La riforma che fa bene al carcere e alla società di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 21 febbraio 2018 Non solo il voto del 4 marzo: sono in realtà due le campagne elettorali - quella dei partiti e quella dei magistrati - che insidiano, dopo quasi 3 anni di commissioni di studio e iter legislativi, l’ancora incerto varo del primo dei decreti legislativi (quello sulle misure alternative e la sanità carceraria) di riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975. “Sarebbe molto preoccupante, da parte della classe politica, assecondare dinamiche elettorali che non consentissero l’approvazione di una riforma così importante”, constata il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Eugenio Albamonte. Vero. Ma non c’è solo la spasmodica concorrenza elettorale tra Lega, Movimento 5 Stelle, Fratelli d’Italia e (nel penultimo passaggio in Senato) Forza Italia a chi la spara più grossa per spartirsi il dividendo della paura lucrato sulle alterate percezioni della (in)sicurezza. E nemmeno ci sono solo i timori della maggioranza di pagare dazio elettorale proprio a ridosso del 4 marzo se Palazzo Chigi mantenesse l’impegno a fare domani il penultimo passo della riforma (accogliendo i miglioramenti proposti dal parere della Commissione giustizia della Camera ma non i rilievi demolitori del Senato), e poi il passo definitivo entro i 10 giorni dell’ultimo parere. A pesare molto nella contraerea mediatica, invece, è anche un’altra campagna elettorale in corso: quella dei magistrati per il rinnovo in estate del loro autogoverno nel Consiglio superiore della magistratura. In vista del quale non è ad esempio un caso che tra i magistrati più impegnati ad accreditare l’idea di un ennesimo svuota-carceri spicchi il pm catanese candidato al Csm Sebastiano Ardita, ex dirigente 2002-2011 del ministeriale Dipartimento penitenziario, e braccio destro del pure candidato al Csm Piercamillo Davigo nella corrente fondata dall’ex pm di Mani Pulite ed ex presidente dell’Anm con la scissione dalla corrente di destra egemonizzata invece da Cosimo Ferri, cioè dal sottosegretario berlusconiano nel governo Letta poi rimasto come “tecnico” nei governi Renzi-Gentiloni e ora candidato dal Pd in un collegio sicuro alla Camera: asserito svuotacarceri contro il quale “tutti i magistrati italiani dovrebbero mobilitarsi” perché indirettamente sfalderebbe il carcere duro 41bis e potrebbe liberare i mafiosi. Peccato che questo spettro - accolto dal parere del Senato, e preso per buono da tv e giornali comprensibilmente sensibili alla “griffe” di magistrati che lo agitano deformando e stravolgendo irrealistiche conseguenze di supposti incastri di norme - semplicemente non sia vero. Non solo perché la delega data nel 2017 dal Parlamento ha imposto al governo di escludere nei decreti attuativi qualsiasi modifica al regime sia del “carcere duro” sia dei reati di associazione mafiosa e terroristica. Ma soprattutto perché per i condannati a una serie di reati oggi ostativi ai benefici (ma comunque mai per quelli aggravati da finalità di mafia o terrorismo) la riforma eliminerà soltanto le rigide presunzioni legali di irrecuperabilità sociale. Non significa che diventerà automatica la concessione di misure alternative al carcere per residui di pene sotto i 4 anni (oggi 3), ma solo che si aprirà una possibilità affidata sempre alla discrezionale valutazione, caso per caso, dei magistrati di sorveglianza. Anzi, gli automatismi verranno aboliti pure nella concessione delle misure alternative: perché la riforma abrogherà la legge che sinora consente in modo quasi automatico di espiare alcune pene in detenzione domiciliare, aumenterà le verifiche per la concessione delle misure alternative al carcere e i controlli sul comportamento di chi vi venga ammesso, pretenderà dal detenuto impegni concreti a favore della vittima. Coltiverà insomma, per dirla con il presidente della Commissione di riforma, Glauco Giostra, “l’idea che al condannato si debba dare di più e chiedere di più”. Non per sdolcinato buonismo. Neppure come furbetto rimedio all’insufficiente capienza delle carceri (50.517 posti per 58.087 detenuti), come spacciano i conduttori di talk-show urlanti “la gente non ne può più delle pene alternative!”. E nemmeno solo perché l’articolo 27 della Costituzione (dimenticata da quei magistrati che la sbandierano “più bella del mondo” solo quando conviene loro) stabilisce che “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. Ma anche, e anzi più ancora, per egoistico interesse: per la convenienza proprio di chi va seriamente cercando più sicurezza contro la criminalità. Direttori e agenti penitenziari, magistrati di sorveglianza e tutte le statistiche attestano infatti come la recidiva, cioè la propensione degli ex detenuti a tornare a delinquere, sia incomparabilmente inferiore (rispetto a quella di chi sconta l’intera pena in carcere) nei condannati che invece ne scontino una parte in serie misure alternative al carcere, specie se abbinate a un reale avviamento al lavoro (il cui relativo decreto attuativo, finalmente dotato di risorse finanziarie, domani a Palazzo Chigi dovrebbe essere rimesso in carreggiata). Puntare su questo modello serve dunque non a “svuotare” (le carceri), ma a “riempire” (di maggior futura sicurezza) la società. Peccato ce ne si accorga poco. Se 10 detenuti devastassero il reparto di un carcere, finirebbero su tutti i tg e giornali. Ma se, a sostegno della riforma, 10.000 detenuti stanno scegliendo il metodo della non violenza, e con lo sciopero del carrello o il rifiuto della spesa in carcere aderiscono al Satyagraha (digiuno di “insistenza per la verità”) della coordinatrice del Partito radicale Rita Bernardini, non valgono un trafiletto. Neppure a fianco delle paginate di pensose interviste di toghe superstar innamorate del tutto-carcere solo-carcere. Una veglia civile per la riforma del carcere di Stefano Anastasia e Franco Corleone Il Manifesto, 21 febbraio 2018 Siamo di fronte a un’occasione che non va perduta per rispondere alle condanne europee per trattamenti inumani e degradanti. Domani la parola al Consiglio dei ministri. Il 20 dicembre scorso, proprio in questa rubrica, eravamo stati facili profeti nell’immaginare che il torbido periodo della campagna elettorale avrebbe alimentato un fuoco di fila contro la riforma dell’ordinamento penitenziario. Si erano già levate le proteste di alcuni sindacati di polizia contro la possibilità di garantire anche in Italia il diritto alla sessualità dei detenuti. Si sono aggiunte le trite litanie dei soliti imprenditori della paura sul rischio di una nuova legge salva-delinquenti. Grazie a improvvide audizioni, le Commissioni Giustizia hanno offerto alle forze della conservazione una tribuna per gettare veleno sulle minime ipotesi di revisione delle preclusioni in tema di benefici penitenziari e alternative al carcere. La proposta del Governo ridà ai magistrati qualche margine di maggiore responsabilità nella valutazione sui singoli casi, ma questa considerazione del ruolo della magistratura di sorveglianza fa paura ai Torquemada contemporanei, secondo i quali permessi e alternative andrebbero concessi solo a chi in carcere non dovrebbe proprio starci, mentre gli altri possono pure morirci. Ma, nonostante tutto, i pareri delle Regioni, delle Camere e, infine, del Csm sono stati complessivamente favorevoli. Il Coordinamento dei Garanti regionali e comunali dei detenuti ha espresso al ministro Orlando il proprio apprezzamento per la conclusione dell’iter parlamentare e alcune indicazioni per chiudere positivamente questo lungo lavoro che - a partire dagli Stati generali dell’esecuzione penale - ha coinvolto tante energie della società civile. Come Garanti siamo convinti che le osservazioni migliorative possano essere accolte, mentre ogni ipotesi di restrizione della portata della riforma debba essere respinta, a partire dalla reviviscenza di inutili e vessatori impedimenti legislativi ai benefici e alle alternative al carcere. Abbiamo in particolare richiesto che venga raccolta l’indicazione pervenuta dalle Commissioni parlamentari e dalle Regioni sul rispetto del principio della territorialità e sulla qualificazione sanitaria delle sezioni penitenziarie destinate ad accogliere i detenuti con problemi di salute mentale. Per quanto riguarda la delega in materia di affettività in carcere, sollecitata nel parere del Senato, suggeriamo come un significativo passo in avanti possa essere anche il semplice riconoscimento della possibilità di svolgere colloqui non sottoposti a controllo visivo (altro che guardoni!), lasciando a una successiva revisione del Regolamento la concreta disciplina delle modalità di svolgimento di incontri riservati con familiari e terze persone. Se il Consiglio dei Ministri - convocato per domani - butterà il cuore oltre l’ostacolo, il decreto legislativo tornerà per conoscenza alle Commissioni e dopo dieci giorni potrà essere definitivamente adottato, ancor prima dell’insediamento delle nuove Camere. Ci sono, dunque, i tempi e le condizioni per portare a termine questo primo importante passaggio di riforma. Non sappiamo se nella prossima legislatura il Governo porterà a compimento anche le deleghe ancora in sospeso, a partire da quelle sul lavoro penitenziario e sull’esecuzione penale minorile, già trasmesse dal Ministero della giustizia a Palazzo Chigi, ma siamo di fronte a una occasione che non va perduta per rispondere alle condanne europee per trattamenti inumani e degradanti. Nelle carceri si vive con speranza e trepidazione questo momento e proprio per essere solidali con i detenuti, domani, in attesa della decisione del Consiglio dei ministri, i Garanti territoriali delle persone private della libertà si uniranno a loro in una veglia civile di digiuno per la giustizia e il diritto. Carcere, la riforma non è per i boss di Piergiorgio Morosini* Il Fatto Quotidiano, 21 febbraio 2018 Vent’anni a Palermo. Come tanti giudici penali in quella terra, ho visto da vicino delinquenti di ogni risma. Non solo ladruncoli da supermercato e piccoli spacciatori, figli del disagio sociale. Anche stupratori, corrotti, narcotrafficanti, rapinatori. E naturalmente boss mafiosi. Seminatori di sofferenza nelle vittime e di paure nei cittadini onesti. Eppure da giudice ho sempre avvertito il peso del “condannare” un uomo al carcere. Penso che quella pena debba neutralizzarne la pericolosità; riaffermare l’autorità della legge; chiarire che il “crimine non paga”. Credo possa placare l’allarme di una collettività turbata da fatti gravi e almeno lenire il dolore della vittima e dei congiunti. Ma il “condannato al carcere” non è una “bestia da domare”. Chiunque esso sia, la sua dignità va tutelata. E, a certe condizioni, gli va offerta una possibilità di recupero. Nel 2013 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha detto che le carceri italiane sono al di sotto degli standard umanitari. Era giusto, quindi, voltare pagina. Non con temporanee misure “svuota-carcere” o “indulti mascherati”, ma con interventi strutturali. E così è stato. La legge delega n.103 del 2017 riforma l’ordinamento penitenziario. Rifiuta la filosofia del “buttare la chiave” da “ex Cirielli”, senza tradire le esigenze di sicurezza. Promuove i diritti dei detenuti (lavoro, salute, istruzione, religione, affettività); propone forme di giustizia riparativa che coinvolgono le persone offese dai reati; accentua la possibilità di accedere a misure alternative al carcere, puntando sulla professionalità del magistrato di sorveglianza. Un passo avanti in termini di civiltà, dunque. Da completare coi decreti attuativi. Ma il Governo, pur con i testi già pronti, si mostra esitante. C’è il rischio di azzerare tutto. Calcolo elettorale? Forse. Si sa, il carcere è tema politicamente sensibile e di questi tempi si intreccia con le semplificazioni su immigrazione e sicurezza urbana. E certi timori si nutrono pure dei rilievi di autorevoli magistrati che colgono nei testi di riforma un minor rigore in chiave antimafia. Si ritiene insidiosa l’apertura a percorsi riabilitativi extra-carcere a categorie di detenuti che prima ne erano esclusi. Ad esempio ai condannati per partecipazione, con ruolo minore, ad associazioni dedite allo spaccio di droga o al contrabbando. Sono figure che, talvolta, “bordeggiano” ambienti mafiosi. Ma la misura alternativa non è affatto scontata. La richiesta del detenuto è affidata al magistrato di sorveglianza che si avvale del parere del procuratore distrettuale. E indizi di collegamento con qualsiasi ambiente criminale sarebbero ostativi all’accoglimento. Dunque, nessun automatismo, né permissivismo, verso soggetti pericolosi. E in ogni caso, la chance è preclusa a tutti i detenuti per reati di mafia e terrorismo, salvo che decidano di collaborare con la giustizia. La riforma è netta nel non toccare il “doppio binario”, e quindi il “carcere duro”. E neppure l’allarme del pubblico ministero Ardita è condivisibile. Secondo la sua tesi, la norma sul cosiddetto “scioglimento del cumulo” favorirebbe l’uscita di tanti boss dal regime speciale del 41bis. In realtà la riforma mette per iscritto un istituto da molti anni applicato dalla giurisprudenza. Ma per espressa previsione del 41bis (comma 2 ultima parte) continuerà a essere escluso per mafia e terrorismo. D’altronde i lavori preparatori della riforma e l’una - nime parere degli esperti del settore non lasciano dubbi sul punto. Tant’è che il tema neppure viene menzionato dal procuratore nazionale antimafia De Raho, sentito da Camera e Senato. In una Italia segnata dal crimine, ci vogliono sanzioni certe ed effettive. Ma ai detenuti non si può togliere la speranza di cambiare vita. Renderli socialmente irrecuperabili genera rancori profondi che spesso sfociano nella radicalizzazione delle devianza. E così, una volta liberi, le nostre città diventano più insicure. Come sosteneva con la sua sensibilità il cardinale Martini, il carcere spesso è un “rimedio necessario per arginare una violenza gratuita e ingiusta, a volte disumana; ma non si può rinunciare a una forte risocializzazione con programmi chiari e controllati, l’impegno di persone motivate e con incentivi atti a promuovere tali processi”. Proprio questa è la sfida che propone la riforma in discussione. Sfida che richiede professionalità e consapevolezza alla magistratura e alle istituzioni a suo supporto. Ma anche investimenti, solo in parte previsti dall’ultima legge di bilancio (60 milioni di euro), per il personale specializzato nelle case circondariali, nelle strutture educative e sanitarie, negli uffici di esecuzione penale esterni. Forse non è ancora troppo tardi per inaugurare una nuova stagione nel nome della Costituzione. *Magistratura Democratica Riforma delle carceri. Appello per il rispetto della Costituzione e dei diritti umani fondamentali Il Tempo, 21 febbraio 2018 Il Partito Radicale invita il Governo a respingere le condizioni poste dalla Commissione giustizia del Senato che, in difformità rispetto la legge delega, mantengono la situazione attuale dell’ostatività ai benefici e alle misure alternative per varie categorie di reati, come sostiene Mauro Palma, Garante nazionale dei detenuti. La XVII legislatura rischia di chiudersi con il fallimento della riforma dell’Ordinamento penitenziario, il primo intervento organico dopo quello del 1975. Come denunciato da decenni con la loro lotta da Marco Pannella e dal Partito Radicale, le carceri italiane permangono nelle condizioni “inumane e degradanti” da tempo sanzionate dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e solennemente riconosciute nel messaggio alle Camere inviato nel 2013 dall’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Per rispondere a queste pesanti violazioni della nostra Costituzione e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo il ministro della giustizia Andrea Orlando ha dato vita nel 2015 agli stati generali dell’esecuzione penale e