Pene e carceri: quel mondo che si è fermato a più di quarant’anni fa di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 18 febbraio 2018 L’articolo 1 del nuovo Ordinamento penitenziario, se il Governo nei prossimi giorni ce la farà ad approvarlo, afferma con forza che il percorso rieducativo “tende, prioritariamente attraverso i contatti con l’ambiente esterno e l’accesso alle misure alternative alla detenzione, al reinserimento sociale”. I contatti con l’ambiente esterno e l’accesso alle misure di comunità, come si chiamano oggi, sono i temi più cari al Volontariato, quelli che “aprendo” le carceri alla società e poi facilitando il rientro nella società stessa delle persone detenute, danno un senso a tutto il nostro lavoro di volontari. E vogliamo allora partire da questo, che potrebbe essere un nuovo inizio per la realtà delle pene e del carcere, per unirci ancora una volta a tutti quelli che chiedono con forza l’approvazione dei decreti attuativi dell’Ordinamento penitenziario, e sperano che accada il miracolo che vengano approvati tutti, anche i decreti mancanti, in tema di lavoro, affettività, ordinamento penitenziario minorile, misure di sicurezza e giustizia riparativa. Questa è una battaglia particolarmente importante in un momento in cui la spinta a chiedere pene cattive e carceri dove le persone “marciscano fino all’ultimo giorno” è davvero forte, una battaglia condotta con coraggio dal Partito radicale e da Rita Bernardini, da tante persone detenute e tante famiglie, sostenuta dagli avvocati penalisti e da numerosi giuristi, intellettuali e accademici, voluta dal Volontariato che ogni giorno dentro le carceri e sul territorio combatte per pene più umane e più dignitose. Ci sarebbe piaciuto che nessuno fosse escluso dalla speranza, un giorno, di intravedere dopo anni di carcere una vita diversa, per sé e per la sua famiglia, ci sarebbe piaciuto che quello che il Papa dice delle pene senza speranza, che sono pene disumane, fosse accettato da tutti, ma non viviamo nel mondo dei sogni e sappiamo fare i conti con una realtà, nella quale le paure dei cittadini e la debolezza della Politica, schiava di queste paure, pesano enormemente sulle scelte che hanno a che fare con la sicurezza. Questi decreti qualcuno lo escludono, i “cattivi per sempre”, quelli che sono condannati a morire in carcere senza uno spiraglio di speranza, perché così ha voluto la delega del Parlamento, ma comunque rendono i percorsi di reinserimento nella società un po’ meno accidentati, un po’ più sensati. Noi che conosciamo da tanti anni le carceri, chi ci vive dentro, chi è a rischio di finirci, vorremmo dire ai cittadini che questi percorsi sono anche gli unici che garantiscono più sicurezza: perché una persona che sconta gran parte della pena in galera, quando esce rischia di trovare solo un deserto di opportunità e di relazioni. È questo che vogliamo, persone sole e incattivite, è questo che immaginiamo che ci renda più sicuri? C’è una notizia di questi giorni che dimostra quanto sono strumentali certi attacchi di partiti politici ai nuovi decreti: si dice che solo in Italia le pene non sono mai certe, solo in Italia “si esce subito” dalla galera, solo in Italia si vuole ulteriormente accelerare questa uscita. Tanti giornali hanno riportato la storia di Federica S., ammazzata brutalmente, a 23 anni, ricordando che ora, a dieci anni da quel delitto, il suo assassino potrebbe tornare “in libertà”. Per l’omicidio di Federica è stato condannato a 17 anni e nove mesi di carcere un barista uruguayano di 39 anni, clandestino. Per commentare questa notizia in Italia si sta usando tutto l’armamentario della cattiva Informazione e della cattiva Politica. Quello che ci si dimentica spesso di dire è che l’omicidio, la condanna, la carcerazione del colpevole, tutto ciò è avvenuto in Spagna; che la pena è stata contenuta e non crudele, perché in Spagna hanno capito che uno Stato non può essere crudele come sanno essere certi esseri umani; che per la legge spagnola sono consentiti permessi premio dopo aver scontato due terzi della pena, e che quella persona, se uscirà, non sarà libera ma avrà magari un piccolo permesso di qualche ora. Ci sono reati orribili, nessuno lo può negare, ma rispondere al male con una uguale quantità di male non farà giustizia, non farà star bene chi ha sofferto, non renderà la nostra vita più civile. La Spagna in passato è arrivata più tardi di noi a fare una legge penitenziaria decente, ma ha saputo cambiare il sistema carcerario e far capire ai suoi cittadini che tanta galera non ci renderà mai più sicuri. La nostra legge penitenziaria per molti aspetti è vecchia, non parla mai di diritti e di doveri, sempre di “benefici”, è stata scritta quando il nostro Paese, e le nostre carceri, erano diversi e ha spesso ancora un’idea della pena carceraria come esercizio di obbedienza. Ma le persone con problemi di giustizia e le persone detenute hanno bisogno di crescere, di cambiare, di assumersi delle responsabilità, e i nuovi decreti vanno in questa direzione, di pensare a delle pene che responsabilizzano, e non che incattiviscono. Al Ministro allora diciamo grazie di aver lavorato in questa direzione, a partire dalla grande esperienza degli Stati generali dell’esecuzione penale, e chiediamo in questi convulsi giorni preelettorali di impegnarsi con tutta la forza possibile per non veder naufragare in dirittura d’arrivo la riforma. *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Preoccuparsi dei diritti dei carcerati non porta voti di Antonio Padellaro il Fatto Quotidiano, 18 febbraio 2018 “Perché voi giornalisti scrivete di tutto anche di cose poco interessanti e non vi occupate mai della riforma che può umanizzare l’esistenza di noi detenuti, che può cambiarci la vita?”, chiede a un certo punto Marco. Forse, rispondo, saremo anche distratti da cose meno importanti ma, detto in tutta sincerità, voi non siete molto popolari tra la gente là fuori, anzi si dice che avete già troppi privilegi e che per molti bisognerebbe buttare via la chiave, soprattutto quando si parla dei reclusi immigrati. Siamo nel carcere di Rebibbia dove, come altre volte, mi ha condotto Giorgio Poidomani, amico e compagno della prima ora al “Fatto Quotidiano”, che da molti anni collabora con l’associazione non governativa Antigone nel seguire i detenuti che fanno parte della redazione che realizza il giornale radio del carcere romano. Purtroppo, per Marco e per gli altri 57 mila ospiti del sistema penitenziario italiano le ultime novità non sembrano promettenti. Anche se proprio in extremis il premier