“Le aree riservate del 41bis vanno chiuse”, parola di Garante di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 febbraio 2018 Il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma non ha dubbi: le “aree riservate” del 41bis vanno chiuse. Lo ha scritto a chiare lettere in “Norme e normalità”, una raccolta delle Raccomandazioni indirizzate in questo primo anno di attività all’Amministrazione penitenziaria dopo le visite fatte a 59 Istituti di detenzione, nelle diverse sezioni di tutti i livelli di specialità e sicurezza, incluse, appunto, tutte le sezioni del 41bis. Parliamo del super 41bis già denunciato da Il Dubbio, una forma di carcerazione dove viene inasprito ulteriormente la carcerazione speciale. Si tratta di un regime dove i detenuti sono tenuti in isolamento pressoché totale, in celle buie, spesso situate sottoterra, e minuscole. Nella Raccolta di Mauro Palma, curata dall’Unità operativa Privazione della libertà in ambito penale e coordinata da Daniela de Robert, si legge che alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 204/ 1974 secondo cui sussiste un “obbligo tassativo per il legislatore di tenere non solo presenti le finalità rieducative della pena, ma anche di predisporre tutti i mezzi idonei a rea- lizzarle e le forme atte a garantirle”, nonché della sentenza della Corte stessa n. 313/ 1990, il Garante nazionale raccomanda che il regime del 41bis, che sospende esplicitamente le “normali regole di trattamento”, non si traduca mai nella parallela sospensione dei diritti fondamentali della persona e che “le misure adottate escludano scrupolosamente questo facile scivolamento”. Mauro Palma, spiega che non può esimersi dal formulare le proprie riserve sul fondamento normativo delle cosiddette “aree riservate”, presenti nella gran parte degli Istituti che ospitano le sezioni del 41bis. Ricorda che il Comitato europeo per la prevenzione sulla tortura (Cpt) già dal 2004 e ribadito nel 2008, ha posto la questione. Il governo italiano, nella sua risposta ha indicato come base normativa delle “aree riservate” l’articolo 32 del Regolamento di esecuzione dell’Ordinamento penitenziario. Si tratta di un articolo che riguarda l’assegnazione e il raggruppamento dei detenuti per motivi cautelari e al comma 3 recita: “Si cura, inoltre, la collocazione più idonea di quei detenuti e internati per i quali si possano temere aggressioni o sopraffazioni da parte dei compagni. Sono anche utilizzate apposite sezioni a tal fine, ma la assegnazione presso le stesse deve essere frequentemente riesaminata nei confronti delle singole persone per verificare il permanere delle ragioni della separazione delle stesse dalla comunità”. Ed è qui che il Garante esprime il proprio dubbio che tale articolo possa determinare la situazione che di fatto si verifica nelle “aree riservate”, di ridotta possibilità di associazione con altri detenuti, già molto ristretta nel regime del 41bis, di tendenziale isolamento o “di allocazione con un altro detenuto, al fine di evitare che si configuri una situazione di isolamento totale, sanzionabile dagli Organi di controllo internazionale”. Come già spiegato da Il Dubbio, quest’ultimo condizione è una creazione dell’amministrazione passata che, per evitare accuse di disumanità, ha dovuto inventarsi di trovare per ogni detenuto isolato in queste condizioni quello che nel gergo carcerario viene definito “dama di compagnia”, ovvero un altro detenuto sacrificato per dare una parvenza di umanità. Cosa significa? Oltre ai mafiosi di grosso calibro, vengono sacrificate altre persone che appartengono alla mafia di “basso rango”. Mauro Palma, a fronte di tutte queste sue osservazioni, raccomanda pertanto che si ponga fine alla previsione di apposite sezioni di “area riservata” all’interno degli Istituti che ospitano le sezioni del 41bis. “Quella tremenda esperienza nelle celle dell’Asinara” di Carmelo Musumeci* Il Dubbio, 1 febbraio 2018 Era il 1992 quando dal carcere di Pisa fu trasferito in Sardegna e tenuto per mesi in punizione. L’articolo di Damiano Aliprandi, pubblicato su Il Dubbio il 24 gennaio 2018, sulle “aree riservate”, dove vengono ulteriormente isolati i detenuti già sottoposti al regime di tortura del 41bis, mi ha fatto pensare all’esperimento svolto nel 1971 in un’università statunitense, diretto dal professore Philip Zimbardo. Per quell’esperienza furono scelti ventiquattro studenti maschi, che dovevano partecipare ad una simulazione di vita carceraria. Alcuni presero i ruoli di prigionieri, altri di guardie. I risultati di questo esperimento ebbero dei risvolti così drammatici da indurre ben presto gli autori dello studio a sospenderlo, perché sia le guardie che i prigionieri si erano identificati in maniera forte e ossessiva al proprio ruolo. Un po’ com’è accaduto realmente nella prigione di Abu Ghraib in Iraq, quando i “buoni” soldati americani, in nome della lotta al terrorismo e contro il male, iniziarono a torturare i cattivi prigionieri iracheni. La lettura dell’articolo di Aliprandi mi ha ricordato anche quanto è capitato a me. Era l’anno 1992. Ero appena stato sottoposto al regime di tortura del 41bis, nel carcere di Pisa, subito dopo fui trasferito nel carcere di Cuneo e dopo alcuni giorni deportato all’isola dell’Asinara, nella famigerata sezione “Fornelli”. Appena scesi dall’elicottero vidi un centinaio di guardie, in tuta mimetica, che circondarono me e altri prigionieri già atterrati in un campo. Subito si scatenò la loro furia. E la paura dei detenuti. Molti furono immediatamente inghiottiti dalla marea di guardie che avanzava implacabile. Io e altri detenuti tentammo di metterci con le spalle al muro. Fu un grande errore, perché le guardie pensarono che volessimo resistere. E si accanirono ancora di più contro di noi. Mentre cercavo in tutti i modi di ripararmi dalle botte, vidi con la coda dell’occhio un compagno accanto a me prendere una manganellata sui denti e crollare faccia a terra davanti ai miei piedi. Mi sforzai di rimanere calmo, ma non era per niente facile. Strinsi i denti per farmi coraggio. Sentii il sudore calarmi sulla schiena. Subito dopo le manganellate mi arrivarono da tutte le parti. Mi mancava il respiro. Caddi molte volte per terra. Ogni volta che mi rimettevo in piedi, prendevo sempre più colpi. Decisi di rinunciare a rialzarmi. E mi rannicchiai per terra proteggendomi la testa con le braccia, ma i colpi di manganello mi arrivarono lo stesso da ogni lato. Il sangue mi colava dalla bocca. E ne avvertivo il sapore aspro. All’improvviso mi arrivò un calcione in un orecchio. E vidi le stelle a portata di mano. Mi toccai i capelli imbrattati di sangue. E per la prima volta nella vita ebbi paura di morire. Poi uno strano silenzio mi piombò in testa. Sentii le forze abbandonarmi. E dopo non vidi più nulla. Come se all’improvviso fosse calata la notte. Caddi in un vortice nero. Mi sembrò di scendere nelle viscere dell’inferno. E non capii più se ero vivo o morto. Mi sembrò di sognare che mi trascinavano per un lungo corridoio, per poi gettarmi come un sacco di patate. L’indomani mi svegliai dentro una lurida cella con una minuscola finestra in alto. E un grosso blindato dall’altro lato. La cella era buia, angusta e umida. Sul soffitto c’era una piccola lampadina rotta, incastonata in una minuscola grata. E non c’era nessun tipo di arredamento. La chiamavano la cella liscia. Sembrava una piccola tomba. Mi tennero senza curarmi per mesi e mesi, sempre in quella cella di punizione. I giorni e le notti non ebbero più confini per me. Le guardie mi ingiuriavano e mi maltrattavano tutti i giorni. In seguito, un giorno sì e uno no. Io non gridavo. Non mi lamentavo. Non urlavo, tanto nessuno mi avrebbe ascoltato. Riuscii, però, a trovare una grande pace interiore, perché pensavo che i miei carcerieri non erano migliori di me e sperai di non diventare mai così cattivo come i buoni quando sono convinti di lottare contro il male. *Carmelo Musumeci è nato nel 1955 in Sicilia. Condannato all’ergastolo, è ora in regime di semilibertà nel carcere di Perugia. Ha trascorso buona parte della sua vita in carcere e da questa esperienza scaturiscono i suoi scritti e i suoi romanzi. Ha sempre studiato in carcere da autodidatta fino a conseguire tre lauree: nel 2005 in Scienze Giuridiche, nel maggio 2011 in Giurisprudenza; nel 2016 in Filosofia. Nel suo ultimo libro “La Belva della cella 154” affronta il tema dell’ergastolo e del carcere duro. 5.600 detenuti in sciopero della fame con Rita Bernardini, per l’Ordinamento penitenziario Adnkronos, 1 febbraio 2018 Sono più di 5.600 i detenuti e i loro familiari che fino a ora hanno aderito allo sciopero della fame, promosso da Rita Bernardini e dal Partito radicale, per chiedere alle commissioni Giustizia di Camera e Senato di approvare in tempi rapidi la riforma sull’ordinamento penitenziario. “Una mobilitazione - spiega Bernardini che è in sciopero della fame da nove giorni- che ha come obiettivo anche quello di chiedere al governo Gentiloni di recuperare con dei decreti integrativi alcune parti fondamentali della riforma che ancora non sono state approvate, come quella sul lavoro, sull’affettività e sui minori”. Serracchiani (Conferenza Regioni): incertezza finanziaria su parte riforma carceri Askanews, 1 febbraio 2018 “Provvedimento atteso da tempo e per molti aspetti molto positivo”. Su alcuni aspetti della riforma del sistema penitenziario ci sono incertezze finanziarie che “vanno affrontate”. A spiegarlo è stata la presidente della Regione Friuli Venezia Giulia, Debora Serracchiani. che oggi ha guidato i lavori della Conferenza delle Regioni. “Quella del sistema penitenziario, è una riforma importante che tutte le Regioni hanno apprezzato. Abbiamo infatti espresso parere favorevole condizionato, però, all’accoglimento di alcune osservazioni perché su determinati aspetti, in particolare la tutela dei detenuti che hanno problemi di salute mentale, c’è un’incertezza finanziaria. Quindi, alcune regioni - ha spiegato - hanno ritenuto di esprimere un parere negativo per l’incertezza degli aspetti finanziari, ma la riforma dell’ordinamento penitenziario resta una riforma attesa da tempo e assolutamente una buona riforma”. Diritti dei detenuti. Le Acli presentano un ricorso contro la Legge Fornero Il Roma, 1 febbraio 2018 “Un ricorso, promosso dalle Acli provinciali di Napoli che mira a portare di fronte alla Corte costituzionale l’articolo 2 della Legge Fornero che, ai commi 58 - 63 dispone, per alcuni gravi reati, che il condannato sia privato delle indennità di disoccupazione, assegno sociale o pensione per gli invalidi civili, qualora ne fosse beneficiario. Tale norma prevede che la sospensione di questi trattamenti sociali avvenga non soltanto come sanzione accessoria disposta dal giudice, ma addirittura come provvedimento disposto d’ufficio dall’Inps”. L’iniziativa è stata annunciata nel corso di una conferenza stampa, svoltasi nel palazzo del Consiglio regionale della Campania, con la partecipazione del vice presidente vicario, Tommaso Casillo, del garante dei detenuti della Regione Campania, Samuele Ciambriello, del presidente provinciale delle Acli Napoli, Gian Vincenzo Nicodemo, di Rita Bernardini, già parlamentare dei Radicali, e di Maurizio D’Ago, legale delle Acli Napoli. “Non ero a conoscenza che la legge Fornero, che ha già penalizzato fortemente lavoratori e pensionati, fosse intervenuta in maniera così pesante anche per sottrarre diritti ai detenuti e a chi, commesso un reato e pagato il prezzo con la giustizia, vede annientare la propria vita contributiva e viene privato di un diritto costituzionalmente garantito”, ha detto il vice presidente Casillo, che ha sottolineato: “Il ricorso presentato da Acli è una battaglia morale e sostanziale molto importante a tutela dei diritti costituzionalmente garantiti e la sosteniamo insieme con il Garante dei detenuti, Ciambriello, che si è confermato una scelta efficace in questo importante ruolo. La legge Fornero è un tema sociale da affrontare con urgenza e auspico che il nuovo Parlamento lo faccia in quanto è un dovere morale, politico, sociale ed umano a cui tutte le forze politiche devono dare il proprio contributo”. Per Ciambriello “la tutela dei diritti delle persone detenute è tra i compiti che il consiglio regionale si è dato nel momento in cui ha istituito il Garante - per il quale -si continua a considerare il mondo della detenzione come il mondo della “vendetta” dello Stato nei confronti di chi delinque”. Umiliati da Orlando, i giudici onorari bloccano i tribunali di Carlo Di Foggia Il Fatto Quotidiano, 1 febbraio 2018 Per evitare di assumerli diventano “autonomi”: senza diritti per fare fino a 80 procedure a 200 euro. Stop a decine di migliaia di processi per lo sciopero contro la riforma che rende le 5 mila toghe precarie ancora più precarie. L’ultima follia è di due settimane fa. Con una