Il Garante nazionale dei detenuti: “approvate il testo originale della riforma” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 febbraio 2018 “Mi auspico che il governo, compatibilmente con gli adempimenti procedurali dettati dalla legge delega, voglia licenziare nel più breve tempo possibile il decreto legislativo in una versione che realmente realizzi la riforma del sistema penitenziario, così come ampiamente discussa in questi anni”. Così il Collegio del garante nazionale dei detenuti, presieduto da Mauro Palma e composto da Daniela De Robert ed Emilia Rossi, si rivolge al ministro della Giustizia Andrea Orlando con una nota urgente. La preoccupazione è più che lecita e si va a sommare a quella della stessa esponente del Partito Radicale Rita Bernardini, da 29 giorni in sciopero della fame, che, alla conferma della prossima riunione del Consiglio dei ministri di giovedì 22 febbraio, ha scritto rivolgendosi pubblicamente al guardasigilli: “In quale versione? Accogliendo la contro- riforma contenuta nel parere della commissione Giustizia del Senato? È domanda cruciale perché se non l’accoglie (come si spera), ci vogliono altri 10 giorni per le commissioni Giustizia se le controdeduzioni del governo vengono trasmesse immediatamente. E siamo al 4 marzo, cioè al giorno del voto in cui Gentiloni dovrebbe convocare il Consiglio dei ministri e approvarli definitivamente nel testo originale. È plausibile, ministro Andrea Orlando?”. Sono proprio le modalità di approvazione della riforma quelle che preoccupano. Giovedì, il Consiglio dei ministri approverà la riforma originale - rimandando al mittente le motivazioni -, oppure l’approverà accogliendo le osservazioni poste soprattutto dalla commissione giustizia del Senato? Ed è proprio quest’ultimo il nodo centrale. Sono due gli elementi espressi dalla commissione del Senato a generare perplessità e stupore al Garante, i quali rischiano di proporre l’annullamento della riforma del sistema degli automatismi che impediscono per ampi settori di detenuti l’accesso ai benefici penitenziari e alle misure alternative al carcere: il primo è la implicita lettura di sfiducia nella funzione del giudice che sembra permeare tutta la critica a tale riforma; il secondo è la sconfessione dei criteri dettati proprio su questo punto dalla legge delega, come in una sorta di ripensamento rispetto a un provvedimento votato e approvato dal Senato stesso. Il primo elemento emerge dal fatto che la Commissione giustizia del Senato, nel proprio parere finisce col trattare la revisione dei limiti ostativi alla concessione di benefici o di misure alternative come se essa determinasse l’automatica concessione di quei benefici e di quelle misure, anziché, come è, la valutazione del giudice di ogni caso, concretamente e individualmente considerato. Quanto al secondo elemento, Mauro Palma rileva che l’impianto risultante dalle indicazioni della Commissione giustizia del Senato determina il sostanziale mantenimento della situazione attuale delle ostatività all’accesso a benefici penitenziari e alle misure alternative per varie categorie di reati, in totale difformità rispetto alla legge delega. A questo proposito il Garante ricorda che la legge delega può essere disattesa non soltanto per eccesso ma anche per difetto. Proprio per questo, Mauro Palma auspica che il Governo approvi il testo originale della Riforma Caro procuratore Ardita, la riforma non tocca il 41bis di Simona Giannetti* Il Dubbio, 20 febbraio 2018 Con la modifica dell’articolo 4bis i magistrati avranno uno strumento di valutazione per concedere o meno i benefici. Dopo 40 anni si parla di riforma carceraria, che dal 1975 ha subito i taglia e cuci degli interventi della Consulta, oltre che qualche bacchettata della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Il carcere si conferma oggi il modello dominante di sanzione penale, pertanto l’obiettivo della riforma non può che essere quello di garantire una detenzione che rispetti la finalità rieducativa: per fare questo la frattura tra realtà carceraria e mondo esterno deve essere ricucita, le misure intramurarie devono consentire al detenuto di svolgere un percorso di rieducazione e di approdare dinnanzi al magistrato per ottenere un giudizio personalistico sul suo esito; era Fëdor Dostoevskij che diceva “Allontanando un uomo, non lo correggi”. Sulle misure alternative verte uno dei decreti attuativi: è la presidente della Commissione giustizia della Camera che ha parlato di “fulcro principale dei decreti visionati dalle commissioni” a proposito di modifiche all’art. 4bis. Ostacoli alla riforma di questa norma infatti attengono alle spinte meno garantiste, non certo del Csm, le quali non concordano con l’abbattimento dell’automatismo, che oggi vieta ai detenuti, per i reati elencati, la concessione di un beneficio premiale. La decisione sulla concessione dei benefici è oggi preclusa all’autorità giudiziaria, pertanto la riforma null’altro farebbe che eliminare il divieto e restituire al magistrato il potere discrezionale di decidere, come peraltro dovrebbe essere, trattandosi anche di compressione della libertà personale; è anche da dire che il divieto permane in caso di provata persistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, e che, come elemento di novità, è previsto anche il parere del Procuratore della Repubblica competente per distretto di pronuncia della sentenza. Né si può fare a meno di ricordare che la riforma dà seguito alle sollecitazioni della Corte Costituzionale, che, pur lasciando al legislatore il potere abrogativo, in determinati casi aveva già dato segnali di modifiche, dichiarando l’illegittimità dell’art. 4bis che non rimetteva al magistrato il potere di valutare la persistenza dei collegamenti con la criminalità organizzata; in tal senso è evidente che la riforma oggi tenda verso una coerenza con la Costituzione, anche ispirandosi al generale principio, fatto proprio dalla Corte Costituzionale, per cui ogni provvedimento negativo, che incide sul regime penitenziario del detenuto, debba derivare da una sua condotta, ma anche all’ulteriore principio, per cui in nessun caso le finalità di prevenzione generale e di difesa sociale possono legittimare il pregiudizio della finalità rieducativa della pena. Anche il nuovo art. 4ter, introdotto nell’ordinamento penitenziario dal medesimo decreto e relativo allo scioglimento del cumulo, ha sollevato critiche: prevede la riforma che la pena o la frazione di pena relativa a uno dei reati indicati nell’articolo 4bis si consideri separatamente ed espiata per prima, quando ne derivano effetti favorevoli al condannato, purché non espiata prima della commissione del reato. A dire il vero, non si potrebbe dimenticare che questa nuova disposizione era pressoché dovuta: più volte la Corte di Cassazione ha affrontato il problema fino a giungere a fissare l’orientamento che oggi è stato trasportato nell’art. 4 ter, con la conseguenza che la previsione normativa consenta di superare una sorta di “status di detenuto pericoloso”. Tra le critiche occorre prendere atto di quelle che provengono dalle osservazioni del Procuratore Aggiunto di Catania Sebastiano Ardita, rese in Commissione giustizia del Senato a proposito, tra le altre, dell’art. 4 ter: appare chiaro che le sue considerazioni siano meramente dubitative, come dimostra l’uso stesso del condizionale nel riferire, circa il pericolo verso la disapplicazione dell’art. 41bis, che per la genericità della sua formulazione e per la sua collocazione fuori dall’art 4bis, il nuovo art 4 ter sembrerebbe potersi applicare a tutte le possibili situazioni più favorevoli e dunque potrebbe incidere sui presupposti di applicazione dell’art. 41bis. A tal riguardo non può sfuggire che l’art. 41bis è rimasto al di fuori della riforma e non verrà modificato; peraltro non potrebbe accadere che il cumulo venisse sciolto per escludere l’applicazione del regime dell’art. 41bis, in quanto lo vieta l’inequivoca formulazione dell’art. 41bis c. 2, che blinda la possibilità per il detenuto in art 41bis, di trarre vantaggio dallo scioglimento del cumulo, con una legge non derogabile. Non resta che augurarsi, nell’interesse della nostra Costituzione, che i decreti attuativi vengano approvati e che l’approvazione avvenga non solo per tempo, prima del mutamento della legislatura, ma altresì in modo coerente con lo spirito della legge delega che non può e non deve essere snaturata, ma soprattutto in modo coerente con la nostra Costituzione. *Avvocata e membro del direttivo di Nessuno Tocchi Caino Quanto sono aumentati i posti in carcere negli ultimi 5 anni? Agi, 20 febbraio 2018 Secondo Renzi, dal 2013 al 2018 c’è stato un incremento dell’11%. ?Ospite di Massimo Giletti, su La7, il segretario del Pd Matteo Renzi lo scorso 18 febbraio ha dichiarato: “dal 2013 al 2018 i posti in carcere sono aumentati dell’11%, sto parlando della capienza. Purtroppo venivamo da una situazione già allora di sovraffollamento”. Vediamo cosa dicono i numeri. Il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia certificava, al 31 gennaio 2013, una capienza regolamentare di 47.040 posti. Cinque anni dopo, al 31 gennaio 2018, i posti sono aumentati a 50.517. Un aumento della capienza regolamentare di 3.477 posti dunque, corrispondenti al 7,4% del totale. Insomma l’aumento c’è, come afferma Renzi, ma meno consistente di quanto rivendicato dal segretario del Pd. La situazione di sovraffollamento - Vero poi che nel 2013 la situazione carceraria italiana fosse caratterizzata da un grave sovraffollamento. A fronte di 47.040 posti, i detenuti erano allora 65.905. Quell’anno la Corte europea dei diritti dell’uomo condannò l’Italia - sentenza Torreggiani e altri vs. Italia - per trattamenti inumani o degradanti subiti da sette persone detenute per molti mesi nelle carceri di Busto Arsizio e di Piacenza, in celle triple e con meno di quattro metri quadrati a testa a disposizione. Attualmente, a fronte di 50.517 posti, i detenuti sono 58.087. Conclusione - Renzi ha ragione nel sostenere che ci sia stato un aumento dei posti disponibili nelle carceri italiane durante l’ultima legislatura. Sbaglia un poco nel quantificare l’aumento: non dell’11% ma del 7,4%. Corretta, infine, la ricostruzione del segretario Pd secondo cui nel 2013 arrivavamo da una situazione di grave emergenza sovraffollamento. L’assenza di mediazione culturale è una delle cause di discriminazione nelle carceri mediatoreinterculturale.it, 20 febbraio 2018 La presenza di cittadini di origini straniere nelle carceri italiane è sovradimensionata rispetto ai numeri dell’immigrazione. Questa sovra-rappresentazione è molto spesso dovuta a fattori discriminatori, secondo uno studio dell’Associazione Antigone. Uno dei fattori più penalizzanti per gli arrestati stranieri è l’assenza di adeguata mediazione linguistica e culturale. Antigone è una “associazione “per i diritti e le garanzie nel sistema penale”, è nata alla fine degli anni ottanta, promossa, tra gli altri, da Massimo Cacciari, Stefano Rodotà e Rossana Rossanda. È un’associazione politico-culturale a cui aderiscono prevalentemente magistrati, operatori penitenziari, studiosi, parlamentari, insegnanti e cittadini che a diverso titolo si interessano di giustizia penale”. Nel suo XIII° Rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia, intitolato “Torna il carcere”. L’associazione individua molti problemi nella gestione delle pene carcerarie. In primo piano il sovraffollamento delle strutture. Ma non solo. Sono molti i motivi che rendono il sistema penale italiano ingiusto e discriminatorio, verso tutti gli “ospiti dello Stato”. Ma lo è in modo particolare nei confronti degli imputati e dei detenuti di origine straniera. E questo per vari motivi. Le cause di una sovra-rappresentazione - Molto spesso viene tirato in ballo, in politica, il fatto che la percentuale di stranieri in carcere è di molto superiore alla percentuali di presenza