consequenzialmente alla riforma dell’Ordinamento. Adesso, ad un passo dall’approvazione definitiva della prima importante parte della riforma, i tempi e le incertezze della politica la mettono a grave rischio, nel silenzio della grandissima parte dell’informazione. Rita Bernardini, che negli ultimi due anni ha a più riprese condotto lunghe fasi di sciopero della fame per aiutare il governo a ricondurre nella legalità il sistema carcerario italiano, è di nuovo in sciopero della farne dal 22 gennaio scorso, con il sostegno e l’adesione diretta di oltre diecimila detenuti. Si chiede con questo Satyagraha a Paolo Gentiloni di superare questo pericoloso stallo, convocando con urgenza il Consiglio dei Ministri per ottenere il varo definitivo del testo prima delle elezioni politiche del 4 marzo. Come ha detto il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini non completarne l’iter “a causa delle incertezze della fase post elettorale sarebbe un vero peccato, perché (la riforma) serve alla sicurezza del Paese e a far fare all’esecuzione penale un passo avanti”. Il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Eugenio Albamonte ha a sua volta osservato che “da parte della classe politica, assecondare dinamiche elettorali che non consentissero l’approvazione di una riforma così importante, sarebbe un dato molto preoccupante”. Per questo ci appelliamo a editori, direttori e giornalisti tutti affinché non neghino agli italiani il diritto di conoscere questa importante riforma voluta dal Parlamento che il 23 giugno 2017, approvando la legge n. 103, ha delegato il Governo a metterla in pratica attraverso l’emanazione dei relativi decreti delegati. Nel contempo, invitiamo Rita Bernardini e i detenuti delle carceri italiane a sospendere l’iniziativa nonviolenta in corso. Sottoscrivono: Aldo Masullo, Luigi Ferrajoli, Giuseppe Di Federico, Andrea Pugiotto, Davide Galliani, Ezechia Paolo Reale, Andrea Mascherin, Beniamino Migliucci, Francesco Petrelli, Giandomenico Caiazza, Guido Calvi, Bruno Menano, Pino Roveredo, Luigi Manconi, Valerio Onida, Giovanni Fiandaca, Delfino Siracusano, Paolo Comanducci, Armando Spataro, Francesco Cozzi, Ida Nicotra, Domenico Pulitanò, Emilio Doldni, Stefano Anastasia, Andrea Nobili, Paolo Renon, Roberto Toniatti, Giuseppe Nesi, Renato Borzone, Enrico Trantino, Riccardo Polidoro. Riforma del carcere: anche i Garanti dei detenuti in sciopero della fame di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 febbraio 2018 Il garante regionale della regione Piemonte Bruno Mellano e vicecoordinatore del Coordinamento nazionale dei Garanti regionali e territoriali delle persone detenute racconta al Dubbio l’iniziativa a favore della approvazione della riforma dell’ordinamento penitenziario “che si affianca a quella dell’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini, in sciopero della fame dal 22 gennaio”. “Assieme a Franco Corleone e Stefano Anastasia - racconta - abbiamo deciso di far girare questo nostro appello come garante dei detenuti regionali, locali e provinciali, per annunciare per domani uno sciopero della fame di un giorno di 35 garanti, in concomitanza con la preannunciata riunione. “Assieme a Franco Corleone e Stefano Anastasia abbiamo deciso di far girare questo nostro appello come garante dei detenuti regionali, locali e provinciali, per annunciare uno sciopero della fame di un giorno nella giornata di domani, in concomitanza con la preannunciata riunione del Consiglio dei ministri in merito alla riforma dell’ordinamento penitenziario”. Così spiega a Il Dubbio il garante regionale della regione Piemonte Bruno Mellano e vicecoordinatore del Coordinamento nazionale dei Garanti regionali e territoriali delle persone detenute. Si tratta di una presa di posizione ufficiale sulla questione dei decreti delegati per la riforma dell’Ordinamento penitenziario all’attenzione del ministro della Giustizia Andrea Orlando. “La nostra è una battaglia culturale spiega sempre Mellano - che si affianca a quella dell’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini, in sciopero della fame dal 22 gennaio”. Il garante regionale Mellano spiega che come coordinamento nazionale dei garanti, chiedono che la riforma venga approvata prendendo in considerazione alcuni suggerimenti pervenuti dalle Commissioni parlamentari, come ad esempio la questione lessicale visto che ritengono opportuno abolire la parola “internati” oppure inserire “sezioni cliniche” al posto di “sezioni speciali”. “Sarebbe opportuno - spiega Mellano - che il governo prenda in esame tutti gli altri decreti finora rimasti inevasi, come l’ordinamento penitenziario minorile, il lavoro e l’affettività. Su quest’ultimo punto - sottolinea sempre il garante regionale del Piemonte - basterebbe salvare il principio che si possano prevedere degli incontri non osservati a vista, in maniera tale che si possa poi ottenere una successiva revisione regolamentando la modalità di svolgimento degli incontri riservati”. Domani, quindi, la mobilitazione dei Garanti dei Detenuti assumerà la forma di un’adesione per 24 ore allo sciopero della fame in corso - iniziativa nonviolenta promossa dal Partito Radicale Nonviolento e da Rita Bernardini e fatta propria da oltre 10.000 detenuti ristretti nelle 190 carceri italiane - e si svolgerà appunto nel giorno in cui si riunisce il Consiglio dei ministri che, secondo il Presidente Gentiloni, dovrebbe adottare importanti decisioni sull’iter del decreto già presentato e sugli altri necessari per la piena attuazione della delega parlamentare della legge 103 del 23 giugno 2017. A seguire il testo dell’appello firmato da 35 Garanti dei detenuti Il Coordinamento dei Garanti territoriali delle persone private della libertà esprime il proprio apprezzamento per la conclusione dell’iter parlamentare di valutazione della bozza di decreto legislativo di riforma dell’ordinamento penitenziario già approvata dal Consiglio dei ministri e auspica che il governo voglia licenziare quanto prima il decreto e avviare l’iter delle deleghe ancora in sospeso, da quella sul lavoro penitenziario a quella sull’esecuzione penale minorile. In questa prospettiva, essenziale è salvaguardare le finalità della riforma in ordine al superamento delle condizioni ostative all’accesso alle sanzioni alternative al carcere. D’altro canto, nello spirito della riforma e degli Stati generali dell’esecuzione penale è auspicabile che il governo tenga conto delle indicazioni pervenute dalle Commissioni parlamentari sulla territorialità e sulla qualificazione sanitaria delle sezioni penitenziarie destinate ad accogliere le persone detenute con problemi di salute mentale, così come sull’esercizio della delega in materia di affettività in carcere. A tal fine, sarebbe già un significativo passo in avanti anche il semplice riconoscimento della possibilità di svolgere colloqui non sottoposti a controllo visivo, lasciando a una successiva revisione regolamentare la concreta disciplina delle modalità di svolgimento di incontri riservati con familiari e terze persone. Garanti aderenti allo sciopero della fame nella giornata di giovedì 22 febbraio Franco Corleone - Garante Regione Toscana e Coordinatore nazionale dei Garanti regionali e territoriali delle persone private della libertà; Bruno Mellano - Garante Regione Piemonte e Vice Coordinatore nazionale dei Garanti regionali e territoriali delle persone private della libertà; Stefano Anastasia - Garante Regione Lazio e Garante Regione Umbria; Giovanni Fiandaca - Garante Regione Sicilia; Carlo Lio - Garante Regione Lombardia; Pino Roveredo - Garante Regione Friuli Venezia Giulia; Mirella Gallinaro - Garante Regione Veneto; Piero Rossi - Garante Regione Puglia; Enrico Formento Dojon - Garante Regione Valle d’Aosta; Leontina Lanciano - Garante Regione Molise; Andrea Nobili - Garante Regione Marche; Marcello Marighelli - Garante Regione Emilia Romagna; Gabriella Stramaccioni - Garante Città di Roma; Alessandra Naldi - Garante della Città di Milano; Eros Cruccolini - Garante Città di Firenze; Antonio Ianniello - Garante Città di Bologna; Sergio Steffenoni - Garante Città di Venezia; Elisabetta Burla - Garante Città di Trieste; Luisa Ravagnani - Garante Città di Brescia; Margherita Forestan - Garante Città di Verona; Franca Berti - Garante Città di Bolzano; Agostino Siviglia - Garante Città di Reggio Calabria; Paolo Mocci - Garante Città di Oristano; Mario Dossoni - Garante Città di Sassari; Nunzio Marotta - Garante Comune di Porto Azzurro (Li); Vanna Javier - Garante Provincia di Pavia; Alessandro Prandi - Garante Città di Alba (Cn); Davide Petrini - Garante Città di Alessandria; Sonia Caronni - Garante Città di Biella; Mario Tretola - Garante Città di Cuneo; Rosanna Degiovanni - Garante Città di Fossano (Cn); Armando Michelizza - Garante Città di Ivrea (To); Dino Campiotti - Garante Città di Novara; Bruna Chiotti - Garante Città di Saluzzo (Cn); Roswitha Flaibani - Garante Città di Vercelli. La Giunta Ucpi e l’Osservatorio Carcere sulla riforma dell’Ordinamento penitenziario camerepenali.it, 21 febbraio 2018 L’Unione delle Camere Penali Italiane, ribadisce il proprio sostegno alla civile protesta di Rita Bernardini e dei detenuti affinché’ venga approvato il decreto sulla riforma dell’ordinamento penitenziario. Un’attesa che dura da gennaio 2013, quando la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha invitato il nostro Paese a provvedere urgentemente a misure strutturali che potessero modificare il sistema penitenziario italiano, che non garantisce il rispetto dei principi posti a base delle Convenzioni Internazionali. Da cinque anni i detenuti attendono che lo Stato che li punisce, per aver violato la Legge, non continui a violare i Trattati sottoscritti per il rispetto dei diritti civili. Da circa tre anni il Ministero della Giustizia, con gli Stati Generali e le Commissioni, sta lavorando alla Riforma dell’Ordinamento Penitenziario a cui fa riferimento anche la Legge Delega approvata nel giugno 2017. Alcune delle condizioni poste dalla commissione giustizia del Senato destano stupore e risultano del tutto incoerenti. Chiedere di non inserire nel decreto l’eliminazione di automatismi e preclusioni e di non lasciare al Giudice tale scelta, è in aperta contraddizione con i principi che hanno ispirato lo stesso Senato ad approvare la legge delega. Il Consiglio dei Ministri del 22 febbraio, in cui dovrebbe essere discusso il decreto, non dovrà tenere conto di tali osservazioni che di fatto snaturano i principi ispiratori della Riforma. L’entrata in vigore del decreto rappresenta il traguardo di un lunghissimo iter legislativo, ma soprattutto la speranza da parte dei detenuti che la lunga attesa finisca. Dopo l’approvazione, infatti, le norme dovranno essere applicate. Parti fondamentali di quanto elaborato dalle Commissioni Ministeriali sono state escluse dallo schema di decreto in attesa di approvazione, come le norme sul lavoro e l’affettività, ma la sua entrata in vigore potrà comunque costituire un momento storico per l’esecuzione penale ed il banco di prova per ulteriori passi avanti verso un Ordinamento Penitenziario conforme ai principi costituzionali. L’Ucpi rappresenta la sua preoccupazione per le dichiarazioni allarmistiche rilasciate in merito allo schema di decreto, descritto come un insieme di norme “salva ladri” o “a favore dei mafiosi”, in quanto ciò non solo non corrisponde al vero, ma quanto previsto va proprio nella direzione opposta, garantendo maggiore sicurezza ai cittadini. Confida, pertanto, che il Consiglio dei Ministri, rispettando le Convenzioni Internazionali, le indicazioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e la stessa volontà del Parlamento, approvi il decreto per la Riforma dell’Ordinamento Penitenziario, dando finalmente ai detenuti una prima concreta risposta alla loro richiesta di legalità. La Giunta e l’Osservatorio Carcere Ucpi Salviamo la Riforma Penitenziaria Ristretti Orizzonti, 21 febbraio 2018 Comunicato del Seac - Coordinamento Enti e Associazioni di Volontariato Penitenziario. Il 7 febbraio le Commissioni Giustizia di Camera e Senato hanno dato il loro parere favorevole al Decreto Legislativo con cui il Governo, conformandosi ai principi della delega conferitagli dal Parlamento, ha scritto la attesa Riforma dell’Ordinamento Penitenziario. L’Esecutivo deve ora decidere se recepire o meno le “Condizioni” e “Osservazioni” in calce a quei pareri, che non sono vincolanti. Se non ne vorrà tener conto, dovrà comunque informarne le Commissioni, che a loro volta potranno replicare. Le elezioni si avvicinano, e siamo a un passo dalla conclusione dell’iter legislativo di un provvedimento così importante per l’intera società, una legge che tecnicamente potrebbe andare alla firma del Presidente della Repubblica prima del 4 marzo, stante la convocazione del Consiglio dei Ministri per giovedì 22 febbraio. È soprattutto in Senato che le nuove, innovative disposizioni della riforma sull’esecuzione penale hanno incontrato la maggiore resistenza, con la negazione dell’accesso ai benefici previsti per alcune categorie di reato, benefici in definitiva consistenti in una più generalizzata applicazione delle misure alternative alla carcerazione, da scontare in comunità. I pareri - ripetiamo, non vincolanti - espressi al riguardo dal Senato alla fine demolirebbero buona parte della riforma. Il Seac, che dell’esecuzione penale extra-muraria sta facendo da tempo la sua battaglia più importante, chiede al Governo di non perdere altro tempo, dando subito corso alla Riforma dell’Ordinamento Penitenziario così come le Commissioni a suo tempo costituite dal Ministero di Giustizia l’hanno concepita e redatta. Il volontariato penitenziario da noi rappresentato si riconosce nello spirito della riforma e nel nuovo modello di esecuzione penale, che tra l’altro gli conferisce maggiori margini di azione, competenza e responsabilità. Il Seac auspica, anzi chiede con forza una rapida entrata in vigore del testo di riforma governativo, così come redatto in base ai principi della delega parlamentare. Ardita: “La riforma del carcere forse non libera i boss, ma crea il caos dei ricorsi” di Errico Novi Il Dubbio, 21 febbraio 2018 Intervista a Sebastiano Ardita, pm ed ex direttore Ufficio detenuti del Dap. Sulla riforma del carcere c’è chi si è opposto in modo sguaiato e chi ha provato a sabotare sottotraccia. Pochi hanno avuto la decenza di criticare le norme nel merito e non a colpi di slogan, e uno dei pochi è il procuratore aggiunto di Catania Sebastiano Ardita. Il quale, quanto meno, non parla a casaccio: è stato direttore dell’ufficio Detenuti del Dap. Conosce la materia come pochi altri in Italia. Sono sue le circolari dei primi anni Duemila sul funzionamento dell’area trattamento, le prime dopo trent’anni dall’introduzione dell’ordinamento penitenziario. Il magistrato siciliano si è occupato direttamente, insomma, del cuore dei problemi affrontati dalla riforma: il reinserimento sociale dei reclusi. Ecco, dottor Ardita, lei ha mostrato di avere ben chiaro il valore decisivo della rieducazione del condannato, eppure contesta le nuove norme che consentirebbero l’accesso ai benefici per quei detenuti ai quali oggi sono preclusi: ma una simile modifica non attuerebbe più di tutte il principio del fine rieducativo della pena? Potrei aggiungere che oltre a dar vita, insieme a Maria Pia Giuffrida, all’epoca anche lei dirigente del Dap, al nuovo modello di trattamento tuttora vigente, sono stato e sono un determinato sostenitore delle misure alternative, anche a livello internazionale nell’ambito della Cep, e ho rischiato il mio posto di direttore dell’ufficio Detenuti per avere attaccato pubblicamente la legge che reintroduceva le tabelle per punire i tossicodipendenti. Ho promosso il lavoro penitenziario, grazie anche alla legge Smuraglia, e creato le condizioni affinché in centinaia dopo l’uscita dal carcere continuassero a operare nelle cooperative che li