circolare, il ministero della Giustizia ha imposto che ai magistrati onorari venga modificato il tesserino di riconoscimento, il badge che gli permette pure di entrare in Tribunale senza passare dall’ingresso del pubblico. Gli va tolta la dicitura “Valido ai fin del porto d’armi anche senza licenza”. Il motivo? Non sono ordinari, fanno parte di una magistratura “prevista come meramente eventuale”. Come se fossero di passaggio e non un pilastro del sistema giudiziario. La circolare è l’ultimo effetto della riforma voluta dal ministro Andrea Orlando che sta scatenando una rivolta. Da settimane le toghe onorarie sono in sciopero. Il 22 gennaio sono partiti i 1.400 giudici di pace; lunedì scorso si sono aggiunti i 2.100 Giudici onorari dei tribunali (Got) e i 1.784 viceprocuratori onorari (Vpo). Durerà fino a venerdì. L’effetto è dirompente: centinaia di migliaia di processi rinviati e tribunali paralizzati. Per capire perché lo Stato abbia voluto umiliare 5 mila suoi collaboratori serve partire dall’inizio. Le toghe onorarie esistono in questa versione (cui si accede per concorso) dagli anni 90. Svolgono un ruolo essenziale per la giustizia, ma sono pagati a cottimo: 73 euro netti al giorno, per decine di processi. Dovevano durare massimo 6 anni e invece di proroga in proroga sono ancora qui. Senza nessun diritto. Il guaio è che la Commissione Ue ha stabilito che questi lavoratori, pur essendo di fatto subordinati, vengono trattati come autonomi: niente ferie, malattie, maternità o pensione. Nulla. Per evitare di venire condannato a doverli assumere - come accaduto con i precari della Pa - il governo ha risolto la cosa a modo suo. Niente assunzione né abolizione, Orlando - su pressione dell’Anm, l’associazione dei magistrati in carriera - si è inventato una riforma che li rende ufficialmente lavoratori autonomi: tetto alla retribuzione a 700 euro netti al mese per massimo due giorni a settimana. Ovviamente quelli effettivi di lavoro sono di più, perché bisogna studiare i fascicoli o scrivere le sentenze. Siccome con questi paletti i tribunali si bloccherebbero, la riforma impone nuove assunzioni: più precari, stessa spesa, cioè stipendi tagliati per tutti. Che costringere lavoratori ad amministrare la giustizia a ritmo di 200 euro lordi per 80 processi non sia una buona idea lo pensano pure i Procuratori. In 108 hanno chiesto a Orlando di optare per “l’ufficio del processo”, stabilizzandoli senza equipararli alle toghe ordinarie. Niente da fare. I magistrati onorari ora promettono scioperi a oltranza. La rabbia monta anche perché l’Inail ha dato il via alle richieste dei contributi. L’Inps lo farà a breve: il costo di previdenza e assicurazione antinfortunistica verrà detratto dallo stipendio. Poi ci sono altri deliri. Il presidente del tribunale di Reggio Calabria, per dire, ha imposto che le udienze dei Got terminino entro le 14 (come se di- pendesse da loro), per evitare che, superando le 5 ore di lavoro, la paga debba essere raddoppiata. Con lo stop dei giudici di pace (gli unici pagati decentemente, ma che la riforma ora mette nello stesso calderone) sono stati già rinviati 400 mila processi. Con lo sciopero dell’intera magistratura precaria si calcola che ne salteranno altri 6-700 mila. E così è la paralisi. Solo per dare l’idea, a Napoli sono saltati pure i processi collegiali (senza detenuti) della Direzione Antimafia per estorsione nei confronti di affiliati ai clan di camorra (non a caso nel 2014 il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti scrisse a Orlando chiedendo di stabilizzare Got e Vpo). Solo nel capoluogo campano salteranno 800 esecuzioni mobiliari. “Parliamo di casi anche delicati, come assegni non pagati al coniuge o lavoratori che devono avere i loro, oppure persone creditrici di Equitalia - racconta Giulio Calogero, Got civile - Siamo in dieci, e solo nell’ultimo trimestre ho definito 570 procedure, in media ne abbiamo 80 a settimana”. La sua storia è finita anche in Parlamento: nel 2013 è stato operato per un carcinoma, ma è dovuto rientrare a lavoro dopo 30 giorni per non essere sostituito: “Non mi hanno riconosciuto un giorno di malattia, ho lavorato anche in terapia”. “Al sud seguono processi con imputati al 41bis in video conferenza, o con parenti in aula - racconta Paola Bellone, del Movimento 6 luglio - A un collega sono state tagliate le gomme, un altro si è trovato una testa di cane in macchina. Ad altri hanno sparato contro l’auto. In Piemonte ci sono colleghi malati di Sla che lavorano”. C’è anche questo mondo dietro le statistiche sui “giudici italiani più produttivi d’Europa”. Chissà se lo saranno ancora dopo che quelli “eventuali” avranno gettato la spugna. Orlando: “La mafia? Attenti, è l’unico ascensore sociale” di Errico Novi Il Dubbio, 1 febbraio 2018 Il ministro: ecco i risultati degli Stati Generali della lotta alle cosche. Primo: non semplificare. “Scordatevi la mafia stragista degli anni Novanta, o peggio una riedizione del Padrino. Preoccupatevi di capire se il notaio a cui vi siete rivolti non sia uno degli anelli di una nuova catena”. Andrea Orlando presenta i risultati degli “Stati generali della lotta alle mafie” con un invito di fondo: uscite dai vecchi schemi. A poco più di due mesi dall’evento di apertura dei lavori, il guardasigilli mette sul tavolo una “Carta di Milano” con dieci tesi sul contrasto alle cosche. “Abbiamo coinvolto 220 esperti, rappresentanti della magistratura, dell’avvocatura e del giornalismo”. Di fianco al ministro della Giustizia, alla sala convegni della Galleria Colonna, c’è la presidente della commissione Antimafia Rosy Bindi. La quale è costretta dalle circostanze a ripetere una mezza dozzina di volte che “a Parlamento sciolto la Bicamerale non ha poteri d’inchiesta, ecco perché non abbiamo potuto verificare gli impresentabili nelle liste”. Bindi ha un approccio meno imprevedibile, chiede ai partiti di “cercare il consenso buono”. Difende a spada tratta i “rigori del 41bis” contro i quali “sì, ci sono le bandiere della commissione Diritti umani del Senato, ma tutti i cittadini sono d’accordo sul fatto che i delinquenti debbano essere trattati da delinquenti”. Frase un po’ ambigua che sembra quasi legittimare la violazione dello stato di diritto spesso consumata nelle carceri. Uno sfregio a chi si batte per riportare le istituzioni nella legalità, a cominciare proprio da quel Luigi Manconi che ha presieduto, in questa legislatura, la commissione quasi derisa da Bindi. Orlando: “mafia come ascensore sociale” - Assai meno ossequiose della tradizionale liturgia antimafiosa sono invece le conclusioni che trae Orlando, dopo l’esposizione del professor Gaetano Silvestri, che ha coordinato il Comitato scientifico degli Stati generali: “Ci siamo concentrati su tre punti chiave: i varchi possibili di infiltrazione delle mafie, la loro nuova dimensione globale e i nessi con la sempre più scarsa mobilità sociale”, dice il ministro. Che non teme di sfidare i profeti della cultura della legalità e ricorda come “in molte realtà del Paese le organizzazioni criminali siano l’unico ascensore sociale rimasto”. Questo, aggiunge il guardasigilli, “chiama in causa, più che l’aspetto repressivo, la capacità di fare sviluppo, di utilizzare al meglio le risorse pubbliche”. È un attacco da sinistra, ma non dalla sponda più moralistica della sinistra, anzi: “Spesso le mafie sostituiscono i corpi intermedi che con il tempo si sono indeboliti. Cos’è la camorra, in certe periferie del Napoletano, se non il surrogato perverso di uno Stato sociale che non esiste più?”. Ancora: “Cosa sono alcuni apparati criminali dei corpi intermedi se non il residuo di un sistema della rappresentanza che non ha più strumenti?”. Messo così, l’esito degli Stati generali non pare evocare affinamenti legislativi capaci di qualificare Buzzi e Carminati come mafiosi: “Più che di mafia, dovremmo sentirci chiamati a parlare di Stato sociale, di come si ricostruiscono i corpi intermedi e di chi, con fatica, cerca di farli sopravvivere”. Bindi: “gli ordini? sembrano logge” - Bindi è chiamata a intervenire per la sinergia che gli Stati generali hanno stabilito con la sua commissione, ma è evidente che si trova su una barricata quasi opposta a quella di Orlando. Arriva persino a lanciare fendenti contro “gli Ordini professionali: sarebbero concepiti per attuare l’ordinamento della professione nell’interesse e a protezione dei cittadini: spesso invece si riducono a corporazioni, addirittura a corpi separati che paiono logge massoniche, e nei confronti dell’ordinamento generale si comportano appunto da ordinamento separato”. Un assist perfetto ai giornalisti emiliani che hanno risposto col linciaggio mediatico all’ipotesi di un “Osservatorio sull’informazione giudiziaria” avanzata dall’avvocatura di Reggio Emilia. Lo stesso Orlando non risparmia per la verità attacchi ai partiti che “con prassi come le clientele e il nepotismo evocano a volte le organizzazioni criminali: meglio qualche manifestazione in meno e qualche esame di coscienza in più sul proprio grado di mafiosità”. Ma meglio anche, a proposito di giornalisti, “pubblicare qualche intercettazione in meno e qualche inchiesta in più sui nuovi tratti della mafia, strettamente connessi al tema della sostenibilità ambientale”. Lo slogan dei lavori guidati da Silvestri potrebbe essere “la mafia non ha vinto ma non si può dire che abbia perso”, secondo il guardasigilli. “Ma se vogliamo rendere durature le vittorie”, aggiunge, “serve unità: la legislatura è iniziata con la divisione manichea tra gli antimafiosi che si riconoscevano in quanto decisi a punire un certo reato con 8 anni di carcere e i presunti fiancheggiatori che si fermavano a 5 anni: roba superata. Ora tocca alle forze politiche evitare di usare la mafia in modo propagandistico” Quei figli (mafiosi) dell’era digitale di Hermes Mariani La Repubblica, 1 febbraio 2018 Doppiopetto, accento british e ventiquattro ore: lo stereotipo del mafioso moderno è servito. Sono in tanti a pensarla così, eppure l’evidenza empirica ci dice altro, il mafioso resta nel tempo antropologicamente più simile a se stesso di quanto si possa immaginare. Ma le generazioni cambiano e internet è oggi nelle tasche di chiunque. Emergono nuove modalità di comunicare, grazie alla messaggistica istantanea e ai social network: è il web 2.0. Nuove forme socio-tecnologiche dunque, realtà online in profonda continuità con i processi già attivati nella vita “reale”, offline, che permettono di comunicare con chiunque, in qualunque luogo e in ogni momento e che fanno dell’individuo un medium. Così anche i mafiosi e i loro figli per primi, si ritrovano ad avere un profilo Facebook. È il caso di Salvo Riina, figlio di Totò u curtu, “la belva”, che si reinventa scrittore dopo una condanna per mafia e pubblicizza su Facebook il suo libro, “Riina Family Life”. E sempre su Facebook decide di salutare pubblicamente suo padre morente, seguito da decine e decine di persone che commentano “baciando le mani” al “capo dei capi”, temuto e riverito fino all’ultimo dei suoi giorni. Uomo d’onore perché “rimasto muto fino alla fine”. Ma la creatura di Zuckerberg non viene utilizzata solo per fare le condoglianze alla famiglia del boss dei Corleonesi. Su Facebook gli Spada parlano e danno ordini. È quello che succede a Ostia, X Municipio di Roma (sciolto per mafia), dove Roberto Spada, prima ancora della famigerata testata, ha espresso la propria preferenza di voto per il candidato di Casapound con un post pubblico. Molto attivo sui social, Roberto, fratello del boss Carmine, detto “Romoletto”, avrebbe minacciato la giornalista Federica Angeli - che denunciava i traffici del clan - dandole della “scrofa giornalaia”. Controllo del voto e intimidazioni, ma non solo. Roberto Spada sa usare Facebook a 360 gradi, gestendo le pagine del bar e della palestra di famiglia, oltre che per salutare gli “amici carcerati” durante le feste comandate. “Sei bella come una questura che brucia”, la dedica scritta da un giovanissimo camorrista del rione Sanità sul suo profilo, dove posa con armi in mano, ostenta ricchezza e potere. Sì perché ciò che un tempo veniva fatto fisicamente per le strade ora si fa nelle piazze virtuali. Figli dell’era digitale, anche i rampolli della ‘Ndrangheta hanno dimostrato di saper coniugare l’arcaica cultura mafiosa con le moderne forme di comunicazione messe a disposizione dai social network. E così si taggano nei locali con costose bottiglie in mano, in fotografie armati fino ai denti o in video rap inneggianti alla mafia. Trasmettono messaggi all’esterno del clan, in una piazza virtuale che, però, non rimane tale: perché le armi, le intimidazioni, il fuoco, sono veri. Sanno che utilizzare i social network li espone e attira l’attenzione, ma lo fanno lo stesso. Sono consapevoli dell’enorme portata dei loro messaggi e degli effetti che questi hanno tra i loro