totale di stranieri in Italia. La popolazione immigrata nella sua totalità è stimata a circa 8% (dati Istat 2016), mentre la popolazione di stranieri detenuti ammonta a circa il 35% (Fonte: Dap). Da qui risulta facile per alcuni esponenti politici, ma anche nel mondo della ricerca, fare una equazione che sembra ovvia, se si guardano le cifre senza capire cosa si cela dietro: Immigrazione = delinquenza e insicurezza. (Immigrazione e sicurezza in Italia. Marzio Barbagli. Editore: Il Mulino, 2008). Ma guardando da più vicino questa equazione non tiene la strada, ci dice il rapporto di Antigone. Perché solo guardando la differenza tra arrestati (dove gli stranieri sono solo il 29%) e i numeri di detenuti in regime di custodia cautelare (41%) e quelli detenuti in esecuzione di pena (31%) si capisce che gli stranieri rimangono di più in carcere perché mal difesi, perché non hanno condizioni per la custodia domiciliare o per le misure alternative al carcere. Per illustrare questa serie di condizioni sfavorevoli agli stranieri, la ricerca porta un esempio emblematico; “quello di Karim (nome di fantasia), arrestato per contraffazione di banconote, con applicazione della custodia cautelare in carcere. Inizialmente Karim è stato difeso da un avvocato d’ufficio che addirittura ha rinunciato alla traduzione degli atti essenziali del processo, nonostante l’interessato non comprendesse la lingua italiana e si professasse innocente. Il difensore di fiducia, nominato ´[successivamente] ha ottenuto la modifica della misura in arresti domiciliari, dopo aver provato l’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza: incredibilmente le banconote non erano mai state sottoposte ad alcun esame tecnico per verificare che fossero false e, a seguito dell’istanza della difesa, ne è stata infine accertata l’autenticità. Ciò nonostante, alla prima richiesta di revoca o modifica sono stati concessi soltanto i domiciliari. Tale misura è stata poi revocata soltanto il 20 luglio, a seguito di una ulteriore istanza della difesa. L’interessato è stato infine assolto con formula piena ed ha presentato domanda di risarcimento del danno per l’ingiusta detenzione subita per 28 giorni in custodia cautelare in carcere e 44 giorni in regime di arresti domiciliari”. “Racial Profiling” (arresti motivati principalmente dai tratti somatici), assenza di condizioni per gli arresti domiciliari, cattiva qualità della difesa (spesso difensore d’ufficio), ma anche l’assenza totale o scarsità di traduzione e di mediazione linguistica e culturale… porta molti stranieri a stare in carcere allorché innocenti o colpevoli di reati che non portano normalmente a scontare la pena in carcere. Mediazione interculturale nei tribunali una assenza che si nota - La giustizia italiana sembra essersi accorta della necessità della presenza di Mediazione Interculturale nei processi che coinvolgono cittadini di origine straniera. Lo dimostra l’ultimo bando istituito per reclutarne alcuni (Bando per reclutare 15 Mediatori Interculturali). Sarà per effetto della recente direttiva europea 2010/64, che sottolinea l’importanza di assicurare una adeguata mediazione linguistica a tutti gli imputati. Ma la non comprensione della lingua e la non comprensione delle regole del sistema giudiziario resta tra i maggiori fattori di discriminazione dei cittadini di origine straniera. La normativa prevede la presenza di adeguato sostegno linguistico e culturale in ogni fase procedurale. Ma la realtà ci racconta tutta un’altra storia. I traduttori e i Mediatori Interculturali che intervengono nei tribunali soffrono di una assenza totale di inquadramento giuridico e professionale. Le procedure di ingaggio o di reclutamento variano da una città all’altra, da una regione all’altra. Anche il sistema di remunerazione è veramente lamentevole. Si parla di 7 Euro. l’ora in prima udienza per scendere addirittura a 4 Euro l’ora nelle seguenti. Retribuzioni veramente scarse e pagate con tempi biblici che possono arrivare a anni. Urge l’istituzione di un iter nazionale unificato per l’ammissione alla lista di traduttori e mediatori interculturali ammessi nei tribunali e di una ratificazione del servizio che renda dignità a un lavoro più che utile, indispensabile. E queste sarebbero le condizioni necessarie per fornire al sistema giudiziario italiano delle risorse in materia di traduzione e mediazione culturale che siano di facile reperibilità ma soprattutto serie, adeguatamente formate e qualificate. E per assicurare anche agli stranieri la veridicità di quella massima, scritta sopra ogni aula di giustizia, che dice: “La legge è uguale per tutti”. Toghe, record di condanne disciplinari: una su 4 è per ritardata scarcerazione di Valentina Errante e Sara Menafra Il Messaggero, 20 febbraio 2018 A mandato quasi concluso, il bilancio è di oltre 500 procedimenti disciplinari definiti. Violazioni più o meno pesanti che hanno visto coinvolte le toghe e sono state esaminate dal Csm tra il 2014 e il 2018. Otto i casi di corruzione, contestati dalle procure, di cui, in seconda battuta, si è occupata la sezione disciplinare. Ma a Palazzo dei Marescialli, ci tengono a precisare che non c’è una “Questione morale”, anche se non è ancora finita. L’ultimo episodio è quello che ha portato all’arresto dell’ex pm di Siracusa Giancarlo Longo, già trasferito al Tribunale civile di Napoli e adesso sospeso in via cautelare. Ma non tutti i casi sono così gravi, molti riguardano la scadenza dei termini di custodia o la mancata scarcerazione, altri si sono chiusi con archiviazioni, censure o brevi sospensioni. Ieri, la rimozione dall’ordine giudiziario è arrivata per l’ex pm Matteo Di Giorgio, già sospeso e condannato in via definitiva a 8 anni per corruzione e concussione. Attualmente recluso nel carcere di Matera. Altri illeciti - Il presidente supplente della Sezione disciplinare e presidente della prima commissione, Antonio Leone, frena: “È vero che otto magistrati sono accusati di corruzione, ma non penso esista un problema morale, con i numeri di magistrati che ci sono, è più interessante rilevare la mancanza di protezione reciproca che forse in passato era presente”. Leone spiega che è proprio la prima commissione a funzionare meno: “Le gambe del nostro sistema disciplinare - dice - sono almeno tre, ovvero quattro: la prima commissione valuta le incompatibilità ambientali e funzionali, la disciplinare cura gli illeciti dolosi, la quarta fa valutazione di professionalità. A questo sistema si somma il codice deontologico dell’Anm che da qualche tempo ha un sistema di controllo affidato anche a dei probi viri”. Il sistema, dice Leone, andrebbe riformato: “Gli organismi che agiscono sono tanti eppure in molti casi non si arriva ad una sanzione, in particolare la disciplina sull’incompatibilità è ormai difficile da applicare, è un’arma spuntata. A questo punto mi viene da dire che l’incompatibilità ambientale andrebbe eliminata per aggiungere, invece, altre tipizzazioni”, attraverso quella che i giuristi chiamano norma “di chiusura” per colpire i casi non specificatamente previsti: “Tra le ulteriori tipizzazioni che andrebbero pensate - dice Leone - ci sono le situazioni di illeciti extra-funzionali: mi riferisco al dovere di riserbo, alle critiche politiche, alle prese di posizione di natura ideologica, ai commenti alle iniziative governative che possono portare i cittadini a presumere una politicizzazione del singolo magistrato”. I numeri - Dei 569 procedimenti definiti, 174 sono stati chiusi con condanne, incluse censura e ammonimento. Altrettanti con assoluzioni. Sono invece 25 le sentenze di non doversi procedere e 196 le archiviazioni. Anche le misure cautelari sono state 25, otto le sospensioni e un trasferimento d’ufficio. Tra ottobre 2014 e febbraio 2018 sono state celebrate 258 udienze. Nel 38 per cento dei casi, le sanzioni hanno riguardato il grave e ingiustificato ritardo nel compimento delle proprie funzioni, soprattutto nel deposito di provvedimenti giudiziari, mentre nel 23 ritardate scarcerazioni. Ossia l’omesso controllo da parte di giudici e pm sulla scadenza dei termini di custodia cautelari. I casi - All’esame del Csm non finiscono tutte le segnalazioni dei cittadini, il passaggio obbligato è dalla procura generale della Cassazione che, nel solo 2017, ha ricevuto 1.300 esposti. E non sempre i casi esaminati a Palazzo dei Marescialli si concludono con pesanti sanzioni. Come nel caso dell’ex pm di Napoli che, tra maggio e ottobre 2003, con il telefono del turno aveva chiamato 65 volte un’utenza a pagamento di cartomanzia e nel 2013, dieci anni dopo, uscita indenne dal processo penale, ha chiuso la vicenda con una censura. Anche il giudice che assumeva cocaina nei bagni del tribunale di Palmi ed è stato soccorso in preda alle convulsioni negli uffici giudiziari la condanna non è stata pesante: un anno fuori dalla magistratura. È stato invece sospeso in via cautelare dalle funzioni e dallo stipendio, e collocato fuori ruolo con un semplice assegno alimentare, il giudice di Cassazione che affittava alcune stanze attigue al suo appartamento ad alcune prostitute. Populismi giudiziari di Rocco Todero Il Foglio, 20 febbraio 2018 Giulia Bongiorno era la paladina del garantismo penale. Ora, candidata con Salvini, sposa il giustizialismo Nell’immaginario collettivo l’esordio sulla scena pubblica dell’avvocato Giulia Bongiorno ai tempi della difesa in giudizio dell’onorevole Andreotti era stato ragionevolmente associato alla discesa in campo di una paladina del garantismo penale. Nel processo indiziario per associazione mafiosa contro il sette volte presidente del Consiglio dei ministri l’impressione era stata sin da subito quella che i pubblici ministeri di Palermo si trovassero davanti, oltre che la maestria di Franco Coppi e Gioacchino Sbacchi, la pugnace resistenza di un giovane avvocato in grado d’incarnare alcuni fra i principali capisaldi del liberalismo in materia penale: l’inderogabilità del principio di legalità, la necessità d’una prova di colpevolezza ogni oltre ragionevole dubbio, la tassatività e la determinatezza della fattispecie criminale, solo per citarne alcuni. Poi l’intraprendente carriera politica dell’avvocato Bongiorno, sviluppatasi di pari passo all’invidiabile successo professionale, ha rivelato un’involuzione sul piano squisitamente culturale, tale da alimentare il dubbio che alcune prese di posizione di marca garantiste, assunte nel corso dello svolgimento dei numerosi ed importanti processi che l’hanno vista protagonista, rispondessero più alla necessità di vestire i panni del difensore che a quella di testimoniare un’adesione genuina ai fondamentali criteri guida delle garanzie in ambito penale. Oggi il catalogo delle esternazioni di chiara vocazione cosiddetta “securitaria tendente al populista” è stracolmo fino all’inverosimile e rende giustizia anche della collocazione politica che il famoso avvocato d’origini palermitane ha scelto per le prossime imminenti elezioni nazionali all’interno della Lega di Matteo Salvini. Si va da un’interpretazione della legittima difesa che annichilisce del tutto le potenzialità del principio di proporzione, il quale obbliga invece a non aprire il fuoco contro un individuo che scappa o che non aggredisce l’integrità fisica altrui, alla richiesta di pene esemplari anche per reati di poco conto, come avviene ad esempio nei paesi dell’est (a quanto pare eretti dalla Bongiorno a modello di civiltà giuridica universale) dove “se rubi una tuta ti danno 7 anni”, in assoluto dispregio, ci si dimentica di ricordare, del divieto di assegnare alla sanzione penale una funzione esclusivamente generale o speciale preventiva. Gli strali della Bongiorno colpiscono, poi, tanto gli strumenti processuali di deflazione del contenzioso (degradati a regali che lo stato offrirebbe ai delinquenti senza nulla pretendere in cambio), quanto i benefici penitenziari, indulto compreso, che nulla avrebbero a che fare