avevano assunti quando erano ancora ristretti. Ho scritto le circolari per i nuovi giunti e quelle per introdurre in Italia, in condizioni di sicurezza, il regime aperto delle carceri. Tutto agli atti. Misure adottate durante esecutivi di centrodestra. Poi quando al governo è arrivato il centrosinistra ha rovesciato lo schema: circolari centrate sull’alta sicurezza e la collaborazione con gli organi della prevenzione antimafia. Ha provocato più di un mal di pancia nelle maggioranze del momento, dopodiché, quando ha lasciato l’incarico a via Arenula, le hanno chiesto di continuare. Ma non ha risposto alla domanda… Lo faccio subito. Essendomi formato sugli scritti di Daga Tartaglione e Minervini, non contesterei nulla che possa attenuare il fine rieducativo della pena: su quel fronte ho speso una parte importante del mio impegno professionale. Mi preoccupo invece del contrario: non vorrei che le riforme fatte alla cieca, ossia aprendo spazi teorici anche a mafiosi e recidivi, finiscano per nuocere più che giovare agli scopi della rieducazione. I percorsi di reinserimento devono dare per presupposto la rottura del legame con la mafia, che è pregiudizialmente ostile alle istituzioni, e con la condotta recidivante. Se tutti sanno che possono recidivare o essere collegati alla mafia e ottenere comunque benefici, quale spazio resta di prevenzione alla pena? E poi: ha un senso costringere le aree educative degli istituti a istruire centinaia di istanze di accesso ai benefici? Così si corre il rischio di burocratizzare il trattamento, anziché individualizzarlo: i benefici rischiano di essere concessi a chi non li merita e negati a chi ne avrebbe diritto. Ma naturalmente il problema del rapporto tra reale rieducazione e benefici è solo la punta dell’iceberg di una prospettiva sbagliata che ha condotto alla crisi tutto il sistema penale. Con le nuove norme quanti casi effettivi potremmo avere di mafiosi sottratti al 41bis? Non ho mai detto che certamente uscirebbero dal 41bis, ritengo però che la norma che introduce lo scioglimento del cumulo a tutte le situazioni in cui ne derivano “effetti favorevoli” al condannato è una norma ambigua. Se non si applicasse al 41bis sarebbe una norma inutile, perché è già interpretata così. Se si ritenesse applicabile al 41bis, un buon numero uscirebbe dal regime. Ma anche nel caso in cui il Tribunale di sorveglianza, dandone una interpretazione sistematica, negasse la sua applicazione al regime speciale, ciò determinerebbe comunque impugnazioni e contenziosi, denunce di incostituzionalità, ricorsi alla Corte europea e quant’altro. Tutte strade già percorse in passato. Le sembra normale che una norma per non essere chiara debba esporre lo Stato a contenziosi di questo genere? Oppure era questo che si voleva? L’obiettivo riconoscibile non è rendere meno afflittiva la detenzione e abbassare così il tasso di recidiva? Il superamento delle condizioni afflittive è una battaglia di civiltà nella quale mi sono a lungo impegnato e rappresenta un problema diverso. La recidiva è sicuramente connessa al mancato accoglimento della proposta di rieducazione e al clima di conflittualità che può determinarsi tra amministrazione penitenziaria e detenuti. Mi domando se giovi a questo clima introdurre disposizioni che mettono sistematicamente in mora l’amministrazione alimentando contenziosi e conflittualità. Secondo la relazione della commissione Diritti umani del Senato il 41bis sarebbe incostituzionale, fino a configurarsi persino come tortura: cosa ne pensa? Le rispondo come ho risposto a quella commissione: esiste un bilanciamento tra quelle restrizioni e la necessità di impedire la violazione di diritti individuali di cittadini innocenti, e anche non innocenti, che si scontrano ogni giorno con la violenza mafiosa. Impedire a chi è stato membro di organizzazioni che hanno come scopo quello di soggiogare, uccidere e torturare di continuare a farlo, o premiarlo se offre un contributo per impedire che si sparga il sangue di altri innocenti, non credo possano essere considerati abuso o tortura. Il 41bis è nato nel pieno della svolta stragista di Cosa nostra, si disse che in seguito sarebbe stato possibile accantonarlo. La riforma di cui parliamo non sarebbe un primo passo in tale direzione? Ma il 41bis non è uno strumento di emergenza: è la misura che consegue all’esistenza di organizzazioni finalizzate alla commissione di crimini, che funzionano attraverso la distribuzione di ruoli e il collegamento con una centrale decisionale. Il suo scopo è impedire i collegamenti tra vertice ed esecutori e che l’organizzazione continui a produrre reati nuocendo alla società. Non serve a punire e non può essere usato per finalità afflittive. Se il 41bis viene attenuato, crescono però le ferite ai danni della società: esattamente come a una azione corrisponde una reazione. Lei crede sia recuperabile un detenuto destinato per il resto dei suoi giorni al 41bis? Il recupero è possibile per tutti gli uomini. Scommettere unilateralmente sul recupero correndo il rischio che quella scommessa comporti la perdita di vite umane, non mi sembra una scelta politico-criminale molto responsabile. Ma è conforme alla Costituzione, un regime detentivo del genere? La Costituzione contiene dei valori, ma anche gli strumenti per bilanciare le azioni a tutela di quei valori quando essi entrano in conflitto tra loro. Un’esecuzione penale molto severa può diventare, per una parte dei cittadini, il surrogato a risposte che la politica non riesce a dare su altri terreni? Potrebbe esservi anche il pericolo esattamente contrario: quello che una politica sbagliata sulla giustizia produca danni gravi all’economia e allo sviluppo sociale del nostro Paese. Pavarin: “Nessuno gode nel tenere le persone in carcere” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 21 febbraio 2018 Intervista a Giovanni Pavarin, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Venezia. “Nessuno di noi ha il gusto sadico di tenere una persona in carcere”, dice il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Venezia Giovanni Maria Pavarin a proposito della mancata concessione dell’affidamento in prova ad un detenuto recluso a Rebibbia ed affetto da una grave forma di cirrosi epatica che lo ha poi condotto alla morte lo scorso giorno. Presidente, recenti decisioni della magistratura di sorveglianza hanno suscitato nell’opinione pubblica alcune perplessità. Per posizioni simili, decisioni diverse. Premesso che non conosco la vicenda del detenuto del carcere di Rebibbia (raccontata ieri dal Dubbio) e che bisogna sempre leggere bene il provvedimento prima di dare dei giudizi, vorrei sottolineare che nessun magistrato di sorveglianza per partito preso si diverte nel respingere le istanze dei detenuti rischiando un procedimento disciplinare al Csm. Come mai, allora, questi provvedimenti contrastanti? Il problema è a monte. I magistrati di sorveglianza sono meno di duecento e devono gestire decine di migliaia di condannati. Tonnellate di carta da leggere ogni giorno. Ovvio che qualche errore ci possa sempre scappare, soprattutto se si tratta di episodi destinati a suscitare scalpore. La magistratura di sorveglianza, in effetti, è spesso nell’occhio del ciclone. Le incombenze dei magistrati dei sorveglianza sono molteplici. È il collo di bottiglia della giurisdizione. Oltre alla gestione della pena, ricordo l’attività di controllo sulle condizioni delle carceri, i colloqui con i detenuti, ecc. Tutte attività che richiedono tempo e grande dedizione. Chi ricopre il ruolo di magistrato di sorveglianza deve essere intimamente consapevole di ciò che fa. Può dare un giudizio sulla riforma dell’Ordinamento penitenziario in via di approvazione? Senza entrare nello specifico, posso solo dire che aumenterà tantissimo il potere discrezionale di noi magistrati di sorveglianza. Ci sarà bisogno di un sostegno forte della politica con un mandato chiaro e preciso. Ad esempio? Prenda il Pd. Il segretario Matteo Renzi ha dichiarato che la pena deve essere scontata fino all’ultimo giorno. Il premier Paolo Gentiloni e lo stesso ministro dell’Interno Marco Minniti hanno invece affermato che il detenuto, dopo aver scontato metà della pena in carcere, possa essere ammesso ad usufruire di misure alternative alla detenzione. Pare un atteggiamento “schizofrenico”. Esatto. I magistrati sono figli della società, ognuno con sensibilità diverse. Tutti devono però essere convinti che chi ha commesso un reato possa cambiare. È quello che poi afferma la nostra Costituzione. Se non siamo convinti di ciò è inutile qualsiasi discussione. E i casi di rigetto delle istanze dei detenuti? È ovvio che il magistrato di sorveglianza possa dire di no. Se non è convito che il detenuto voglia effettivamente cambiare vita. Pensa che ci sia bisogno di più carcere in Italia? Su questo aspetto vorrei evidenziare come il detenuto in carcere peggiori. Si incattivisce. Bisogna sempre dare a tutti una speranza di riabilitazione e di cambiamento. La recente campagna elettorale sta insistendo, invece, su messaggi in senso contrario. Il problema è l’informazione che viene veicolata dai media. Spesso la realtà viene travisata. Non mi riferisco al fatto che i reati sono calati, cosa non vera in quanto la gente non denuncia più, ma che non sia possibile il recupero del detenuto. Andrebbero riportati i tanti esempi positivi di riabilitazione dopo il carcere. La gente deve conoscere queste esperienze. Forse il vostro ruolo è sottovalutato anche all’interno della magistratura? Noi spesso siamo visti come quelli che “distruggono” il processo. Da un lato i pm, i paladini della giustizia che mettono in galera chi sbaglia, e dall’altro noi. Una visione questa che non ha focalizzato il fatto che il nostro sia un compito fondamentale in quanto punta a restituire alla società delle persone che hanno commesso degli errori. Cosa bisognerebbe fare? Credo sia fondamentale uscire dalla logica che il processo finisca con la sentenza di condanna. Legnini: “Toghe che sbagliano: le sanzioni non bastano, servono nuove norme” di Sara Menafra Il Messaggero, 21 febbraio 2018 Intervista a Giovanni Legnini, vicepresidente del Csm. “La Disciplinare funziona, necessari più strumenti”. “Le sanzioni non bastano con i magistrati che sbagliano”. Il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, in un’intervista al Messaggero spiega che “servono nuove norme”. “La Disciplinare funziona - aggiunge Legnini - ma sono necessari più strumenti”. Vicepresidente Legnini, l’altro ieri è iniziato il processo disciplinare a Woodcock, domani ci sarà la conclusione di quello alla giudice Saguto e negli ultimi tre mesi sono stati sospesi quattro magistrati. Cosa succede nei tribunali italiani? “Non posso ovviamente esprimere alcuna valutazione di merito sui procedimenti in corso, ma non vi è dubbio che viviamo una fase particolarmente intensa nell’esercizio della funzione disciplinare. Si assiste ad una concentrazione di casi complessi ed impegnativi, che stiamo affrontando con speditezza, garantendo riserbo ed equilibrio e per questo voglio ringraziare i componenti della sezione disciplinare per l’enorme lavoro svolto. Dal corretto, efficiente ed imparziale esercizio dei poteri disciplinari passa la tutela dell’indipendenza e del prestigio dell’ordine giudiziario e quindi anche il livello di fiducia dei cittadini nel sistema giudiziario. Non si tratta, come spesso si tende a pensare, di una sorta di giustizia domestica, ma di un’attività giurisdizionale piena, che la Costituzione attribuisce al Csm”. Ogni anno arrivano migliaia di lettere sia al Csm sia alla procura generale di cittadini che segnalano qualche comportamento da parte delle toghe che reputano inopportuno. Al di là di chi è arrabbiato col proprio giudice, c’è un problema più generale? “È da tempo che registriamo un aumento di denunce, esposti e segnalazioni. Quando assumono un rilievo disciplinare, provvediamo a trasmetterle al Procuratore generale che, come è noto, è il titolare insieme al ministro della Giustizia dell’azione disciplinare, il cui esercizio è obbligatorio. Quando ciò non viene riscontrato e si è in presenza di anomalie nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e non solo, possono esservi gli estremi per avviare un procedimento di incompatibilità ambientale o funzionale”. Ma il meccanismo funziona? È una risposta adeguata? “Il procedimento disciplinare, come riformato nel 2006, si sta rivelando efficace e i dati che avete pubblicato sono eloquenti: segnalano anche la tempestività nelle decisioni disciplinari. Non altrettanto possiamo dire per il procedimento che accerta le incompatibilità: si tratta di uno strumento spesso farraginoso e inefficace”. In passato, eravamo abituati al Csm che convocava la prima commissione appena succedeva un fatto rilevante relativo ad un magistrato... “Con la riforma dell’ordinamento giudiziario, il procedimento di incompatibilità si limita ad intervenire sulle condotte incolpevoli, riservando all’azione disciplinare quelle colpevoli. Abbiamo di recente riformato il procedimento volto a accertare le incompatibilità, rendendolo più certo e spedito. E i primi risultati li stiamo cogliendo in queste settimane. Tuttavia, occorre una seria riforma legislativa di tale strumento se si vuole che il Csm intervenga ogni situazione di lesione del prestigio e della indipendenza della magistratura non ricompresa nelle fattispecie disciplinari previste dalla legge”. Ma come? “Mi auguro che nella prossima legislatura il Parlamento possa riformare l’istituto dell’incompatibilità ambientale e funzionale, innanzitutto eliminando il vincolo del carattere incolpevole delle condotte che limita fortemente la portata e l’incisività dell’intervento del Csm”. Di quali condotte stiamo parlando? “Se ne presentano diverse. Penso, ad esempio, al grande tema dei rapporti con i mezzi di informazione nonché al diffuso impiego, da parte dei magistrati, dei social network. Abbiamo registrato episodi molto discutibili, capaci di ledere l’immagine e la percezione di imparzialità dei magistrati. Non sempre, però, si tratta di condotte riconducibili alle fattispecie disciplinari; ciò nonostante esse determinano situazioni di palese incompatibilità, di fronte alle quali il Consiglio Superiore manca degli strumenti per intervenire con prontezza. Le armi sono spuntate per effetto di un sistema che lascia ampie zone grigie, sulle quali occorre una seria riflessione che coinvolga innanzitutto la magistratura”. L’Anm ha un codice deontologico, a suo avviso è efficace? “In quanto espressione dell’autodeterminazione e della libera organizzazione della magistratura, non può essere il Csm ad occuparsi di questo tema, né mi permetto di dare consigli. Posso solo registrare una forte attenzione sul tema da parte dell’Anm che da qualche tempo spesso ci richiede gli atti proprio al fine di applicare il codice deontologico. Qualche giorno fa, abbiamo incontrato una delegazione dell’Onu con il mandato di acquisire elementi sulle regole disciplinari e deontologiche vigenti per la magistratura nel nostro Paese. Ci hanno chiesto quale rapporto esiste tra le norme disciplinari e il codice deontologico dell’Anm. Non è stato semplice spiegarlo”. C’è qualcos’altro che il Csm può fare? “Oltre ad intervenire con legge sulle incompatibilità, e questo spetta al Parlamento, penso sia necessario introdurre, sempre con una disposizione legislativa, una fattispecie di chiusura del codice disciplinare che consenta di giudicare condotte lesive del prestigio della magistratura non ricomprese nelle fattispecie disciplinari oggi previste. E ciò senza scardinare ma integrando la tipizzazione degli illeciti introdotta con riforma del 2006. È bene dire, però, che si tratta di una proposta sulla quale vi è un diffuso dissenso da parte della magistratura associata. Più in generale, penso che occorra promuovere una riflessione circa la possibilità, per il Consiglio, di impiegare regole deontologiche al