conterranei, non solo tra i più giovani. Mafiosi moderni, più spregiudicati dei loro padri, che non mantengono più un basso profilo come i loro nonni. Hanno il potere e lo vogliono ostentare, tutti devono sapere chi comanda. Tutti devono sapere cosa sono disposti a fare per mantenerlo. Veicolano cultura mafiosa in rete, indicando lo Stato, gli sbirri, gli infami come nemici pubblici. “Non vedo, non sento, non parlo”. Invece parlano, e parlano molto. Messaggi intimidatori, indicazioni di voto, dimostrazioni di forza, controllo del territorio, messaggi d’affetto per amici e parenti carcerati. La cultura mafiosa viaggia anche tramite pagine Facebook da decine, centinaia di migliaia di fan: “Onore e Dignità”, “Noi carcerati”, “Il capo dei capi”. Cambiano i modi di comunicare, ma i messaggi sono sempre quelli. Cermis, vent’anni dalla tragedia. “Ferita aperta” di Valentina Leone Corriere del Trentino, 1 febbraio 2018 Venti vittime, nessun colpevole. Almeno per la giustizia militare statunitense, che processò e assolse pilota e navigatore dell’aereo della marina militare americana Grumman EA-6B Prowler che alle 15.13 del 3 febbraio del 1998 tranciò i cavi della funivia del Cermis, in val di Fiemme, facendo precipitare nel vuoto una cabina con a bordo venti persone. Morirono tutti: sette tedeschi, cinque belgi, due polacchi, due austriaci, un olandese e tre italiani, Marcello Vanzo (il manovratore della funivia, di Cavalese), Maria SteinerStampfl e Edeltraud Zanon - Werth (sciatrici entrambe brissinesi). Alla guida del velivolo, invece, il capitano Richard Ashby e il navigatore Joseph Schweitzer, mentre dietro erano seduti due addetti ai sistemi di guerra elettronica, William Rancy e Chandler Seagraves. Il mezzo decollò dalla base di Aviano, che in quegli anni veniva utilizzata dai militari statunitensi per le esercitazioni durante la guerra in Kosovo. La ricorrenza A vent’anni di distanza - dopodomani ricorre l’anniversario della tragedia - restano dunque dei fatti inoppugnabili, in primis il fatto che il mezzo, partito dalla base di Aviano, volava a bassissima quota e ad alta velocità; le testimonianze, concordi nel riferire che da tempo sui cieli della valle gli aerei militari compivano spericolate acrobazie ad altezze pericolosamente ravvicinate alle abitazioni; le perizie della magistratura italiana (poi dichiarata incompetente trattandosi di marines americani), che rintracciarono un pezzo di cavo rimasto incastrato nel velivolo, e perfino una confessione di Schweizer, giunta molti anni dopo i fatti, in un documentario d’inchiesta di National Geographic, il quale raccontò che a bordo portarono una videocamera amatoriale, il cui filmato originale venne però distrutto: “Ho bruciato la cassetta. Non volevo che alla Cnn andasse in onda il mio sorriso e poi il sangue delle vittime”. Una testimonianza che ha in qualche modo ravvivato l’ipotesi di un volo spericolato compiuto appositamente per girare un filmato-ricordo per il capitano, prossimo al rientro negli Stati Uniti. Quella cabina piena di sciatori, precipitata nel vuoto e schiantatasi a poca distanza dal greto dell’Avisio, resta una ferita mai rimarginatasi, alimentata dal dolore incolmabile per le famiglie che persero i loro cari e dall’amarezza di una giustizia che, al netto dei risarcimenti in denaro, non c’è stata. Solo Ashby, il pilota, fu infatti condannato a sei mesi di reclusione in un secondo procedimento affrontato insieme al collega Schweitzer per “intralcio alla giustizia” per aver distrutto il filmato. Per la condotta del volo, effettuato a bassissima quota e a velocità estremamente elevata, nessuno però è stato giudicato colpevole. La difesa dei due imputati puntò infatti sull’assenza della funivia dalle mappe in possesso dei militari, su presunti problemi all’altimetro e sula non conoscenza delle restrizioni di velocità. Klaus Stampfl, figlio di Maria Steiner-Stampfl e all’epoca a capo dell’associazione dei familiari delle vittime, oggi, forse dopo anni di speranze malriposte in un accertamento definitivo e ufficiale delle responsabilità, preferisce non rilasciare interviste o dichiarazioni. Chi, tra i rappresentanti delle istituzioni, ha ancora ben impresso nella mente quel tragico giorno è Luis Durnwalder, allora presidente della Provincia di Bolzano. “Ricevetti delle telefonate, appresi la notizia e ricordo che, anche con i miei collaboratori, restammo attoniti. Ricordo anche che nei giorni successivi emanammo una direttiva per verificare che in tutte le cartografie e in ogni sistema fossero segnalati tutti gli impianti esistenti nella nostra provincia. Credo comunque che il dramma più grande sia stato quello di una giustizia mai resa ai familiari delle vittime, che oltre al lutto hanno subito un torto nel non veder mai accertata la verità”. Ancora una volta il comune di Cavalese all’interno del quale, sorge, appunto, la località, si prepara ad accogliere autorità e parenti delle vittime che si riuniranno in occasione della commemorazione annuale, in programma per sabato mattina. Anche per gli abitanti, comunque, quella provocata dalla strage del Cermis è “una ferita che stenta a rimarginarsi, anche a distanza di vent’anni - commenta il sindaco Silvano Welponer. Il paese è diviso tra chi vorrebbe stendere un pietoso velo sulla disgrazia - e personalmente, in qualità di cittadino, posso comprenderlo - e chi ritiene che sia doveroso tenere vivo il ricordo. Come rappresentante delle istituzioni credo si tratti di un preciso dovere etico e morale”. Al di là del dolore, ciò che è avvenuto, quel 3 febbraio di vent’anni fa ha offerto un insegnamento importante “che ora spetta a noi trasmettere ai posteri e ai nostri giovani - sostiene ancora il primo cittadino - Esistono dei limiti che non vanno superati, nemmeno da chi detiene particolari funzioni come nel caso dei piloti statunitensi”. Per il sindaco Welponer la “mancanza di rispetto per la vita altrui è intollerabile, non ha giustificazione alcuna. E dispiace che l’atteggiamento, a suo tempo, sia stato adottato coscientemente. Il nostro dovere - conclude il primo cittadino - è quello di trasmette un monito che è rivolto a tutti”. Sull’omicidio stradale sfuma l’attenuante della giovane età di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 1 febbraio 2018 Ai neopatentati è richiesta maggior prudenza alla guida altrimenti la pena è più severa. A seguito dell’entrata in vigore delle nuove norme in materia di omicidio e lesioni stradali la Cassazione ha chiarito alcuni cardini della responsabilità penale in materia di reati contro la persona collegati alla violazione delle norme sulla circolazione stradale. Ecco quali. natura delle nuove norme Il tema è stato trattato dalla sentenza 29721/17. Il conducente di un’auto, condannato nella fase di merito per avere investito mortalmente un pedone prima dell’entrata in vigore del reato di omicidio stradale, aveva invocato l’applicazione della nuova normativa ritenendola più favorevole della precedente perché concede un’attenuante speciale all’imputato se l’incidente non è conseguenza della sua esclusiva responsabilità. La Corte non ha escluso teoricamente tale possibilità, purché la pena in concreto irrogata non sia inferiore a quella applicabile grazie alla nuova attenuante. L’articolo 589 bis del Codice penale prevede infatti una fattispecie autonoma di reato interamente dedicata a tutelare il bene giuridico della vita, mentre l’abrogato articolo 589, comma 2, fa conseguire un’ipotesi di omicidio colposo aggravata, ad effetti speciali, dalla violazione delle norme sulla circolazione stradale. La conseguenza è che la pena minima per il vecchio reato - nel caso di equivalenza delle circostanze - è quella di 6 mesi prevista per l’omicidio colposo (articolo 589, comma 1), mentre per il nuovo non può essere inferiore a 2 anni: che, anche in caso di concessione della diminuente speciale e delle generiche, non possono scendere sotto gli 8 mesi. Con la sentenza 2403/17, la Corte - ribadendo il concetto che l’omicidio stradale è un reato autonomo rispetto all’omicidio colposo - ha spiegato che gli innalzamenti di pena legati alle aggravanti riguardano solo il conducente di un veicolo a motore, mentre in passato le aggravanti ad effetto speciale dell’uso dell’alcol o droghe facevano scattare gli aumenti di pena anche a carico di un pedone o ciclista. La sentenza 48249/17 ha infine chiarito che, per le lesioni stradali gravi e gravissime verificatesi prima del 25 marzo 2016, la competenza a procedere rimane al giudice di pace, mentre per i fatti successivi, come previsto dalla novella, la competenza esclusiva è del tribunale monocratico. Ciò alla luce della natura sostanziale, e non processuale, delle modifiche intervenute sulle caratteristiche essenziali del nuovo reato: inasprimenti sensibili di pena e introduzione della procedibilità di ufficio e non più a querela di parte. concessione delle attenuanti Il quadro che esce da diverse sentenze è quello di un atteggiamento estremamente rigoroso nella valutazione dei presupposti per le attenuanti. È stata ritenuta irrilevante la giovane età del conducente di un auto che, ubriaco, aveva causato un incidente mortale: ciò in quanto si pretende dai neopatentati estrema prudenza e rigoroso rispetto delle norme stradali, nonché assoluto divieto di guidare sotto la pur minima influenza di bevande alcoliche, proprio in considerazione della limitata esperienza di guida. Altrettanto la sua confessione, perché avvenuta dopo un’omissione e la raccolta delle prove a suo carico, così come il suo stato di incensuratezza, che di per sé non giustifica le attenuanti (n. 52121/17). Conforme la n. 23172/16. Non sono state concesse le generiche in considerazione della “inaudita gravità” di un incidente cagionato da un conducente ubriaco, visto che guidava anche per professione e quindi avrebbe dovuto essere più responsabile (n.2403/17). L’attenuante nel risarcimento del danno può essere concessa all’imputato anche se il pagamento sia stato effettuato per suo conto dall’assicurazione, purché l’imputato non manifesti contrarietà all’intervento e venga data rigorosa prova dell’effettivo e integrale pagamento a tutti i soggetti danneggiati (n. 29721/17). mandato di arresto europeo Il tema è stato affrontato dalla sentenza n. 27483/17. La Corte ha disposto l’espiazione in Italia di una condanna, inflitta dalla magistratura polacca, a 6 anni di reclusione per un incidente mortale con altri due feriti, da parte di conducente ubriaco, verificatosi in Polonia prima dell’entrata in vigore dell’omicidio stradale. Per la sussistenza del requisito della doppia punibilità in entrambi i Paesi è, infatti, sufficiente che l’ordinamento italiano contempli come reato il fatto per cui è chiesta la consegna dal paese straniero al momento della decisione sulla richiesta, e non quando il fatto è accaduto. Pena dimezzabile dalle “concause” Le severe pene edittali previste per i reati di omicidio e lesioni stradali sono state rese ancor più afflittive dal divieto di concessione delle circostanze attenuanti in prevalenza o equivalenza alle aggravanti, previsto all’articolo 590 quater del Codice penale. Tuttavia, è stata nel contempo introdotta, agli articoli 589 bis comma 7 e 590 bis comma 7, una circostanza attenuante speciale (“fino alla metà” della pena) per il conducente di un veicolo a motore la cui condotta non sia l’esclusiva causa dell’incidente. Il nuovo quadro normativo riverbera i propri effetti sul piano pratico: le indagini devono essere molto accurate per escludere l’esistenza di concause che possono avere escluso, o comunque attenuato, la responsabilità del conducente per un incidente con morti o feriti gravi. In quest’ottica, la scienza e la tecnica offrono un contributo essenziale al giudice, sul quale grava un onere motivazionale rafforzato se intende discostarsi dalle conclusioni dei tecnici. Lo ha ricordato la sentenza n. 3290/17, che ha riguardato il caso del dirigente di un ente locale imputato per la morte di un automobilista, il quale, percorrendo a velocità eccedente quella prescritta una curva su un tratto stradale più alto del terreno circostante, aveva perso il controllo dell’auto uscendo dalla strada - dove non era stato ripristinato un guardrail in passato divelto - e precipitando nella scarpata. La Corte ha ricordato che in virtù del principio del libero convincimento il giudice, anche in assenza di una perizia d’ufficio, può scegliere tra le diverse tesi prospettate dai consulenti delle parti, purché dia conto con motivazione accurata e approfondita delle ragioni della propria scelta, nonché del contenuto della tesi disattesa e delle deduzioni contrarie delle parti. Tale approccio deve essere ancor più rigoroso da parte del giudice d’appello che intenda riformare una sentenza di assoluzione in base a una diversa lettura delle medesime prove. Lo ha ricordato la sentenza