con la vera funzione della pena la quale, a quanto pare, si deve aggiungere a questo punto, sarebbe disciplinata da una diversa ed imperscrutabile norma diversa dall’articolo 27 della Costituzione repubblicana che annovera invece anche la rieducazione fra gli scopi della sanzione da infliggere al condannato. Per completare il quadro si possono citare, ancora e nell’ordine, le perplessità dell’avvocato Bongiorno sulla non imputabilità degli individui minori di 14 anni e sui benefici alternativi del processo penale minorile, l’avversione dichiarata verso ogni forma di attenuante prevista dall’ordinamento giuridico penale, la proposta di scambiare la volontaria castrazione chimica del condannato recidivo con un sostanzioso sconto di pena e infine la legittimazione attribuita a ogni forma di ancestrale paura per placare la quale sarebbero giustificate le più spropositate reazioni auto difensive. Il Bongiorno-pensiero in materia penale, insomma, appare nelle sue linee generali coincidente con l’impostazione che il magistrato Piercamillo Davigo ha esposto nel libro di recente pubblicazione dal titolo “Giustizialisti” che tanto piace al Movimento Cinque stelle, e getta un fascio di luce chiarificatrice sulle assonanze programmatiche dell’ampio fronte dei populisti che si contenderanno il favore elettorale degli italiani il prossimo 4 marzo. Da marzo le nuove regole sulle impugnazioni penali di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 20 febbraio 2018 Cambieranno dal prossimo 6 marzo le regole sulle impugnazioni penali. Sulla Gazzetta Ufficiale n. 41 del 19 febbraio 2018 è stato pubblicato il decreto legislativo n. 11 del 6 febbraio che, in esecuzione della delega contenuta nella legge di riforma del processo penale modifica il la disciplina sia per il Pm sia per l’imputato. Il testo prevede innanzitutto che il pubblico ministero propone impugnazione con effetti favorevoli all’imputato solo con ricorso per Cassazione. È così valorizzato il ruolo di parte del pubblico ministero accentuando il suo ruolo di antagonista processuale dell’imputato. Può dunque proporre appello contro le sentenze di proscioglimento, perché queste smentiscono la pretesa punitiva portata avanti con l’esercizio dell’azione, ma non può aggredire le sentenze di condanna, proprio perché queste, indipendentemente dalla pena inflitta, riconoscono la fondatezza dell’azione. Le sentenze di condanna sono invece appellabili dal pubblico ministero soltanto in alcune ipotesi (modifica del titolo del reato, esclusione della circostanza aggravante ad effetto speciale, sostituzione della pena ordinaria), quando le decisioni del giudice incidono in maniera significativa soprattutto sulla determinazione della pena. All’imputato, di conseguenza, è impedito l’appello delle sentenze di proscioglimento pronunciate con le più ampie formule liberatorie, cioè perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non lo ha commesso. Emerge allora con evidenza la volontà di ridurre i casi di appello, comprimendo il potere d’impugnazione nei limiti in cui le pretese delle parti, legate all’esercizio dell’azione penale per il pubblico ministero e al diritto di difesa per l’imputato, sono soddisfatte. Corpo del reato, sequestro valido anche se le modalità sono irregolari di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 20 febbraio 2018 Corte di cassazione - Sentenza del 19 febbraio 2018 n. 7966. “Il provvedimento di sequestro può essere emesso in ogni tempo ed anche su cose apprese in modo illegittimo dalla polizia giudiziaria”. La Corte di cassazione, sentenza del 19 febbraio 2018 n. 7966, ha così respinto il ricorso di un uomo contro il provvedimento di sequestro di due telefoni cellulari disposto dalla Dda di Catanzaro. Secondo il ricorrente la richiesta del provvedimento era stata fatta dalla polizia giudiziaria soltanto 15 giorni dopo l’effettiva apprensione dei telefoni che era avvenuta contestualmente al fermo, mentre il provvedimento vero e proprio era arrivato soltanto tre mesi dopo, caratterizzandosi come una sorta di “tardiva convalida di un atto della polizia giudiziaria”. Per la Suprema corte, però, correttamente il Tribunale, per un verso, ha evidenziato che la mancata convalida del sequestro di urgenza “non preclude l’emissione di un autonomo provvedimento di sequestro della stessa specie”. Per l’altro, che il sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato con finalità probatorie “costituisce atto dovuto ed è sempre utilizzabile come prova, in qualsiasi modo si sia ad esso pervenuti: ne discende che il provvedimento di sequestro può essere emesso in ogni tempo ed anche su cose apprese in modo illegittimo dalla polizia giudiziaria”. In altri termini, prosegue la decisione, “se è vero che l’illegittimità della ricerca della prova del commesso reato, allorquando assume le dimensioni conseguenti ad una palese violazione delle norme poste a tutela dei diritti soggettivi oggetto di specifica tutela da parte della Costituzione, non può, in linea generale, non diffondere i suoi effetti invalidanti sui risultati che quella ricerca ha consentito di acquisire, è altrettanto vero che allorquando quella ricerca, comunque effettuata, si sia conclusa con il rinvenimento ed il sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato, è lo stesso ordinamento processuale a considerare del tutto irrilevante il modo con il quale a quel sequestro si sia pervenuti: in questa specifica ipotesi, e ancorché nel contesto di una situazione non legittimamente creata, il sequestro rappresenta un atto dovuto”. Ciò vuol dire, conclude la Corte, che “allorquando ricorrono le condizioni previste dall’articolo 253, comma 1, c.p.p., gli aspetti strumentali della ricerca, pur rimanendo partecipi del procedimento acquisitivo della prova, non possono mai paralizzare l’adempimento di un obbligo giuridico che trova la sua fonte di legittimazione nello stesso ordinamento processuale ed ha una sua razionale ed appagante giustificazione nella necessità primaria di interrompere il protrarsi di una situazione di intrinseca illiceità penale, quando non addirittura la permanenza del reato o gli effetti al reato strettamente connessi”. Per il caporalato basta il reclutamento dei braccianti e non serve il fine di lucro di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 20 febbraio 2018 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 19 febbraio 2017 n. 7891. Stretta della Cassazione sul caporalato. La Corte con la sentenza n. 7891/18 ha legittimato la misura cautelare personale della presentazione presso la polizia giudiziaria per un immigrato indiziato del reato ex articolo 603 bis commi 1, 3 e 4 cp. Il ricorso in Cassazione. L’indagato ha presentato ricorso in Cassazione evidenziando che la propria condotta non rientrasse tra quelle previste dall’articolo 603-bis cp dal momento che non aveva tratta alcun vantaggio dallo sfruttamento dei braccianti agricoli ed erroneamente il gip aveva ritenuto irrilevante stabilire se egli avesse agito a fine di lucro o semplicemente per aiutare i propri connazionali. Sul punto i Supremi giudici hanno richiamato l’articolo 603-bis del codice penale evidenziando come a seguito delle modifiche apportate dalla legge 199/2016 la norma deve essere intesa nel senso che va punito chiunque recluti manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, sul solo presupposto dello stato di bisogno dei lavoratori e senza che sia richiesta, per l’integrazione, una finalità di lucro. L’indagato, peraltro, aveva evidenziato come ci fosse stato un travisamento della prova laddove è stato attribuito valore indiziario al reperimento nello zaino dell’indagato di un elenco di 93 nominativi che, tuttavia, non corrispondevano a quelli dei braccianti identificati. Ma sul punto si legge nella sentenza, esula dalle funzioni della Cassazione la valutazione della sussistenza o meno dei gravi motivi e delle esigenze cautelari, essendo questo compito primario ed esclusivo dei giudici di merito e, in particolare, del giudice al quale è richiesta l’applicazione della misura e poi, eventualmente, del giudice del riesame. I confini del giudizio - Alla Cassazione quindi non è consentito esprimersi dando un giudizio ricostruttivo del fatto e gli apprezzamenti del giudice di merito sull’attendibilità delle fonti e la rilevanza e la conclusione dei risultati del materiale probatorio, quando la motivazione sia adeguata, coerente ed esente da errori logici e giuridici. L’interpretazione dei contenuti delle intercettazioni costituisce questione di fatto Il Sole 24 Ore, 20 febbraio 2018 Processo penale - Mezzi di prova - Intercettazioni ambientali - Contenuti - Interpretazione - Valutazione - Questione di fatto - Sindacato di legittimità - Esclusione. È sottratto al sindacato di legittimità il potere di compiere una diversa e nuova valutazione di contenuti intercettati, salvo non risulti un travisamento palese o una manifesta irragionevolezza nella attribuzione di significato ai contenuti medesimi operata dal giudice del merito. Nella specie la Suprema corte ha ritenuto che il Tribunale avesse interpretato, in maniera non illogica, il contenuto di conversazioni intercettate sull’utenza della persona sfruttata come prostituta, traendone il convincimento circa la sussistenza, in fase cautelare, di gravità indiziaria in relazione alla fattispecie contestata. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 9 gennaio 2018 n. 350. Prove - In genere - Linguaggio adoperato - Significato delle espressioni - Valutazione del giudice di merito - Sussistenza - Sindacato di legittimità - Esclusione - Condizioni. In tema di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, l’interpretazione del linguaggio adoperato dai soggetti intercettati, anche quando sia criptico o cifrato, costituisce questione di fatto, rimessa alla valutazione del giudice di merito, la quale, se risulta logica in relazione alle massime di esperienza utilizzate, si sottrae al sindacato di legittimità. • Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 28 maggio 2015 n. 22471. Prove - Mezzi di ricerca della prova - Intercettazioni di conversazioni o comunicazioni - In genere - Contenuto - Valutazione del giudice di merito - Sussistenza - Sindacato di legittimità - Esclusione - Limiti. L’interpretazione e la valutazione della capacità dimostrativa e indiziaria del contenuto di conversazioni intercettate, rientra nella esclusiva competenza del giudice di merito, il cui apprezzamento non può essere sindacato in sede di legittimità se non nei limiti della deduzione di una manifesta illogicità e irragionevolezza della motivazione con la quale esse sono state recepite. (Fattispecie relativa a giudizio in cui la prova dei fatti ascritti è stata fondata dal testo di conversazioni intercettate compiutamente analizzate in cui l’individuazione del significato dei termini “così lunghi”, “cosa piccola”, “sporcata” riferiti ad armi lunghe, pistole, è stata ritenuta non manifestamente illogica). • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 21 agosto 2013 n. 35181. Prove - Mezzi di ricerca della prova - Intercettazioni di conversazioni o comunicazioni - In genere - Interpretazione del contenuto delle conversazioni - Sindacato di legittimità - Limiti - Travisamento della prova - Condizioni - Indicazione. In sede di legittimità è possibile prospettare una interpretazione del significato di una intercettazione diversa da quella proposta dal giudice di merito solo in presenza del travisamento della prova, ovvero nel caso in cui il giudice di merito ne abbia indicato il contenuto in modo difforme da quello reale, e la difformità risulti decisiva e incontestabile. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 22 marzo 2012 n. 11189. Processo penale - Mezzi di prova - Valutazione - Vizio di travisamento della prova - Configurabilità. Stante la preclusione per il giudice di legittimità di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito, è invece, consentita la deduzione del vizio di “travisamento della prova”, che ricorre nel caso in cui il giudice di merito abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale, considerato che, in tal caso, non si tratta di reinterpretare gli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione, ma di verificare se detti elementi sussistano. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 14 giugno 2007 n. 23419. Roma: il caso di Angelo Di Marco, quando la ferocia prende il posto della legalità di Piero Sansonetti Il Dubbio, 20 febbraio 2018 Aveva 58 anni ed era tenuto in prigione in modo assolutamente illegale. Le sue condizioni di salute erano incompatibili con il carcere. La sua situazione giudiziaria permetteva largamente la concessione dell’affidamento ai servizi sociali. Tenerlo in prigione è stato un atto in violazione aperta ed evidente degli articoli 27 e 32 della Costituzione. Una sfida arrogante a quegli articoli. Se non li conoscete li copiamo qui (anche ad uso di qualche magistrato che magari li ha scordati): “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Così è scritto all’articolo 27. Invece l’articolo 32 precisa che “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo”. Angelo Di Marco è morto solo, da detenuto, vomitando sangue. Perché stava in prigione, per un reato che la giurisprudenza definisce bagatellare, sebbene avesse il fegato a pezzi? Perché è stato lasciato morire in modo atroce, solo e abbandonato nell’infermeria di Rebibbia, sebbene esistessero tutte le documentazioni necessarie che provavano la gravità della sua malattia? State tranquilli. Non solo nessuno pagherà per quello che è successo, ma non ci saranno né giornali né partiti politici che chiederanno conto. Se c’è il sospetto di una caso di malasanità, l’informazione scatta subito. Della malagiustizia non frega nulla a nessuno. State tranquilli, oggi sui giornali questa notizia non la troverete, o la troverete piccola piccola. State tranquilli, quello di Angelo Di Marco non è un caso clamoroso. È successo tante altre volte, e tante altre volte è passato sotto silenzio. No, non ho nessuna voglia di chiedere punizioni esemplari per i responsabili. Non mi piace chiedere punizioni per nessuno, e poi so che la legge non permette di punire i magistrati. Vorrei solo che qualche magistrato serio, come ce ne sono tanti, esprimesse solidarietà ai familiari di Angelo Di Marco. Mi piacerebbe se lo facesse anche il Csm, e magari anche il ministro. E soprattutto mi piacerebbe se il sacrificio del signor Di Marco valesse almeno come spinta per affrettare la riforma carceraria. La riforma è lì, sul tavolo del governo. Attende solo un atto formale. Cinque minuti. Bisogna approvarla senza modifiche. Rita Bernardini e quasi altre mille persone da un mese stanno facendo lo sciopero della fame per sollecitare questo provvedimento. Non è una riforma pericolosa, è solo un atto di civiltà. Come spiega molto bene Simona Giannetti a pagina 14, non è una riforma che libera i mafiosi né tantomeno che riduce il potere dei magistrati. Al contrario: allarga la possibilità per i magistrati di decidere sulla liberazione e sulle pene alternative per chi ne ha diritto. E noi speriamo che molti magistrati possano usare con saggezza questi nuovi poteri. Il grado di civiltà di un paese non si calcola sul numero delle persone che riesce a sbattere in prigione. Si calcola sulla capacità dello Stato di difendere la legalità e anche di rispettare la legalità. Nel caso di Angelo Di Marco la legalità non è stata rispettata. E questa è una ferita profonda per la dignità nazionale. Roma: lasciato morire in carcere per una condanna a un anno di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 febbraio 2018 Angelo Di Marco era recluso da novembre a Rebibbia. Gravemente malato, da novembre scorso era detenuto nel carcere romano di Rebibbia per scontare una pena di poco meno di un anno, ma il tribunale di sorveglianza non solo ha vietato la concessione dell’affidamento in prova (visto che parliamo di una condanna inferiore ai 3 anni), ha anche ritenuto che fosse compatibile con la carcerazione. L’11 febbraio si è sentito male, vomitava tantissimo sangue e solo a quel punto è stato ricoverato d’urgenza nell’ospedale Sandro Pertini. In codice rosso, operato di urgenza, l’hanno salvato in extremis, ma poi giovedì scorso il cuore ha smesso di battere ed è morto. Si chiamava Angelo Di Marco, aveva 58 anni, ma ne dimostrava molti di più. Un romano che faceva una vita ai margini, dedito a piccoli reati e soffriva di diverse patologie epatiche, compresa la cirrosi, che gli avevano compromesso anche il cuore. Era talmente grave che, secondo una relazione medica del Sert di Rebibbia datata 8/ 3/ 2016, le sue condizioni risultavano “mediocri, suscettibili di peggioramento e non compatibili con il regime carcerario”. La sua è una storia emblematica che riguarda tante altre persone come lui. Secondo quanto riferito dai volontari che l’hanno seguito sia dentro che fuori dal carcere, Angelo era una persona che ha vissuto in un contesto ambientale degradato, da giovanissimo era entrato nel tunnel della droga e per procurarsela commetteva alcuni reati, da piccoli furti a spaccio. La tossicodipendenza, unito all’alcolismo, l’ha portato in un vicolo senza uscita, sia mentale che fisico. Eppure, negli ultimi anni, aveva chiesto aiuto. È stato seguito sia dal Sert che dal dipartimento sanitario mentale, ma non si trovavano strutture socio sanitarie disposte ad ospitarlo. Troppo vecchio per una comunità di recupero, troppo giovane per una casa famiglia con persone fragili. Un continuo rimpallarsi tra il Sert e l’azienda sanitaria locale, e se non fosse stato per la disponibilità di alcuni volontari, sarebbe rimasto completamente da solo. Ed effettivamente lo era, in balia dell’inconsistente gestione socio sanitaria esterna e l’assistenza sanitaria carceraria che presenta tuttora numerose criticità. Parliamo di un caso che Marcello Dell’Utri - stavano nello stesso reparto G14 di Rebibbia - ha segnalato al suo legale di Antigone Simona Filippi. Che è stata nominata dal detenuto sua avvocata venti giorni prima che morisse. “Quando facevo i colloqui con lui - spiega l’avvocato a Il Dubbio - si vedeva che stava malissimo, il viso era giallo e non si reggeva più in piedi”. Stava male Angelo, ma già prima di essere condannato. Per questo, tramite un avvocato d’ufficio, aveva richiesto l’incompatibilità, oltre alla sospensione della pena visto la piccola entità della condanna. “Nel fascicolo di rigetto che poi ho avuto modo di visionare - spiega sempre l’avvocata Filippi, su due paginette e mezzo, non c’è uno straccio di documento medico. Lo mandano in carcere de- dicando solo due righe sul discorso della presunta compatibilità con il carcere”. In sostanza, il tribunale di sorveglianza non ha ritenuto di acquisire documenti che certificavano il suo stato di salute. Per i magistrati, Angelo Di Marco poteva senza dubbio essere curato in carcere. La mattina di domenica 11 febbraio, Angelo si sente male e gli esce dalla bocca un po’ di sangue, ma - secondo quanto ricostruito dai sui compagni di sezione - per i medici che l’hanno visitato la cosa non desta allarme. Il pomeriggio, però, comincia a peggiorare vomitando nuovamente sangue, ma così tanto da riempire un secchio. Gli stessi detenuti dell’infermeria hanno cominciato a protestare per chiedere soccorsi. Solo a quel punto viene trasportato di urgenza all’ospedale e lo operano. Uscito dalla camera operatoria, lo hanno allettato nel reparto ospedaliero civile, con tanto di piantoni. L’avvocato Simona Filippi, nel frattempo, alla luce di quello che era successo, è riuscita a fissare un’udienza urgente con il tribunale di sorveglianza. Ma oramai era troppo tardi. Dopo pochi giorni Angelo muore, in solitudine, in un letto di ospedale. Porto Azzurro (Li): sciopero della fame nelle carceri di Nunzio Marotti* quinewselba.it, 20 febbraio 2018 L’iniziativa prevista per giovedì 22 febbraio in concomitanza col consiglio dei ministri che deciderà sulla riforma dell’ordinamento penitenziario. Franco Corleone, a nome e per conto del Coordinamento nazionale dei Garanti regionali e territoriali delle persone detenute, nella giornata di venerdì 16 febbraio u.s. ha formalmente inviato una presa di posizione ufficiale - che ora viene resa pubblica - sulla questione dei decreti delegati per la riforma dell’Ordinamento penitenziario all’attenzione del Ministro della Giustizia On. Andrea Orlando, del suo Capo di Gabinetto dottoressa Elisabetta Maria Cesqui e dell’Ufficio legislativo del Ministero di via Arenula. Il documento qui sotto - fa sapere il Garante dei Detenuti di Porto Azzurro, Nunzio Marotti - - riportato ha avuto la più larga condivisione da parte dei Garanti regionali, provinciali e comunali. Definendo il testo condiviso, il Coordinamento dei Garanti delle persone detenute ha anche proposto per la giornata di giovedì 22 febbraio p.v. - in concomitanza con la preannunciata riunione del Consiglio dei Ministri - l’adesione all’attuale mobilitazione nelle carceri a sostegno della riforma. La mobilitazione dei Garanti dei Detenuti assumerà la forma di un’adesione per 24 ore allo sciopero della fame in corso - iniziativa nonviolenta promossa dal Partito Radicale Nonviolento e da Rita Bernardini e fatta propria da oltre 10.000 detenuti ristretti nelle 190 carceri italiane - e si svolgerà appunto nel giorno in cui si riunisce il Consiglio dei Ministri che, secondo il Presidente Gentiloni ed il Ministro Orlando, dovrebbe adottare importanti decisioni sull’iter del decreto già presentato e sugli altri necessari per la piena attuazione della delega parlamentare della legge 103 del 23 giugno 2017. Il testo inviato al Ministro Orlando Il Coordinamento dei Garanti territoriali delle persone private della libertà esprime il proprio apprezzamento per la conclusione dell’iter parlamentare di valutazione della bozza di decreto legislativo di riforma dell’ordinamento penitenziario già approvata dal Consiglio dei Ministri e auspica che il Governo voglia licenziare quanto prima il decreto e avviare l’iter delle deleghe ancora in sospeso, da quella sul lavoro penitenziario a quella sull’esecuzione penale minorile. In questa prospettiva, essenziale è salvaguardare le finalità della riforma in ordine al superamento delle condizioni ostative all’accesso alle sanzioni alternative al carcere. D’altro canto, nello spirito della riforma e degli Stati generali dell’esecuzione penale è auspicabile che il Governo tenga conto delle indicazioni pervenute dalle Commissioni parlamentari sulla territorialità e sulla qualificazione sanitaria delle sezioni penitenziarie destinate ad accogliere le persone detenute con problemi di salute mentale, così come sull’esercizio della delega in materia di affettività in carcere. A tal fine, sarebbe già un significativo passo in avanti anche il semplice riconoscimento della possibilità di svolgere colloqui non sottoposti a controllo visivo, lasciando a una successiva revisione regolamentare la concreta disciplina delle modalità di svolgimento di incontri riservati con familiari e terze persone. *Garante dei diritti dei detenuti di Porto Azzurro Reggio Calabria: i detenuti di Arghillà in protesta con “battitura” delle sbarre Quotidiano del Sud, 20 febbraio 2018 Problemi nella frequenza dei colloqui e nella gestione dei soldi. Una protesta dei detenuti nel carcere di Arghillà a Reggio Calabria è scattata nelle scorse ore. In particolare, fonti sindacali hanno reso noto che un’ottantina di detenuti della sezione ad alta sicurezza ha messo in atto la battitura ad orari programmati delle sbarre. La notizia è stata diffusa dalla Uil-Pa Penitenziari, spiegando che già alla fine della scorsa settimana nella struttura detentiva era scattato il rifiuto del vitto. Ora la battitura delle inferriate indica un innalzarsi del livello della protesta, che resta