fine di valutare i percorsi di carriera dei magistrati, sostanzialmente utilizzando questi dati e fatti per valutarne l’operato in senso largo”. Quindi? “In altre parole, al Consiglio spetta di applicare la legge e la sua normativa secondaria riguardo al sistema disciplinare e alle incompatibilità; ma se il legislatore non interverrà con le riforme di cui ho parlato, le condotte ricomprese in quella zona grigia a cui mi sono riferito potranno, al più, essere valutate nell’ambito degli altri procedimenti affidati al Csm: tra questi, in particolare, le valutazioni o il conferimento di incarichi direttivi e semi-direttivi”. Potreste approvare un vostro codice deontologico? “Si tratta di un terreno delicato e complesso, non c’è dubbio che ciò che è preferibile è un intervento legislativo”. A proposito delle sentenze della disciplinare. Alcune sembrano davvero lievi: un magistrato che consumava cocaina in tribunale è stato condannato ad un anno di sospensione... “Le sanzioni sono quelle previste dalla legge, si va dall’ammonimento fino alla destituzione. Mi rendo conto che a volte le sanzioni possono apparire lievi ma le posso assicurare che l’incidenza che una condanna disciplinare ha sulla carriera del singolo magistrato, a prescindere dall’entità della sanzione, è molto rilevante”. Servono dei giudici indipendenti e garanti del tessuto sociale di Bruno Ferraro* Libero, 21 febbraio 2018 Anno nuovo, musica vecchia con qualche novità. Con questa definizione si potrebbe battezzare, a mio avviso, la relazione svolta il 26 gennaio 2018 per l’inaugurazione dell’anno giudiziario dal nuovo Presidente della Suprema Corte di Cassazione Giovanni Mammone. Problemi vecchi: il sovraffollamento carcerario con 57608 detenuti, in maggioranza stranieri, rispetto alla capienza regolamentare di 50499; il consistente e stazionario arretrato civile (106920 rispetto ai 106862 del 2016); il collasso della sezione tributaria, con ben 11378 ricorsi sopravvenuti (più della metà di tutte le sopravvenienze annuali); l’aumentata sopravvenienza nel settore penale (da 52384 a 56642 con un eloquente più 8,13%). Segnali incoraggianti di novità: un consistente aumento delle definizioni, ammontanti a 21176, con un significativo più 11% rispetto all’anno precedente e con una riduzione ancorché non molto significativa delle pendenze di fine anno; una riduzione da 240 a 200 giorni della durata media dei giudizi penali, cui però non corrisponde un dato altrettanto positivo per il settore civile. Civile e penale - Se pensiamo ai drammatici dati di anni precedenti, potremmo quindi valutare in modo positivo l’andamento complessivo della giustizia nell’ultimo anno, con riguardo ai due settori tradizionali civile e penale e con riferimento ai dati nazionali. Ci sono però aspetti che meritano di essere rimarcati, sia sul piano della operatività sia con riguardo alle riforme che tardano ad essere emanate. Femminicidi, violenze sessuali e stalking stanno a testimoniare di un profondo cambiamento sociale nel rapporto fra genere maschile e genere femminile. Non è sufficiente dire che sono sempre esistiti e che in passato facevano parte del sommerso. Di nuovo c’è la necessità di confrontarsi con le conseguenze della conquistata autonomia femminile, con la confusione in cui versano gli uomini, con la tendenza a sfogare con la violenza la delusione e la frustrazione per una relazione sentimentale che finisce dopo aver provocato moltissime aspettative. L’esplosione - Di nuovo va annotata anche l’esplosione del fenomeno delle baby gang: giovanissimi che aggrediscono in modo violento altri giovanissimi senza motivazione alcuna se non il gusto di usare violenza, non possono non generare preoccupazione, soprattutto a causa della crisi che affligge scuola e famiglia, in passato alleate sul piano educativo. L’abuso dei media e dei social, con crescenti casi di cyberbullismo, costituiscono una conferma di quanto sopra ed impongono una corsa ai correttivi anche perché portano ad una omologazione di comportamenti certamente non virtuosa. Sul piano delle riforme va messa mano, con competenza, alla riforma del processo civile e del processo penale, riesaminando il quadro delle garanzie difensive che rappresentano una precisa direttiva costituzionale. In questa sede però mi corre l’obbligo di segnalare e ribadire la necessità di una giustizia veramente terza, autonoma ed indipendente, in grado di rappresentare una garanzia per il corpo sociale nel momento in cui è chiamata a pronunziarsi “nel nome del popolo italiano”. I 156 giudici sottoposti a procedimento disciplinare nel 2017 (163 nel 2016) testimoniano purtroppo di una deviazione dal modello di una giustizia sacra e rispettabile che deriva da una lunghissima tradizione italiana ed internazionale. *Presidente Aggiunto Onorario Corte di Cassazione Va punito chi fa reati, non chi potrebbe farli. Ecco tutte le incognite dell’agente provocatore di Raffaele Cantone* e Gian Luigi Gatta** Corriere della Sera, 21 febbraio 2018 In questi giorni un’inchiesta giornalistica, cui ha fatto seguito l’apertura di un’indagine giudiziaria, ha rinfocolato la polemica sull’uso degli agenti provocatori per prevenire e contrastare la corruzione. Senza entrare nel merito della vicenda, sembra opportuno intervenire nel dibattito per sottolineare quanto sia problematico ricorrere a qualcuno, in genere un appartenente alle forze dell’ordine, che istiga a commettere un reato per assicurare alla giustizia chi non ha ancora compiuto alcun delitto. Quando un falso imprenditore propone a un amministratore pubblico una tangente sta infatti creando artificialmente un reato che non sarebbe stato commesso in assenza della “provocazione”. L’agente provocatore è figura ben diversa da quella dell’infiltrato che agisce “sotto copertura” in un’indagine giudiziaria relativa a un reato (ad esempio il traffico di droga) che è già stato ideato e sta per essere commesso. La differenza sta tutta qui: l’agente provocatore crea il reato attraverso una messa in scena, l’agente infiltrato si limita a disvelare un’intenzione criminosa già esistente. In Italia le operazioni sotto copertura sono da tempo oggetto di un’apposita disciplina, limitata ad alcuni reati, volta a escludere la responsabilità penale dell’infiltrato, in base alla giustificazione che il suo concorso nei fatti sia stato posto in essere per fini investigativi. Mentre si può certamente discutere sull’opportunità di estendere questa tecnica investigativa alla corruzione, ben più delicato sarebbe sdoganare il ricorso all’agente provocatore. Le ragioni che suggeriscono di utilizzare la massima prudenza sono molteplici e, in ultima analisi, si richiamano all’esigenza, insopprimibile, di garantire il rispetto di diritti fondamentali del cittadino di fronte alla giustizia penale. Non è questione di garantismo, bensì di ossequio ai principi dello Stato di diritto delineato dalla Costituzione. Anzitutto va ricordato quel che si insegna agli studenti di giurisprudenza: il compito della giustizia penale è punire (e perseguire) coloro che hanno commesso reati, cioè fatti socialmente dannosi, non coloro che si mostrano propensi a commetterne. In secondo luogo, è opportuno riflettere sul fatto che uno Stato che mette alla prova il cittadino per tentarlo e punirlo, se cade in tentazione, non riflette un concetto di giustizia liberale. D’altra parte si tratta di una pratica investigativa che, all’evidenza, si può prestare ad abusi: chi decide chi, quando e come provocare? Le indagini si iniziano quando si ha notizia della commissione di un reato, cioè di un fatto realmente accaduto e contrario alla legge penale. Quand’è invece che si inizia a provocare per verificare l’integrità o la propensione a delinquere di questa o quella persona? I dubbi che solleviamo trovano conferma tanto in Europa, dove il ricorso all’agente provocatore è molto raro, quanto negli Stati Uniti, dov’è invece più frequente ma non meno problematico. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha in più occasioni condannato Paesi membri del Consiglio d’Europa (ad esempio la Lituania) per l’impiego ritenuto illegittimo di questo istituto. Affermando un principio vincolante per l’ordinamento italiano, la Corte di Strasburgo - proprio in relazione a vicende di corruzione - ha dichiarato inammissibile il ricorso all’agente provocatore allorché si accerti che il reato non sarebbe stato commesso senza la provocazione. Quanto agli Usa, spesso nel dibattito pubblico invocati come esempio da seguire in questa materia, il Model penal code prevede che l’induzione al reato (il cosiddetto entrapment) da parte dell’agente pubblico possa essere utilizzata come tesi difensiva per chiedere l’assoluzione se l’imputato riesce a dimostrare che, senza la provocazione, non avrebbe compiuto il reato. Un’argomentazione, come ha scritto un giudice della Corte suprema già nel 1932, riconosciuta proprio per garantire il cittadino da possibili abusi della polizia. *Presidente Anac **Ordinario di Diritto penale Università Statale di Milano Cyber, islamici, estremisti: tutti gli allarmi degli 007 di Antonio Massari Il Fatto Quotidiano, 21 febbraio 2018 Il 50 per cento dei cyber-attacchi subiti dall’Italia nel 2017 sono stati portati a termine da gruppi di “attivisti” hacker. Il 14% sono state operazioni di Cyber spionaggio. Per il restante 36 per cento, infine, non è stato identificato l’autore. La Cyber security occupa un intero allegato, nella “Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza” che i nostri servizi segreti, ieri, hanno presentato al Parlamento. Due i filoni di minaccia emersi nel 2017. Il primo ha avuto il suo momento più caldo a maggio e ha “interessato centinaia di migliaia di computer a livello globale”. L’offensiva ha “bloccato” l’operatività di ospedali, banche e aziende. Il secondo riguarda “le campagne di influenza che, prendendo avvio con la diffusione online di informazioni trafugate mediante attacchi cyber, hanno mirato a condizionare l’orientamento e il sentiment delle opinioni pubbliche, specie allorquando sono state chiamate alle urne”. In sostanza, come già noto da tempo a livello globale, esistono campagne di cyber attacchi destinati a influenzare l’opinione pubblica per condizionarne il voto. Il documento dei nostri servizi segreti non fa alcuna menzione di casi che abbiano colpito l’Italia: “Tali campagne hanno dimostrato di saper sfruttare, con l’impiego di tecniche sofisticate e ingenti risorse finanziarie, sia gli attributi fondanti delle democrazie liberali (dalle libertà civili agli strumenti tecnologici più avanzati), sia le divisioni politiche, economiche e sociali dei contesti d’interesse, con l’obiettivo di introdurre elementi di destabilizzazione e minarne la coesione”. La “vulnerabilità” individuata dalla nostra intelligence si concentra più nel settore pubblico che nel privato: è stata rilevata “la vulnerabilità nei sistemi informativi di rilevanti imprese italiane, suscettibili di esporle ad azioni sia di spionaggio digitale, sia mirante a bloccarne i sistemi e l’attività”. “In merito ai gruppi islamisti - si legge ancora nel documento - il 2017, a differenza degli anni precedenti, non ha fatto registrare in direzione di target italiani azioni così significative da essere prese in considerazione in questa analisi”. Un dato che non muta lo scenario sul rischio terrorismo in generale: la minaccia jihadista per l’Italia resta infatti “concreta e attuale”. Tra i pericoli individuati, c’è quello degli “estremisti home grown”, ovvero quelli “cresciuti in casa”, che potrebbero essere “mossi da motivazioni autonome o pilotati da registi del terrore”. Il monitoraggio interno passa in rassegna gli anarchici e il “ritorno in scena” della sigla Fai/Fri che a dicembre “ha rivendicato l’esplosione di un ordigno rudimentale davanti a una stazione dei Carabinieri a Roma”. Ambienti “esigui e marginali” dell’estremismo di matrice marxista-leninista sono invece impegnati, secondo la nostra intelligence, a “tramandare la memoria della stagione brigatista” per “contribuire alla formazione di futuri militanti”. Le lotte ambientaliste e contro le politiche migratorie vedono una “convergenza tra settori della sinistra antagonista e area anarchica”. Per “ragioni opposte”, continua il documento “in chiave razzista e di intolleranza” il “tema migratorio ha mosso le iniziative della destra radicale” con “la nascita di nuove sigle” che fanno “presa soprattutto sui più giovani. Non mancano connessioni con network di ispirazione neonazista”. Infine, l’analisi sul fenomeno migratorio, che vede una riduzione degli sbarchi, provenienti dalla Libia, di circa 55 mila unità”. Risultato ottenuto grazie alle politiche in Libia del governo, scrivono i nostri 007, sorvolando sul fatto che migliaia di migranti sono rimasti imprigionati dai carcerieri libici. Cresce del 492% la rotta tunisina e del 70% quella algerina. L’allarme è in particolare per gli “sbarchi occulti” con i quali può arrivare chiunque. Limite al rinnovo delle testimonianze di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 21 febbraio 2018 Non devono essere ripetute tutte le dichiarazioni, ma solo quelle decisive. Però, l’obbligo riguarda anche i giudizi celebrati con rito abbreviato. Sono queste le conclusioni cui è arrivata la Corte d’appello di Palermo in uno dei procedimenti sulla, asserita, “trattativa Stato-Mafia”, quello che vede sul banco degli imputati Calogero Mannino. Il provvedimento, ordinanza dell’8 febbraio, rappresenta una delle prime interpretazioni della nuova norma introdotta nell’agosto scorso dalla riforma del processo penale, la legge n. 103 del 2017, con la quale, tra l’altro, è stato introdotto un comma 3-bis nell’articolo 603 del Codice di procedura penale. Si prevede ora che “nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale”. Mannino è stato assolto in primo grado, dopo un processo svoltosi con rito abbreviato, e il giudizio, su impugnazione della procura, è appunto in corso davanti alla Corte d’appello siciliana. Quest’ultima, dopo aver ritenuto che la norma si applica anche ai processi in corso, vista la sua natura processuale, sottolinea che non tutte le prove dichiarative vanno rinnovate, ma solo quelle la cui valutazione effettuata dai giudici di primo grado sono contestate nell’atto di appello e hanno carattere decisivo, “ossia di prova la cui valutazione abbia condotto il primo giudicante alla pronuncia assolutoria e che, nella logica dell’impugnante, risulti decisiva per il ribaltamento della pronuncia assolutoria”. In questa prospettiva allora, il giudice di appello non è chiamato a un’anticipazione del verdetto di merito, ma a una semplice considerazione sulla natura decisiva della prova di cui si chiede la riassunzione. A venire contestata era poi l’applicabilità della riforma al procedimento svolto con rito abbreviato, sostenendo che dove non è neppure prevista un’istruttoria in primo grado, a maggior ragione una sua rinnovazione non dovrebbe essere possibile in appello. Tuttavia la valutazione della Corte d’appello di Palermo è di tenere diverso emette in evidenza come il giudizio abbreviato è solo tendenzialmente “a prova contratta” e non c’è limite ai poteri integrativi del giudice quando non può decidere allo stato degli atti. Del resto milita a favore di questa conclusione anche la recente giurisprudenza della Corte di cassazione che, come attestato dalla sentenza delle Sezioni unite n. 18620 del 2017, ha dato il via libera alla rinnovazione della dell’istruzione dibattimentale in appello, dopo assoluzione in primo grado e successiva impugnazione, anche al giudizio dibattimentale, nel nome del principio del raggiungimento di una convinzione “al di là di ogni ragionevole dubbio”. E, quanto alle questioni di legittimità costituzionale, la Corte d’appello di Palermo (a differenza di quella di Trento, che ha rinviato la norma alla Consulta lo scorso 20 dicembre), ritiene invece che debbano essere respinte. Non esiste, tra