n. 6366/17, giudicando un automobilista per un incidente in cui aveva perso la vita un motociclista. Nel corso del giudizio di primo grado l’imputato - sulla base di una perizia cinematica - era stato assolto. La Corte d’appello - valutando la stessa perizia in modo diverso - aveva ribaltato il verdetto. La Cassazione ha annullato la sentenza, stigmatizzando la decisione della Corte d’appello di essersi limitata a dare una lettura diversa, rispetto al giudice di primo grado, della stessa perizia cinematica, senza però attivare i poteri di rinnovazione dibattimentale previsti dall’articolo 603 del Codice di procedura penale mediante l’audizione diretta del perito, o la nomina di uno nuovo. Di tale approccio giurisprudenziale è figlia l’interpolazione all’articolo 603 portata dalla legge 103/17, che ha introdotto l’obbligo di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti la prova dichiarativa. Nel cui ambito rientrano anche le dichiarazioni rese nel giudizio di primo grado da un perito o consulente di parte, dato che: e non possono essere consentite distinzioni “a seconda della qualità soggettiva del dichiarante” (n. 34878/17); in materia tecnica o scientifica, il giudice non può “rinunciare all’apporto del perito, per valersi direttamente di personali e specifiche competenze” (n. 36993/16). Soprattutto se riguardano la prova decisiva su cui si è fondato un verdetto di assoluzione. A volte il rifiuto dell’alcol-test “conviene” di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 1 febbraio 2018 Secondo le Sezioni Unite non si può escludere la particolare tenuità del fatto. Il rifiuto a sottoporsi agli accertamenti sullo stato di ebbrezza alcolica, o di alterazione da sostanze psicotrope o stupefacenti (articoli 186, comma 7, e 187, comma 8, del Codice della Strada), può essere non punibile per particolare tenuità del fatto ai sensi dell’articolo 131 bis del Codice penale. Analogo beneficio può essere concesso anche a chi risulta positivo agli accertamenti - non essendosi rifiutato di sottoporvisi - indipendentemente dalla natura della sostanza, oppure dalla quantità di alcol presente nel sangue. In ogni caso, la non punibilità del fatto non esime l’interessato dall’inflizione delle sanzioni amministrative previste dal Codice della strada, quali la sospensione o la revoca della patente e la confisca del veicolo. Lo hanno stabilito le Sezioni Unite della Cassazione penale, con le sentenze 13681/16 e 13682/16. In particolare, la Corte ha chiarito che “la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto di cui all’articolo 131 bis del Codice penale, applicabile ad ogni fattispecie criminosa, è compatibile con il reato di rifiuto di sottoporsi all’accertamento alcolimetrico, previsto dall’articolo 186, comma settimo, del Codice della strada, posto che, accertata la situazione pericolosa e dunque l’offesa, resta pur sempre uno spazio per apprezzare in concreto, alla stregua della manifestazione del reato, e al solo fine della valutazione della gravità dell’illecito, quale sia lo sfondo fattuale in cui la condotta si iscrive e quale sia, in conseguenza, il possibile impatto pregiudizievole per il bene tutelato”. Non si deve infatti dimenticare che il reato di rifiuto di sottoporsi agli accertamenti alcolimetrici “non punisce una mera e astratta disobbedienza, ma un rifiuto connesso a condotte di guida indiziate di essere gravemente irregolari e tipicamente pericolose, e poiché scopo di tutela finale della fattispecie di guida in stato di ebbrezza è la vita e l’integrità personale, anche la condotta della guida seguita dal rifiuto di sottoporsi agli accertamenti può essere valutata in termini di pericolosità inserendola nello sfondo fattuale concreto in cui si è compiuta”. In questo solco si colloca anche la recente sentenza 34887/17, che ha escluso la punibilità del rifiuto a sottoporsi agli accertamenti alcolimetrici nella condotta di un automobilista, il quale, a prescindere dalla poca collaborazione offerta alle forze di polizia che volevano sottoporlo all’etilometro, non aveva causato alcun pregiudizio alla circolazione stradale e all’incolumità degli utenti della strada: tanto è che le stesse forze dell’ordine gli avevano consentito, nonostante il rifiuto opposto al test dell’alcol, di proseguire sino a casa alla guida dell’autovettura. La Cassazione ha altresì statuito, come si è detto, che l’esclusione della punibilità del fatto per particolare tenuità non ha effetto sulla sanzione amministrativa accessoria, alla stregua del proscioglimento per intervenuta prescrizione. Questo perché solo una sentenza di proscioglimento nel merito, ai sensi dell’articolo 224, comma 4, e 224 ter, comma 7, del Codice della strada, comporta la restituzione della patente sospesa e del veicolo sequestrato. Ciò non può avvenire se il proscioglimento avviene ai sensi dell’articolo 131 bis del Codice penale: ovvero una formula liberatoria che “si limita, razionalmente, a richiedere un giudizio sull’utilità o l’inutilità della pena e non ha riflessi sulle sanzioni amministrative previste dal Codice della Strada, che sono governate da istanze e regole distinte”. Abuso di professione per chi sopprime cani senza provate esigenze di salute di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 1 febbraio 2018 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 31 gennaio 2018 n. 4562. Probabilmente due anni di reclusione potrebbero sembrare pochi se rapportati al reato commesso e soprattutto alle modalità con cui il delitto è stato compiuto. Nella vicenda affrontata dalla Cassazione (sentenza n. 4562/18) il Tribunale di Cremona ha condannato alla reclusione tre soggetti che (nella gestione di canili) con estrema crudeltà e senza necessità avevano soppresso decine e decine di cani e gatti. Molti decessi erano avvenuti perché agli animali erano stati inoculati farmaci che si usano per porre fine alle atroci sofferenze dell’animale in punto di morte. La vicenda - Ma questi animali, sulla base degli esami eseguiti a seguito, non stavano assolutamente in condizioni di salute gravi tali da giustificare il ricorso al medicinale e quindi di sopprimerli. Il tutto peraltro era stato effettuato non da soggetti veterinari ma da semplici volontari senza alcun titolo. È evidente quindi l’abuso della professione visto che solo ai professionisti è consentito porre fine alla vita dell’amico a quattro zampe dovendo ricorrere precise condizioni cliniche. Resta anche difficile commentare una vicenda di questo tipo non solo per la crudeltà che ha segnato la “strage” di animali ma anche in funzione della difesa presentata dai tre imputati in Cassazione. A loro dire gli animali soppressi avevano al collo un cartellino identificativo loro posto in funzione di un’eutanasia ufficiale. La Corte, poi, ha giustificato la legittimità della costituzione come parte civile della Lega nazionale per la difesa del cane. Si legge nella sentenza che in “una siffatta ipotesi l’ente per l’attività concretamente svolta e, appunto, per la sua finalità statutaria primaria, coincidente con la tutela dei cani, ovvero degli interessi lesi dai reati contestati, si fa portatore, secondo il meccanismo di immedesimazione di una posizione di diritto soggettivo che lo legittima a chiedere il risarcimento dei danni derivati dalle violazioni della legge penale”. Tornando alla vicenda gli imputati si erano difesi affermando che avessero ucciso gli animali anche sulla base del solo disagio psichico. Non solo. Avevano eccepito come il loro “lavoro” fosse stato svolto senza che fosse stata contestata la continuità, professionalità e onerosità della condotta, atteso il carattere meramente volontario e senza retribuzione della stessa. Le conclusioni della Cassazione - Su quest’ultima eccezione i Supremi giudici hanno rilevato come il reato ex articolo 348 cp (abusivo esercizio di una professione) ha natura istantanea sicché essa non esige un’attività continuativa od organizzata ma si perfeziona con il compimento anche di un solo atto tipico o proprio della professione abusivamente esercitata. E nel caso di specie è stato evidenziato come già le sentenze di merito avessero posto in luce come le pratiche di eutanasia ascritte alla tre imputate configurassero delle ipotesi di esercizio della professione di veterinario, in quanto attività allo stesso riservate. Sono stati così dichiarati inammissibili i ricorsi con la condanna per ciascun ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di 2000 euro a favore della cassa delle ammende. Brindisi: nel carcere niente acqua di notte, rumorosa protesta dei detenuti di Salvatore Barbarossa brindisireport.it, 1 febbraio 2018 Problemi con l’erogazione idrica nel carcere, fornitura sospesa solo nelle ore notturne e i detenuti protestano davanti alle finestre con suoni e rumori vari che arrecano grossi disagi ai residenti della zona. Accade a Brindisi, da due notti di seguito. La Casa circondariale si trova in via Appia, nel centro abitato e si affaccia su altre tre strade, comprende un intero isolato. Intorno all’una gli abitanti vengono svegliati da rumori metallici prodotti da colpi continui e cadenzati di oggetti metallici contro le grate di ferro e urla. Da quanto spiega la direttrice del carcere, Annamaria Dello Preite, però, si tratta di un problema, quello relativo dall’erogazione idrica, che non dipende dalla volontà degli enti che gestiscono la casa circondariale e che sono state attivate tutte le procedure per risolvere il problema, che va avanti da un paio di mesi. “Nelle ore notturne interrompiamo l’erogazione idrica per far riempire i serbatoi in modo da avere un flusso continuo durante il giorno - spiega la direttrice raggiunta telefonicamente da Brindisireport - ad ogni detenuto, però, viene fornita una tanica di acqua in caso dovessero esserci necessità durante la notte. È un problema che dura da qualche mese che stiamo cercando di risolvere con tutti i mezzi a nostra disposizione e che coinvolge anche il personale. L’acqua di notte manca per tutti, stiamo cercando di creare meno disagi possibile, purtroppo non dipende dalla nostra volontà”. Nelle ore notturne, salvo qualche eccezione, l’acqua nel carcere non dovrebbe servire come serve di giorno. I detenuti brindisini, però, hanno deciso di protestare, di notte, togliendo il sonno ai residenti. Roma: mai più bambini in carcere di Francesca Cusumano piuculture.it, 1 febbraio 2018 Nella casa di Leda con donne e bambini agli arresti domiciliari. Anita, tutti i nomi sono di fantasia per rispetto della privacy, tre anni e mezzo, bambina solare e “gentile” figlia di Antonella, detenuta rom agli arresti domiciliari, è andata alla festa della sua compagna di scuola Martina. Ha giocato con gli altri bambini e si è molto divertita. Anita è stata la prima bambina a essere accolta insieme alla sua mamma alla Casa di Leda. La prima casa famiglia protetta aperta in Italia, che si trova all’Eur ed è intitolata a Leda Colombini, mitica fondatrice dell’Associazione “A Roma Insieme”. L’impegno dell’Associazione è di tirare fuori dal carcere i bambini e Leda Colombini ha dedicato la sua vita al raggiungimento di questo obiettivo. Sembrava impossibile che la figlia di una detenuta, per giunta rom, potesse diventare amica di una sua coetanea, figlia di una delle famiglie generalmente abbienti, che vivono tra i viali alberati e le ville del quartiere dell’ Eur. Sembrava impossibile soprattutto dopo la vera e proprio “guerra” dichiarata dagli infuriati abitanti delle ville confinanti con quella di via Algeria, 600 metri quadri circondati da un grande giardino, sottratta alla mafia e assegnata dal Comune alla realizzazione di una delle strutture previste, in tutta Italia, da una legge del 2011 totalmente ignorata fino al 2017. Ma a volte per fortuna la reciproca simpatia tra bambini è l’unico sentimento che conta e forse col passare dei mesi i “vicini” si sono accorti come vivere nei paraggi di una struttura protetta, sia molto più sano che abitare accanto a dei mafiosi incalliti. “Oggi i rapporti con il vicinato sono generalmente molto migliorati - dice durante la visita alla struttura - Lillo Di Mauro, neo presidente della Conferenza del Volontariato del Lazio e responsabile dell’area Giustizia della Cooperativa Cecilia che gestisce la Casa in ATI con Ain Karim, P.I.D. (Pronto Intervento Disagio Sociale) e A Roma Insieme. Dopo che il comitato di quartiere ha perso il ricorso che aveva presentato al Tar contro la decisione del Comune, il presidente che è una persona gentile ed educata, è venuto a più miti consigli. Ci ha chiesto di evitare il via vai dall’ingresso di via Kenia che è più centrale e di usare quello, completamente defilato, di via Algeria, e di lasciare chiuse le tende di una parte del salone che si affacciano direttamente sui giardini confinanti, per evitare sguardi indiscreti. Su questi punti abbiamo trovato un accordo. Certo