comunque pacifica, ma risulta più complessa da gestire da parte del personale di polizia penitenziaria. La protesta nasce dalla contestazione da parte dei detenuti che lamentano disfunzioni e ritardi di tipo amministrativo-contabile per quanto riguarda la gestione dei conti correnti interni, su cui i familiari depositano somme di denaro, oppure nella gestione dei vaglia che vanno cambiati all’ufficio postale; e inoltre problemi riguardanti la frequenza dei colloqui con i familiari. Pescara: “La Città”, un progetto per migliorare la vita dei detenuti cityrumors.it, 20 febbraio 2018 Si intitola “La Città” il progetto realizzato dall’Associazione Viviamolaq nella Casa Circondariale di Pescara, mirato principalmente a prestare ascolto alle voci, ai desideri ed alle esigenze di chi cerca di recuperare agli errori commessi, di chi aspetta un’occasione per dimostrare il cambiamento a cui si sta faticosamente rieducando. I detenuti coinvolti nei primi laboratori di partecipazione espressero il sogno di dare spazio ad un loro preciso obiettivo: una città nel carcere. Un dentro che potesse apparire un fuori, un luogo se non vero, almeno verosimile dove poter dialogare su una panchina, passeggiare lungo un corso fatto di colore, natura, e veri materiali, tangibili da poter davvero toccare. In quel mondo fatto di chiavi, barriere, porte, sbarre. Il Laboratorio di partecipazione è stato efficace: rapido, dal costo contenuto, gestito dagli stessi detenuti, e realizzato senza comportare problemi di sicurezza. In una parola: replicabile. “Sono molto felice che questo progetto si sia compiuto a Pescara e nella nostra struttura carceraria - dice l’assessore alla Cultura Giovanni Di Iacovo. Un progetto di cultura che ha risvolti sociali rilevantissimi e capaci di coinvolgere sia chi ha proposto e realizzato il progetto che quanti ne sono stati interpreti. Bella anche la disponibilità della struttura, non estranea a progetti che hanno come obiettivo la rieducazione e il reinserimento dei detenuti in una nuova vita, diversa e nuova rispetto a quella passata. Grazie all’associazione che ha saputo mettere insieme cuore e braccia per trasformare laboratori ed esperienze in una comune occasione di crescita”. La storia. Tutti i dati sulla detenzione carceraria raccontano una storia ben diversa da quanto enunciato dalla Legge fondamentale del nostro Stato: il tasso di affollamento delle prigioni è superiore al 113,2% e l’edilizia penitenziaria sembra proprio essere l’arma utilizzata a fini detentivi visto che lo spazio vitale pro capite è ben al di sotto dei 3 mq previsti. Si contrae lo spazio, si riduce la luce naturale, e di conseguenza si limita l’utilizzo di materiali confortevoli per confinare la libertà di ogni detenuto. Ecco, se l’architettura è stata una componente della strategia del controllo e della “punizione” è arrivato il momento di operare nella piena direzione del recupero e del reinserimento sociale. La base. Le premesse scientifiche alla base della volontà di dare vita all’esperienza rieducativa hanno centrato l’attenzione sulle componenti fisiche e psicologiche legate all’ambiente. La convinzione che da una equilibrata gestione dello spazio sociale ne possano derivare benefici a livello salutistico ha mosso gran parte delle azioni del Laboratorio: un ambiente percepito disagevole comporta indirettamente il peggioramento del comportamento individuale e collettivo; l’affollamento contribuisce ad una sensazione di tensione e all’innalzamento della pressione sanguigna: la colorazione incide sia sulla pressione che sulla respirazione. Nello specifico l’utilizzo del blu, il viola e il verde comportano un effetto calmante; in ambito medico, i pazienti con stanze che hanno la vista su un paesaggio naturale hanno una riabilitazione più veloce. La privazione di luce può sviluppare reazioni depressive. Il progetto. L’area di intervento corrisponde ad un’ala del carcere di S. Donato composta da un corridoio lungo circa 40m e largo 2,5m sul quale si affacciano diverse stanze. È già presente la sede della redazione del giornale Voci di Dentro, un’aula studio, una biblioteca ed una stanza filatelica. Grazie alla collaborazione fattiva dei detenuti sono state realizzate una sartoria ed una vasta area multidisciplinare, fulcro delle attività di formazione e informatizzazione di tutto il compendio. Si è così raggiunto l’obiettivo di ridefinire gli spazi dedicati al lavoro, alla creatività, alla formazione e soprattutto alla socialità dei detenuti. Ad ogni stanza è stato abbinato un colore, toni distensivi e che richiamassero la natura. E visto che in città i negozi e le botteghe si affacciano sulle strade richiamando ed attirando con vetrine espositive colorate abbiamo pensato di portare il colore fuori dalle stanze, direttamente sul corridoio trasformato in corso. Le fasce di colore si rincorrono sulle superfici disegnando un vortice dinamico e scandendo lo spazio come nella realtà esterna. In corrispondenza di ogni porta abbiamo poi pensato ad un arredo integrato utile all’attività effettivamente ospitata nella stanza. I materiali utilizzati provengono dal riciclo dei cantieri aquilani in cui l’Associazione si trova ancora attualmente coinvolta, le attrezzature sono state condizionate dalle policy di sicurezza carceraria. I risultati. In una società che, anche a causa di obiettivi problemi di logistica urbana, confina istituzioni del genere ai margini ambientali, il progetto La Città centra l’insperato l’obiettivo di far entrare la società nel carcere. Milano: lo sportello per i baby bulli dove si impara la legalità di Paola Fucilieri Il Giornale, 20 febbraio 2018 Esperti di diritto daranno consulenze gratuite a giovani: “Affrontiamo i problemi dell’adolescenza”. No, Non è uno scherzo. “L’idea di creare veri e propri sportelli giuridici a cui i minori possono rivolgersi da soli, senza i genitori, fa parte di un’iniziativa che abbiamo chiamato Non è uno scherzo, nata dopo che, da ormai 15 anni, io e alcuni miei colleghi, all’interno dei progetti dell’Associazione Valeria, teniamo lezioni di legalità nelle classi di terza media e negli istituti superiori, portando i ragazzi anche alle direttissime in tribunale e organizzando vere e proprie simulazioni di processi in classe durante i quali i giovani individuano loro stessi chi possa rivestire il ruolo del pubblico ministero, dell’avvocato difensore, e via di seguito. Un giorno, però, mentre parlavamo di pedopornografia in una classe di terza media di una scuola milanese, una tredicenne è scoppiata a piangere a dirotto. Non capivamo la ragione. Poi si è confidata con un’insegnante. E alla fine dell’incontro è venuto fuori che un uomo, in cambio di una ricarica telefonica, le aveva chiesto prima una normale foto sul cellulare, quindi una foto in costume e infine in topless, minacciandola con una frase del tipo “io so chi sei” di dire tutto ai genitori o di poterle fare del male. Qualche giorno dopo è capitato con un ragazzo che sosteneva di aver solo scavallato: per noia, dopo una solenne sbornia, aveva staccato i vetri di una serie di auto parcheggiate e, facendosi aiutare da un coetaneo, aveva rubato quello che trovava all’interno. Ecco: la noia. Tra questi ragazzi è diffusissima. E ha effetti devastanti”. L’avvocato milanese Patrizia Pancanti, a turno con altri cinque colleghi volontari dell’associazione di promozione sociale Valeria, presieduta dal giudice di pace Anna Maria Paracchini (associazionevaleria.com) e che da anni ha individuato nella scuola l’interlocutore privilegiato nella vita del minorenne, dal 25 gennaio ha organizzato uno sportello giuridico rivolto a ragazze e ragazzi dai 12 ai 18 anni che vengono accolti in un ambiente protetto per ricevere una consulenza gratuita sui temi della legalità. Così, un avvocato penalista e un civilista a turno con altri quattro colleghi sono a disposizione gratuitamente tutti i giovedì pomeriggio, dalle 15.30 alle 17.30, nello spazio Chiama Milano di via Laghetto 2, a due passi dalla Statale, per fornire ai giovani strumenti di sostengo e orientamento in materia giuridica in un contesto facilmente accessibile, senza appuntamento e, soprattutto, in forma totalmente anonima. “Noi non possiamo e non vogliamo dare consulenze perché dal punto di vista strettamente deontologico ci è proibito e poi non è il nostro ruolo - spiega Pancanti. Desideriamo invece offrire chiarimenti in questi giovanissimi, aiutandoli ad affrontare dubbi e situazioni di risultanza giuridica e magari indirizzarli poi a parlare con gli adulti di competenza, i genitori e magari poi le forze dell’ordine. Insomma: lo scopo è quello di far capire ai ragazzi - nei quali molto spesso riscontriamo non solo debolezza e immaturità, ma anche una grande fragilità magari celata dietro atteggiamenti spavaldi - che c’è un posto per parlare di qualcosa che non direbbero a nessuno”. Il 70 per cento dei giovani che chiede aiuto a Non è uno scherzo parla di problematiche legate alla droga, allo spaccio, ma anche al bullismo e al cyberbullismo, o all’aborto e ai metodi contraccettivi, ai maltrattamenti in famiglia, quindi alla possibilità di scegliere con chi stare quando i genitori si separano. Senza contare tutti quelli che usano l’Iphone a sproposito e poi vanno nel panico per quel che ne potrebbe derivare. “Un capitolo a parte - insiste Pancanti - lo meritano i giovani che vanno a votare per la prima volta. Che non sono motivati e non sanno nulla, mentre con la loro preferenza, potrebbero costituire una leva vera e propria per la svolta tanto attesa da questo Paese”. Ci sono infine comportamenti che molti minori assumono quotidianamente senza rendersi conto ma con una valenza penale. “Non sanno ad esempio nulla del valore della diffamazione a mezzo whatsapp - conclude la penalista - e dobbiamo insistere per far comprendere loro l’esistenza del concorso in reato di cui si macchiano coloro, che pur non avendo un ruolo attivo, ma solo da spettatore, partecipano a un atto di bullismo, assistono a un pestaggio o peggio ancora lo istigano”. Milano: “Adotta l’Orso”, parte dal carcere il concorso letterario contro l’autoreclusione di Teresa Valiani Redattore Sociale, 20 febbraio 2018 Scade a marzo il termine per iscriversi al concorso letterario internazionale, autobiografico che parte dal carcere e si rivolge a tutto il resto della società. Un progetto aperto a liberi e detenuti, fulcro di una campagna di sensibilizzazione “affinché nessuno resti solo, bloccato nel suo dolore”. Parte dal carcere ma si rivolge all’intera società “sempre più malata di auto-reclusione”, “Adotta l’Orso”, il concorso letterario internazionale che vuole essere “anche l’avvio di una vera e propria campagna di sensibilizzazione per dare voce e sostegno alla vita che è in ognuno di noi e alla sua libera espressione - spiegano gli organizzatori. Ognuno, con la propria esperienza, può dare il proprio contributo, affinché nessuno resti solo, bloccato nel suo dolore”. La partecipazione al concorso, autobiografico, è aperta a tutti, persone recluse e liberi cittadini, minorenni e maggiorenni, ospedalizzati e non. Il progetto è promosso da Cisproject in collaborazione con la Casa di Reclusione di Milano-Opera e il patrocinio del Dipartimento di Giurisprudenza, del Dipartimento di Psicologia dell’Università degli Studi di Torino e del Gisdi di Massagno. L’Associazione Cisproject Leggere Libera-Mente, da oltre 10 anni attiva nel carcere di Opera con corsi di scrittura creativa ed autobiografia, presenta la terza edizione del concorso che si rivolge ad adulti e studenti che tendono a isolarsi dal mondo. C’è tempo fino al 15 marzo 2018 per presentare le opere. “L’iniziativa - spiegano gli organizzatori - prende forma dalla riflessione che la nostra società è malata di auto-reclusione, un’affermazione forte, ma confermata dal fatto che ci sono milioni di persone in un qualche modo “affette”. Un tema che quest’anno, per la prima volta, vede fra i promotori