l’altro, un profilo di contrasto con il diritto costituzionale di difesa, visto che la scelta del rito abbreviato non può, neppure in primo, impedire al giudice di procedere all’attività d’ufficio di integrazione del materiale istruttorio da parte del Gup quando necessaria per la decisione. Come pure non c’è frizione con l’articolo 111 della Costituzione sotto il profilo della ragionevole durata del processo: la ricerca della verità da parte del giudice non può essere totalmente paralizzata da una strategia difensiva. Saluto fascista non è reato se solo per commemorare di Enrico Bronzo Il Sole 24 Ore, 21 febbraio 2018 Corte di cassazione - Sentenza 8108/2018. Non è reato il saluto romano se ha intento commemorativo e non violento: in questo senso, può essere considerato una libera “manifestazione del pensiero” e non un attentato concreto alla tenuta dell’ordine democratico. La Cassazione ha così definitivamente assolto due manifestanti, che durante una commemorazione organizzata a Milano nel 2014 da esponenti di Fratelli d’Italia, rispondendo alla “chiamata del presente” avevano alzato il braccio destro facendo il saluto fascista. Un gesto che gli era valsa un’imputazione per “concorso in manifestazione fascista”, reato previsto all’articolo 5 della legge Scelba. La Cassazione (sentenza n. 8108) ha respinto il ricorso del Pg di Milano, confermando le decisioni del Gup e della Corte d’appello di Milano (quest’ultima del 21 settembre 2016). Condiviso il percorso che ha portato alle decisioni di merito: la legge non punisce “tutte le manifestazioni usuali del disciolto partito fascista, ma solo quelle che possono determinare il pericolo di ricostituzione di organizzazioni fasciste”, e i gesti e le espressioni “idonei a provocare adesioni e consensi”. Il saluto romano fatto dagli imputati non è stato ritenuto tale. Per i giudici di merito è stata dirimente la natura puramente commemorativa della manifestazione del corteo, organizzato in onore di tre militanti morti, senza “alcun intento restaurativo del regime fascista”. La manifestazione - come contestava invece il pg di Milano - era stata sì regolarmente autorizzata dalla questura, ma nei giorni precedenti gli organizzatori erano stati diffidati dall’utilizzare bandiere simboli quali le croci celtiche. Nonostante l’inosservanza del divieto, si era scelto di far proseguire il corteo solo per ragioni di ordine pubblico. Anche se vi era stata ostentazione di simboli, quindi, i giudici hanno escluso che la manifestazione avesse assunto connotati tali da suggestionare e indurre “sentimenti nostalgici in cui ravvisare n serio pericolo di riorganizzazione del partito fascista”. Nell’argomentare la propria decisione, la Cassazione fa degli esempi, in cui al contrario, vanno ravvisati gli estremi del reato di manifestazione fascista: è il caso di chi intona “all’armi siamo fascisti”, considerato una professione di fede e un incitamento alla violenza, o di chi compie il saluto romano armato di manganello durante un comizio elettorale. La Suprema Corte ricorda inoltre, un precedente identico, riguardante i coimputati dei due manifestanti. In quell’occasione la stessa Cassazione aveva sottolineato che il reato previsto dalla legge Scelba “è reato in pericolo concreto, che non sanziona le manifestazioni del pensiero e dell’ideologia fascista in sé, attesa le libertà garantite dall’articolo 21 della Costituzione, ma soltanto ove le stesse possano determinare il pericolo di ricostituzione di organizzazioni fasciste, in relazione al momento ed all’ambiente in cui sono compiute, attentando concretamente alla tenuta dell’ordine democratico e dei valori ad esso sottesi”. La semplice presentazione di un assegno non estingue il reato di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 21 febbraio 2018 Non basta un semplice assegno, neppure incassato, per considerare riparatoria una condotta di risarcimento. Lo chiarisce la Corte di cassazione con la sentenza n. 8182 depositata ieri. Una questione non certo accademica, dopo che la riforma del processo penale, in vigore dallo scorso agosto per effetto della legge n. 103, ha introdotto una nuova causa di estinzione del reato di cui può beneficiare, nell’area dei reati perseguibili a querela comunque soggetta a remissione, chi rimedia alle conseguenze del reato. Di qui la necessità di precisare il più possibile anche l’idoneità dei risarcimenti messi in campo per potere ottenere il beneficio. La Cassazione innanzitutto conferma di potere intervenire anche sul nuovo articolo 162-ter del Codice penale e per quanto riguarda i processi di legittimità in corso. Dopo un primo tentennamento, l’orientamento inizia cioè a consolidarsi. Il limite della prima udienza utile “fatta eccezione per quella del giudizio di legittimità” è riferito alla sola possibilità per l’imputato di chiedere un limite di tempo (60 giorni) per porre in essere azioni riparatorie. È possibile allora chiedere l’applicazione della causa estintiva sulla base della presentazione di documentazione che attesti l’esistenza di condotte riparatore già perfezionate. E se pochi giorni fa la Corte aveva applicato la norma perché il giudice di merito aveva già ritenuto applicabile l’attenuante che ha i medesimi presupposti applicativi della nuova causa di estinzione, ora la conclusione è diversa. Dagli atti infatti emerge come, a fronte del reato di minacce che coinvolgeva due fratelli, la documentazione esistente consiste in una dichiarazione della persona offesa con la quale si afferma di avare ricevuto la somma di poco più di 2 milioni, di cui 500 a titolo di risarcimento e gli altri per spese processuali. Un’attestazione di congruità del risarcimento che, sottolinea la Corte, è evidentemente condizionata dal buon esito dell’assegno con il quale è stato effettuato il risarcimento a dire della stesa parte offesa. Risultato però rispetto al quale nessuna documentazione è stata prodotta. In questa prospettiva, allora, la condotta riparatoria non risulta essersi perfezionata: non esiste cioè alcuna prova che l’assegno sia stato in qualche modo incassato dalla parte lesa. E non rileva la dichiarazione contraria della stessa parte lesa, il che esclude la possibilità di applicare la nuova causa di estinzione. Sequestro per dichiarazione infedele di Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 21 febbraio 2018 Corte di cassazione - Sentenza 8047/2018. La vendita di immobili mascherata da una cessione di quote sociali che comporta un’evasione di imposta superiore alla soglia penalmente rilevante configura il delitto di dichiarazione infedele: la sequenza di operazioni infatti, non consente di invocare la scriminante dell’abuso del diritto che deve caratterizzarsi per l’assenza di attività simulatorie e fraudolenti. A fornire questa interpretazione è la Corte di cassazione, terza sezione penale, con la sentenza n. 8047 depositata ieri. Nei confronti del presidente e del vice presidente del cda di una società, il Gip disponeva il sequestro per equivalente per il reato di dichiarazione infedele. La società aveva acquistato il 98% di una Sas titolare di un importante compendio immobiliare. Venivano poi ceduti i beni della società partecipata che era poi sciolta generando una cospicua minusvalenza che riduceva la plusvalenza generata dalla cessione degli immobili. L’agenzia contestava, in base al soppresso articolo 37 bis Dpr 600/73, la dissimulazione di una cessione immobiliare e accertava il conseguente maggior reddito disconoscendo la deducibilità della minusvalenza. Il Tribunale del riesame confermava la misura cautelare. Gli indagati ricorrevano per Cassazione, lamentando che il sequestro era fondato solo su una presunzione dell’Ufficio e in ogni caso, la minusvalenza era stata realmente realizzata. Al più poteva essere contestata un’operazione elusiva, priva di rilevanza penale. I giudici di legittimità, confermando la misura cautelare, hanno innanzitutto evidenziato che la presunzione tributaria non costituisce fonte di prova di un reato, ma assume valore valutabile dal giudice e può essere posta a fondamento del sequestro. La Corte ha poi ricordato che è ormai esclusa la rilevanza penale delle condotte di abuso del diritto. Tuttavia, per giurisprudenza consolidata tale esclusione ha un’applicazione residuale rispetto a comportamenti fraudolenti, simulatori o comunque finalizzati alla creazione e all’utilizzo di documentazione falsa, previsti nel Dlgs 74/2000. Ne consegue che l’abuso è irrilevante quando i fatti integrino fattispecie penali connotate da tali elementi costitutivi. Nella specie, i giudici hanno escluso la sussistenza di un’operazione abusiva in quanto l’Agenzia l’aveva espressamente qualificata come “dissimulatoria”. La decisione deve far riflettere poiché seguendo tale interpretazione l’irrilevanza penale dei fatti elusivi voluta dal legislatore, rischia di non trovare quasi mai applicazione. Ogni operazione, infatti, censurabile come abusiva, si può tradurre in una simulazione. Nella vicenda poi l’Agenzia aveva contestato l’articolo 37 bis del dpr 600/73 relativo a condotte elusive. Trento: Santi Consolo (Dap) in visita al carcere di Spini di Gardolo Il Dolomiti, 21 febbraio 2018 “La situazione sarà costantemente controllata e monitorata”. Il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia Santi Consolo ha assicurato che la struttura sarà monitorata soprattutto per quanto riguarda il numero dei detenuti presenti nella struttura. La situazione del carcere di Trento “sarà costantemente controllata e monitorata” questo quello garantito dal capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia Santi Consolo nel corso di una visita in Trentino. Consolo, dopo aver incontrato il presidente Ugo Rossi, ha visitato il carcere di Trento accompagnato dallo stesso governatore e dal provveditore dell’Amministrazione penitenziaria del Triveneto Enrico Sbriglia. Alla visita ha preso parte anche la Garante dei detenuti per la Provincia autonoma di Trento Antonia Menghini. Santi Consolo, nel corso dell’incontro, ha garantito come già detto che il carcere sarà monitorato soprattutto per quanto riguarda il numero dei detenuti presenti nella struttura, la gestione del personale e le attività di manutenzione della struttura. Con gennaio 2018 l’organico degli agenti è stato aumentato di 30 unità ed ora l’obiettivo è quello di incrementare e rafforzare i progetti di reinserimento e rieducazione dei detenuti, con un’attenzione particolare alle politiche del lavoro e alle diverse iniziative che si collocano nel filone ambientale, come cura del verde e raccolta differenziata. Palermo: laboratorio di pasticceria per i disabili gravi, gli insegnanti sono ex detenuti superabile.it, 21 febbraio 2018 A Palermo il progetto dell’Aias coinvolge 20 disabili e due ex detenuti dell’associazione Dolce Buonaspina. Patricola, ex detenuto: “Il nostro desiderio è quello di riuscire un giorno ad aprire un nostro punto vendita dove potremmo coinvolgere anche persone con disabilità e altri ex detenuti”. Sorridenti e sereni, impastano i biscotti, tagliano la pasta frolla e la mettono nelle formine pronta per infornarla. Sono un gruppo di disabili psichici gravi guidati da due ex detenuti dell’associazione Dolce Buonaspina che sta realizzando un laboratorio di cucina con l’Aias (Associazione Italiana per l’Assistenza agli Spastici) di Palermo. Il progetto si svolge nell’ampio centro semiresidenziale dell’Aias di via Raiti e coinvolge un gruppo di 6 persone con disabilità alla volta, il martedì e giovedì mattina, per un numero complessivo di 20 disabili provenienti da tre centri. Tra loro c’è Giusi, con tetraparesi spastica: “Sono molto contenta di partecipare a questa attività perché stimola tutta la nostra creatività. Soprattutto mi piace mangiare ciò che facciamo. Osservo con attenzione tutto quello che cuciniamo che a casa non potrei fare. La mia vera passione resta comunque soprattutto la lettura e la scrittura di chi lo fa per me sotto la mia dettatura”. “L’atmosfera che cerchiamo di creare è molto bella e gioiosa - spiega l’assistente sociale dell’Aias Angela Corso -. Molto spesso durante il laboratorio cantiamo perché i nostri disabili devono stare bene. Favoriamo, insomma, un clima relazionale sereno affinché possano esprimersi al meglio. Prima di riuscire a stare in cucina i ragazzi vengono preparati dall’educatrice con la manipolazione della plastilina. Poi successivamente osservano la preparazione della materia prima e infine dopo l’introduzione dello psicologo responsabile del progetto Giacomo La Mantia e del pasticcere Marcello Patricola, iniziano a lavorare. Per il momento il progetto non ha un limite temporale perché stiamo monitorando i benefici che i partecipanti ricevono sul piano delle abilità manuali e spaziali”. “Con il laboratorio i nostri disabili riescono anche a lavorare in gruppo - continua l’operatrice Angela Corso - una cosa importante e non certo scontata. Stiamo distinguendo anche sul piano degli obiettivi da raggiungere due percorsi, uno strettamente educo-riabilitativo ed un altro ludico. I biscotti, inoltre, oltre ad essere gustati alla fine dell’attività, in parte vengono portati a casa. Sappiamo che qualcuno riesce a raccontare ai familiari cosa ha fatto e percepiamo che anche le famiglie sono molto soddisfatte”. Per il laboratorio, l’Aias ha acquistato tutte le attrezzature specifiche: l’impastatrice, le teglie per i biscotti, il pane e la pizza e gli accessori per la pasticceria. Al gruppo di ex detenuti l’Aias, inoltre, ha dato la possibilità di fare fruire della cucina tutti i giorni per la preparazione dei loro dolci che poi vendono al pubblico durante varie iniziative culturali. La scelta dell’Aias guidata dal direttore Salvatore Nicitra è stata, quindi, quella di riconoscere un doppio valore sociale al progetto: da una parte quella di dare la possibilità lavorativa agli ex detenuti e dall’altra quella di offrire le loro competenze alle persone con disabilità”. A dedicarsi ai disabili sono Marcello Patricola e un altro ex detenuto che, dopo avere preso in carcere il diploma all’alberghiero, hanno voluto sperimentarsi, specializzandosi nella pasticceria siciliana. “Dopo l’esperienza carceraria durata a fasi alterne dieci anni, oggi posso dire con soddisfazione che il mio percorso di vita è completamente cambiato - sottolinea Marcello Patricola che ha 43 anni ed è sposato con due bambini -. L’associazione Dolce Buonaspina di cui sono presidente è nata due anni fa ed è composta da 4 persone. A novembre, dopo avere conosciuto il presidente dell’Aias, ci è stata offerta questa doppia possibilità per noi molto importante e dal grande valore umano”. “Sono cresciuto a Ballarò e penso che, chi ha avuto nella vita un percorso di vita non facile riesce a capire meglio gli altri. Nel mio caso dedicarmi a questi disabili mi fa stare bene perché mi sembra di recuperare tutto il passato e forse anche gli errori che ho commesso. Quando mi dedico a loro a cui mi sto affezionando molto, mi dimentico tutto perché è un’esperienza umana straordinaria. Da queste persone ricevo tantissimo e tutto questo mi dà una grande carica positiva”. “La produzione dei dolci per noi è anche un lavoro. I nostri prodotti li proponiamo, infatti, all’ingresso dei teatri e nelle chiese. Le persone gradiscono e ringraziamo sempre tutti per la sensibilità e la fiducia che ci esprimono. Il nostro desiderio resta comunque quello di riuscire un giorno ad aprire un nostro punto vendita dove potremmo coinvolgere anche persone con disabilità e altri ex detenuti - conclude infine Marcello Patricola. Confidando proprio nella generosità di chi ci apprezza pensiamo prima o poi di riuscirci”. Napoli: tutelare la relazione genitore-figlio in carcere, ecco la mission di Bambini senza sbarre di Giulia Tesauro liberopensiero.eu, 21 febbraio 2018 Sono oltre 25 mila i figli di detenuti in Italia, stando alle statistiche del Ministero della Giustizia che portano la data dello scorso