qualche borbottio sul quartiere “ormai diventato come Scampia” lo sentiamo ancora, ma - aggiunge Di Mauro - puntando i fucili per difendersi non si ottiene niente, molto meglio il rispetto reciproco con chi è pronto a dialogare”. Al di là della diffidenza inevitabile che possono creare all’inizio questo tipo di strutture, quello che conta sono i risultati. In pochi mesi Anita ha fatto dei progressi impressionanti - racconta Grazia Piletti che per “A Roma Insieme” coordina l’attività dei volontari - quando è arrivata era aggressiva, sporca, prepotente con gli altri bambini, raccoglieva il cibo da terra e lo mangiava, non aveva ricevuto alcun tipo di educazione. Man mano andando a scuola, sveglia com’è, è diventata la beniamina delle insegnanti e con il supporto dei nostri volontari e operatori, senza rinunciare all’affetto della mamma, si è trasformata”. In estate i bambini sono stati accolti nei campi estivi organizzati dalle parrocchie del quartiere e un gruppo di scout il sabato e la domenica porta fuori i bambini e farli giocare. “È proprio questo l’obiettivo che si prefigge il progetto educativo della casa famiglia protetta - aggiunge Di Mauro - oltre a evitare ai i piccoli l’esperienza di vivere i primi anni di vita dietro alle sbarre, il progetto prevede per loro un percorso educativo attraverso la scolarizzazione, la sana alimentazione, il gioco, l’integrazione con il territorio, in modo da garantire a ciascuno un periodo di vita più sereno possibile”. Una serenità ne è convinto Di Mauro - che arricchirà la loro esistenza e che in qualche caso potrà rivelarsi una risorsa interna per non perdere l’equilibrio in situazioni di vita diverse e difficili. La seconda fase del progetto si occupa del recupero e del reinserimento sociale della donna che viene stimolata a raggiungere una sua autonomia, rispetto alla famiglia d’origine, anche in collaborazione con i servizi territoriali. Ad esempio Laura, che sembra una ventenne, è egiziana e laureata, ha 3 figli, due in affidamento presso una famiglia di Lariano, il più piccolo, Jacopo, che mentre parliamo è con gli altri “ospiti” a scuola. Finita agli arresti insieme al marito per un traffico di documenti, mi racconta della sua voglia di riscatto, attraverso l’opportunità che le è stata offerta di frequentare un corso di formazione presso la Cooperativa Cecilia per diventare assistente domiciliare per gli anziani per il Comune di Roma, in modo da avere un lavoro quando, “tornero’ a essere una donna libera”. Tutti i bambini la mattina alle 8 vanno a scuola accompagnati dalle proprie madri che devono fare ritorno alla struttura entro le 9.30 avvertendo la questura di essere rientrate. Alle 15 del pomeriggio le detenute possono riuscire per andarli a prendere. Nella casa lavorano a turno, tra i 5 e gli 8 educatori, in rapporto uno a uno con il numero delle donne presenti nella struttura. Con loro le madri seguono un percorso individuale di recupero. Katia, l’unica italiana, è figlia di genitori tossici e con la madre quando era piccola si è ritrovata a vivere in carcere per un periodo. Esperienza che non è riuscita ad evitare anche al suo bambino, Marco, che ora è qui con lei nella casa. “Marco all’inizio - ricorda Grazia - non ne voleva sapere di porte chiuse: apriva le porte del bagno, delle camere, delle macchine quando era fuori. Probabilmente perché si ricordava di quando a Rebibbia alle 20 le porte venivano chiuse a chiave e fino al mattino non è più possibile uscire. Katia in questi casi perdeva la pazienza, lo picchiava anche perché non aveva idea di cosa volesse dire essere madre. Ora invece la stiamo seguendo da vicino e comincia a essere più affidabile, anche se ha sempre bisogno di aiuto perché vive come al di fuori della realtà”. Undici operatori, messi a disposizione dalle cooperative e associazioni che fanno parte dell’Ati, si alternano anche per il turno di notte, per garantire la sorveglianza. Dieci volontari iscritti ad A Roma Insieme, inoltre, nel pomeriggio intrattengono madri e bambini svolgendo laboratori e attività di manualità, una operatrice in particolare, stipendiata dall’associazione, copre il turno di notte che altrimenti rimarrebbe scoperto. Quanto costa tutta questa organizzazione? A pieno regime cioè con 6 donne ospiti e 8 figli, il costo mensile della struttura - riferisce Di Mauro - è un po’ più di 12 mila euro al mese, “circa un terzo di quello che è il costo del regime carcerario. Chi paga? La Fondazione Poste onlus ha pagato per il primo anno 150 mila euro, pari appunto a poco più di 12mila euro al mese. Soldi che sono stati ripartiti tra le varie cooperative e associazioni dell’Ati per pagare le spese ordinarie e gli stipendi degli operatori, oltre a tutte le necessità dei bambini. Siamo in attesa - conclude Di Mauro con una punta di apprensione - che venga approvato lo stanziamento per il 2018, per ora stiamo navigando a vista”. Sabato Anita è uscita dalla casa insieme a Antonella che ha finito di scontare il suo periodo di detenzione. È tornata al campo dove abita, con i suoi 6 fratelli più grandi, in una casa prefabbricata regolarmente assegnata e censita dal Comune. Il padre è in carcere e la madre è sotto osservazione da parte del servizio di assistenza sociale che ha sospeso la sua potestà genitoriale, in attesa di constatare se Antonella manterrà fede all’impegno preso e sottoscritto, uscendo dal regime di detenzione, di mandare regolarmente a scuola tutti i suoi figli. In caso contrario il tribunale potrebbe decidere di dare i bambini in affidamento. Verona: la Rems compie due anni, sono ospitati 40 pazienti di Riccardo Mirandola L’Arena di Verona, 1 febbraio 2018 Sono quaranta, di cui cinque donne, i pazienti ospitati nella Rems (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza) sorta esattamente due anni fa all’ex ospedale “Stellini” di Nogara. Unica struttura del suo genere di tutta la Regione Veneto, la Rems è nata in sostituzione degli ospedali psichiatrici giudiziari e accoglie esclusivamente persone residenti nel Veneto. Dal giorno di apertura del centro, attualmente collocato in via provvisoria al piano terra e al primo piano dello “Stellini”, sono stati 66 i pazienti condannati per reati penali, ma non imputabili per via delle loro condizioni di salute mentale, che hanno trovato un percorso di cure adeguato alle loro patologie. In totale, sono state invece 26 le persone che sono state dimesse dalla Rems per la fine del trattamento o perché sottoposte a libertà vigilata o a licenza sperimentale perché è venuta a mancare la loro pericolosità sociale. “Dei 40 pazienti ospitati”, spiega Carlo Piazza, dal 2016 direttore della struttura, “24 hanno ricevuto un provvedimento definitivo mentre 16 provvisorio. Di questi, 11 sono stranieri, quattro dei quali senza fissa dimora e privi di autosostentamento. Il loro tempo di permanenza varia da qualche mese ad alcuni anni, a seconda dell’ordinanza emessa del magistrato competente e del loro percorso terapeutico, riabilitativo e comportamentale. Pur essendo una struttura atta alla sorveglianza e alla custodia, la Rems è una residenza terapeutica con carattere di comunità. Oltre a cure farmacologiche eroga servizi riabilitativi e psicosociali a tutti i pazienti inseriti”. La struttura è gestita da personale medico dell’Ulss 9 Scaligera in collaborazione con la cooperativa “La Rondine” per gli operatori non medici, come psicologi, psicoterapeuti, criminologi, educatori, infermieri, tecnici della riabilitazione psichiatrica, assistenti sociali ed operatori socio-sanitari. All’interno del centro, così come all’esterno, vengono organizzate numerose attività psico-socio-riabilitative, con la finalità di un completo recupero sanitario e sociale delle persone ospitate. I pazienti partecipano spesso a iniziative della parrocchia di Nogara, al “Simposio dei poeti”, che si tiene a cadenza mensile a Palazzo Maggi, e ad altre manifestazioni di carattere culturale, sportivo o di inserimento sociale. Non solo. Gli operatori accompagnano spesso alcuni ospiti anche al mercato settimanale, che si tiene in centro il giovedì mattina, oppure nei supermercati del paese per acquisti personali. Qualche ragazzo, inoltre, ha fatto un’esperienza lavorativa in un’azienda agricola del territorio in vista anche dell’avvio, la prossima primavera, di un’attività di coltivazione di verdure biologiche nei campi adiacenti all’ex ospedale. Ossia l’appezzamento che fa parte del lascito testamentario di Francesco Stellini. Per questi terreni, circa una ventina di campi veronesi, è in programma un utilizzo specifico per le iniziative programmate dalla Rems. Nei prossimi mesi, poi, grazie a un finanziamento di 12 milioni di euro da parte dello Stato, partiranno i lavori per il recupero degli edifici dell’ex azienda agricola Stellini e della villa omonima. Tutto ciò allo scopo di poter consentire alla Rems di ampliarsi in futuro. Il progetto prevede infatti una serie di spazi ricreativi, culturali, uffici e alloggi riservati agli ospiti, il cui numero non dovrebbe superare però le 40 unità tra uomini e donne. L’Aquila: spettacolo teatrale in carcere, detenuti attori nelle “Metamorfosi” di Ovidio reteabruzzo.com, 1 febbraio 2018 Una rappresentazione teatrale sarà messa in scena oggi pomeriggio nel penitenziario sulmonese per celebrare il Bimillenario Ovidiano. La rappresentazione è frutto di un laboratorio attivato con allievi-detenuti che attraverso questa esperienza hanno scoperto le “Metamorfosi” di Ovidio, con i suoi miti più famosi e interessanti. Un viaggio nell’opera ovidiana nel quale gli allievi sono stati guidati dal Tsa dell’Aquila con l’attore e regista Pietro Becattini dando concretezza ad un progetto nato su iniziativa del capo area trattamentale Fiorella Ranalli, nell’ambito delle attività educative, divenendo realtà anche per la preziosa collaborazione del Cpia dell’Aquila. L’occasione del laboratorio teatrale è stata assai apprezzata dagli allievi detenuti appassionati da questa esperienza, che ha aperto loro nuovi orizzonti culturali, come sottolineato anche dal direttore del penitenziario Sergio Romice. Lo spettacolo che andrà in scena nel penitenziario si avvarrà delle coreografie dell’associazione sulmonese Music & Dance. Roma: street-art a Rebibbia con Moby Dick, Michelangelo e il Cristo tatuato della Pietà di Maria Grazia Filippi artemagazine.it, 1 febbraio 2018 Lo stret-artist a disposizione del progetto che vuole trasformare le carceri da istituti di pena a istituti di cultura. E sul Cristo della Pietà michelangiolesca i tatuaggi dei carcerati diventano “un processo antropologico che riporta la memoria di ogni detenuto del carcere”. Street art nelle carceri ma soprattutto con le carceri. Per portare fra i detenuti il valore aggiunto della cultura e del gesto artistico che si fa esperienza comune e partecipazione ad un rito collettivo. “L’arte non ha sbarre” progetto della Biennal MArteLive in collaborazione con le Officine GM di Giulia Morello, con il Patrocinio del Garante dei Detenuti del Lazio, ha scelto Roma e il Carcere di Rebibbia per la sua prima tappa. E da ieri uno straordinario murale ispirato all’arte michelangiolesca, spicca a Rebibbia. Anticipando di qualche giorno il 10 dicembre, Giornata Mondiale dei Diritti Umani indetta dalle Nazioni Unite per ricordare la proclamazione della dichiarazione universale dei diritti umani nel 1948, il 7 dicembre era stato presentato il progetto che, grazie alla collaborazione con lo street-artist Moby Dick, avrebbe portato l’arte a Rebibbia. Il rappresentante del Pop Surrealismo made in Italy e già presente alle 53esima Biennale di Venezia e allo Jarvitz Center di Manhattan a New York, aveva infatti presentato l’idea per un murale sul tema dei diritti umani all’interno della Casa di Reclusione. Con lui il cantautore Gianluca Secco e Vittorio Lattanzi, Patrizio Smiraglia ed Edmondo Luigi Settembrini del giornale satirico Lercio. “L’obiettivo è portare l’arte e la cultura nelle carceri sia come intrattenimento sia come vera e propria formazione - spiega Giulia Morello ideatrice del progetto - L’idea di base è trasformare gli istituti di pena in istituti di cultura, dove si fa e si apprende cultura per migliorarsi, dove le contraddizioni e le energie presenti vengono valorizzate e trasformate in senso costruttivo e propositivo e non solo in senso contenitivo”. “Ho voluto rappresentare questa opera per far sembrare i muri del carcere tridimensionali, quasi una scultura. Per dare l’impressione che quei muri di cemento siano muri di marmo, e perciò più preziosi - racconta Marco Tarascio in arte Moby Dick - ho scelto di rappresentare il David e la Pietà di Michelangelo perché sono due statue simbolo dell’arte italiana, che ci invidiano nel mondo per bellezza, genio e impareggiabilità tecnica e artistica. Il David in primo piano sembra guardare di spalle la Pietà. Nella Pietà, oltre