di chi auspica interventi drastici finalizzati più alla vendetta che al rispetto dei diritti costituzionali, desta allarme sotto più profili. È noto come la Corte europea dei diritti dell’uomo abbia accertato la violazione dell’art. 3 Cedu nei casi in cui gli ordinamenti statali non prevedano la possibilità di rivalutare il percorso del reo decorso un determinato periodo dall’inizio dell’esecuzione della pena. La possibilità di “revisione” della pena potrebbe, in teoria, apparire dunque in linea con le direttive della giurisprudenza di Strasburgo, eppure il disegno di legge nasconde rischi particolarmente subdoli. La valutazione del permanere o meno delle motivazioni ostative alla liberazione non sarebbe (né potrebbe essere) affidata a rigorosi parametri legislativi, ma necessariamente demandata a valutazioni giudiziali che potrebbero tradursi in mere affermazioni generiche, riproducenti una pericolosità in re ipsa fondata sul delitto commesso, procedure che nel nostro ordinamento sono ben note in tema di decreti di rinnovo del regime differenziato. Alcuni giuristi hanno già segnalato come l’onere della prova della avvenuta cessazione delle esigenze restrittive finisca per gravare sul detenuto, e senza alcuna precisa indicazione dei parametri sui quali la decisione giurisdizionale dovrebbe basarsi, con il concreto rischio che la pena si traduca in un “fine pena mai”. L’argomento è di significativa rilevanza anche nel nostro ordinamento, dove tre quarti dei detenuti che scontano l’ergastolo patisce l’ostatività. La riforma in fase di introduzione nell’ordinamento spagnolo potrebbe svilire significativamente gli effetti delle pronunce della Corte europea, se l’esistenza di una generica “revisione” priva però di esplicite garanzie diventasse sufficiente per garantire nell’ottica degli ordinamenti statali il right to hope, proprio in un momento in cui si attende la prima sentenza contro l’Italia per l’ipotizzata violazione dell’art. 3 in materia di ergastolo ostativo. L’Unione delle Camere Penali si batte da anni per la revisione delle norme che hanno introdotto l’ergastolo ostativo e sostiene le richieste dei giuristi spagnoli che hanno formalmente chiesto l’abolizione della prisión permanente revisable, istituto contrastante con i principi costituzionali e convenzionali. La Giunta Ucpi La Commissione per i rapporti con l’Avvocatura e le Istituzioni Internazionali UCPI Stati Uniti. Previste tre esecuzioni in una sola giornata di Riccardo Noury Corriere della Sera, 22 febbraio 2018 L’ultima volta che negli Usa tre prigionieri vennero messi a morte nello stesso giorno fu il 28 aprile 1999. Accadde in Texas, Missouri e Virginia. A meno di rinvii o provvedimenti di clemenza dell’ultimo secondo, la storia si ripeterà domani, 22 febbraio, in Florida, Alabama e Texas: alle 18 Erich Branch, alle 19 Doyle Hamm e Thomas Whitaker. La situazione di Hamm è particolarmente drammatica e meriterebbe la massima attenzione da parte delle autorità dell’Alabama. Il prigioniero ha 61 anni, la metà dei quali trascorsi in carcere. Nel 2014 gli sono stati diagnosticati due tumori, al cervello e al sistema linfatico; dopo quasi tre anni di cure, all’inizio del 2017 sono ricomparsi. Nel settembre 2017 Hamm è stato visitato da un medico per verificare se, in vista dell’esecuzione, c’erano vene “accessibili” da usare per l’iniezione letale. Conclusione chiara: a causa del suo stato di salute e del lungo abuso di droghe, sarebbe stato assai improbabile. Dopo tre mesi, Hamm avrebbe dovuto sottoporsi a un nuovo intervento chirurgico ma la direzione dei penitenziari dell’Alabama ha annullato l’operazione stabilendo invece la data per l’esecuzione. Il 6 febbraio un giudice ha ordinato la sospensione dell’esecuzione, la procura ha fatto appello e una corte superiore ha ripristinato la data. Bahrain. Cinque anni di carcere per un tweet: condannato l’attivista Rajab di Chiara Cruciati Il Manifesto, 22 febbraio 2018 Sette anni dopo Piazza della Perla, la primavera bahreinita soffocata nel sangue dall’esercito saudita, la repressione del regime degli al-Khalifa non cessa. Il 14 febbraio, anniversario delle proteste del 2011, migliaia di manifestanti a Manama sono stati aggrediti con lacrimogeni e proiettili, decine gli arresti. E ieri la punizione collettiva è proseguita: l’attivista Nabeel Rajab, uno dei leader della sollevazione, è stato condannato a cinque anni di prigione per dei tweet in cui criticava l’operato del governo e dell’Arabia saudita in Yemen. Niente di nuovo sotto il sole bahreinita: Rajab è già in carcere, dove sconta una condanna di due anni per “diffusione di notizie false” (in un’intervista del 2015 denunciò le torture subite dai prigionieri politici). Reati di opinione che il regime della minoranza sunnita traduce nell’oblio della maggioranza sciita e di ogni voce critica: partiti politici al bando (lunedì la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza di dissoluzione del partito sciita di opposizione al-Wefaaq), organizzazioni chiuse, giornali censurati, cittadinanze revocate. “Questa sentenza è l’esempio di come i tribunali bahreiniti stiano riducendo la libertà di espressione e impedendo ai cittadini di criticare le autorità”, ha detto Sayed Ahmed al-Wadaei, direttore dell’Istituto del Bahrain per i diritti e la democrazia. Ma alle proteste delle organizzazioni per i diritti umani di tutto il mondo, non si aggiungono quelle dei governi occidentali: il Bahrain resta partner centrale per gli Usa (qui staziona la V Flotta) e acquirente di armi da Washington, Londra, Parigi. Nigeria. 111 studentesse sparite da una scuola dopo un attacco di Boko Haram La Stampa, 22 febbraio 2018 Quattro anni fa un precedente: i jihadisti rapirono oltre 270 ragazze nella città di Chibok. Sono 111 le studentesse scomparse dopo che un liceo è stato attaccato la sera del 19 febbraio a Dapchi, nello Stato di Yobe, dai terroristi islamici nigeriani Boko Haram, legati ad Isis. Lo riferisce la polizia fornendo le cifre ufficiali: “Su 926 studentesse, 815 sono tornate a scuola il giorno dopo l’attacco”, ha spiegato ai media internazionali il comandante Abdulmaliki Sumonu che ufficialmente nega si tratti di “rapimenti”. La maggior parte delle studentesse e degli insegnanti è riuscita a scappare la sera dell’attacco dopo aver sentito gli spari dei jihadisti che si stavano avvicinando alla scuola nel villaggio di Dapchi. Quattro anni fa, Boko Haram rapì oltre 270 studentesse nella città di Chibok, a 275 km da Dapchi. Delle ragazze rapite a Chibok, un caso che ha mobilitato la comunità internazionale, 100 sono riuscite a ricongiungersi con le loro famiglie lo scorso settembre. Altre erano state rilasciate a maggio nell’ambito di un controverso scambio di prigionieri tra il governo nigeriano e i terroristi. Oltre 100 sono ancora nelle mani di Boko Haram.