Gentiloni si è impegnato a varare la riforma in via definitiva prima del voto del 4 marzo. Ma se così non fosse tutto sarebbe destinato a finire nel nulla con l’avvento della nuova legislatura (eventualità contro cui si battono i radicali di Rita Bernardini, da un mese in sciopero della fame). Detto ciò non possono passare sotto silenzio le critiche ai decreti attuativi del governo che abbiamo letto venerdì scorso su queste colonne a firma del procuratore aggiunto di Catania Sebastiano Ardita, ex direttore dell’ufficio detenuti. Egli, come numerosi altri magistrati che operano sul campo è convinto che approfittando di alcune norme, garantiste in eccesso, ci sono boss mafiosi che potrebbero uscire dal regime del 41 bis. Poiché lo stesso Ardita riconosce che nella riforma ci sono “disposizioni ispirate da sacrosante intenzioni di civiltà”, una domanda sorge spontanea: non sarebbe assurdo se una legge studiata per concedere ai reclusi (che lo meritano) una serie di benefici su sanità, lavoro e affettività finisse soltanto per allargare le maglie della giustizia indebolendo la sicurezza della collettività? Lo chiediamo prima di tutto al Guardasigilli Andrea Orlando promotore di una riforma attesa da quarant’anni. Nello stesso tempo non ci abbandona il dubbio che, come avvenuto per la legge sullo Ius soli, il governo a guida Pd dopo aver tirato il sasso preferisca ritirare la mano. Infatti non v’è chi non veda che nell’attuale pessimo clima elettorale parlare di diritti non solo non porta voti ma rischia di farne perdere parecchi. E molti di più se si tratta di immigrati e carcerati. Speriamo che non sia così: pensare di salvarsi la coscienza con una riforma studiata male per poi scegliere di lasciare tutto immutato rappresenterebbe una scelta politicamente vile. Allora molto meglio sarebbe stato non generare illusioni infondate. Bonino (+Europa): riforma ordinamento penitenziario atto di civiltà Askanews, 18 febbraio 2018 Emma Bonino chiede la “riforma dell’ordinamento penitenziario”, un provvedimento che è “un atto di civiltà”. La leader della lista +Europa scrive su Facebook: “La riforma dell’ordinamento penitenziario è un atto di civiltà giuridica atteso da decenni. Una riforma frutto degli Stati Generali dell’esecuzione penale, fortemente voluta dal ministro Orlando e dal Governo. Una riforma autenticamente liberale della giustizia e rispettosa del dettato costituzionale”. “Farla fallire in dirittura d’arrivo - insiste - sarebbe un errore politico ingiustificabile. Il centrodestra che fu (a parole) garantista e il M5s che mai (neppure a parole) lo è stato, sono pronti a polemizzare contro il governo ‘che fa un favore ai criminali’ e a lucrare elettoralmente su questo presunto scandalo? È una ragione in più per sfidare le loro posizioni, per difendere le norme e principi costituzionali dalle speculazioni parassitarie e dalla cultura della forca, che nel nostro Paese è sempre sovrapposta e confusa a quella dell’impunità. Conclude la Bonino: Apprezzo dunque la decisione del Presidente Gentiloni di convocare il consiglio dei ministri il 22 febbraio. Naturalmente, ci aspettiamo che il provvedimento venga approvato senza dar corso a nessuna delle modifiche proposte dalla Commissione Giustizia del Senato, che sono sostanzialmente demolitorie della riforma. E chiedo altresì che il Governo si impegni da subito a dare corso anche ai temi del lavoro in carcere e dell’affettività, che mi auguro siano stati solo temporaneamente accantonati ma non certo abbandonati”. “24 ore per il Signore”: monsignor Fisichella, quest’anno anche nelle carceri di Michela Nicolais agensir.it, 18 febbraio 2018 Quinta edizione dell’iniziativa “24 ore per il Signore”: il Papa incontrerà anche i “missionari della misericordia” che per volere di Francesco continuano a dispensare il sacramento della riconciliazione nei cinque Continenti, due anni dopo il Giubileo. Il 9 e 10 marzo, non solo le chiese delle diocesi di tutto il mondo saranno aperte ininterrottamente per una giornata in modo da offrire ai fedeli che lo desiderano l’accesso alla Confessione e l’adorazione eucaristica: succederà anche nelle carceri italiane, grazie alla disponibilità dei cappellani. Lo annuncia monsignor Rino Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, illustrando la quinta edizione di “24 ore per il Signore”, in occasione della quale il Papa incontrerà anche i “missionari della misericordia” che per volere di Francesco continuano a dispensare il sacramento della riconciliazione nei cinque Continenti, due anni dopo il Giubileo. L’iniziativa “24 ore per il Signore” è nel cuore del Papa, che l’ha citata anche nella parte finale del messaggio per la Quaresima. Quali le novità dell’edizione di quest’anno? È vero, possiamo dire che ormai questa iniziativa - giunta alla quinta edizione - si collochi sempre più nel cuore della Chiesa, tanto che è diventato un momento che sembra essere un appuntamento fisso della Quaresima: papa Francesco l’ha inserita anche nel suo Messaggio. Il tema di quest’anno è un’espressione del Salmo 130: “Presso di te è il perdono”: il desiderio è quello di aprire il cuore per farvi entrare la vita di Dio, che lo cambia e lo trasforma e così ci fa felici. La risposta delle Chiese locali a questa iniziativa possiamo dire che dia corpo a una sorta di “mappa” delle diocesi del mondo in risposta al Sacramento della Confessione e all’adorazione eucaristica: qual è, sotto questi due profili, il volto dei cinque continenti? Dalle notizie che riceviamo quando i vescovi vengono a Roma per le visite “ad limina” vediamo che appena si nomina “24 ore per il Signore”, tutti sanno già di cosa si stratta. È un segno molto importante per noi, perché vuol dire che vivono questa esperienza e permettono di realizzarla e diffonderla nella propria diocesi. Proprio in questi giorni ho ricevuto un lettera dell’Ispettore generale delle Carceri che conteneva la proposta di vivere “24 ore per il Signore” anche nei penitenziari. I cappellani sono allertati per vivere questa esperienza e questo momento di perdono: un momento, questo, che è stato pensato, voluto e atteso. Abbiamo vissuto momenti simili anche nel calendario del Giubileo voluto da Papa Francesco. Durante il Giubileo abbiamo toccato con mano quanto il nostro popolo sentisse il bisogno della misericordia. È un cammino che continua, una dimensione che, in maniera speciale, vediamo entrare sempre di più nella vita delle nostra comunità. L’esperienza del perdono è senza dubbio una delle esperienze più belle che possiamo sperimentare nella nostra vita: se però non lo imploriamo