al dolore c’è un abbraccio, la cosa più forte come contatto. Come richiamo alla vita dei detenuti e come segno-simbolo che spesso portano sul corpo, il Cristo sulle gambe di Maria riporta alcuni tatuaggi dei detenuti, attualizzando quindi il dolore e l’amore allo stesso tempo, ed in modo realistico. Ogni detenuto che ha partecipato all’iniziativa - conclude l’artista - ha potuto mostrare il suo e quindi avrà qualcosa di suo che resterà impresso su quella immagine-statua come un ricordo, come un processo antropologico che riporta la memoria di ogni detenuto del carcere. Perciò l’opera, apparentemente identica a quella di Michelangelo, ha impresso un pensiero, una scritta, un nome che rivive sulla pelle del Cristo così come su di loro”. “Il progetto - spiega ancora Giulia Morello - intende unire la valorizzazione della persona allo sviluppo della sua autonomia, coerentemente con la vocazione dell’art. 27 della Costituzione, andando nella direzione di un re/inserimento sociale. La street art in questo caso non è solo rigenerazione sociale e del territorio, ma anche umana. Roma è la capitale della Storia, dell’archeologia, ma è sempre più proiettata nel futuro come capitale dell’arte contemporanea. Per questo chiederemo di inserire l’opera realizzata all’interno della mappatura della street art romana”. Come diventare giudice popolare. Enrico Maisto lo racconta ne “La convocazione” altalex.com, 1 febbraio 2018 Un nuovo documentario svela il dietro le quinte della Corte d’Assise del Tribunale di Milano, dal punto di vista di chi sarà improvvisamente chiamato ad affiancare il magistrato: noi Il socio, il cliente, Codice d’onore, La giuria: il cinema americano (e in larga misura John Grisham) hanno cementato nell’immaginario globale una certa idea di “legge”, cristallizzata nella terminologia del legal thriller e dei suoi codici enfatici e schematici, che ci consentono, all’occorrenza, di diventare procuratori ribelli o avvocati dalla parte dei più deboli. Come sappiamo molto bene, la realtà dei fatti - nei tribunali Usa ma soprattutto nei nostri - è molto diversa ed è raro che il grande schermo si prodighi con cura per riportarne le dinamiche, influenzato com’è dalla cultura a stelle e strisce (sul piccolo schermo la questione è diversa, e si può dire che l’Italia da un certo punto di vista abbia fatto scuola). Perciò, a dieci anni dall’altrettanto valida eccezione di L’udienza è aperta di Vincenzo Marra, si accoglie con estremo favore un film come La convocazione, documentario per il cinema co-prodotto da Rai Cinema e diretto da Enrico Maisto. Vincitore del premio del pubblico al prestigioso Festival dei Popoli fiorentino, ci porta tra le pareti austere e normalmente discrete della Corte d’Assise del Tribunale di Milano, nel giorno in cui vengono convocati gli estratti a sorte per diventare giudici popolari. Lontano dai didascalismi televisivi, Maisto racconta in punta di piedi le emozioni e le paure di chi, improvvisamente, è chiamato a svolgere un ruolo cruciale per il nostro ordinamento - il giudice popolare, in questa sede, è parificato al magistrato ordinario e, all’interno dell’attività di questa Corte, può pronunciarsi su casi penali gravi, come omicidi, pedofilia o persino terrorismo. Autentico talento della scena documentaristica nazionale (e figlio di magistrati), Enrico Maisto ci ha raccontato nel dettaglio La convocazione, in un’intervista esclusiva per Altalex. Dove nasce l’idea del film? Stavo lavorando alla scrittura di un progetto di finzione sulla figura del giudice, che da sempre mi attrae, anche per motivi biografici (i miei genitori hanno fatto quel mestiere per 40 anni). Durante le ricerche, in cui avevo coinvolto Valentina Cicogna, siamo approdati a una cerimonia di scelta dei giudici popolari e ne siamo rimasti subito affascinati. C’era tutto del primo incontro di persone comuni con la Giustizia, le domande che serpeggiavano in quell’uditorio smarrito, disorientato che si ritrovava ad essere catapultato nell’aula della Corte d’Assise coincidevano con gli interrogativi che si erano accumulati per me negli anni, le mie domande private sull’essere giudice e sul giudicare diventavano le domande di tutti, mi sembrava un laboratorio umano che valesse la pena esplorare. Per lungo tempo ero l’unico produttore insieme ai professionisti che mi hanno affiancato, in quello che è rivelato un grande lavoro di squadra: il direttore della fotografia Jacopo Loiodice, gli operatori, primo fra tutti Luca Sabbioni, il suono coordinato da Simone Olivero, Valentina Cicogna e Veronica Scotti al montaggio. Poi in un secondo momento è entrata la Start di Riccardo Annoni e subito dopo RAI Cinema che mi sono venuti in soccorso, fino al riconoscimento di film di interesse nazionale da parte del Ministero dei Beni Culturali e del supporto del Banco di Napoli. Come ha fatto ad accedere a un luogo tradizionalmente discreto come il Tribunale? Sicuramente il fatto che mia madre fosse uno dei giudici della Corte ha reso più agevole il rapporto con le autorità del tribunale deputate al rilascio dei permessi, ma a parte un’accelerazione delle tempistiche abbiamo comunque dovuto rispettare tutta la trafila delle autorizzazioni e soltanto dopo aver studiato insieme ad un team di legali la fattibilità di queste riprese, sul piano delle liberatorie e della privacy delle persone coinvolte. E nel confronto dei personaggi filmati, quali sono state le accortezze che avete preso? Cercavamo sempre di spiegare loro che tipo di lavoro stavamo facendo prima che entrassero in aula, in modo che fossero preparati alla presenza della troupe, poi ognuno di loro era libero di decidere se dare o meno il consenso all’utilizzo della propria immagine. In ogni caso noi film-maker costituivamo per loro la prima fonte utile di informazioni quando arrivano spaventati e confusi in Tribunale, per cui finivamo per costituire un’ancora un piccolo punto di riferimento per loro e questo senz’altro contribuiva affinché si aprissero maggiormente. Vedendo il film ci si rende conto d’improvviso che “esiste” il ruolo del giudice popolare, e che è un dovere che può toccare a ogni cittadino. Come si fa a diventare giudice popolare in Italia e che obblighi comporta? Tutti i cittadini tra i 35 e 65 anni di età con un diploma di scuola media (inferiore per il I grado e inferiore per il II), che siano ovviamente incensurati, possono essere estratti per entrare a far parte di una giuria popolare. I requisiti sono minimi ed è un evento piuttosto comune che potrebbe capitare a chiunque. In primo grado restano in carica per tutta la durata del processo (qualunque essa sia), in appello l’incarico dura tre mesi. Si ha forte la sensazione che l’atteggiamento dei candidati alla giuria popolare muti: riverenza, timore, curiosità, dubbio, fino all’orgoglio degli scelti, alla fine. Che cosa avete osservato nei cittadini in linea di principio? Esattamente questo: che l’esperienza della convocazione può costituire l’occasione di una metamorfosi, di un cambio di prospettiva, un momento di formazione che porta verso un’assunzione di responsabilità, che innesca uno spostamento dalla dimensione individuale ad una più collettiva. Personalmente trovo toccante quando l’essere umano si trova a confrontarsi con qualcosa di più grande di lui sforzandosi di trovare una strada, un’unità di misura, ed è quello che accade di fronte all’esperienza del giudizio. Colpisce molto anche la scelta del diritto nazionale di parificare il ruolo del comune cittadino a quella del giudice. Il giudice togato nel nostro sistema lavora insieme alla giuria popolare, non operano separatamente come nel sistema americano ad esempio, quindi ha il compito di guidare i non professionisti nella riflessione e nella discussione, rendendo comprensibili per loro le questioni più strettamente tecniche, là dove il senso comunque si distanzia maggiormente dal diritto. Che tipo di sensazione si aspetta di generare nello spettatore-tipo? Sono convinto che le persone siano portate ad identificarsi con quello che accade ai personaggi del film, perché quando capiscono che potrebbe capitare anche a loro, cominciano a domandarsi cosa farebbero al loro posto e questo mi sembra già un elemento importante. Per il resto credo che la lettura che si può dare di questo film dipenda molto dal bagaglio e dalla disposizione di chi lo guarda, dalla fiducia che sia disposto o meno ad accordare tanto al sistema quanto alle persone che vengono chiamate a farne parte. L’idea era quella di lasciare la liberta a chi guarda di costruirsi un suo percorso per capire dove andare a posizionarsi. Abbiamo provato a porre delle domande, le risposte non le abbiamo Pur essendo prodotto da Rai Cinema, è un film che ‘va cercato’, perché i documentari in Italia non godono della visibilità che hanno altrove. Può dire ai nostri lettori Avvocati come fanno a vedere il suo film? Il film è distribuito da Arch film, attualmente è in programmazione al cinema Beltrade di Milano dove resterà ancora qualche settimana e arriverà anche in altri capoluoghi italiani (dopo le anteprime che si sono tenute grazie al Mese del documentario), sia come eventi singoli sia con programmazioni di più giorni. Droghe, una questione di classe tra dipendenza e dominio di Gianpaolo Cherchi Il Manifesto, 1 febbraio 2018 “Fare di tutta l’erba un fascio”, di Afshin Kaveh per Sensibili alle foglie. Parlare di droga implica spesso dover ricorrere a una serie di numeri, statistiche, grafici e tabelle sul cui utilizzo e interpretazione si basano i discorsi di quegli schieramenti che, anche sul tema droga, si giocano la partita dei consensi politici ed elettorali. Si tratta di un modo di affrontare la questione che lascia quasi sempre immutato (quando non contribuisce a rafforzarlo) il ruolo che la droga riveste all’interno dei rapporti sociali, non soltanto in termini di dipendenza e consumo, ma soprattutto in termini di immaginario collettivo. In questo modo si costruisce, più o meno consapevolmente, una rappresentazione ideologica in cui la droga assume il ruolo di una vera e propria merce spettacolarizzata. Un intelligente tentativo di fornire una diversa chiave di lettura al fenomeno droga, rompendo con la dicotomia banale e semplicistica di chi è favorevole o contrario, viene dall’interessante libro del giovanissimo Afshin Kaveh, Fare di tutta l’erba un fascio. La spettacolarizzazione della droga, pubblicato dalla piccola e attenta casa editrice Sensibili alle foglie (pp. 111, euro 13). È un libro prima di tutto onesto perché, nella sua totale assenza di pretese di tipo scientifico-accademico, guarda al mondo della droga con occhi asciutti, disincantati, volgendo l’attenzione agli aspetti simbolico-rappresentativi più che a quelli tecnici, medici o etici: proprio in questo sguardo prospettico diverso, portato avanti con una genuina spontaneità, sta il suo punto di forza. L’argomento viene infatti contestualizzato all’interno di un quadro più ampio, senza piegarsi a quella “tendenza linguistico popolare, veicolata da ambienti medici e giornalistici” che con la sua visione bipolare pone in maniera del tutto arbitraria e ingiustificata una distinzione fra droghe pesanti e leggere: una tendenza, questa, funzionale alle “logiche neomoderne”, quelle stesse logiche che spingono al consumo di droghe per fuggire da “standard di vita imposti e normalizzati”, e che generano in tal modo un bisogno indotto di dipendenza. Da questa prospettiva si comprende subito come la parola droga conduca “verso la parola consumo”, e come da qui non sia possibile “evitare di giungere a una terza parola: commercio”. Chiunque abbia a che fare con il mondo della droga, è essenzialmente “un soggetto economico in rapporto con mezzi di produzione e consumo”. Quel che emerge subito, infatti, con una consapevolezza cristallina, è che “il sistema suggerisce percorsi plastici e prestabiliti proponendo la sostanza droga come unica via di fuga”. E così ogni potenziale discorso critico sulla droga viene neutralizzato, lasciando all’opinione pubblica una parvenza di dibattito in cui ad alternarsi sulla scena sono in realtà posizioni predeterminate, che suonano come dei veri e propri slogan: proibire, depenalizzare, liberalizzare, legalizzare. E in questo modo si dimentica il vero ruolo della droga nell’esistente, la sua reale immagine: quella di un enorme “Fascio Littorio”. La droga è una sostanza intimamente fascista, una “Istituzione totale” in cui la “cultura dello sballo” è in grado di articolarsi e differenziarsi a seconda delle esigenze del mercato. Chi ha a che fare con la droga, infatti, “appartiene inevitabilmente alla propria classe sociale. La droga, invece, è semplicemente classista”. Esiste la droga per i ricchi, per le classi borghesi e integrate al sistema, ed esiste la droga per i poveri, per i proletari, o semplicemente per coloro che cercano disperatamente di