dicembre. Incontri con un padre scanditi dalla durata di un colloquio in carcere, tra porte blindate e videosorveglianza. Un argomento, quello della detenzione in generale, e ancor più della relazione genitore-figlio all’interno dell’esperienza di detenzione, di cui si parla ancora troppo poco. Ed è di questo che si occupa l’associazione Bambini senza sbarre, costituitasi nel 2002 e impegnata nella tutela dei minori figli di persone detenute, per ribadire un diritto fondamentale che è quello dei minorenni a mantenere la continuità del rapporto con il proprio genitore e, al contempo, il diritto alla genitorialità dei detenuti. “Perché nessun bambino diventi un adulto a rischio, perché ogni bambino è una terra promessa”, come dice Martina Pallotta, volontaria di Bambini senza sbarre. “Il carcere è il luogo in cui è maggiormente necessario tutelare il diritto alla genitorialità per contrastare le possibili conseguenze dell’interruzione dei legami affettivi. Statisticamente viene dimostrato un aumento nelle biografie dei figli di detenuti di casi di detenzione, di abbandono scolastico e di devianza giovanile. Tutelare la relazione genitoriale in carcere, attraverso interventi di sostegno e accompagnamento, significa fare interventi di prevenzione sociale. Si tratta di interventi di duplice prevenzione: da un lato aiuta a prevenire le difficoltà emozionali e relazionali del bambino e i loro effetti sul suo sviluppo psicoaffettivo, dall’altro aiuta il genitore a continuare a svolgere il suo ruolo”. Bambini senza sbarre è presente anche a Napoli, dove gestisce lo “Spazio giallo”, uno spazio all’interno del carcere di Secondigliano pensato per accogliere i bambini che si preparano al colloquio con il genitore. Un aspetto, quello della genitorialità, che troppo spesso viene sganciato dalle persone detenute, ignorato, volutamente o no. Prova evidente ne sono le parole stesse del ministro Minniti, che durante la riunione del Comitato per la sicurezza convocata a Napoli lo scorso gennaio per rispondere al fenomeno delle baby gang, ha annunciato l’intenzione di preparare un protocollo con il Tribunale dei minori per togliere la patria potestà ai camorristi. “Sono sicura che queste misure servano a poco e che non facciano altro che alimentare un disagio e un’incapacità comunicativa di tutti quei ragazzini che vengono messi ai margini della società. In questo modo si rafforzano quei muri alzati da chi, di certe persone, vuole semplicemente liberarsene - dice Martina alla nostra domanda su cosa pensa in merito. Le baby gang sono da condannare, ma la domanda è: Quanto ci interessa realmente comprendere e lavorare con questi ragazzi? Quanto ci interessa migliorare l’intero territorio napoletano? C’è indubbiamente tanto da fare, non è semplice. Bisognerebbe iniziare a fornire prospettive e possibilità di vita dignitose, dare strumenti concreti e non togliere loro i padri, perché avere il proprio padre è un diritto. Immagino che togliere la patria potestà in alcuni casi sia necessario per il minore, ma non è una soluzione da attuare per questo tipo di fenomeno. Bisogna lavorare all’interno di questi contesti, investire in questi contesti, se si ha davvero a cuore il futuro di una generazione”. E continua: “Il senso comune ci porta a generalizzare e a semplificare, ragionando all’interno dello schema mentale “detenuto = cattivo genitore”, senza perder tempo. Ed è proprio questo il punto. Bisogna accompagnare il detenuto nel percorso di genitore, lavorare affinché, nonostante la situazione in cui si trova, possa migliorare sempre più i propri rapporti interpersonali. L’importanza di rigenerare i legami affettivi e di rieducare alla cura delle relazioni costituisce non solo un diritto, ma la condizione stessa di un possibile riscatto. Per consentire ai detenuti di migliorarsi, anche e soprattutto come genitori, è essenziale comprendere che il bisogno di coltivare relazioni affettivamente importanti è una condizione imprescindibile per garantire la consapevolezza di sé e degli altri e non alimentare la rabbia e l’aggressività tipiche di chi vive in un sistema giudiziario fondato sulla repressione, sull’isolamento, sull’oblio. Quando la società si allontana e abbandona un essere pensante, nessuna educazione è possibile e si sviluppa una cultura che ostacola la riabilitazione sociale. Tutto ciò per dire che, nella maggior parte dei casi, i modelli educativi che potrebbero rappresentare i genitori detenuti sono determinati, in parte, da quanto e da come si interviene per lo sviluppo nelle situazioni di disagio. Il genitore rappresenta un punto di riferimento per il figlio e proprio per questo bisogna preoccuparsi tanto del figlio quanto del genitore. I detenuti cercano di rappresentare ciò come meglio possono, scindendo le loro colpe dal loro essere genitori. La speranza di un futuro e di una prospettiva di vita migliore per il figlio caratterizza anche un genitore detenuto. Nel carcere di Secondigliano noi di Bambini senza sbarre lavoriamo con bambini di diverse fasce d’età, ognuno con la propria storia, con il proprio carattere, con il proprio modo di reagire. Non parlano spesso del padre e quando ho provato a chiedermi il perché mi sono sempre risposta che in un certo senso avvertono il clima “extra-ordinario” in cui si trovano. Paradossalmente, per i più piccoli sembra essere più semplice. Non hanno freni su interrogativi e curiosità. Da una certa età in poi troviamo anche ragazzini silenziosi, introversi, diffidenti. C’è bisogno di tempo, di lavoro e di empatia”. Ferrara: delegazione del Partito Radicale in visita al carcere “situazione abbastanza positiva” di Simone Pesci estense.com, 21 febbraio 2018 Mischiatti: “Critico il numero degli agenti, ma i detenuti lavorano e ce ne sono 2 per cella”. Nella mattinata di martedì una delegazione del Partito Radicale, si è recata in visita alla casa circondariale di via Arginone, a Ferrara. Una delle numerose tappe del tour delle carceri emiliano-romagnole, che il gruppo ha iniziato sabato a Rimini con lo scopo di verificare le condizioni in cui versano i detenuti e il personale che lavora quotidianamente nelle strutture carcerarie. La situazione ferrarese, a detta di Monica Mischiatti, coordinamento associazione radicale “Piero Cappone”, è “abbastanza positiva”. Nello specifico, come spiega Mischiatti, ci sono “due persone per cella, e siamo al limite”, ma è “leggermente migliorato il personale giuridico e pedagogico, che da 2-3 unità è passato a 4, e che permette di seguire i detenuti nell’educazione e dei lavori che fanno fuori dal carcere”. Proprio il lavoro, secondo la coordinatrice, è un fattore positivo per i radicali, che vedono positivamente “la sinergia con il Comune di Ferrara che fa lavorare i detenuti, da sempre una delle nostre battaglie”. Rimane critica, invece “la situazione degli agenti di custodia, che rimangono in numero inferiore”. Tutti questi fattori rappresentano una “situazione positiva”, anche se, rivela Mischiatti, ci sono comunque “170 persone, tossicodipendenti o psicolabili, che non dovrebbero essere detenute, ma tenute in altre strutture”. Al giro, al fianco dei radicali, ha partecipato anche don Domenico Bedin. “Negli ultimi 4 anni - evidenzia - si è entrato in carcere e si sono studiate attività, penso ad esempio alla gestione degli orti o del bricolage, che sviluppano il benessere dei detenuti”. C’è comunque un aspetto, secondo don Bedin, che non va sottovalutato: “Bisogna creare dei luoghi di accoglienza fuori dal carcere., altrimenti un detenuto che esce non sa dove andare ed è facile che ricaschi nella situazione precedente. Queste persone sono delle bellissime risorse per sé stesse e per gli altri”. Cremona: la biblioteca del carcere inserita nella rete del prestito interbibliotecario inviatoquotidiano.it, 21 febbraio 2018 Collaborazione tra istituzioni per l’accesso all’informazione e alla lettura. Detenuti e personale in servizio potranno usufruire del prestito interbibliotecario. La biblioteca della Casa Circondariale di Cremona entra nel circuito dei servizi della Rete Bibliotecaria Cremonese (Rbc). Finalità ed impegni di questo esempio di collaborazione fra istituzioni a favore dell’accesso all’informazione e alla lettura - uno dei pochissimi esempi sul territorio nazionale - sono stati illustrati martedì mattina nel corso di una conferenza stampa tenutasi nella Casa Circondariale di Cremona. Sono intervenuti Gianluca Galimberti, Sindaco di Cremona, ente capofila della Rete Bibliotecaria Cremonese, Maria Gabriella Lusi, Direttrice della Casa Circondariale, e Alberto Mariani, Dirigente scolastico del Centro provinciale per l’istruzione degli adulti (Cpia). Sono questi infatti i rappresentanti delle tre istituzioni che hanno sottoscritto il protocollo d’intesa che definisce i rapporti tra RBC e Casa Circondariale di Cremona. Erano inoltre presenti Elisabetta Nava, Presidente della rete Bibliotecaria Cremonese, Rosita Viola, Assessore alla Trasparenza e Vivibilità sociale, Giuseppe Novelli, Coordinatore responsabile dell’area trattamentale della Casa Circondariale, i docenti Elena Blasi e Aida Salanti del CPIA. Il progetto nasce dalla considerazione che le biblioteche devono essere un servizio disponibile e aperto a tutti i cittadini, compresa la popolazione carceraria, come forma di partecipazione della comunità esterna all’attività trattamentale e quale importante forma di coesione sociale. Partendo da tale presupposto, il Comune di Cremona, in qualità di capofila della Rete Bibliotecaria, nel 2017 ha avviato i primi contatti sia con la Casa Circondariale che con il CIPIA per valutare la possibilità di aprire una biblioteca all’interno del carcere supportata dalla consulenza della Rete Bibliotecaria. La Direzione della Casa Circondariale ha aderito da subito alla proposta. L’Ordinamento Penitenziario (L. 354/75) stabilisce infatti che presso ogni istituto deve essere organizzato un servizio di biblioteca come risorsa importante per il trattamento dei detenuti, incoraggia a potenziare tale servizio attraverso intese con biblioteche e centri di lettura pubblici presenti sul territorio, mentre i detenuti debbono avere un agevole accesso a tale servizio. A sua volta il CIPIA ha valutato positivamente la possibilità di collaborare a questa iniziativa alla luce anche delle linee guida del Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca (MIUR) del marzo 2015 sul potenziamento delle biblioteche negli istituti di prevenzione e pena. Altro aspetto da tenere presente è che nella Casa Circondariale di Cremona è presente una sede istituzionale del CPIA che organizza, propone e gestisce attività scolastiche, formative, laboratoriali ed educative in genere. Scopo del progetto è favorire quanto più possibile l’accesso dei detenuti alle pubblicazioni delle biblioteche dell’istituto e della Rete Bibliotecaria, alle quali la Casa Circondariale aderisce, compatibilmente con le esigenze organizzative e di sicurezza della struttura penitenziaria. L’iniziativa costituisce inoltre una forma di partecipazione della comunità esterna all’attività trattamentale, inoltre il servizio bibliotecario in carcere sarà aperto non solo ai detenuti dell’istituto ma anche a tutto il personale in servizio nella struttura di via Cà del Ferro: tutti potranno infatti usufruire del servizio di prestito interbibliotecario richiedendo, attraverso la biblioteca, i documenti presenti nelle 300 biblioteche della rete bibliotecaria cremonese e bresciana. Per l’avvio del servizio la Rete Bibliotecaria ha curato gli aspetti organizzativi, di automazione e la formazione specifica sia dei docenti del CPIA attivi presso la Casa Circondariale, sia dei detenuti stessi. La Rete Bibiliotecaria seguirà tutte le attività di consulenza necessarie al corretto funzionamento delle biblioteca. Dal punto di vista operativo il servizio sarà curato da due docenti del CPIA (Elena Blasi e Aida Salanti) referenti della biblioteca e da un gruppo di detenuti formati e sostenuti in questa attività sia dalla Rete Bibliotecaria sia dai docenti del CPIA (in questa fase di avvio sono sei quelli che hanno collaborato). “Un progetto importantissimo a cui abbiamo creduto molto come Comune e come Rete Bibliotecaria e al quale tanti hanno lavorato. Questa iniziativa rappresenta una sorta di finestra tra il dentro e il fuori, ma anche tra il fuori e il dentro. È un servizio per il territorio perché anche il carcere fa parte del territorio. È la cultura che cresce le persone nelle conoscenze e nelle competenze, che matura e connette la comunità e che genera processi virtuosi, di risparmio e di efficienza”, così ha commentato il sindaco Gianluca Galimberti nel corso della presentazione. Velletri (Rm): il 26 febbraio in convegno “Guardarsi dentro... per imparare a vedere fuori” di Sabrina Falcone* Ristretti Orizzonti, 21 febbraio 2018 La Direzione della Casa Circondariale di Velletri ha organizzato per il 26 febbraio p.v. un Convegno “Guardarsi dentro... per imparare a vedere fuori”. Interventi Assistiti con Animali in ambito penitenziario: Esperienze a prospettive future. L’evento presenta i risultati di alcuni Laboratori di Zooantropologia applicata che si sono svolti presso l’Istituto nei mesi scorsi grazie al supporto tecnico e specialistico degli Operatori di Pet Therapy della Cooperativa Sociale Nuove Risposte Onlus. “Sono sempre stata convinta” afferma la dr.ssa Maria Donata Iannantuono, Direttore dell’Istituto di Velletri “che gli interventi trattamentali attivati in ambito penitenziario nei confronti dei detenuti debbano avere lo scopo principale di stimolare un cambiamento sostanziale, al fine di reinserire nella società una persona che abbia svolto un processo di riflessione profonda rispetto a se stessa, all’atto deviante ed al danno causato alla società. Ed in questa ottica ho accolto con entusiasmo la proposta dei miei collaboratori Funzionari Giuridico Pedagogici di iniziare alcuni Laboratori di Zooantropologia, soprattutto quando mi è stato prospettato il target a cui erano destinati e le modalità di intervento. L’idea era innovativa ed i presupposti teorici su cui si basava erano concreti ed applicabili. Tutti sappiamo che gli elementi del trattamento penitenziario, tra cui l’istruzione, il lavoro, la religione, le attività culturali, ricreative e sportive, l’agevolare opportuni contatti con il mondo esterno ed i rapporti con la famiglia, hanno il fine di rispondere all’art. 27 della Costituzione, che sancisce il valore rieducativo della pena, e permettono anche di espletare la cosiddetta “osservazione scientifica della personalità del detenuto”. L’Osservazione scientifica della personalità è diretta all’accertamento dei bisogni di ciascun soggetto connessi alle eventuali carenze fisico-psichiche, affettive, educative e sociali, che sono state di ostacolo all’instaurazione di una normale vita di relazione e che hanno potuto determinare l’atto deviante, al fine di promuovere un processo di correzione degli atteggiamenti pregiudizievoli. Basandoci su altre esperienze di pet therapy, attuate in ambito penitenziario, e sui risultati ottenuti, abbiamo pensato di inserire ed utilizzare questa nuova tecnica, per coloro che avessero voluto, per modulare un cambiamento di ottica rispetto ai danni causati alle vittime e pervenire pertanto ad una modifica profonda e sostanziale. Abbiamo attuato la prima sperimentazione a livello nazionale in cui, utilizzando per l’appunto la metodologia innovativa degli Interventi Assistiti con Animali, siamo intervenuti nei confronti di detenuti condannati per reati di maltrattamento in famiglia facendoli interagire con cani che erano stati maltrattati. Volevamo incidere in tal modo sensibilmente, anche a livello emotivo, nel far riconoscere le conseguenze di un maltrattamento e nella percezione della sofferenza di un altro essere “diverso da se”, consapevoli che un cambiamento si attua nel momento in cui affrontiamo i danni causati. Ed i risultati di tale sperimentazione, che