come dono del Padre, se non ci lasciamo perdonare da Lui, non saremo capaci di poterlo ricevere e, a nostra volta, di perdonare i nostri fratelli. Dopo la Quaresima, entra nel vivo il cammino di preparazione al Sinodo dei giovani. Come vi state preparando a questo evento, che avrà una “prova generale” nell’incontro dei giovani italiani ad agosto con il Papa? Dopo le “24 Ore per il Signore”, nella Domenica delle Palme celebreremo a livello diocesano la Giornata mondiale della gioventù: tanti giovani verranno a Roma per viverla con Papa Francesco, in attesa del Sinodo di ottobre. La domenica seguente sarà la domenica della misericordia, che quest’anno sarà vissuta in maniera particolarmente solenne: il Papa celebrerà la Messa in piazza S. Pietro, insieme a tutte le persone, gruppi, associazioni, realtà della vita consacrata, che si ispirano alla misericordia. E il tema della misericordia sarà ripreso anche nei giorni successivi, in cui saranno presenti a Roma i tantissimi “Missionari della misericordia” che il Papa ha deciso di inviare per il mondo durante il Giubileo. Si tratta di un incontro voluto, desiderato e deciso dal Santo Padre, che ha voluto incontrare di nuovo, due anni dopo, i missionari, per “fare il punto” del percorso insieme a loro, ascoltare le loro testimonianze e tenere acceso il senso vivo del Padre che perdona sempre chi implora la sua misericordia, rimuovendo qualsiasi ostacolo al perdono. Il processo di riforma di Papa Francesco per la Curia Romana, come sappiamo, va avanti: si profilano novità per il vostro dicastero? Anche noi siamo in attesa di sapere cosa succederà. Molti passi sono stati fatti, alcuni dicasteri sono stati accorpati. Non posso e non sono in grado di prevedere i passi successivi. Ciò non toglie che continuiamo a vivere l’esperienza della nuova evangelizzazione, un tema fondamentale e determinante per la vita della Chiesa, soprattutto in questo momento: basti pensare al Sinodo del 2012 e all’Evangelii gaudium, che possiamo definire una vera e propria “Magna Charta” della nuova evangelizzazione. Indipendentemente dall’esito della riforma, rimarrà una dimensione strutturale: il tema della nuova evangelizzazione è in prima linea nella vita della Chiesa. Piazze come arene, deriva da fermare di Paolo Graldi Il Messaggero, 18 febbraio 2018 Domanda: è in atto una sfida organizzata sul fronte dell’ordine pubblico? Diversi episodi, con cadenze regolari, segnalano una preoccupante deriva violenta. Manifestazioni non autorizzate che sfociano in aperte sfide alla polizia e ai carabinieri mostrano che riappaiono con crescente intensità soggetti che programmano assalti alle forze dell’ordine, cercano il corpo a corpo, sono attrezzati con scudi, bastoni, bombe carta, talvolta anche di bottiglie molotov. Un’aggressività programmata che passa da Forza Nuova dell’ultra destra a segnalati centri sociali, disponibili allo scontro fisico contro gli antagonisti politici ma anche verso uomini in divisa. È un rigurgito scalmanato, velenoso: sembra che si vada cercando l’incidente grave, l’assalto sanguinoso. Niente a che vedere con manifestazioni responsabili, tenute nei ranghi da servizi d’ordine leali e attivi. No, qui, a Piacenza come a Bologna e da diverse altre parti, è evidente il piano d’attacco. I metodi usati sono noti, collaudati, di sicuro effetto. Una barriera umana spinge con armi improprie verso zone vietate in modo che i presidi dei militari siano messi alla prova: o respingono gli assalti o indietreggiano e lasciano che la massa dilaghi. A Piacenza, sabato scorso, un carabiniere è inciampato durante una ritirata strategica: lo hanno assalito e pestato con il suo stesso scudo e con aste di legno e di ferro. Una spalla rotta, ricovero in ospedale, intervento chirurgico. Una scena filmata e diffusa dai tg nella quale è evidente la carica di estrema e criminale violenza della prima linea dei manifestanti, poi identificati e incriminati. Un episodio “vergognoso” lo ha definito il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, rimarcando la necessità di impedire alla piazza che cerca lo sfascio di farla da padrone. Polizia e carabinieri, come strategia d’intervento, cercano in ogni occasione di contenere queste spinte: si vuole evitare che la contrapposizione frontale degeneri e s’inasprisca. Una tecnica intelligente che scongiura anche da parte di polizia e carabinieri risposte fuori misura. È capitato e all’occorrenza è stato fatto notare. E tuttavia non è pensabile che si possano inscenare manifestazioni di piazza perfino non autorizzate che si prefiggono di sfidare le regole dell’ordine pubblico e si traducono in aperte sfide intrise di violenza programmata. Quest’ultimo scorcio di campagna elettorale è a rischio. L’esigenza di poter disporre democraticamente di luoghi pubblici non può e non deve imbattersi nei piani di chi intende la piazza come unico terremo di scontro violento. Le indagini che seguono gli incidenti, nella maggior parte dei casi, riescono a individuare un certo numero di responsabili e di giungere a precise incriminazioni, ma poi è l’iter giudiziario che diviene assai poco esemplare. Come sarebbe utile, anzi necessario. Tra sconti, patteggiamenti e altre premialità penitenziarie i processi per direttissima si diluiscono e si stemperano. Talvolta lasciano il tempo che trovano. Comunque, non si percepisce che la sfida paga e anzi il conto è tutt’altro che salato. L’attacco alle forze dell’ordine in servizio di ordine pubblico deve tornare ad essere un comportamento assai grave. Il ventaglio dei reati contestati davanti al giudice deve contenere il senso di una sfida inaccettabile. S’innesta qui un concetto generale. In altri paesi la polizia, le forze dell’ordine, sono rigorosamente tenute a comportamenti adeguati alle circostanze, nel rispetto dei diritti dei cittadini e però guai a chi ne investe l’autorità ingaggiando scontri nei quali si nota una attenta programmazione. Si cerca la sfida, il contatto, lo scontro. La legislazione vigente è adeguata a scongiurare travisamenti, armi improprie, comportamenti illegali. Ma è forse un maggior rigore della sua applicazione che ancora è carente. Le piazze, in democrazia, devono essere e restare luoghi nei quali la gente può pacificamente radunarsi e manifestare, come è detto in Costituzione. Qualsiasi deroga crea disagio, panico, danni, ferite alla democrazia. E alle persone. Con le condotte riparatorie estinto il reato anche nel giudizio di legittimità di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 18 febbraio 2018 La nuova causa di estinzione del reato per condotte