integrarsi. Sia per gli uni che per gli altri, ad agire è la medesima logica: il mantenimento delle strutture di dipendenza e dominio. Fare di tutta l’erba un fascio, abbattere il Fascio Littorio che la droga rappresenta, liberandola dal “proprio ruolo di dominio funzionale allo stato di cose presente”, potrebbe allora essere il primo passo per una liberazione dalla vuotezza e dalla natura spersonalizzante e riproduttiva dell’esistente. “Silenzio. Finalmente. Solo il rumore delle carezze del vento sulla pelle”. Questo si che sarebbe stupefacente. Dove sono nascosti i nostri dati personali? di Paolo Magliocco La Stampa, 1 febbraio 2018 I nostri dati, tutte le nostre tracce digitali, sono sparsi in luoghi che non sappiamo dove siano. E neppure quanti siano. Ogni ente o azienda che raccoglie dati su di noi, chi siamo e che cosa facciamo, li custodisce in una banca digitale, un data center, che può essere di sua proprietà o preso in affitto da qualcun altro. Le informazioni sul nostro conto in banca, i soldi che abbiamo versato e quelli che abbiamo prelevato, sono nel data center della banca. I nostri dati anagrafici sono nel data center del Comune in cui abitiamo. I nostri dati sanitari nel data center della Regione e così via. Ha un data center l’azienda per la quale lavoriamo. Di fatto, considerando l’uso della posta elettronica, dei motori di ricerca, delle tessere fedeltà della grande distribuzione, del commercio elettronico e dei social network, dei cosiddetti “cloud” (gli archivi esterni a cui si accede via web), ci sono dati e informazioni che ci riguardano distribuiti in moltissime banche dati. Nessuno sa quante siano esattamente in Italia queste banche, sempre più preziose. Si parla di più di mille, tra centri molto grandi e altri piccolissimi. Una indagine condotta nel 2017 dalla rivista digitale Network Digital 360 su un campione di 280 aziende indica che più dell’80% ha un proprio data center, quelli che un tempo venivano definiti Ced, Centri di elaborazione dati. La diffusione dei cloud esterni, però, sta cambiando la situazione e le aziende potrebbero affidarsi sempre di più a società specializzate che gestiscono strutture molto più grandi. A Siziano, in provincia di Pavia, è stato aperto da pochi mesi quello che viene definito il più grande data center del Sud Europa. Un gigantesco capannone che misura 42.000 metri quadrati, più o meno come sei campi da calcio. Si chiama Supernap ed è una sorta di bunker protetto in tutti i sensi, che può arrivare a usare 40 Megawatt di potenza. Una struttura come questa non si occupa solo di archiviare i dati, ma anche di gestirli e farli viaggiare in tutte le direzioni. Deve garantire che i dati siano al sicuro, ma anche che siano sempre disponibili per le aziende e i loro utenti. Le stesse pagine web dei giornali sono oggi gestite da strutture simili. Dunque al suo interno non ci sono solo giganteschi server, ma molto altro. Secondo il sito di informazioni sul settore Datacentermap in Italia ci sono oggi 65 centri di questo tipo, dieci in più rispetto a un anno fa, 25 solo in Lombardia e poi 6 attorno a Roma e 4 nella zona di Torino, perché ovviamente queste strutture si concentrano dove maggiore è il traffico di informazioni. Nel mondo il numero di queste grandi fattorie di dati arriva a 4253. Negli Stati Uniti se ne contano addirittura 1704, cioè oltre un terzo del totale (anche se non sono indicati né le dimensioni dei dati archiviabili, né la potenza), seguiti dal Regno Unito con 247 e poi dalla Germania con 186. La Cina, da questo punto di vista, non appare come una potenza mondiale di primo piano e ha solo 74 di questi data center condivisi: niente si dice, però, dei data center delle singole aziende e istituzioni. Un colosso come Facebook, per esempio, non utilizza data center condivisi ma ha i propri: il più nuovo è stato aperto in Svezia, vicino al Circolo polare, perché il freddo aiuta a smaltire il calore prodotto dai server spendendo meno. Migranti soccorsi nel Mediterraneo, cade l’obbligo di trasferirli in Italia di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 1 febbraio 2018 Il nuovo accordo siglato dal Dipartimento Immigrazione del Viminale con Frontex. I migranti soccorsi nel Mediterraneo dovranno essere trasferiti nel porto più vicino. E dunque cade l’obbligo che vengano portati direttamente in Italia, come era invece previsto dalla missione Triton. È quanto prevede il nuovo accordo siglato dall’Italia con Frontex, l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera. Nell’intesta siglata dai rappresentati del Dipartimento di immigrazione del Viminale con i rappresentanti Ue si prevede di arretrare la linea di pattugliamento dei nostri mezzi navali a 24 miglia, restringendo in questo modo il campo d’azione. In una nota Frontex sottolinea come la nuova operazione nel mar Mediterraneo centrale, “servirà per assistere l’Italia nelle attività di controllo dei confini”. La nuova operazione congiunta si chiamerà Themis, “inizierà il 1 febbraio e sostituirà l’operazione Triton lanciata nel 2014. L’operazione Themis continuerà a includere la ricerca e soccorso come componente cruciale. Allo stesso tempo, la nuova operazione avrà un focus rafforzato sulle forze dell’ordine”. L’area in cui sarà operativa “coprirà il mar Mediterraneo centrale, dalle acque che coprono i flussi da Algeria, Tunisia, Libia, Egitto, Turchia e Albania”. Migranti. Un anno fa l’accordo con la Libia La Repubblica, 1 febbraio 2018 Chiesto il rilascio di migliaia di persone intrappolate in condizioni disumane. L’appello di Amnesty International. Nel 2017, circa 200.000 persone sono state intercettate dalla Guardia costiera libica e trasferite nei famigerati centri di detenzione libici. Da allora, il governo italiano e l’UE hanno fornito alla Guardia costiera libica imbarcazioni, formazione e assistenza per pattugliare il mare e riportare indietro rifugiati e migranti in fuga disperata verso l’Europa. Alla vigilia del primo anniversario della firma del Memorandum d’intesa sottoscritto tra Italia e Libia il 2 febbraio 2017 per impedire le partenze di migranti e rifugiati verso l’Europa, Amnesty International ha denunciato che migliaia di persone restano intrappolate nei campi di detenzione libici dove la tortura è all’ordine del giorno. “Un anno fa il governo italiano, appoggiato da quelli europei, ha sottoscritto un equivoco accordo col governo della Libia - ha dichiarato Iverna McGowan, direttrice dell’ufficio di Amnesty International presso le Istituzioni europee - a seguito del quale migliaia di persone sono finite intrappolate nella miseria, costrette a subire tortura, arresti arbitrari, estorsioni e condizioni di detenzione inimmaginabili nei centri diretti dalle autorità libiche”. La dichiarazione di Malta. Secondo il Memorandum, l’Italia avrebbe collaborato con le autorità militari e di controllo delle frontiere della Libia per “fermare le partenze dei migranti irregolari”; in altre parole impedire ai migranti, così come ai rifugiati, di raggiungere l’Europa. La strategia italiana era coerente col più ampio approccio europeo, tanto che venne fatta propria dai leader europei il 3 febbraio con la “Dichiarazione di Malta”. Da allora, il governo italiano e l’Unione europea hanno fornito alla Guardia costiera libica imbarcazioni, formazione e ulteriore assistenza per pattugliare il mare e riportare indietro rifugiati e migranti in fuga disperata verso l’Europa. Nel 2017, circa 200.000 persone sono state intercettate in mare dalla Guardia costiera libica e trasferite nei famigerati centri di detenzione del paese. I modesti progetti di reinserimento. “L’Europa - ha sottolineato McGowan - deve urgentemente porre il tema della dignità umana al centro delle sue politiche in materia d’immigrazione. Se l’Italia è al posto di guida, tutti i governi europei che cooperano con la Libia nel controllo delle frontiere hanno la loro parte di responsabilità per il trattenimento di migranti e rifugiati in centri dove si verificano violenze indescrivibili”. Negli ultimi pochi mesi, i programmi per il “ritorno assistito volontario” dei migranti trattenuti in Libia sono stati estesi: nel 2017, 19.370 persone sono tornate nei paesi d’origine. Sono stati attuati positivamente più modesti progetti pilota per il reinsediamento di poche centinaia di rifugiati in Francia e Italia”. “Deve esserci trasparenza”. “Far sì che le persone intrappolate nei terribili centri di detenzione della Libia - ha detto ancora McGowan - siano rilasciate dev’essere una priorità, ma l’evacuazione dei migranti tramite i programmi di ritorno volontario non può essere la soluzione sistematica. Dev’esserci piena trasparenza per comprendere se le persone “ritornate volontariamente” abbiano avuto accesso a procedure adeguate e non siano state rimandate verso ulteriori violazioni dei diritti umani. Inoltre - ha aggiunto - devono essere poste in essere alternative più durature come l’aumento dei reinsediamenti e il rilascio di visti umanitari”. Maggiori pressioni sulle autorità libiche. “In ogni parte del mondo - ha concluso McGowan -la gente è rimasta scioccata dall’agghiacciante situazione dei migranti e dei rifugiati in Libia. I governi europei hanno reagito con rimedi provvisori, come le evacuazioni senza alcuna garanzia che le persone tornate nei luoghi di origine possano riprendere una vita in condizioni di sicurezza. Sollecitiamo i leader europei ad assicurare che quelle garanzie siano applicate, soprattutto mediante l’offerta di posti per il reinsediamento e visti umanitari per le persone che sono in un disperato stato di necessità”. Amnesty International sta anche sollecitando i governi europei a lavorare con le autorità libiche per ottenere la fine delle politiche di detenzione arbitraria e a tempo indeterminato dei rifugiati e dei migranti e il riconoscimento dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati e del suo intero mandato. Amnesty contro l’Italia: “In Libia migranti detenuti e torturati” Dire, 1 febbraio 2018 Alla vigilia del primo anniversario della firma del Memorandum d’intesa sottoscritto tra Italia e Libia il 2 febbraio 2017 per impedire le partenze di migranti e rifugiati verso l’Europa, Amnesty International ha denunciato che migliaia di persone restano intrappolate nei campi di detenzione libici dove la tortura è all’ordine del giorno. “Un anno fa il governo italiano, appoggiato da quelli europei, ha sottoscritto un equivoco accordo col governo della Libia a seguito del quale migliaia di persone sono finite intrappolate nella miseria, costrette a subire tortura, arresti arbitrari, estorsioni e condizioni di detenzione inimmaginabili nei centri diretti dalle autorità libiche”; ha dichiarato Iverna McGowan, direttrice dell’ufficio di Amnesty International presso le Istituzioni europee. Secondo il Memorandum, l’Italia avrebbe collaborato con le autorità militari e di controllo delle frontiere della Libia per “fermare le partenze dei migranti irregolari”; in altre parole impedire ai migranti, così come ai rifugiati, di raggiungere l’Europa. La strategia italiana era coerente col più ampio approccio europeo, tanto che venne fatta propria dai leader europei il 3 febbraio con la Dichiarazione di Malta. Da allora, il governo italiano e l’Unione europea hanno fornito alla Guardia costiera libica imbarcazioni, formazione e ulteriore assistenza per pattugliare il mare e riportare indietro rifugiati e migranti in fuga disperata verso l’Europa. Nel 2017, circa 200.000 persone sono state intercettate in mare dalla Guardia costiera libica e trasferite nei famigerati centri di detenzione del Paese. “L’Europa deve urgentemente porre il tema della dignità umana al centro delle sue politiche in materia d’immigrazione. Se l’Italia è al posto di guida, tutti i governi europei che cooperano con la Libia nel controllo delle frontiere hanno la loro parte di responsabilità per il trattenimento di migranti e rifugiati in centri dove si verificano violenze indescrivibili”, ha sottolineato McGowan. Negli ultimi pochi mesi, i programmi per il “ritorno assistito volontario” dei migranti trattenuti in Libia sono stati estesi: nel 2017 19.370 persone sono tornate nei paesi d’origine. Sono stati attuati positivamente più modesti progetti pilota per il reinsediamento di poche centinaia di rifugiati in Francia e Italia. Far sì che le persone intrappolate nei terribili centri di detenzione della Libia siano rilasciate dev’essere una priorità, ma l’evacuazione dei migranti tramite i programmi di ritorno volontario non può essere la soluzione sistematica. Dev’esserci piena trasparenza per comprendere se le persone “ritornate volontariamente” abbiano avuto accesso a procedure adeguate e non siano state rimandate verso ulteriori violazioni dei diritti umani. Inoltre, devono essere poste in essere alternative più durature come l’aumento dei reinsediamenti e il rilascio