anche l’Università di Torino, con i Dipartimenti di Giurisprudenza e di Psicologia. Sono milioni i depressi che si chiudono in casa, milioni di persone che soffrono di attacchi di panico e che giorno dopo giorno si auto-recludono sempre più, così come le vittime di bullismo e cyberbullismo, i dipendenti da internet, che possono arrivare a licenziarsi o a non andare a scuola per vivere in un mondo parallelo. E che dire poi dell’anoressia e della bulimia? O delle persone chiuse in carcere che si auto-recludono, rinunciando a partecipare alle attività che, benché limitate, comunque sono presenti? Sì, perché anche in carcere ci si può auto-recludere. Rabbia, paura, vergogna, indegnità, imperdonabilità, desiderio di riscatto sono alcuni dei sentimenti di cui parla chi si è raccontato, spesso come conseguenza di uno o più episodi traumatici vissuti: un lutto, una separazione, insuccessi a scuola, episodi di violenza”. L’importanza della scrittura. “La biblioterapia e la scrittura possono svolgere un ruolo importante per evitare di rinchiudersi in un mondo diverso, isolato - sottolinea Cisproject. È una prima forma di aiuto e auto-aiuto. Il concorso si articola in 3 sezioni: una di prosa, una di poesia, una artistica. E 2 ambiti: adulti e studenti. I lavori, anche dialettali, dovranno essere tradotti in italiano. È possibile partecipare con un racconto, una lettera, una pagina di diario, una poesia che abbia come tema di fondo l’autoreclusione, un disegno, un componimento artistico o fotografico. L’iscrizione è gratuita ed è gradito un contributo volontario, a parziale copertura delle spese di segreteria, di 5 euro. I concorrenti sono invitati a consegnare i lavori in formato A4, possibilmente scritti al computer o a macchina, mentre per le persone detenute si accettano anche in stampatello. Per la prosa: al massimo due cartelle. Per la poesia: 2 liriche per un massimo di 60 versi. È ammessa la partecipazione ad entrambe le sezioni, purché accompagnate da scheda di iscrizione”. I concorrenti dovranno consegnare gli elaborati via mail, all’indirizzo segreteria.organizzativallm@gmail.com. Mentre le persone detenute potranno inviarlo a Cisproject, via Cimarosa 13, 20144 Milano o personalmente al gruppo Leggere Libera-Mente presso la casa di reclusione di Milano-Opera. La Giuria sarà composta da corsisti detenuti del progetto Leggere Libera-Mente e da giornalisti e cultori della materia. Trapani: “Il valore della vita e della libertà”, gli studenti incontrano i detenuti lagazzettatrapanese.it, 20 febbraio 2018 In data 16.2.2018 all’interno della sala teatro della casa Circondariale di San Giuliano e alla presenza del Magistrato di Sorveglianza dottoressa Chiara Vicini, si è svolto un incontro - dibattito tra alcuni detenuti del circuito “Media Sicurezza”, ristretti presso la Sezione Mediterraneo, e oltre un centinaio di alunni delle Scuole Trapanesi: Antonino De Stefano, S. Calvino - G.B. Amico, Vincenzo Fardella e Rosina Salvo nell’ambito del progetto legalità denominato “La tratta degli esseri umani” il cui 2° segmento tratta l’argomento “Il valore della vita e della libertà” promosso dall’Associazione Co.Tu.Le.Vi. (Contro Tutte Le Violenze) guidata dalla infaticabile dottoressa Aurora Ranno. Gli alunni presenti e accompagnati da numerosi docenti hanno rivolto numerose domande ai detenuti che hanno raccontato la propria esperienza e gli errori commessi nella loro vita, nonché le riflessioni critiche sul proprio passato. In particolare, e assolutamente in tema con gli argomenti del progetto, gli alunni hanno ascoltato in religioso silenzio la testimonianza di un detenuto “scafista” originario dell’Africa Centrale che ha raccontato le proprie vicissitudini attraverso il viaggio per ben 5 paesi africani fino alla prigionia e un periodo di lavoro in schiavitù passato in Libia e quindi la partenza alla guida “obbligata dietro minacce” di un natante e il conseguente arresto. È certo che da questi racconti gli alunni hanno potuto trarre delle riflessioni; racconti che in nessun modo è stato sottolineato dal Comandante di Reparto Giuseppe Romano presente all’incontro, vogliono giustificare gli errori commessi ma anzi, con la revisione critica del proprio passato sperano di trasmettere valori positivi alle giovani generazioni presenti in teatro. Numerose domande sono state poste al Magistrato di Sorveglianza, dottoressa Chiara Vicini che ha arricchito, con la sua presenza e con il suo intervento, il contenuto della manifestazione. L’intervento poi della psicologa Silvia Scuderi ha offerto ai ragazzi nuovi spunti di riflessione sui temi trattati. Per le profonde emozioni scaturite dai sinceri e sentiti interventi dei detenuti, l’incontro - dibattito ha nella platea dei ragazzi sentimenti di vera commozione. Su tutto è stato posto in evidenza l’importanza di alcuni valori fondamentali tra cui la famiglia, supporto indispensabile per una sana crescita lontana da ambienti malavitosi. Questo è solo l’ultimo di una serie di incontri significativi con studenti delle scuole trapanesi di ogni ordine e grado per i quali la Casa Circondariale di Trapani si pone come capofila degli Istituti Siciliani per la diffusione della cultura della legalità. Urbino (Pu): teatro e carcere, la risposta a un bisogno. Intervista a Vito Minoia da Fabienne Agliardi teatro.it, 20 febbraio 2018 Lo scrisse Claudio Meldolesi, storico delle arti sceniche: “È immaginazione contro emarginazione, possibilità infinita contro impossibilità”. L’Italia, in questo settore, è una best practice. E la Costituzione ne appoggia lo spirito e il lavoro. Ne parliamo con Vito Minoia, Presidente del Coordinamento Nazionale di Teatro in Carcere, studioso e docente in discipline pedagogiche e dello spettacolo all’Università di Urbino. Una costante e instancabile pratica di teatro di interazione sociale nel settore educativo e in quelli della disabilità, del carcere, del disagio psichico. Con una figura d’eccezione come guida e ispiratore: Antonio Gramsci. Qual è il primo effetto tangibile del portare il teatro in carcere? Il teatro può davvero diventare uno strumento educativo: si mette in relazione il “dentro” e il “fuori” per strappare il detenuto alla monotonia della vita carceraria e instaurare un rapporto diretto. Il teatro diventa quindi un’attività generativa che utilizza tecniche di tipo relazionale per ampliare le comunicazioni e le possibilità di confronto. Il teatro non rientra negli argini ristretti del palcoscenico, ma dà sostanza alle emozioni, sperimenta il corpo e i suoi poteri, supera limiti, mette in scena sogni, incubi, speranze e desideri. L’anno scorso il suo intervento al 35° Congresso internazionale dell’International Theatre Institute dell’Unesco a Segovia ha destato molto interesse. Quali i punti salienti? Il punto nodale è la forza educativo-inclusiva del Teatro in Carcere: ho illustrato il lavoro del Coordinamento Nazionale di Teatro in Carcere italiano, fondato nel 2011 e che coinvolge oggi 44 esperienze di 15 Regioni italiane differenti. D’intesa con il Ministero della Giustizia, il Coordinamento ha infatti dato vita a un Protocollo d’Intesa per lo studio, lo sviluppo di ricerche e iniziative per la Promozione del Teatro in Carcere in Italia. Tra le diverse iniziative promosse abbiamo la Rassegna Nazionale “Destini Incrociati”, che ogni anno consente a decine di operatori e migliaia di spettatori di entrare in contatto con questa particolare forma di teatro. L’evento, sostenuto negli ultimi tre anni dal Ministero dei Beni e Attività Culturali e del Turismo (Direzione Generale dello Spettacolo), dopo aver toccato Firenze, è stato organizzato anche a Pesaro, Genova e Roma. Nel 2018 prevediamo due significative iniziative, in Toscana e in Sicilia e stiamo già guardando al Piemonte per il 2019. L’esperienza italiana del teatro in carcere è stata definita “da prendere come esempio e da diffondere su larga scala”: in cosa ci distinguiamo? Sicuramente l’alto livello qualitativo etico ed estetico di tantissime esperienze significative. Si tratta di un nutrito gruppo di buone pratiche, grazie al convinto lavoro di seri ed appassionati professionisti (registi, attori, operatori dello spettacolo) che si avvicinano al carcere con dedizione e profondo rispetto delle dinamiche complesse che il loro intervento genera. Esempio più che tangibile è il dato sulla recidiva che si riduce dal 65% al 6% in chi pratica esperienze teatrali in carcere. E poi abbiamo la capacità di costruire una rete tra esperienze, con la voglia di crescere e apportare un contributo al positivo cambiamento sociale e istituzionale. A Segovia i delegati finlandesi, canadesi, svedesi, filippini mi hanno subito proposto di collegarci e di usare le best-practices italiane. Ed è una grande soddisfazione. Se l’Italia, soprattutto grazie al suo contributo, è un esempio sul tema, cosa succede invece negli altri paesi del mondo? A riguardo abbiamo dato vita a un nuovo magazine abbinato alla rivista Catarsi-Teatri delle diversità, chiamato “Cercare”, anagramma di carcere. Si tratta di uno strumento conoscitivo che intende documentare ed esplorare il teatro in carcere a livello internazionale. Attraverso i convegni su “I Teatri delle diversità” stiamo cercando di approfondire le conoscenze sul fenomeno su scala mondiale. Dopo i primi focus su Stati Uniti e America Latina, nel 2017 abbiamo dato vita al Premio Internazionale Gramsci per il Teatro in Carcere e, grazie a una Giuria presieduta da Giulio Baffi (Presidente dell’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro), stiamo assegnando riconoscimenti a esperienze che si distinguono proprio per alta artisticità e positività. Due esempi: in Cile, Jaqueline Rameau ha sviluppato un laboratorio e uno spettacolo teatrale con i parenti di detenuti vittime di un grande incendio nella più grande prigione della capitale cilena, contribuendo a promuovere un lavoro di ricomposizione sociale dopo il grande dramma vissuto. Poi, nel carcere di Beirut - dove le condizioni disumane sono sfociate in varie rivolte dei detenuti - la giovane regista libanese Zeina Daccache sta promuovendo iniziative a favore di un teatro che abbina alla cura anche il cambiamento politico per il superamento di un sistema carcerario fondato prevalentemente sull’aspetto della sicurezza. Un grande evento si è tenuto lo scorso 27 marzo per la Giornata Mondiale del Teatro. Com’è nata l’idea? E nel 2018? Si tratta della Giornata Nazionale del Teatro in Carcere: hanno aderito 54 istituti penitenziari e 42 altre istituzioni, organizzando un Cartellone di 99 iniziative in 17 Regioni differenti. Ho promosso l’idea coinvolgendo i colleghi del Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere e in queste quattro edizioni (cinque con il 2018 - presto pubblicheremo tutte le informazioni sul sito www.teatrocarcere.it), la Giornata Nazionale del Teatro in Carcere è diventata una gran bella iniziativa che spinge sull’importante azione delle relazioni tra carcere e territorio: gli spettatori esterni entrano in carcere e condividono con i detenuti tutta la forza simbolica del teatro come segno di civiltà e solidarietà. Poi ci sono le difficoltà, certo: dove non c’è “pratica”, non si riescono a ottenere autorizzazioni per l’ingresso del pubblico esterno. Ma c’è da dire che il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ci sta aiutando molto in questa direzione e siamo riusciti anche a promuovere delle iniziative di formazione e sensibilizzazione rivolte al personale penitenziario. Lei lavora nelle carceri da 30 anni: in questa - possiamo chiamarla missione - da chi arriva il maggior supporto? Lo dice già a chiare lettere l’articolo 27 della Costituzione italiana: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, parole che profilano la pena come processo rieducativo e non solo punitivo. Ma la realtà è diversa: le condizioni di vita nelle carceri sono complicate dalla mancanza di strutture adeguate, spazi, attività