riparatorie può essere fatta valere anche in Cassazione. E, quando il giudice di merito si è già pronunciato per la concessione dell’attenuante prevista dal Codice penale a favore di chi risarcisce il danno effetto della propria condotta illecita, allora la Cassazione può decidere per l’annullamento della condanna inflitta. Anche per il reato di stalking, sia pure pro tempore. Tutte indicazioni che arrivano dalla sentenza n. 7763 della Quinta sezione penale della Corte di cassazione. Con la sentenza si interviene in un procedimento per il reato di stalking commesso secondo l’accusa dal direttore di un centro commerciale a danno di una commessa che vi lavorava. La Corte d’appello aveva confermato, sia pure riducendola la pena a carico dell’uomo, riconoscendo tuttavia l’applicazione dell’attenuante disciplinata dall’articolo 62, n. 6, del Codice penale a vantaggio di chi rimedia alle conseguenze del delitto. La difesa aveva così fatto leva, tra l’altro, su questo elemento (era stata pagata una somma, considerata idonea dalla donna, che aveva ritirato la costituzione d parte civile), sollecitando l’applicazione della nuova causa di estinzione del reato per condotte riparatorie introdotta dall’agosto scorso con la legge n. 103. A questo punto davanti alla Cassazione si è posta una serie di problemi. Il primo rappresentato dalla possibilità di chiedere l’applicazione del nuovo articolo 162 ter del Codice anche nel giudizio di legittimità. La disciplina transitoria da applicare ai processi in corso non lo prevede, evidentemente nella impossibilità per la Cassazione, priva dei poteri di merito, di valutare l’adeguatezza delle condotte riparatorie. Malgrado questo, per la prima volta in maniera argomentata, la Cassazione afferma di potere applicare la norma, che si indirizza ai reati perseguibili a querela di parte oggetto di rimessione. Lo può fare in tutti i casi, sottolinea la sentenza, in cui, come avvenuto nel procedimento esaminato, ci sia già stata una valutazione sul punto da parte del giudice di merito. E in questo caso la valutazione, con esito positivo c’è stata, perché la Corte d’appello aveva ritenuto di dovere applicare la “vecchia” attenuante dell’articolo 62, n. 6, del Codice, i cui presupposti (riparazione delle conseguenze dell’illecito) sono le stesse della nuova causa di estinzione. In entrambi i casi, infatti, si fa riferimento all’integrale riparazione del danno prima del giudizio attraverso risarcimento, restituzione o comunque comportamenti adeguati. La Cassazione allora può procedere alla dichiarazione di estinzione. Anche se si tratta di stalking. È vero che, dopo le polemiche dell’estate scorsa, il reato di atti persecutori è stato escluso dal perimetro dei delitti “riparabili”. Ma tutto questo è avvenuto solo a fine anno con la legge n. 172 del 4 dicembre 2017, la cui applicazione retroattiva è “dubbia”. Milano: manette e luci al neon, viaggio nel mondo delle direttissime di Zita Dazzi La Repubblica, 18 febbraio 2018 Al pianoterra del Tribunale si celebrano udienze di convalida e processi rapidi al ritmo di uno ogni mezzora: fino a 30 a mattina. Ci sono spacciatori e tossicodipendenti, senzatetto e profughi che aspettano il rimpatrio, pochi italiani e tanti stranieri, donne e uomini dalle storie minime nella loro tragicità, esistenze alla deriva come ciottoli esposti alla risacca sulla riva del mare. Avanti e indietro da quelle aule illuminate al neon, dentro e fuori da quelle gabbie metalliche, le manette ai polsi, il gergo giuridico che quasi nessuno capisce, i cento alias diversi snocciolati davanti ai magistrati che si mettono le mani nei capelli mentre implorano l’imputato di non dire cose palesemente assurde per cercare di scagionarsi dalle accuse. “Almeno nella declinazione delle generalità c’è l’obbligo di dire il vero, glielo può spiegare?”, chiede Giulia Turri rivolta all’interprete arabo, all’inizio della direttissima per la convalida dell’arresto di un borseggiatore che si dice di nazionalità algerina. Turri è la giudice che ha condannato Berlusconi per il caso Ruby. Insomma, non è un magistrato qualunque, ha grande esperienza, anche se è di turno alle direttissime, diciamo il grado zero del penale, udienze di convalida e processi rapidi che si svolgono al ritmo di uno ogni mezz’ora, circa trenta ogni mattina, giù nel ventre freddo di quella città di marmo che è il tribunale. Siamo al piano terra del palazzaccio. Per raggiungere le tre aule bisogna infilare corridoi lunghissimi percorsi dalle toghe degli avvocati sempre di fretta e dalle divise degli agenti che scortano nelle aule file di arrestati in manette. Manette semplici come quelle dei film western e manette tecnologiche, con strani lucchetti e fili d’acciaio. Per un profano, trascorrere qualche mattina alle direttissime è come fare un viaggio in un subcontinente sconosciuto di quel piccolo mondo che è Milano. Se avete presente la città della moda e del design, delle giacche e cravatte, dei vetri a specchio dei nuovi grattacieli, basta venire da queste parti per capire che c’è anche un’altra città, per scoprirne il volto misterioso, il sottobosco dei piccoli delinquenti, delle frattaglie della criminalità. È il volto della sequela infinita di piccoli spacciatori, rapinatori da strapazzo, mendicanti riconvertiti in ricettatori, ladruncoli da supermercato, gente che vede un motorino, ci sale sopra e scappa anche se è inseguita da una volante, senza speranza, imboccando in contromano la tangenziale. Basta buttare un occhio dentro queste aule, ascoltare le parole dei difensori d’ufficio, per capire che siamo fra poveracci, persone che commettono reati a ripetizione, che si fanno arrestare una, due, tre volte di fila per lo stesso furto nello stesso grande magazzino, che ascoltano a testa bassa, dentro alla gabbia quel che il pm e gli avvocati contrattano cercando di fare meno danni possibile all’imputato e alla società che comunque deve farsene carico. Ascolti le storie della direttissima, in queste aule fredde, illuminate al neon, e un po’ ti viene da piangere, un po’ da ridere. Ci sono le due cubane, 35enni, clandestine in Italia da tre mesi, arrestate a gennaio a Roma per un borseggio, e riacciuffate il giorno di San Valentino al settimo piano della Rinascente con una borsa schermata piena di vestiti appena rubati da Benetton con tanto di tenaglia e placche antitaccheggio spaccate. “Stavano cercando con un foulard di prendere dalla borsa di una turista asiatica una confezione di Cartier con dentro un anello del valore di 1.200 euro appena acquistato in un negozio di via