ci apprestiamo a presentare nel Convegno del 26 febbraio con il supporto di Esperti in questo campo a livello nazionale, hanno superato le nostre aspettative. Una sperimentazione che stiamo pensando di estendere anche ai sex offenders. In un momento in cui l’attenzione dei media è quotidianamente sollecitata da atti di femminicidio e reati similari, ci rendiamo conto dell’importanza che ha per tutti gli operatori che operano in ambiente penitenziario individuare metodologie ed interventi che riescano ad incidere sostanzialmente sulla presa di consapevolezza di coloro che sono già detenuti per tali reati, e che prima o poi saranno reimmessi nel tessuto sociale, al fine di restituire persone che abbiano effettuato una sostanziale revisione critica. Perché pervenire a questo obiettivo significa fare prevenzione e fare prevenzione è un elemento fondamentale del concetto di Sicurezza sociale. E su questi obiettivi ci siamo concentrati in maniera congiunta, Area Pedagogica e Polizia Penitenziaria, nel riconoscimento del nostro ruolo e delle competenze specifiche. *Funzionario Giuridico-Pedagogico Casa Circondariale Velletri Bergamo: la poetessa Alda Merini e i soldi donati ai detenuti di Maurizio Bonassina Corriere della Sera, 21 febbraio 2018 La poetessa mandava denaro con l’amico Bordoni. I suoi versi sulla “paura delle sbarre”. Alda. Alda che sembrava dovesse passare nella vita come il fantasma di se stessa, chiusa tra un manicomio e una poesia. Alda che invece cambia la vita, sua e quella degli altri. Alda che passa l’esistenza sui Navigli, di Milano, ma arriva dappertutto. Alda che ha fatto a botte con la vita (e alla fine ha vinto). ù Alda Merini, la poetessa che ha sconfitto il “male di vivere” e gli elettroshock: lei, simbolo milanese per eccellenza, ha avuto anche forti legami con Bergamo e la terra d’intorno. “Mia sorella - racconta il fratello Ezio - è stata sposata con un uomo nato a Soncino, un panettiere dalle mani d’oro: Ettore Carniti, a Milano era, nel suo lavoro, un re”. Un matrimonio burrascoso, finito male: il marito la fece internare dopo l’ennesimo, violento, litigio. “Ma Alda è sempre rimasta legata a lui - ricorda il fratello - e fin quando ha potuto è andata, in treno o in corriera, a portargli due fiori al cimitero di Calcio, dove Ettore è seppellito. Un amore eterno che ha sconfitto i risentimenti della vita”. La Merini era così: capace di amare in silenzio e di odiare ad alta voce. Capace di vivere di stenti per poi regalare soldi al primo questuante e di offrirsi agli ultimi, di nascosto, con un cuore che sapeva intuire le sofferenze. Ma ci furono altri punti di contatto tra la Merini e Bergamo, come racconta, accreditato da una lunga frequentazione con la poetessa, Silvio Bordoni, giornalista, scrittore e, ancor di più, poeta. Bordoni, cittadino di Verdello, ha collaborato per lungo tempo con L’Eco di Bergamo, ed è uomo di grandi sentimenti: “Alda Merini l’ho conosciuta in un bar sul Naviglio e da allora è nata un’amicizia durata anni. Un’amicizia che mi ha cambiato la vita”. E l’ha cambiata anche ai detenuti di via Gleno. Lì, tra quelle mura di sofferenza, la Merini è arrivata in silenzio a portare consolazione e aiuto materiale. “Mi faceva fare da messaggero - racconta Bordoni -. Io andavo a Milano a trovarla e lei prelevava dal reggiseno (la sua cassaforte privata dove raccoglieva banconote richieste con urgenza ad amici ed editori per poi distribuirle ai poveri, ndr) il denaro da dare ai detenuti”. “Mi dava questo incarico - continua lo scrittore - e nella mia qualità di assistente al carcere, versavo, ai più bisognosi, i suoi denari. C’era, al tempo, un deposito aperto per i reclusi: su quel libretto finivano i soldi della Merini”. “Ma non basta - aggiunge Bordoni, Alda mi chiedeva insistentemente di loro: voleva sapere della mamma ammalata di quel detenuto o della salute del figlio di quell’altro. Non li aveva mai visti i carcerati, ma li amava. Erano gli emuli dei suoi dolori. Non ha mai voluto venire nel penitenziario. Quelle celle le ricordavano troppo il male che le era già caduto addosso. Diceva: “Le inferriate sono impietose, sono gabbie dove la vita si spegne se non c’è identità”. Però la Merini in quelle prigioni è entrata salvifica, tanto che dedicò ai reclusi una poesia”. I versi: “Non abbiate paura delle sbarre che segnano il tempo con mani di rapina - vi ruberanno forse i sospiri d’amore, entrerà la paura nel vostro sangue e poi moriranno altri fiori, ma voi, come figli di Dio come fiori abituati a morire andrete oltre le sbarre”. Faceva così la Merini: dedicava agli ultimi - ultima lei stessa - le sue provvidenze di genio. Le regalava come fossero pensieri qualunque e non i versi della più grande poetessa dell’ultimo secolo. Queste rime tratte da “Pensieri ed Emozioni - La voce dal silenzio di un carcere” - un libricino edito dal Centro Territoriale Permanente “E. Donadoni” - sono depositi di memoria in cui le espressioni più amare, quelle dei detenuti, vengono in superficie e si accompagnano ai sentimenti della Merini. Dietro un muro simile, non per procedimenti di giustizia ma per (presunta) malattia mentale, c’è stata anche lei. E così da dal Gleno vola ancora oggi, in alto, la sua voce. Esce dalle finestrelle, quelle da cui si vedono solo le stelle: lì c’è ancora Alda Merini che racconta le sue storie. Talvolta vere, talvolta inverosimili, ma sempre dedicate agli emarginati. Perché un giorno, insieme a lei, e come è stato per lei, i diseredati dalla vita, possano trovare un riscatto o la pace. Perché dietro quei ferri, dove muore l’anima, ci possa essere ancora vita. E la Merini sta lì, immobile, ad accompagnare verso la salvezza quelli che le angosce non sanno affrontarle. C’è lei, ad istruire le reclute del dolore e a “liberarle dal male quotidiano”. Orvieto (Pg): musica in carcere, concerto dei Maleminore per i detenuti di Danilo Nardoni umbria24.it, 21 febbraio 2018 All’interno della Casa circondariale un centinaio di persone hanno potuto assistere all’esibizione della band perugina. Musicisti e detenuti, uniti grazie alla forza della musica. Questo emozionante incontro, sia per gli uni che per gli altri, è andato in scena sabato 17 febbraio nella Casa circondariale di Orvieto. Un centinaio di detenuti hanno infatti potuto assistere al concerto della band perugina Maleminore, composta da musicisti di varia estrazione musicale per un mix di giovani ed artisti di lunga esperienza. I protagonisti - “È stata un’esperienza importante per tutti, sia per i musicisti che per i detenuti, come punto di unione tra l’interno e l’esterno del carcere, per alleviare così un percorso detentivo e per far capire che la società non esclude ma include” ha così commentato Nicla Restivo, presidente del tribunale di sorveglianza di Spoleto che si occupa delle varie attività trattamentali per i detenuti. Mentre per i componenti della formazione musicale “il calore e l’accoglienza ricevuta dai detenuti del carcere di Orvieto - spiegano - è stato un evento unico e pieno di significati che ci auguriamo di poter ripetere”. “Questo tipo di iniziative - sottolinea ancora Restivo - servono a non far sentire il detenuto escluso dalla società esterna al carcere e per far trovare spunti positivi per non farlo ricadere negli stessi errori”. La band - La voce del gruppo che ha intrattenuto i detenuti è di Nicolò Arcuti, 25enne che nel 2010 ha partecipato con la sua Band No oNe Nothing alla Giornata Internazionale della Musica ad Aix en Provence, e nel 2011 hanno pubblicato ed autoprodotto “Double Face”. Dal 2012 con gli Gna Gna Graffiti per lui anche innumerevoli serate su tutto il territorio. Fausto Cardinali al basso, zoccolo duro della band, vince con Le Galassie il 1° Canta Umbria nel 1968; nel 1972 è in tour in Canada con Little Tony assieme al batterista Giancarlo Stafisso; dal 1998 al 2003 svolge funzioni di direttore artistico per il Club Lucio Battisti di Poggio Bustone, nel 2015 vince con I Visura l’edizione regionale del Cantagiro a Cascia. Giancarlo Stafisso, il batterista, è l’unico musicista professionista della band, ed ha suonato con vari artisti italiani come Little Tony, Soffici, Minnie Minoprio, Gianni Morandi, ed altri. Alla chitarra il virtuoso Francesco Farabi, antropologo e noto pittore nel settore delle Miniature. Alle tastiere Enrico Roscini, il macellaio del gruppo. I Maleminore attualmente stanno lavorando ad un progetto di brani inediti. Sentenza Cappato, non spetta ai giudici decidere sull’eutanasia di Astolfo Di Amato Il Dubbio, 21 febbraio 2018 Sbagliato chiedere alla Corte Costituzionale di sbrogliare la questione della morte di dj Fabo che ha scosso il paese. La Corte di Assise di Milano ha chiesto alla Corte Costituzionale di sbrogliare il nodo relativo alla rilevanza penale o no della assistenza data da Marco Cappato a Fabiano Antoniani, meglio conosciuto come Dj Fabio. Come è noto, Marco Cappato è imputato del reato previsto dall’art. 580 del codice penale per aver aiutato Dj Fabio a realizzare il proprio proposito suicidario. La Corte di Assise di Milano parte dall’idea che la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo consentirebbe di configurare il diritto a por fine alla propria esistenza come una libertà della persona e, conseguentemente, sarebbe in conflitto con tale prospettiva l’incriminazione della condotta di chi agevola il suicidio, senza tuttavia influire sulla decisione di chi eserciti tale libertà. Poiché le norme della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo costituirebbero anch’essi un parametro di legittimità, siccome richiamate dalla Carta Costituzionale, l’art. 580 del codice penale sarebbe illegittimo siccome in contrasto con quelle disposizioni. La questione sembra mal posta sotto un duplice profilo, sia strettamente tecnico giuridico e sia in una prospettiva più ampia quale quella politica. Per quello che concerne il primo profilo, va sottolineato che il tema dei rapporti tra giudice italiano, Corte Costituzione e Convenzione Europea dei diritti dell’uomo è più complesso di quanto l’ordinanza faccia supporre. Difatti, la Corte Costituzionale, da ultimo nella sentenza n. 49 del 2015, ha chiaramente affermato che i principi della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo sono vincolanti per il Giudice Italiano esclusivamente nei limiti in cui siano compatibili con i principi fondamentali della Costituzione Italiana. Si tratta, peraltro, di un orientamento che è stato assunto da quasi tutte le Corti Costituzionali Europea a cominciare da quella tedesca. La conseguenza è che un tema quale quello proposto dalla Corte Costituzionale, nella vicenda che vede indagato Marco Cappato, avrebbe richiesto un preliminare e approfondito esame della compatibilità del diritto di decidere liberamente della propria vita con i principi Costituzionali. La Corte di assise affronta tale argomento in modo molto sbrigativo ed insoddisfacente. Una Costituzione, come è comunemente riconosciuto, che ha costituito il punto di incontro della cultura cattolica e della cultura comunista non può non aver dato un valore preminente alla dimensione sociale dei diritti in esso contemplati. Così, ad esempio, l’iniziativa economica privata, pur essendo libera, non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale. Allo stesso modo, le norme che si riferiscono all’individuo danno rilievo preminente alla sua collocazione nell’ambito della collettività: l’art. 2, che pure è citato dall’ordinanza, mette in primo piano i doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale, l’art. 3 connette il pieno sviluppo della persona umana alla effettiva partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del paese. In questo senso, la Costituzione si pone in una linea di continuità con i valori che avevano fatto introdurre nel codice civile, all’art. 5, il divieto di atti di disposizione del proprio corpo quando cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica. Tutto questo porta a dire che anche laddove fosse davvero ricostruibile, alla stregua della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, un diritto di libertà che includa anche quello di por fine alla propria esistenza, tale diritto troverebbe comunque una insuperabile resistenza nella scala dei valori disegnata dalla Carta Costituzionale Italiana. Con la conseguenza che ad esso non potrebbe dare ingresso la Corte Costituzionale. Né a conclusioni diverse porta la considerazione della recente legge sul fine vita, n. 219 del 2017. La legge, difatti, si guarda bene dall’affermare un generale diritto di determinazione in ordine alla propria vita, richiedendo, in modo estremamente rigoroso, per la sua operatività la esistenza di condizioni estreme ed individuando come bene da proteggere “la dignità nella fase finale della vita”. Circostanze certamente presenti nella vicenda del Dj Fabo, ma che stridono con i termini generali con cui è stato formulato il quesito dalla Corte di Assise di Milano. Da un punto visto politico, poi, cercare di risolvere la questione attraverso un intervento della Corte Costituzionale significa, nei fatti, dare ancora una volta ai giudici il compito di risolvere le questioni che la politica non è capace di risolvere. È cosi, perciò, che si continua a spostare a favore del sistema giudiziario il baricentro di quell’equilibrio tra i poteri, che caratterizza l’attuale situazione dell’Italia. Il tema posto dalla vicenda del Dj Fabio ha certamente scosso la coscienza del paese e sollecitato la ricerca di una soluzione, che superi alcune prospettive presenti nella vigente legislazione italiana. È, perciò, una questione politica e, come tale, deve essere affrontata. Le scorciatoie, come sempre, rischiano di essere più dannose che utili. Migranti. In sei anni aumentati dell’800% i posti disponibili Il Manifesto, 21 febbraio 2018 Aumentano i comuni italiani che hanno aderito al Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), tanto che in sei anni il numero dei posti letto disponibili è passato dai 4 mila del 2011 ai 36 mila del 2017, pari a un aumento dell’800%. A comunicarlo è stato ieri il sindaco di bari e presidente dell’Anci, l’Associazione dei comuni italiani, Antonio Decaro intervenendo alla prima conferenza nazionale degli operatori Sprar. Il sistema Sprar rappresenta un importante passo in avanti nel processo di integrazione dei migranti che arrivano in Italia. Per Matteo Biffoni, sindaco di Prato e delegato Anci per l’immigrazione, si tratta anzi “dell’unico strumento utile a superare i Cas (Centri di accoglienza straordinaria, ndr) e tutta l’emergenza che ruota intorno alla vicenda migranti, nella consapevolezza che dove ci sono progetti di qualità ci sono anche risposte di qualità”. Il piano messo a punto ormai da mesi dal Viminale in accordo con l’Anci prevede una distribuzione di 2,5 migranti ogni mille abitanti, con correttivi particolari per quanto riguarda i piccoli comuni e le città metropolitane, con in più incentivi per i comuni che decidono di aderire al sistema. “Noi non faremo venire meno il nostro impegno - ha detto ieri Decaro - ma i sindaci non possono essere lasciati soli, è impensabile che il flusso migratorio sia sulle di alcuni sindaci di frontiera”. Presente alla conferenza anche il sottosegretario agli Interni Domenico Manzione che ha ricordato come “un migrante integrato è una ricchezza, e lo è anche il sistema di accoglienza attivo nel nostro Paese, che non è un business sulla pelle dei migranti e non è neanche una parte dello scenario di Mafia Capitale”. Da Bruxelles intanto arrivano gli ultimi dati di Frontex sul numero degli arrivi in Italia. E l’agenzia europea per il controllo delle frontiere conferma la tendenza al calo (-34% rispetto ai primi 50 giorni del 2017) cominciata a luglio dello scorso anno, anche se a questa non corrisponde “un declino del numero di migranti in attesa di partire” dalla Libia. Siria. Il caos tra errori e illusioni di Franco Venturini Corriere della Sera, 21 