lavorative formative e di crescita individuale della persona. Ad aprire decisamente al teatro le porte del carcere è stata nel 1986 la Legge Gozzini, che ha voluto percorrere la strada della rieducazione, e ha guardato alle arti sceniche e alle sue potenzialità formative. Non disperiamo in futuri sviluppi positivi perché siamo consapevoli che la trasformazione delle pratiche richiederà del tempo. L’obiettivo rimane quello di tutelare la continuità e la qualità delle esperienze attraverso un attento e adeguato sostegno (e lo stanziamento di risorse necessarie). Oristano: l’archeologia entra in carcere, conferenza per i detenuti linkoristano.it, 20 febbraio 2018 La prima di un programma sostenuto dal Comune di Oristano. Con una conferenza sui Giganti Mont’e Prama e il bronzetto di Cavalupo e sui nuraghi di Bau Mendula di Villaurbana e s’Urachi di Nurachi entra nel vivo il progetto “Archeologia in carcere”. Sabato, la Casa circondariale di Massama Salvatore Soro ha ospitato la conferenza organizzata dalla Direzione dell’istituto carcerario con l’Assessorato alla Cultura del Comune di Oristano e le associazioni “Mare Calmo” e “Morsi D’Arte”. L’iniziativa è nata per favorire la conoscenza e la divulgazione del patrimonio archeologico e culturale della Sardegna e del Mediterraneo all’interno dell case circondariali e per attuare specifiche azioni di valorizzazione in ambito archeologico e culturale nel territorio di Oristano e della provincia. Alfonso Stiglitz ha illustrato i recenti scavi del complesso di “S’Urachi” a San Vero Milis. Raimondo Zucca ha parlato dei lavori svolti a Mont’e Prama e che hanno goduto della collaborazione dei detenuti. L’archeologa Claudia Sanna, infine, ha illustrato il complesso nuragico di “Bau Mendula” al confine tra Oristano e Villaurbana. “Si tratta del primo di una serie di appuntamenti che il Comune e la Direzione della Casa circondariale hanno programmato e che scaturiscono dalla programmazione avviata con il Tavolo strategico culturale - osserva l’Assessore alla Cultura Massimiliano Sanna -. L’importanza di questa attività è evidente per i risvolti educativi e sociali che la caratterizzano. Ringraziamo le associazioni Mare calmo e Morsi d’arte per la cura con cui hanno preparato questo evento e per i relatori che hanno offerto un prezioso contributo di conoscenza sul patrimonio archeologico della provincia” Alla conferenza, insieme al Direttore della Casa circondariale Pierlugi Farci, all’Assessore Sanna e ai relatori, hanno partecipato anche il Prefetto Giuseppe Guetta, il Magistrato di sorveglianza Ornella Anedda, il presidente dell’associazione Mare Calmo Marco Esposito e il direttore artistico dell’associazione Morsi d’arte Anna Sanna. Volterra (Pi): la cantina “La Regola” protagonista alla cena di gala al carcere gonews.it, 20 febbraio 2018 Dopo la presenza di alcuni studenti e professori dell’Istituto Alberghiero di Volterra alla celebrazione dei venti anni del Cru La Regola che si è svolta in Cantina a Riparbella, la collaborazione con il mondo della scuola si rafforza ancora grazie al mondo dell’enologia toscana, di cui la cantina La Regola è fiore all’occhiello. L’Istituto Itcg “Ferruccio Niccolini” di Volterra è stato protagonista nei giorni scorsi, al Carcere cittadino, all’ultima edizione delle Cene Galeotte, con i vini della Cantina La Regola di Riparbella, con la quale è stato già avviato un progetto formativo-didattico nell’ambito dell’alternanza scuola lavoro. “Il nostro contributo alle Cene Galeotte è ormai una consuetudine da oltre dieci anni, sin dal 2007. Con l’avvio di quest’anno abbiamo pensato ad un maggiore coinvolgimento del territorio in senso culturale e formativo. Nasce da qui l’idea di collaborare con l’Istituto alberghiero di Volterra sia all’interno del carcere dove si svolgono attualmente le lezioni delle classi quarte e quinte, sia nella nostra nuova cantina nell’ambito degli eventi enogastronomici programmati per il 2018 - ha spiegato Flavio Nuti avvocato, project & account manager e titolare della Cantina, insieme al fratello Luca, agronomo e responsabile della produzione. I giovani dell’Istituto Niccolini sono stati impegnati in cucina, all’accoglienza e al servizio ai tavoli, seguiti dai propri insegnanti per una esperienza che gli sarà utile nel mondo del lavoro. Proprio il settore della ristorazione rappresenta una opportunità anche per i detenuti del carcere di Volterra. Molti di loro sono coinvolti in un corso teorico e pratico che li sta portando ad apprendere le nozioni di base della cucina e dei servizi in sala. La cantina La Regola, totalmente ecosostenibile e alimentata con energia pulita, è immersa tra i filari di un appezzamento di proprietà di circa 10 ettari di vigne, in totale l’azienda conta 20 ettari di vigneto ed a breve effettuerà l’impianto di altri 5 ettari. Ad impreziosire la cantina l’arte di Stefano Tonelli che ha trasformato la barriccaia in una grande sala da museo, un affresco che richiama gli Etruschi e il cosmo; un modo per vivere l’arte nel luogo eletto in cui, il vino è nel pieno della sua trasformazione. Il territorio e la storia - L’azienda vitivinicola Podere la Regola, si trova sulla Costa Toscana, territorio vocato alla produzione di grandi cru, nella valle del fiume Cecina, a soli 4 Km dal mare, nel Comune di Riparbella, tra vigneti, olivi e cipressi tanto decantati dal grande poeta Giosuè Carducci, che alla vicina Bolgheri dedicò i suoi versi. Nella zona dove è stata di recente costruita la nuova cantina, sono stati rinvenuti resti di un antico insediamento Etrusco (VII sec. A.C) e numerose anfore vinarie a testimonianza della vocazione di questo territorio alla coltivazione della vite. Il terreno sciolto e drenante, costituito prevalentemente da sabbie plioceniche ricche di fossili di conchiglie, con una percentuale di argilla, una stratificazione di rocce e minerali ricchi di ferro e un esposizione solare dei filari di vite a sud-sud est, favorisce una maturazione ottimale delle uve, consentendo di ottenere vini fini ma di struttura e notevole persistenza. Perché sdoganare il fascismo è un errore di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 20 febbraio 2018 Il fascismo è morto e sepolto. Non è un pericolo il fascismo: sono tutti morti. Il fascismo, nato come movimento socialista, ha avuto bisogno che arrivasse Mussolini o Hitler. Se non c’è in giro un Mussolini o un Hitler non succede niente. Pericoloso è semmai il movimento dell’antifascismo con i centri sociali, come si è visto a Piacenza con l’aggressione al carabiniere. Così Berlusconi l’altro giorno ospite di Fabio Fazio su Rai 1. Dirsi sconcertati è ormai impossibile, tali e tante sono le sciocchezze che ci vengono ammannite in questa campagna elettorale. Ma non può passare senza un commento l’incredibile ricostruzione secondo la quale il fascismo sarebbe stato Socialismo + Mussolini, morto il quale non potrebbe più esserci fascismo. E poco merita di esser detto dell’offensiva assimilazione dell’antifascismo, radice della Costituzione, all’azione di pochi criminali violenti che abusivamente si nascondono dietro una bandiera con cui nulla hanno a che fare. Né bisogna scrollare le spalle, pensando che si tratta di parole in libertà, che durano lo spazio di un passaggio in televisione. Gli elettori della destra nostalgica si sentiranno legittimati nell’arena politica. E si può immaginare l’effetto nell’Europa alle prese con ciò che accade in Ungheria e Polonia, quando nelle varie capitali verranno lette le note informative inviate dai loro ambasciatori a Roma. In realtà quanto detto dal sorridente e rassicurante Berlusconi va preso molto sul serio, perché quelle parole cadono su un terreno di altre parole che da qualche tempo tanti non esitano più a pronunciare. Una di queste è fascismo. Del fascismo viene taciuto l’uso e l’esaltazione del manganello contro gli avversari, l’abolizione del Parlamento (e l’uccisione del socialista Giacomo Matteotti), il partito unico, il carcere e il confino per gli antifascisti, le leggi razziali, le guerre coloniali e quella accanto ai nazisti. Ma, si dice, il fascismo ha anche fatto cose buone. Il giornale “Libero” ha pubblicato un elenco di 100 cose buone del fascismo. Salvini poi, capo della Lega, ha contraddetto il presidente Mattarella, ricordando il sistema pensionistico e la bonifica delle Paludi Pontine. Mattarella, il giorno della memoria della Shoah, aveva detto: “Non dimentichiamo, né nascondiamo quanto di terribile e di inumano è stato commesso nel nostro Paese con la complicità di organismi dello Stato, di intellettuali, giuristi, cittadini, asserviti a una ideologia nemica dell’uomo”. Aveva aggiunto: “Sorprende sentir dire, ancora oggi da qualche parte, che il fascismo ebbe alcuni meriti, ma fece due gravi errori: le leggi razziali e l’entrata in guerra. Si tratta di un’affermazione gravemente sbagliata e inaccettabile, da respingere con determinazione”. Il fascismo, ha detto il Presidente, “non ebbe meriti”. Affermazione, quest’ultima in sé facilmente criticabile, se si pensa che qualunque regime fa pur qualcosa di buono. Nel regime di Hitler ad esempio fu costruita la prima rete autostradale in Germania. Ma chi direbbe ora, nel dibattito politico, che Hitler fece anche cose buone. Se lo dicesse, se ne facesse argomento, così come avviene oggi in Italia attorno al fascismo, farebbe un’operazione politica ben precisa. Si dice infatti che certo vi sono state le leggi razziali (ma la colpa fu di Hitler) e la guerra. Ma c’è stato anche del buono. E dunque non bisogna esagerare. Si può discutere e insomma si può storicizzare e archiviare un sistema morto insieme ai suoi protagonisti. Divenuto discutibile il fascismo, diventa discutibile l’antifascismo. In fondo anche l’antifascismo di oggi fa cose cattive, come le violenze dei centri sociali. Ed ecco che si torna al Berlusconi dell’altro ieri. Relativizzando il giudizio sul fascismo e rifiutando ogni attualità di una prospettiva fascista si esclude il tema dal campo delle questioni serie di cui discutere. Una simile posizione si inserisce in un contesto segnato da gruppi politici che rivendicano la loro radice fascista, simboli fascisti vengono usati e sono centinaia le pagine web dedicate al fascismo e ai suoi meriti. Ma anche se quei siti e quelle rivendicazioni da parte di gruppi e gruppuscoli richiamano l’adesione di numeri necessariamente limitati, il problema non può essere facilmente liquidato. Tracce di fascismo emergono in vasta parte del mondo politico e dell’opinione pubblica, anche se non si pensa più a manganello e camicia nera. L’ideologia e la pratica dell’odio per il diverso, l’attacco al Parlamento come luogo di discussione e mediazione politica, l’esaltazione di un’impossibile democrazia diretta, facilmente plebiscitaria, il nazionalismo autarchico rivendicato per attaccare l’Europa. Ed anche il linguaggio che nel dibattito politico ha perso ogni freno e rispetto per gli avversari. Non questo o quell’episodio, non questa o quella dichiarazione, ma il complesso del clima presente è motivo di allarme e non consente disattenzione. Messico. Italiani scomparsi, la famiglia “sono in carcere, intervenga il ministro Alfano” Il Secolo d’Italia, 20 febbraio 2018 Il caso dei tre cittadini italiani scomparsi in Messico, per certi versi, potrebbe essere un altro caso Regeni? Il sospetto (si spera con un esito diverso che riconsegni sani e salvi i tre italiani) è stato sollevato da Napoli, dai familiari di Raffaele Russo, del figlio Antonio e del nipote Vincenzo Cimmino. Le autorità messicane potrebbero tenere nelle loro carceri i tre italiani, ma non avrebbero divulgato la notizia. Spariti in Messico: un giallo che dura da tre settimane - “Siamo convinti - affermano i familiari dei tre scomparsi in Messico il 31 gennaio - che siano rinchiusi in un carcere. La Farnesina deve insistere sulla pista che porta al commissariato di Tecalitlan dove, nel giorno della scomparsa, un’operatrice