Montenapoleone”, spiega l’agente di polizia locale che seguiva le due cubane e le ha beccate in flagrante. Il giudice le rispedisce in cella e le rinvia a giudizio fra pochi giorni. Non potrebbe nemmeno mandarle a casa, visto che le due dichiarano di avere solo un “posto letto da connazionali dalle parti di via Padova” senza specificare il civico. C’è il signor Braidic, che un tetto ce l’ha e anche una famiglia, ma è stato visto dalle telecamere mentre cercava di ripulire le casse di un bar dove era andato a bere. Numerosi precedenti specifici, lunga carriera dietro alle sbarre, l’imputato prova a spiegare al magistrato la sua versione: “Non volevo rubare, in realtà. Ero ubriaco, non ricordo bene”. Dopo di lui è il turno di un uomo che viene dal Gambia. Domicilio? “Il marciapiede di via Ugo Bassi”. Lì dove è stato fermato per aver ceduto 1,9 grammi di marijuana in cambio di 20 euro. L’avvocato d’ufficio spiega che si tratta di “un richiedente protezione umanitaria, allontanato dal centro d’accoglienza per il rigetto della domanda d’asilo”. Il gambiano davanti al giudice fa scena muta, annuisce solo quando gli viene suggerito uno scenario: “Dunque lei spacciava perché non aveva altro modo di procurarsi da vivere?”. Il ragazzo alza un attimo la testa: “Perché avevo fame”. Sono tutte storie così, quelle che si ascoltano in queste aule. Alcune più, alcune meno credibili. Come quella di tale Fati, nordafricano senza permesso di soggiorno, fermato con un cellulare rubato, numerosi precedenti per reati contro il patrimonio. Insiste: “Signor giudice mi creda, ho comprato il telefono da un conoscente per 200 euro qualche giorno fa”. Poi spiega di essere cocainomane e chiede di essere preso in carico dal Sert per curarsi. La sensazione di essere in un “sentenzificio”, come suggerisce qualche avvocato, è corretta. E bisognerebbe avere la penna di Anton Cecov per raccontare le mille sfumature di ognuno di questi mini processi, per dire le espressioni da cane bastonato di quelli che sono stati arrestati troppe volte per sperare nell’”immediata scarcerazione”, per descrivere la rapida pacca sulla spalla che un carabiniere scambia con il ragazzo che ha arrestato il giorno prima, un gesto di solidarietà istintiva, umana, mentre il giudice mette il 25enne italiano, pregiudicato, agli arresti domiciliari. Gli hanno trovato sotto al letto mezzo chilo di marijuana, bilancini e strumenti per fare imballi sottovuoto. “Ma ha un lavoro regolare, vende la droga per pagarsi la sua dose”, spiega il difensore. La giudice non ha espressione e scrive la sentenza. A mano. Con una penna a biro. Nella Milano cablata della fibra ottica. Milano: l’avvocata Valentina Alberta “ritmi serrati e gabbie, è macelleria giudiziaria” di Zita Dazzi La Repubblica, 18 febbraio 2018 L’avvocata Valentina Alberta, nel direttivo della Camera penale fino a pochi mesi fa, è a una direttissima e difende d’ufficio un immigrato. Non è una specie di catena di montaggio quest’aula? Qualcuno parla di “sentenzificio”. È esagerato? “Qualcun altro parla di anche di “macelleria giudiziaria”. In effetti i ritmi sono molto sostenuti. Per fortuna da qualche anno è stata modificata la norma che prevedeva l’arresto per gli immigrati senza permesso di soggiorno. Perché prima si era al collasso”. Sono tantissimi gli stranieri. “Sì, i cittadini stranieri sono in prevalenza, come a San Vittore dove sono il 70 per cento. Spesso chi sta in carcere, fuori non ha fissa dimora, quindi è difficile per il giudice emettere misure alternative alla detenzione, come gli arresti domiciliari. Ma se si va a vedere nelle carceri, in realtà si vede che i numeri delle persone in attesa di giudizio non sono calati dal 2015”. Si cerca di limitare la carcerazione, giusto? “La mia sensazione è che, dove possibile, se non ci sono precedenti, se ci sono i termini di legge, e sempre che ci sia un domicilio, si cerchi di evitare la custodia cautelare. I carceri sono affollati da gente in attesa di giudizio per bagatelle”. Molti imputati sembrano venire dai margini della società, si dicono recidivi per necessità, per tossicodipendenza, per mancanza di altro reddito. “Sì, come in carcere, c’è spesso un gran numero di “casi sociali”, che dovrebbero essere intercettati prima dai servizi pubblici tipo Sert e centri psichiatrici, per evitare di intasare le celle di questi problemi”. Mandarli in carcere serve? “Dipende. Ci sono anche alcune misure alternative, come il divieto di soggiorno in città, che già si sa comportano una probabilità di trasgressione altissima”. Le gabbie di ferro in aula con gli imputati portati dentro a ondate successive, non sono un po’ agghiaccianti? “Più che altro ci sono sentenze europee che ne vieterebbero l’uso. Il detenuto avrebbe il diritto di assistere all’udienza senza essere costretto, a fianco del difensore. Ma poi queste gabbie ci sono e si continua ad usarle. Per me è un oggetto stigmatizzante, soprattutto quando vengono riempite di tante persone, come spesso succede”. Bologna: carcere della Dozza, due detenuti salvati dal suicidio bolognatoday.it, 18 febbraio 2018 Due detenuti del carcere di Bologna, nell’arco di pochi giorni, hanno tentato di togliersi la vita all’interno della loro cella: uno per dissanguamento e il secondo per impiccagione. Sono stati salvati in extremis dagli agenti della Polizia Penitenziaria della Dozza, così come spesso accade. “Un detenuto di origini italiane del circuito AS ha tentato di togliersi la notte fra venerdì e sabato nel carcere bolognese Dozza - a darne notizia è il Segretario Generale della Uil Polizia Penitenziaria di Bologna Domenico Maldarizzi. Il ristretto si è procurato dei tagli all’avambraccio rimanendo a letto sotto le coperte ma, solo grazie alla prontezza di riflessi e la grande professionalità di un Agente di Polizia Penitenziaria che ha notato una macchia di sangue per terra ed allertato tutti, si è riusciti a strapparlo dalla morte.” “Il tempestivo intervento di altro Personale di Polizia Penitenziaria, del medico di turno e dell’infermiera in servizio ha riportato il detenuto, ormai privo di battito cardiaco, in vita. Solo due giorni fa - continua Maldarizzi - la Polizia Penitenziaria di Bologna ha salvato in extremis un altro detenuto di origini magrebine da un tentativo di impiccagione nel Reparto Penale. Anche qui grazie al tempestivo e provvidenziale intervento degli Agenti di Polizia Penitenziaria di Bologna si è riusciti a soccorrere in tempo il detenuto e a strappargli dal collo la corda rudimentale”. “Questi interventi sono solo gli ultimi casi delle migliaia di salvataggi avvenuti negli