febbraio 2018 L’inaudita strage siriana che dal 2011 ha fatto mezzo milione di morti e sei milioni di profughi, non si era conclusa nello scorso ottobre con la caduta di Raqqa e la definitiva sconfitta dei tagliagole dell’Isis? A scuotere i troppo distratti e gli inguaribili ottimisti ha pensato ieri Bashar Assad, con la sua abituale ferocia. Su Ghouta Est, un agglomerato di 400 mila anime che è l’ultima roccaforte degli islamisti anti regime nella vicinanza di Damasco, sono piovuti centinaia di razzi, barili esplosivi, colpi di mortaio, cannonate, bombe d’aereo. Secondo stime prudenti i morti civili sono 190, più di 800 i feriti, e come sempre nella mattanza siriana hanno pagato con la vita soprattutto i bambini. Si pensa che Assad abbia deciso di liquidare la spina nel fianco di Ghouta facendo seguire ai bombardamenti un attacco di terra. L’Onu protesta, il mediatore Staffan de Mistura dice che siamo alla vigilia di una “seconda Aleppo”. Ma per quanto gli eventi di Ghouta Est suscitino indignazione e pietà, anche noi abbiamo il dovere di non essere distratti. E dobbiamo capire che la guerra siriana, lungi dal concludersi con la vittoria sull’Isis, si è moltiplicata per sei. In Siria c’è la guerra di Bashar Assad, quella che ieri si è vista a Ghouta Est. Il presidente salvato da Putin vuole finirla con i ribelli, vuole evitare una spartizione del Paese, e soprattutto vuole rimanere al potere. Per esempio vincendo elezioni-farsa, che metterebbero in imbarazzo gli americani e i loro alleati. Bashar cerca anche di mostrarsi più autonomo da Mosca, ma senza il suo appoggio militare e politico rischierebbe nuovamente di cadere. In Siria c’è la guerra di Erdogan. Le forze turche assediano l’enclave curda di Afrin, e con la mediazione di Putin avrebbero evitato (per ora) uno scontro con reparti siriani mandati da Assad a proteggere i confini. Erdogan teme che i curdi siriani (Ypg) si uniscano ai curdi turchi del Pkk, e vuole “ripulire” una zona di sicurezza profonda 30 chilometri lungo la frontiera. Già, ma a Manbij, che teoricamente dovrebbe essere il prossimo obbiettivo dell’offensiva turca, ci sono gli americani, istruttori e alleati dei curdi. Erdogan dice “andatevene”, i militari Usa avvertono “resteremo”. E così potrebbe esserci uno scontro armato tra due alleati Nato, il secondo della storia dopo quello tra greci e turchi per Cipro. Chi cederà, Ankara o Washington? Intanto Putin sta alla finestra e se la ride. In Siria c’è la guerra di Putin. Lui ha salvato Assad quando stava per soccombere, lui ha mutato gli equilibri della guerra, lui è stato descritto come l’unico vero vincitore del conflitto, ma ora il capo del Cremlino non sa come uscirne. Ha provato a impostare un “suo” negoziato di pace contando sull’alleanza Russia-Iran-Turchia, ma il tentativo è fallito. Ha inventato le de-escalation zones (Ghouta Est è grottescamente una di queste), e Assad gli ha mandato all’aria il gioco. Gode nel vedere che turchi e americani rischiano di spararsi, ma come potrà rispettare l’annunciato ritiro alla vigilia delle elezioni del 18 marzo prossimo? Lui sa che vincerà, ma sa anche che i russi sono stanchi di guerra, soprattutto dopo che “diverse dozzine” di cittadini russi e ex-sovietici sono stati uccisi da un attacco aereo della coalizione guidata dagli Usa. In Siria c’è la guerra di Trump. Troppo a lungo priva di una strategia, l’America raccoglie oggi i dividendi di uno scarso impegno. Tiene sul terreno i suoi duemila soldati (500 un anno fa) per prevenire un ritorno dell’Isis. E per non ripetere il solito “errore di Obama”, che sbagliò davvero ritirandosi troppo bruscamente dall’Iraq. Erdogan è un problema grosso. Ma intanto si può lavorare contro l’Iran, obbiettivo preferito dell’Amministrazione. Bashar viene accusato di aver utilizzato armi chimiche, e dovrà andarsene. Nei negoziati di pace, poi, è meglio non entrare. Ci pensi l’Onu. E ci pensi Putin, se ci riesce. In Siria c’è la guerra dell’Iran. Che con le sue milizie sciite, al pari degli Hezbollah libanesi, ha avuto un gran peso sull’esito della guerra. Ora vuole riscuotere, magari ricevendo investimenti russi e cinesi al posto di quelli occidentali che arrivano con il contagocce. Quel che Teheran teme e cerca di evitare, è uno scontro armato con gli americani. Perché farebbe il loro gioco. In Siria c’è la guerra di Israele. Lo si è visto di recente con l’abbattimento del drone iraniano partito dalla Siria (quello che Netanyahu ha esibito a Monaco) e subito dopo con l’F-16 israeliano colpito dai siriani. Ma i timori di Gerusalemme vanno ben oltre: Iran, Siria, Iraq e Hezbollah formano una mezzaluna sciita potente e aperta sul Mediterraneo. La sicurezza di Israele è minacciata, ma la risposta c’è: l’asse con Trump (e con l’Arabia Saudita) per contenere l’Iran. Se necessario con la forza. Sei guerre esplosive e intrecciate tra loro pesano sui futuri equilibri del Medio Oriente e del mondo. Servono tregue umanitarie da Ghouta a Idlib, servono processi negoziali non concorrenti, servono statisti capaci di concepire strategie di contenimento. Ma essere ottimisti diventa sempre più difficile. Siria. Il fantasma di un’altra Sarajevo di Paolo Garimberti La Repubblica, 21 febbraio 2018 C’è davvero il rischio che Damasco diventi la Sarajevo del secolo Duemila, la miccia di un conflitto che si allarga per cerchi concentrici fino a diventare globale? Non è più una domanda astratta o retorica. Ma un quesito di un drammatico realismo. La guerra civile siriana, che dura ormai da sette anni, ha risucchiato in un’escalation inesorabile una serie di attori regionali e internazionali, che sembrano incapaci di districarsi da una palude in cui affondano ogni giorno di più. Elenchiamo, in ordine sparso, i fatti che sono accaduti nelle ultime settimane. Un caccia F-16 israeliano è stato abbattuto dalla contraerea siriana mentre tornava da un raid di rappresaglia, dopo che un drone iraniano lanciato dalla Siria era stato distrutto nel cielo di Israele. Un aereo russo è stato abbattuto da jihadisti vicino a Idlib. Un elicottero turco è stato distrutto dai curdi siriani, sostenuti dagli Stati Uniti ma sotto attacco da parte di un altro Paese membro della Nato, cioè la Turchia. Paramilitari russi sono stati uccisi dall’aviazione americana mentre cercavano di prendere il controllo di un giacimento petrolifero: ieri il ministero degli Esteri di Mosca ha confermato che i “cittadini russi o dell’ex Urss” uccisi o feriti sono “diverse decine”, dopo che in un primo momento le fonti ufficiali russe avevano parlato di cinque morti e il Pentagono aveva alzato la cifra “fino a 200”. Intanto l’aviazione di Bashar al-Assad continua a martellare Ghouta, l’enclave vicino a Damasco, in mano ai ribelli e sotto assedio da cinque anni, dove negli ultimi due giorni ci sono stati quasi 250 morti di cui almeno 50 bambini. Ghouta sta diventando una seconda Aleppo, la cui caduta nel 2016 sembrò segnare una svolta nella guerra civile siriana. Per completare il quadro, il presidente turco Erdogan ha annunciato l’attacco finale ad Afrin per sottrarla al controllo delle milizie curde dell’Ypg, che avrebbero stretto un accordo con l’esercito governativo siriano, pronto a una controffensiva per aiutare i curdi a difendersi dai carri armati turchi. Tutti, in questa spirale senza fine, sembrano prigionieri di se stessi, dei loro odi e delle loro ambizioni, oltre che delle loro debolezze. Assad, resuscitato dai russi e dagli iraniani, vuole riconquistare più terreno possibile in vista di un eventuale, e sempre più remoto, negoziato di pace, sostenuto nella sua feroce determinazione dal cinismo di Mosca, che giustifica il massacro di civili a Ghouta, così come fece ad Aleppo, con la ragion di Stato. Erdogan, ossessionato dall’ipotesi di uno Stato curdo così come lo è dai veri o presunti seguaci di Gulen condannati al carcere da una magistratura servile, è pronto a sfidare gli Stati Uniti e a mettersi di nuovo in rotta di collisione con Putin pur di allontanare la minaccia curda dai suoi confini. Il presidente russo sembrava poter essere l’arbitro del conflitto, dopo i successi dell’intervento militare a sostegno di Assad iniziato nel 2015. L’unico sponsor credibile per un negoziato di pace tenuto conto dei buoni rapporti di Mosca con tutti gli attori regionali: l’Iran, la Siria, la Turchia e anche Israele. Ma la conferenza di Sochi, il mese scorso, è stata un flop totale, disertata dall’opposizione e snobbata dai rappresentanti di Damasco, che hanno respinto una proposta delle Nazioni Unite e della stessa Russia per una nuova Costituzione. Gli altri due co-sponsor della conferenza, Iran e Turchia, sono arrivati ai ferri corti tra loro dopo che le milizie filo-iraniane hanno bombardato un convoglio turco in Siria, con il tacito consenso dei russi. Ma Putin, in un anno elettorale, deve fare i conti anche con un’opinione pubblica interna, che dopo la tragica esperienza in Afghanistan è estremamente riluttante verso gli impegni militari all’estero: secondo un recente sondaggio meno di un terzo degli intervistati si è detto a favore. Le notizie di queste ultime ore sui mercenari russi morti in Siria (che tra l’altro sarebbero dei “contractors” di un’agenzia partecipata da Evgenyij Prigozhin, il “cuoco di Putin” implicato anche nel Russiagate) possono aumentare il malumore dei russi sull’intervento nel Paese. Putin non rischia certo di perdere l’elezione presidenziale. Ma è ossessionato dall’astensionismo: meno del 70 per cento dei votanti sarebbe una soglia considerata una sconfitta dal Cremlino. E le cattive notizie non favoriscono l’afflusso alle urne. Ma se Mosca non ride, Washington piange. L’insipienza internazionale di Trump e, purtroppo, anche di molti suoi collaboratori, a cominciare dal segretario di Stato Tillerson, ha reso ancora più irreversibili l’impotenza militare e l’inerzia diplomatica che la miopia di Obama avevano già creato, focalizzando tutta la strategia americana in Siria soltanto sulla lotta al cosiddetto Stato islamico. In questa ragnatela di impotenza e di cinismo c’è l’incognita gigantesca di Israele. Che finora ha evitato di intervenire direttamente in Siria, anche se dal 2013 ha condotto più di cento attacchi aerei contro postazioni degli Hezbollah. Ma il reperto del drone distrutto, che Netanyahu ha teatralmente mostrato alla conferenza di Monaco chiamando in causa il ministro degli Esteri di Teheran, è servito a lanciare un messaggio preciso, tracciando una linea rossa nella geopolitica del conflitto. Il premier israeliano, che si sente spalleggiato in questo da Usa e Arabia Saudita, non potrà mai tollerare che la guerra in Siria, con i giochi incrociati tra Teheran, Damasco, Mosca e gli Hezbollah, sia l’occasione per creare una sorta di ponte terrestre tra l’Iran e il Mediterraneo. Se questa linea rossa venisse superata circoscrivere la guerra civile siriana diventerebbe impossibile. E allora sì che Damasco potrebbe essere la Sarajevo del nostro secolo. Francia. Subito espulso chi non ottiene l’asilo, la stretta di Macron sugli immigrati di Leonardo Martinelli La Stampa, 21 febbraio 2018 Sempre disposto alla trattativa e al compromesso, sull’immigrazione Emmanuel Macron non sente storie e segue il vento dell’opinione pubblica, favorevole a una stretta: il progetto di legge presentato oggi dal ministro degli Interni Gérard Collomb, molto vicino al Presidente, corrisponde a un vero giro di vite nel settore. Sta già provocando polemiche, nella società civile e perfino tra i deputati macronisti, che hanno la maggioranza assoluta all’Assemblea nazionale e che in genere approvano senza fiatare qualsiasi legge venga loro propinata dal Governo. Ma stavolta potrebbero riservare qualche sorpresa. Si tratta di una legge “per un’immigrazione gestita e un diritto all’asilo politico effettivo”, così recita il titolo. “È un progetto equilibrato - ha sottolineato Collomb nei giorni scorsi. La Francia deve accogliere tutti i rifugiati politici, ma non tutti quelli economici. Ecco, in quest’ottica dobbiamo cambiare la nostra legislazione, che adesso è molto più favorevole rispetto agli altri Paesi europei”. Già da ieri si conoscevano le principali novità del provvedimento. Si riducono i termini per ottenere l’asilo a un massimo di sei mesi dalla presentazione della domanda, contro gli undici in media attuali. E il ricorso contro una decisione negativa dell’amministrazione competente (Ofpra) non sarà più sospensivo per tutti coloro che provengono da Paesi giudicati “sicuri” (la stragrande maggioranza): insomma, saranno espulsi prima di sapere cosa si stabilirà in appello. Intanto si allungano i tempi di permanenza nei centri di detenzione amministrativa per i migranti (equivalenti ai Cie, i Centri di identificazione ed espulsione italiani), dove finiscono i clandestini trovati senza regolare permesso di soggiorno: si passa dai 45 giorni attuali a 90, che in certi casi diventano addirittura 135. Si introduce anche un vero e proprio reato di “superamento illegale della frontiera”: un anno di carcere e 3.750 euro di multa per chi, ad esempio, attraversa illegalmente le Alpi tra Italia e Francia e non in corrispondenza di un posto di frontiera. La legge prevede pure qualche misura “positiva”, come la possibilità per i minorenni ai quali è riconosciuto lo status di rifugiato di far venire in Francia gli stretti familiari. Si riconoscono anche più diritti agli studenti stranieri presenti nel Paese, sia per lavorare che per creare un’impresa. E il premier Edouard Philippe ha promesso di incrementare i corsi di francese per coloro che hanno richiesto l’asilo e di sostenerli nella ricerca di un posto di lavoro. Ma tutto questo basterà a convincere i deputati più reticenti sulla legge? D’altra parte Macron nell’ultimo sondaggio Ifop sulla sua popolarità ha perso sei punti percentuali. E in un’altra inchiesta (dell’istituto Elabe), condotta in parallelo, il 66% degli intervistati lo ha giudicato “troppo lassista” per la sua politica d’immigrazione. La loro scelta i francesi sembrano averla già fatta. Marocco. Ci sono ancora 155 condannati a morte, anche se la pena non è applicata dal 1994 globalist.it, 21 febbraio 2018 L’ultimo condannato fucilato, in una foresta, legato ad un albero, fu un potentissimo funzionario dei servizi segreti, stupratore serale. Molti dei condannati affetti da turbe psichiche. Nelle carceri marocchine, anche se nel Regno non vengono compiute esecuzioni capitale dal 1994, sono 115 i detenuti condannati alla pena capitale. A rendere noto il dato è stato il procuratore generale Mohamed Abdennabaoui, il più alto grado della magistratura inquirente, nel corso di un incontro con il corpo diplomatico marocchino. In Marocco, anche se la giustizia continua ad emettere condanne a morte, esse non vengono eseguite da 24 anni. L’ultima fu quella del potentissimo funzionario dei servizi segreti Mohamed Mustapha Tabit, fucilato il 5 settembre del 1994, legato ad un albero della foresta di Kenitra. Il funzionario - religiosissimo e devoto alla famiglia, come lo definirono i conoscenti - era stato arrestato per possesso di video pornografici, che vedevano coinvolte 500 donne, per molestie sessuali, deflorazione, stupro violento, sequestro di persona, atti di barbarie ed incitamento alla depravazione. Mohamed Abdennabaoui anche precisato che le grazie reali consentono di commutare le condanne a morte in ergastolo, come ad esempio nel 2016, quando il sovrano ha deciso di perdonare 23 condannati alla pena capitale, che ora scontano una pena perpetua. La Coalizione per l’abolizione della pena di morte in Marocco da tempo si batte per la cancellazione dal codice della pena capitale, per chiudere definitivamente i “bracci della morte” nelle carceri del Regno. braccio della morte nelle carceri”. Tanto più che la Coalizione si dice convinta che ormai molti degli ospiti dei “bracci della morte” sono “vecchi e malati di mente, privati di tutti i legami familiari e che vivono tra solitudine e depressione”.