ci assicurò al telefono che erano in loro custodia”. In pratica, si ribadisce la necessità che il nostro ministro degli Esteri, Angelino Alfano, alzi la voce con le autorità messicane. Sarà in grado di farlo? Il precedente del governo italiano (all’epoca il ministro degli Esteri era Paolo Gentiloni) con l’Egitto in merito alla scomparsa di Giulio Regeni, non lasciano ben sperare. E i precedenti riguardano appunto il “portavoce” della famiglia, Gino Bergamè, che aggiunge anche di essere stato contattato da parenti di altre persone, da tempo all’oscuro della sorte dei loro congiunti. I precedenti degli italiani in Messico - “Qualcuno di noi - aggiunge - ha anche pensato di raggiungere il Messico ma, a parte la mancanza di diponibilità economica, crediamo, vista la reticenza finora mostrata dalle istituzioni messicane, che sarebbe un viaggio a vuoto e, forse, anche pericoloso. La nostra unica possibilità rimane affidarci alla Farnesina”. Sempre che Alfano sia davvero in grado di ottenere qualche risultato. La Svezia conferisce la cittadinanza allo scienziato condannato a morte in Iran di Riccardo Noury Corriere della Sera, 20 febbraio 2018 Lo scienziato ed esperto di Medicina dei disastri Ahmadreza Djajali, condannato a morte in Iran, è da sabato scorso cittadino svedese. Lo ha confermato una portavoce del ministero degli Esteri di Stoccolma, sottolineando la residenza dal 2009 della famiglia Djajali in Svezia e l’attività accademica svolta presso l’Istituto Karolinska. È evidente che la decisione presa nel fine settimana ha l’obiettivo di aumentare le probabilità di salvare Djalali dall’impiccagione, utilizzando tutti gli strumenti diplomatici e del diritto consolare a disposizione. Djalali lavora nel campo della Medicina dei disastri da 20 anni. Le sue docenze e ricerche lo hanno portato anche in Belgio, alla Vrije Universiteit, e in Italia, presso l’Università del Piemonte Orientale. Arrestato in Iran nell’aprile 2016 durante uno dei suoi viaggi nel paese di origine, Djalali è stato giudicato colpevole del reato di “corruzione sulla Terra”, al termine di un processo irregolare e senza alcuna prova, con l’accusa di aver fatto la spia per Israele. Il ricercatore continua a professarsi innocente e ad accusare le autorità iraniane di essersi vendicate nei suoi confronti dopo che lui aveva rifiutato di fare la spia. All’inizio di quest’anno la decisione della Corte suprema di rivedere il caso aveva fatto sperare nell’annullamento della condanna a morte, che invece è stata confermata. In favore di Djajali si sono schierati 75 premi Nobel per la pace in materie scientifiche mentre continuano gli appelli delle organizzazioni per i diritti umani perché gli sia salvata la vita e sia rilasciato. Siria. Erdogan e Assad sull’orlo della guerra. La mappa delle alleanze di Giordano Stabile La Stampa, 20 febbraio 2018 Il regime manda le truppe ad Afrin assediata dalle bombe di Ankara. La mossa imbarazza Putin. Israele finanzia i ribelli nel Golan. Gli sviluppi ad Afrin complicano ancora una volta i piani di Putin in Siria ed Israele è pronta ad approfittarne per mettere in difficoltà Damasco. Ieri un convoglio di milizie alleate del governo di Bashar al-Assad è arrivato nel capoluogo del cantone curdo, assediato da tre lati dall’esercito turco e dai ribelli arabi schierati con Ankara. La situazione per i guerriglieri dello Ypg sta diventando insostenibile. Afrin è isolata dal resto dei territori curdi e può essere rifornita solo attraverso le zone sotto controllo governativo. I curdi hanno perso mille uomini e hanno chiesto aiuto ai governativi, che pure sono loro avversari in altre zone. Ma nell’area vicina ad Aleppo è diverso. Gli appelli dei curdi sono stati raccolti da milizie sciite locali, come quelle di Nabal e Zahraa, che hanno combattuto accanto allo Ypg contro i ribelli islamisti appoggiati dalla Turchia durante la battaglia di Aleppo. Teheran, su loro richiesta, ha fatto pressione su Damasco. Assad ha risposto che preferiva far intervenire l’esercito regolare, a patto che i combattenti dello Ypg deponessero le armi. Ma poi ha ceduto e ha lasciato affluire le milizie sciite. Quest’ultimo sviluppo ha mandato su tutte le furie la Turchia. Erdogan ha discusso con Putin e ha ribadito che l’esercito turco “continuerà la sua avanzata verso Afrin”. Se i miliziani filo-Assad sosterranno i guerriglieri curdi dell’Ypg, ha minacciato, “ci saranno conseguenze”. Cioè il rischio di uno scontro diretto fra forze turche e governative, come mai è successo in sette anni di guerra. Putin è così costretto a scegliere fra Turchia e Iran. Può ostacolare l’offensiva turca se nega l’accesso allo spazio aereo siriano all’aviazione di Ankara. Ma rischia di spingere Erdogan a ricucire l’alleanza con gli Stati Uniti, incrinata proprio dall’appoggio a curdi da parte di Washington. Del passo falso approfitta Israele. Dal 2013, quando è cominciato l’intervento di Hezbollah e dei Pasdaran, ha compiuto un centinaio di raid contro depositi e convogli di armi iraniane. Ma ora il suo intervento è più diretto: nell’area del Golan, è emerso, appoggia con armi e finanziamenti sette gruppi ribelli anti-Assad. Netanyahu aveva chiesto ai russi una zona “senza iraniani” profonda 60 km. Ne ha ottenuta una di soli 5 km. E ora passa alle contromisure. La dottrina siriana di Erdogan si basa sulla lotta ai curdi dello Ypg e la paventata revisione del Trattato di Losanna del 1923. Ankara rivendica parti delle province settentrionali di Idlib, Aleppo, Raqqa e Hasakah e punta a creare “zone cuscinetto”, protettorati gestiti da truppe turche e ribelli anti-Assad, con un duplice scopo: annessioni di fatto, cacciare lo Ypg dalle aree curde. L’alleanza fra curdi e americani l’ha spinta a rovesciare le sue alleanze. Si è unita alla Russia, il principale alleato di Assad, pur di sconfiggere lo Ypg. L’Iran ha costruito una rete di basi a supporto delle milizie sciite alleate. In Siria ci sono ora 20-30 miliziani iracheni, e 10 mila afghani, inquadrati da ufficiali dei Pasdaran. Con i russi gli iraniani condividono la base T4 a Palmira, ma ci sono anche tensioni: Mosca è contraria a provocazioni contro Israele. Teheran ha un rapporto ambiguo sia con la Turchia che con i curdi. È ostile ai curdi nell’Est, li sostiene ad Afrin. Appoggia le azioni turche anti-Usa ma combatte i suoi alleati arabi, Jaysh al-Khor e Ahrar al-Sham, islamisti sunniti. Il governo Assad è uno dei perni dell’asse sciita della “resistenza” anti-Israele. Dopo essere stato sull’orlo della sconfitta nel 2013 e poi nel 2015, ora Assad controlla il 65% del territorio e l’80% della popolazione. Il regime, soprattutto l’esercito, ha però conservato i rapporti storici con l’Urss, ora incarnata dalla Russia di Putin, più “laici” e in funzione anti-americana. La Turchia è stata il principale avversario assieme all’Arabia Saudita, per l’appoggio agli insorti sunniti. I rapporti restano tesissimi, nonostante la mediazione russa. I curdi siriani si sono dati un autogoverno dopo il ritiro delle forze governative dal Nord-Est della Siria, fra il 2012 e il 2013. Il potere è monopolizzato dal Pyd (Partito dell’Unità Democratica) e dal suo braccio armato Ypg, con ideologia laica e socialista. Il Pyd è nato su impulso del Pkk dopo che Assad padre si era accordato con la Turchia ed espulso il leader Abdullah Ocalan. I curdi hanno un rapporto ambivalente con Damasco. Li uniscono i nemici comuni: Turchia e gruppi jihadisti sunniti. Li divide l’alleanza dello Ypg con gli americani. In Siria hanno prima appoggiato gruppi ribelli “moderati” in funzione anti-Assad. A partire dalla fine del 2013, con la prevalenza sul terreno di Al-Qaeda e poi dell’Isis, hanno cambiato strategia e puntato sui curdi per stoppare lo Stato islamico senza dover riconoscere il regime, e per garantirsi una “testa di ponte” in funzione anti-Iran e anti-Russia. Hanno ora 13 basi e 2000 militari nel Nord-Est. Hanno rapporti ambigui con la Turchia: non vogliono rompere con un Paese chiave della Nato ma neppure abbandonare i curdi. È intervenuta il 30 settembre 2015 a fianco di Bashar al-Assad. Ha inviato fino a 50 cacciabombardieri ed elicotteri d’assalto. Dispone di una base aerea a Hmeimim, una navale a Tartus, e una avanzata vicino a Palmira. Sul terreno la sua azione affianca quella di Hezbollah e iraniani, ma non è un’alleanza organica. Con i curdi dello Ypg i rapporti sono ambigui. Li sosteneva ad Afrin, ma li combatte, in quanto alleati degli Usa, nella provincia di Deir ez-Zour. Mosca non è entusiasta dell’aiuto di Assad ai curdi perché guasta i suoi rapporti con la Turchia. Sudan. Proteste contro il carovita, rilasciati oltre 80 detenuti politici Nova, 20 febbraio 2018 Le autorità sudanesi hanno rilasciato più di 80 detenuti politici arrestati in seguito alle proteste contro il carovita delle ultime settimane. È quanto riferito dall’assistente presidenziale Abdel Rahman Sadiq al Mahdi nel corso di una conferenza stampa tenuta ieri a Khartum. Tra le persone rilasciate, come riferisce il quotidiano “Sudan Tribune”, ci sono Sarah Nugdalla, segretaria generale del Partito della Nazione (Partito Umma), il giornalista Amal Habani, e tre figli del leader del Partito della Nazione, Sadiq al MahdiRestano in carcere invece il segretario del Partito comunista sudanese, Mohamed Mukhtar al Khatib, e il leader del Partito del Congresso sudanese, Omar al Digair. Il rilascio dei detenuti giunge dopo che la scora settimana l’ambasciata degli Stati Uniti a Khartum si è detta “profondamente preoccupata” dalle “centinaia di arresti” di esponenti dell’opposizione effettuati in Sudan nelle ultime settimane a seguito delle proteste contro il carovita. In una nota diffusa giovedì scorso, l’ambasciata Usa si è inoltre detta allarmata dalle condizioni di detenzione nelle carceri sudanesi, descritte come “disumane”, denunciando i trattamenti “degradanti” nei confronti dei detenuti e gli ostacoli all’accesso dei detenuti a un avvocato e alle loro famiglie. Dallo scoppio delle proteste, il 6 gennaio scorso, le forze di sicurezza sudanesi hanno represso le sporadiche proteste contro l’aumento dei prezzi in diverse città arrestando diversi esponenti dell’opposizione tra cui il numero due del Partito della Nazione (Umma), Fadlalah Burma Nasir, e il segretario generale del Partito comunista sudanese, Mokhtar al Khatib. Oltre agli esponenti politici di opposizione, un totale di 15 giornalisti sono stati arrestati nell’ambito delle proteste, nelle quali è rimasto ucciso anche un manifestante. Nelle scorse settimana le ambasciate europee a Khartum hanno chiesto alle autorità sudanesi di liberare le decine di manifestanti, oppositori politici e attivisti arrestati durante le recenti manifestazioni contro il rincaro del pane. “Condanniamo le violenze usate contro manifestazioni pacifiche e continuiamo a incoraggiare coloro che esercitano i loro diritti fondamentali a farlo pacificamente”, si legge in una dichiarazione congiunta ripresa dal quotidiano in lingua inglese “Al Arabiya”. “Gli ambasciatori dei paesi membri Ue presenti in Sudan sono molto preoccupati per la detenzione prolungata senza processo di un gran numero di leader politici, attivisti dei diritti umani e altri cittadini”. In precedenza la Casa Bianca aveva denunciato in una nota “gli abusi, la detenzione arbitraria e gli attacchi contro i giornalisti” nel paese, esprimendo “profonda preoccupazione per la libertà di espressione, la repressione dello spazio politico per i cittadini sudanesi e la scarsa tutela dei diritti umani in Sudan”. Le proteste sono scoppiate contro il rincaro dei prezzi del pane, che sono raddoppiati come conseguenza dell’incremento del prezzo della farina, dovuto a sua volta alla decisione del governo di sospendere le importazioni di grano, affidandole ai privati. Nel 2013 i tagli del governo di Khartum dei sussidi al carburante provocarono violente proteste in tutto il paese, sfociate nella morte di più di 80 persone.