ultimi anni nelle carceri italiane”. Per Maldarizzi, “gli Agenti operano quotidianamente “tra indicibili difficoltà operative e indegne condizioni lavorative, le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria non solo assicurano la sicurezza all’interno delle nostre prigioni ma sono costantemente impegnati a salvare vite umane”. I tentativi di suicidio in cella sono molto frequenti e negli ultimi dieci anni la Polizia Penitenziaria ha salvato circa 6.000 detenuti in extremis: “Non possiamo, quindi, che essere grati alle donne e agli uomini dei baschi azzurri che - chiosa il coordinatore Provinciale Domenico Maldarizzi - in silenzio, armati di umanità, tolleranza e professionalità, impediscono, il definitivo collasso del nostro sistema carcerario. “Ciò che è accaduto alla Dozza di Bologna ne è la riprova - conclude Il Coordinatore Provinciale della Uil Penitenziaria - ed è la risposta silenziosa della Polizia Penitenziaria che, come tutto il Comparto Sicurezza ormai, opera senza uomini e mezzi. Rimini: “carcere sovraffollato e aumentano gli atti di autolesionismo, serve riforma” di Andrea Polazzi newsrimini.it, 18 febbraio 2018 “Una situazione tragica”. Così la delegazione del Partito Radicale ha commentato quanto visto nel carcere di Rimini nella visita effettuata in mattinata. Il numero di detenuti, così come accade nel resto d’Italia, è tornato negli ultimi due anni ad impennarsi. “Si registrano oggi 174 detenuti a fronte di una capienza effettiva che, tenendo conto delle sezioni chiuse e di quelle ridotte, è di 95 e non di 126” - spiega Ivan Innocenti del Partito Radicale - “questa è una questione grave”. I radicali lamentano il ritorno anche a termini definiti inaccettabili come quello di “capienza tollerabile”. Si evidenziano anche criticità dal punto di vista sanitario secondo Maura Benvenuti: a Rimini non c’è ancora il fascicolo elettronico, sono molti i malati psichiatrici, oltre ai 64 tossicodipendenti (di cui 8 sotto metadone) e sei i diabetici. Ad aggravare la situazione dei detenuti c’è anche la carenza d’organico del personale penitenziario: appena 110 rispetto ad una pianta organica di 144 a Rimini. Eppure la loro presenza è ritenuta fondamentale dagli stessi detenuti. Preoccupa anche il dato sui suicidi: nonostante non ne siano avvenuti ai Casetti, nel 2016 e nel 2017 si sono registrati rispettivamente 4 e 5 tentativi. 74 invece gli atti di autolesionismo (erano 53 nel 2016). Numeri legati proprio al sovraffollamento e che rendono, spiegano i radicali, sempre più urgente l’approvazione della riforma carceraria sulla quale Gentiloni ha assicurato il via libera prima del nuovo Governo. “È indispensabile - dice Innocenti - che il legame tra i detenuti e la famiglia e la società resti solido. Ora invece questo viene loro negato e spesso riconsegniamo alla società persone peggiori di quelle che sono entrate in carcere. E per questo che diventa fondamentale approvare questa riforma penitenziaria. Una riforma che manca dal 1975.” Trapani: in carcere incontro-dibattito tra studenti, detenuti e Magistrato di sorveglianza di Antonio Lufrano quotidianosociale.it, 18 febbraio 2018 In data 16.2.2018 all’interno della sala teatro della casa Circondariale di San Giuliano e alla presenza del Magistrato di Sorveglianza dottoressa Chiara Vicini, si è svolto un incontro - dibattito tra alcuni detenuti del circuito “Media Sicurezza”, ristretti presso la Sezione Mediterraneo, e oltre un centinaio di alunni delle Scuole Trapanesi: Antonino De Stefano, S. Calvino - G.B. Amico, Vincenzo Fardella e Rosina Salvo nell’ambito del progetto legalità denominato “La tratta degli esseri umani” il cui 2° segmento tratta l’argomento “Il valore della vita e della libertà” promosso dall’Associazione Co.Tu.Le.Vi. (Contro Tutte Le Violenze) guidata dalla infaticabile dottoressa Aurora Ranno. Gli alunni presenti e accompagnati da numerosi docenti hanno rivolto numerose domande ai detenuti che hanno raccontato la propria esperienza e gli errori commessi nella loro vita, nonché le riflessioni critiche sul proprio passato. In particolare, e assolutamente in tema con gli argomenti del progetto, gli alunni hanno ascoltato in religioso silenzio la testimonianza di un detenuto “scafista” originario dell’Africa Centrale che ha raccontato le proprie vicissitudini attraverso il viaggio per ben 5 paesi africani fino alla prigionia e un periodo di lavoro in schiavitù passato in Libia e quindi la partenza alla guida “obbligata dietro minacce” di un natante e il conseguente arresto. È certo che da questi racconti gli alunni hanno potuto trarre delle riflessioni; racconti che in nessun modo è stato sottolineato dal Comandante di Reparto Giuseppe Romano presente all’incontro, vogliono giustificare gli errori commessi ma anzi, con la revisione critica del proprio passato sperano di trasmettere valori positivi alle giovani generazioni presenti in teatro. Numerose domande sono state poste al Magistrato di Sorveglianza, dottoressa Chiara Vicini che ha arricchito, con la sua presenza e con il suo intervento, il contenuto della manifestazione. L’intervento poi della psicologa Silvia Scuderi ha offerto ai ragazzi nuovi spunti di riflessione sui temi trattati. Per le profonde emozioni scaturite dai sinceri e sentiti interventi dei detenuti, l’incontro - dibattito ha nella platea dei ragazzi sentimenti di vera commozione. Su tutto è stato posto in evidenza l’importanza di alcuni valori fondamentali tra cui la famiglia, supporto indispensabile per una sana crescita lontana da ambienti malavitosi. Questo è solo l’ultimo di una serie di incontri significativi con studenti delle scuole trapanesi di ogni ordine e grado per i quali la Casa Circondariale di Trapani si pone come capofila degli Istituti Siciliani per la diffusione della cultura della legalità Vicenza: in prima superiore al poligono di tiro, scoppia la polemica a scuola di Andrea Alba Corriere della Sera, 18 febbraio 2018 Pistola in pugno, bersaglio a dieci metri di distanza. Studente di prima superiore che prende la mira e spara: pallini di plastica, rigorosamente dentro al poligono. Il tiro a segno è una disciplina olimpionica, ma in Veneto il suo inserimento come “attività extracurricolare” e senza voto da parte dell’istituto alberghiero-commerciale Da Schio di Vicenza, sta suscitando polemiche. Il consigliere regionale del Pd Andrea Zanoni chiede al governatore leghista Luca Zaia di “bandire ogni tipo di attività scolastica che preveda l’uso di armi, anche se ad aria compressa”. Il centrodestra è compatto, sul fronte opposto, ma anche i rappresentanti