di visti umanitari. “In ogni parte del mondo la gente è rimasta scioccata dall’agghiacciante situazione dei migranti e dei rifugiati in Libia. I governi europei hanno reagito con rimedi provvisori, come le evacuazioni senza alcuna garanzia che le persone tornate nei luoghi di origine possano riprendere una vita in condizioni di sicurezza. Sollecitiamo i leader europei ad assicurare che quelle garanzie siano applicate, soprattutto mediante l’offerta di posti per il reinsediamento e visti umanitari per le persone che sono in un disperato stato di necessità”, ha concluso McGowan. Amnesty International sta anche sollecitando i governi europei a lavorare con le autorità libiche per ottenere la fine delle politiche di detenzione arbitraria e a tempo indeterminato dei rifugiati e dei migranti e il riconoscimento dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati e del suo intero mandato. Migranti. Il monito di Liu (Msf): “Il calo degli arrivi vuole dire più torture” di Maurizio Caprara Corriere della Sera, 1 febbraio 2018 “Le statistiche non descrivono tutto. Al di là dei numeri, dietro le 119 mila persone arrivate in Italia dal Sud del Mediterraneo nel 2017 ci sono storie individuali: il calo degli sbarchi nel vostro Paese significa, in Libia, aumenti delle torture, degli stupri, di vite in condizioni di fame. Non voglio immaginare che cosa succede. Dopo ciò che ho visto è troppo duro”, dice Joanne Liu, la presidente internazionale di Medici Senza Frontiere, organizzazione non governativa formata da 23 sezioni nazionali che assiste in 70 Paesi feriti e malati senza distinzione di idee politiche, etnie e fedi. Pediatra che ha lavorato in Mauritania, Haiti, Darfur e altrove, canadese di origini cinesi, Joanne Liu fornisce sulla diminuzione degli ingressi di migranti e rifugiati in Italia un punto di vista poco considerato. Con l’aria di chi procede determinata per una propria strada senza cercare applausi, in questa intervista al Corriere della sera fa presente che il filtro alle traversate di barconi in partenza dalla Libia, diventato più consistente l’anno scorso per scelta italiana ed europea, ha conseguenze non soltanto rimosse. Feroci. Che cosa ha visto nei centri libici per la detenzione di migranti e rifugiati? “Ne ho visitati due vicino Tripoli nel settembre scorso. Non li chiamerei campi. Sono depositi di persone. Nei miei 22 anni in Medici Senza Frontiere non avevo mai incontrato un’incarnazione così estrema della crudeltà umana”. Quali immagini le sono rimaste impresse? “Ricorderò sempre un uomo robusto con un bastone in mano: “Vuole vedere dov’è la gente?”. Io: “Sì”. L’uomo ha aperto la porta che aveva alle sue spalle e ha agitato il bastone: dentro un locale delle dimensioni di una palestra, centinaia di persone sono indietreggiate impaurite. Mi sono trovata davanti tanti occhi che mi guardavano da visi emaciati. Le persone hanno cominciato a protendere le mani verso di me e a sussurrare: “Aiutatemi”, “Portatemi via di qui”. Chi erano? “In maggior parte maschi, neri, provenienti da altri Paesi. Così tanti che non potevano stendersi per terra. Molti, seduti, trattenevano con le mani le ginocchia piegate”. Ufficialmente il posto era? “Un centro di detenzione per migrazione illegale. Ma in Libia non esiste un governo capace di controllare l’intero territorio, in ogni zona prevale una milizia diversa. Nessuno sapeva come andavano gestite queste persone. Ognuna di loro cercava un modo per uscire. In genere provano a partire. Se vengono fermate in mare - e se non muoiono in acqua - ritornano in un centro del genere. Qui sta una particolarità della Libia”. Quale differenza ha riscontrato rispetto ad altri Stati nei quali si concentrano flussi di profughi e migranti? “Che quanti raggiungono la Libia entrano in un circuito di sofferenza senza fine. Vede, poco fa sono stata in Bangladesh: in un campo con migliaia di profughi fuggiti dalla Birmania, tutti venivano da villaggi messi a fuoco o erano sopravvissuti a stragi. La maggior parte delle donne era stata violentata. Tante mogli erano state separate da mariti, molti figli dai genitori. Dopo la fuga però questo non accadeva più. In Libia per la gente che scappa da guerre, persecuzioni e miseria da altri Paesi invece continua. Diventano merce”. Ha in mente un esempio? “Una mia paziente, moglie di un atleta. L’hanno rapita, portata in una casa con altri sequestrati. È stata torturata affinché il marito pagasse. Se non riescono ad ottenere soldi, trascorso qualche tempo le bande di rapitori ritengono i prigionieri un peso, dunque li passano a un centro di detenzione. E da lì i detenuti tentano di fuggire per partire dal mare verso l’Europa. Con il rischio di tornare indietro”. Dal primo al 31 gennaio, gli arrivi in Italia dalla Libia sono stati 3.143. Il 26,6% in meno rispetto ai 4.251 dell’anno precedente. Secondo chi ne ha favorito il calo cambiando disposizioni per le navi nel Mediterraneo e contribuendo a riattivare la Guardia costiera libica, come il ministro dell’Interno Marco Minniti, se i flussi non fossero regolati potrebbero aumentare intolleranza e xenofobia tra i cittadini italiani. “Non ho commenti in materia. Io mi occupo di assistenza umanitaria. E in Libia il costo umano è troppo alto”. Al Sisi: “Regeni? Ucciso per rovinare i rapporti fra Italia ed Egitto” La Stampa, 1 febbraio 2018 A due anni dalla morte del ricercatore italiano, il presidente egiziano torna a promettere la caccia ai responsabili: “Prometto che non abbandoneremo questo caso”. Nel pieno del secondo anniversario del martirio di Giulio Regeni, il presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi è tornato a promettere che la caccia ai responsabili della tortura a morte del ricercatore friulano non si fermerà. E ancora una volta Sisi è tornato ad accusare terzi per quel sadico omicidio e ad evocarne il movente: danneggiare i rapporti fra l’Egitto ed l’Italia. Tuttavia, il supposto complotto è fallito e i due Paesi sono arrivati comunque a produrre un risultato economico di prima grandezza come il maxi-giacimento di Gas “Zohr” scoperto dall’Eni. Le frasi, alcune chiare, alcune ellittiche o sospese, sono infatti state pronunciate durante la cerimonia di avvio della produzione del più grande giacimento di gas naturale mai rinvenuto nel Mediterraneo. “Non smetteremo di cercare i criminali che hanno fatto questo”, ha promesso Sisi come già fatto in novembre. “Alla famiglia di Regeni presento ancora un volta le condoglianze del popolo egiziano e le prometto che non abbandoneremo questo caso fino a quando non si troveranno i veri criminali e verranno assicurati alla giustizia in Egitto”, ha insistito. Quel crimine è stato commesso “per rovinare i rapporti con l’Italia” e “per danneggiare l’Egitto”, ha ribadito Sisi. E, parlando da una poltrona in prima fila, si è rivolto all’amministratore delegato dell’Eni, Claudio Descalzi, chiedendogli: “Sa perché volevano danneggiare le relazioni fra Egitto ed Italia? Affinché non arrivassimo qui”, si è risposto. Che il riferimento sia ad un generico piano per sabotare le relazioni economico-politiche fra Italia ed Egitto e non solamente Zohr, è parso evidente alla luce delle analoghe dichiarazioni fatte a novembre in una conferenza stampa a Sharm El Sheik. In quell’occasione Sisi aveva fatto esplicito riferimento alla missione imprenditoriale guidata dall’allora ministro Federica Guidi cui il presidente - secondo indiscrezioni - chiese dieci miliardi di dollari di coperture agli investimenti italiani in Egitto. La richiesta fu formulata in un incontro avvenuto il giorno stesso, il 3 febbraio, in cui fu fatto ritrovare il martoriato corpo di Regeni alla periferia del Cairo morto, dopo giorni di torture, tra il primo e il 2 febbraio. La tecnologia italiana dal mese scorso sta comunque consentendo all’Egitto di sfruttare un giacimento “super-giant” con un potenziale complessivo di 850 miliardi di metri cubi di gas. Una scoperta che - come è stato sottolineato più volte anche oggi nei discorsi tenuti accanto all’intrico di tubi verdi del impianto sulla costa del Mediterraneo dove, a 1.500 metri di profondità, è stato scoperto “Zohr” - trasformerà il panorama energetico dell’Egitto: gli permetterà di diventare autosufficiente e di trasformarsi da importatore di gas naturale in futuro esportatore. È frutto di “un matrimonio di lunghissima data” fra l’Egitto e il gruppo energetico italiano, come ha detto Descalzi ricordando che “l’Egitto vede l’Italia come una nazione amica e vede l’Eni come il primo partner”. Iran. Impiccato un ragazzo di 22 anni. Aveva 15 anni al momento del reato La Repubblica, 1 febbraio 2018 La denuncia di Amnesty International per l’esecuzione, avvenuta martedì all’alba, del 22enne Ali Kazemi, che era stato condannato a morte per un omicidio commesso quando era minorenne. L’impiccagione ha avuto luogo senza informare l’avvocato del condannato, come invece prevede la legge. L’organizzazione umanitaria per la difesa dei diritti umani Amnesty International rende nota l’esecuzione, avvenuta martedì all’alba, del 22enne Ali Kazemi, che era stato condannato a morte per un omicidio commesso quando aveva solo 15 anni. L’esecuzione, nella provincia di Busher, ha avuto luogo senza informare l’avvocato di Kazemi, come invece prevede la legge iraniana. “Portando a termine questa esecuzione illegale, l’Iran ha reso manifesto che desidera mantenere la vergognosa reputazione di Paese leader al mondo per le esecuzioni di minorenni al momento del reato”, ha dichiarato Magdalena Mughrabi, direttrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord. “Siamo di fronte a un attacco frontale ai diritti dei minori, tutelati dal diritto internazionale che vieta in ogni circostanza l’uso della pena di morte nei confronti di minorenni al momento del reato”, ha commentato Mughrabi. “Il capo del potere giudiziario deve intervenire immediatamente e istituire una moratoria ufficiale sulle esecuzioni dei rei minorenni. Il parlamento di Teheran deve riformare il codice penale per proibire l’uso della pena di morte dei minorenni al momento del reato”, ha sottolineato Mughrabi. Avvocati e la famiglia avvisati ad esecuzione avvenuta. Ali Kazemi era stato condannato alla pena capitale per aver accoltellato a morte un uomo, nel marzo 2011, durante una rissa. All’epoca aveva solo 15 anni. Secondo quanto appreso da Amnesty International, la direzione del carcere e l’ufficio del procuratore hanno tormentato la famiglia di Kazemi con informazioni contraddittorie. Il 29 gennaio i familiari di Kazemi sono stati avvisati che l’esecuzione avrebbe avuto luogo il giorno dopo e li hanno convocati per un’ultima visita al congiunto. In serata, però, è stato detto loro che l’esecuzione era stata sospesa. La mattina del 30 gennaio sono stati rassicurati in merito, ma a mezzogiorno hanno appreso che la condanna a morte era stata eseguita. In 13 anni 87 impiccati per reati compiuti in età pre-adulta. Neanche un mese fa, il 4 gennaio, in Iran era stato messo a morte un altro minorenne al momento del reato, Amirhossein Pourjafar. Amnesty International ha registrato 87 esecuzioni di rei minorenni tra il 2005 e il 2018, quattro delle quali nel 2017 e due nel primo mese del 2018. L’organizzazione per i diritti umani ha identificato almeno 80 minorenni al momento del reato in attesa dell’esecuzione. Bahrain. Sciiti alla sbarra, due condanne a morte Il Manifesto, 1 febbraio 2018 Processo di massa a 60 persone, 19 condannate all’ergastolo e 47 private della cittadinanza. Per gli attivisti è una parodia di giustizia: a vigere è la repressione contro la maggioranza sciita. È di due condanne a morte, 56 al carcere (di cui 19 all’ergastolo) e 47 revoche di cittadinanza il bilancio del processo di massa chiuso ieri in Bahrain contro cittadini sciiti della monarchia degli al-Khalifa. Tutti accusati di aver “formato un gruppo terroristico” e esportato armi e munizioni per realizzare “attacchi e omicidi”. Dei 60 imputati solo due sono stati scagionati, mentre 24 sono stati giudicati in contumacia. “Una parodia di giustizia”, l’ha definita Sayed Ahmed Alqadaei, direttore del Bahrain Institute for Rights and Democracy: “Le confessioni estorte sono diventate la norma nelle corti bahreinite che dispensano sofferenza ai cittadini”. Soprattutto quelli sciiti, maggioranza nel paese del Golfo governato dalla minoranza sunnita con il pugno di ferro: giornalisti sotto processo, attivisti in carcere, partiti politici messi al bando, 553 persone private della cittadinanza dal 2012 e 21 condannati a morte solo nel 2017. Per gli al-Khalifa è tutta propaganda iraniana; non a caso i 58 condannati sono accusati di lavorare per il nemico Teheran. Dietro sta la longa manus del super-alleato saudita (quello che intervenne per sopprimere nel sangue la primavera di Manama del 2011), forte dell’impunità globale: il Bahrain è sede della Quinta Flotta Usa.