dei genitori difendono la scuola. La protesta - La protesta è partita da una mamma preoccupata, che ha sollecitato l’intervento dell’esponente dem. Ma il caso si inserisce in un dibattito locale e nazionale. A Vicenza nei giorni scorsi il sindaco Achille Variati (Pd) si è scagliato contro l’accesso dei minori sotto i 16 anni ad Hit Show, fiera vicentina della caccia (ma con esposte anche armi da difesa) che in Veneto - terra di “doppiette” - registra ingressi sempre in crescita . E si aggiungono i timori, nazionali, suscitati a San Valentino dalla strage al liceo Parkland in Florida, con 17 studenti e insegnanti massacrati. “Ritengo - dichiara Zanoni - che l’utilizzo di pistole e armi non debba essere promosso dalla scuola pubblica”. Anche la diocesi si è detta “perplessa”. Il preside Giuseppe Sozzo invece difende le lezioni. “Sono stupito delle polemiche - osserva - da anni proponiamo ai ragazzi di prima del commerciale anche attività alternative: rugby, tiro con l’arco, quest’anno tiro a segno. Sempre in sicurezza, con istruttori federali. Finora nessun genitore aveva protestato: del resto non è “tiro al cinghiale”, ma una disciplina olimpionica per cui l’Italia ha vinto anche medaglie d’oro”. La replica - L’assessore veneto alla Formazione, la forzista Elena Donazzan, appoggia il dirigente: “Il Da Schio fa bene, anzi speriamo porti dei ragazzi a diventare campioni italiani”. Sulla stessa linea ci sono il presidente del consiglio regionale Roberto Ciambetti (Lega Nord) e Sergio Berlato, candidato alla Camera e consigliere regionale del partito di Giorgia Meloni, oltre che paladino veneto dei cacciatori: “Quelle del Pd sono posizioni ideologiche”, attacca. E mentre il presidente dell’asd Tiro a Segno Vicenza, Efren Dalla Santa, avverte che “ci sono anche genitori che ci ringraziano, i ragazzi imparano la concentrazione”, al Da Schio dal comitato genitori e dal consiglio d’istituto c’è intesa con il preside: “Nessun genitore si era lamentato - sottolineano i rappresentanti Roberto Boaretto e Matilde Cortese - ed era stato detto che tutto avviene nell’ambito di una pratica sportiva”. Roma: la pallanuoto incontra i detenuti, ieri la prima visita a Rebibbia pallanuotopuglia.com, 18 febbraio 2018 Il progetto “la pallanuoto incontra i detenuti” ha preso il via ieri mattina all’interno della casa circondariale “G. Stefanini” di Rebibbia. Una folta delegazione della SIS, capitanata dal DS Giacomo Esposito e dai tecnici Pierluigi Formiconi ed Enrico Alonzi, ha lavorato con diverse detenute “dibattendo” sui valori dello sport ad alto livello e raccontando storie di vita vissuta legata allo sport. Momenti di estrema condivisione ma anche di estrema gioia per tutte le parti in causa. Le atlete della SIS hanno ascoltato con molta attenzione le esperienze che le detenute hanno voluto raccontare rispetto a ciò che la società ha proposto, dando un tocco personale a questo bel dibattito. Il CT Formiconi, con la sua infinita esperienza, ha voluto condividere alcuni dei momenti più importanti della sua carriera - tra cui le olimpiadi di Atene - svelando alcuni retroscena molto simpatici. Anche altre atlete, come Tabani e Tankeeva, hanno spiegato alle ragazze il significato del valore di una medaglia Olimpica e che cosa si prova a preparare ed a partecipare ad un evento sportivo di questa portata. Ma la cosa più significativa della mattinata è stata senza dubbio scoprire che una delle ragazze che sta scontando la pena detentiva, è stata compagna di scuola del nostro capitano Francesca Giovannangeli. Un momento di rara bellezza, difficile anche da descrivere a parole. Perché sarebbe bastato vedere il loro abbraccio per capire tante cose. “Una sensazione fortissima - commenta a margine della mattinata Francesca Giovannangeli - di quelle che non si possono descrivere a parole. Questa è stata la mia prima esperienza all’interno della casa circondariale ed incontrare nuovamente la mia compagna di scuola, ripercorrendo i vecchi tempi insieme, è stata comunque una gioia. Mi ha raccontato il motivo per il quale è lì e poi mi ha subito esternato la sua contentezza nel vedere un viso familiare. Ringrazio la società per avermi dato questa opportunità e non vedo l’ora di ritornare presso la casa circondariale per il secondo incontro.” Le fa eco il direttore sportivo Giacomo Esposito: “Essere partiti con il nostro progetto pilota è motivo di grande orgoglio e responsabilità. Abbiamo potuto fare un’esperienza unica nel proprio genere, confrontandoci con persone come noi che ci hanno dimostrato un affetto unico ed hanno interagito nella miglior maniera possibile. Nel prossimo incontro, previsto per lunedì 26 febbraio, effettueremo anche dei contributi fotografici anche all’interno del carcere.” L’Europarlamento cancella le vignette su Iran e diritti umani di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 18 febbraio 2018 Fa discutere la scelta del Parlamento Europeo di bloccare una mostra di 19 vignette satiriche sulle violazioni dei diritti umani in Iran disegnate da artisti israeliani che avrebbe dovuto avere luogo il 21 febbraio nella sede del Pe a Bruxelles. A organizzare l’evento erano stati quattro deputati dei più importanti gruppi politici. A prendere la decisione è stata la questora dell’Eurocamera, la liberale britannica Catherine Bearder per la quale le immagini sono troppo “controverse e possono “ledere la dignità del Parlamento”. Una censura alla libertà di espressione secondo il forum dell’Ajc, un’importante organizzazione internazionale per la difesa degli ebrei, sponsor dell’iniziativa che ha comunque deciso di spostare la mostra nella sede della Biblioteca Solvay, sempre nella stessa data. All’inaugurazione nella capitale belga sarà presente il membro della Knesset Yair Lapid, presidente del Yesh Atid Party e membro della Knesset. “La decisione del Parlamento europeo di vietare queste caricature è una caricatura della stessa Unione europea, non riuscendo a distinguere tra assassini e assassinati, tra le vittime del terrore e i terroristi”, ha sottolineato Lapid. Le 19 vignette veicolano un messaggio forte. In una si vedono cinque uomini impiccati con i colori della bandiera arcobaleno e la scritta “Parata gay iraniana´. E poi una donna che rappresenta la giustizia dietro le sbarre, ma anche Rohani e Assad davanti ad un muro di teschi o il presidente dell’Iran che gioca a freccette contro un obiettivo al cui centro compare la Stella di David. I disegni sono stati ideati dagli artisti della Israel Cartoon Project per mostrare solidarietà al popolo iraniano di fronte alle violazioni dei diritti umani da parte delle autorità di Teheran. “Mi dispiace che il questore del Parlamento europeo non abbia concesso il permesso di ospitare la mostra e, naturalmente, è facile sospettare che alla base della decisione vi siano considerazioni di carattere politico. Il Parlamento europeo ha perso un’occasione per mettere in mostra una critica importante contro la dittatura iraniana sotto forma di satira”, ha commentato Lars Adaktusson, europarlamentare del Ppe, che ha organizzato l’evento, insieme a Pèter Niedermuller del Gruppo S&D, Anders Vistisen (Ecr) e Petras Austrevicius (Alde). Secco Daniel Schwammenthal, direttore dell’ufficio Ue di Ajc, che ha definito il “No” del Parlamento europeo un “attacco alla libertà di espressione”. L’Eurocamera ha ricordato che non è stato concesso il permesso perché la mostra violava i principi espressi nell’articolo 2 che riguardano le regole dell’istituzione sugli eventi culturali ed in particolare i punti 2 e 3 per cui non sono autorizzate le mostre che possono risultare offensive o ledere la dignità del Parlamento. Le armi in Florida e i ragazzi a Monza di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 18 febbraio 2018 Il diritto di portare le armi è sancito dalla Costituzione americana; ma non c’è scritto che chiunque possa acquistare un’arma da guerra, come fosse un giocattolo. La strage nella scuola in Florida non ha ottenuto, in Italia, l’attenzione seguita a episodi simili. Come se avessimo sviluppato una rassegnata, orrenda abitudine a queste cose. L’assassino - Nikolas Cruz, 19 anni - il giorno di San Valentino è tornato nella Marjory Stoneman Douglas High School di Parkland, ha azionato l’allarme antincendio per attirare tutti all’esterno e ha iniziato a sparare. Diciassette morti e dodici feriti. È l’episodio più grave da cinque anni. Il 14 dicembre 2012 venti bambini e sei adulti sono stati massacrati alla Sandy Hook Elementary School, in Connecticut, da Adam Lanza, 20 anni.Da allora a oggi, 1.607 sparatorie (mass shootings). Più di una al giorno. Cosa faranno negli Usa per fermare questa follia? Risposta: niente. Il diritto di portare le armi è sancito dalla Costituzione americana; ma non c’è scritto che chiunque possa acquistare un’arma da guerra, come fosse un giocattolo. Uno psicopatico con un coltello può ammazzare una persona; uno psicopatico con un fucile semiautomatico fa una strage. In Florida un Ak-15, la stessa arma usata in cinque delle sei stragi peggiori degli ultimi anni. Nicholas Cruz, alla sua età, non poteva comprarsi una birra; ma ha acquistato l’arma senza problemi. Nonostante fosse stato espulso dalla scuola, nonostante avesse ricevuto cure psichiatriche, nonostante avesse annunciato le sue intenzioni sui social, nonostante fosse stato segnalato alla Fbi (che non è intervenuta). Domanda è: cosa dobbiamo pensare di una democrazia che accetta tutto questo? Di un sistema in cui la lobby delle armi è così potente da impedire ogni riforma? Obama non c’è riuscito, Trump non ci prova nemmeno. Il Presidente ha soltanto detto che, nei prossimi giorni, si incontrerà con i governatori e gli Attorney Generals (responsabili della giustizia) degli Stati per migliorare la sicurezza delle scuole. Più guardie armate e più metal detector, in sostanza. Ieri mattina sono stato al liceo Zucchi di Monza, ho passato due ore con i ragazzi. Un vecchio seminario ristrutturato, aperto, pieno di giovani e di vita, nel centro della città. Come siamo fortunati, in Italia. Ogni tanto dovremmo ricordarcene. Stati Uniti. Virtual Rehab, la vita fuori dal carcere con la realtà virtuale La Stampa, 18 febbraio 2018 Problemi quotidiani, gestione della rabbia e della tensione e aiuto in caso di malattie mentali: così un visore può favorire il reinserimento dei detenuti americani nella società. Vincent Rodriguez aveva 16 anni quando, nel 1991, è stato condannato per omicidio di primo grado. L’uomo, che al momento è detenuto nel carcere di Fremont, in Colorado, non ha mai avuto uno smartphone e non si è mai iscritto a un social network. Come lui, anche Eric Davis è stato arrestato in giovane età: aveva 17 anni quando è stato condannato per omicidio e sta scontando il suo trentesimo anno di detenzione. Rodriguez e Davis usciranno dal carcere entro tre anni, ma entrambi non hanno alcuna idea di cosa gli aspetta una volta rientrati in libertà. I due detenuti fanno parte di un programma messo in piedi dallo stato del Colorado, per rilasciare coloro che sono stati condannati a pene severe da adolescenti. Per poter uscire di prigione devono frequentare un corso di rieducazione che utilizza la realtà virtuale per conferire le capacità e le conoscenze che possono servirgli una volta usciti dal carcere. Dalle attività più semplici (fare la spesa o il bucato) al giusto comportamento in un luogo pubblico. Il programma è stato realizzato in collaborazione con Nsena, una start up newyorkese specializzata nella creazione di software per la realtà virtuale, dedicati all’addestramento delle forze di polizia. In questo caso però, ha sviluppato un programma che immerge i detenuti in situazioni ordinarie come la spesa al supermercato con la cassa automatica o in circostanze straordinarie: si pensi, ad esempio, alle provocazioni da parte di un ubriaco in un locale o per strada. “Con questa tecnologia riusciamo nell’intento di portare il mondo esterno all’interno della prigione. Crediamo che sia molto importante mettere in piedi un percorso formativo di questo tipo”, spiega il manager della compagnia intervistato per un breve documentario di Vice News, dedicato al programma di riabilitazione. Da una parte ci sono le situazioni di vita quotidiana, dall’altra ci sono i problemi con il mondo di fuori: a partire dagli screzi con familiari e amici. Virtual Rehab è un’altra compagnia Usa che ha sviluppato una tecnologia per la realtà virtuale in grado (oltre che a fornire consigli sulla vita di tutti i giorni) di testare anche le reazioni da parte dei detenuti a possibili situazioni di conflitto. “I soggetti potranno immergersi in episodi di violenza familiare, tra un marito e una moglie o un fidanzato e una fidanzata. In questo modo possiamo studiare le loro reazioni, per prevenire e indirizzare al meglio il loro comportamento”, aveva spiegato in un’intervista a ZD Net, il manager dell’azienda Raji Wahidy. Insomma, l’obiettivo di Virtual Rehab è creare le condizioni affinché, una volta fuori dal carcere, i detenuti non caschino negli stessi errori. E la recidività dei detenuti è un problema da non sottovalutare. Secondo uno studio pubblicato lo scorso anno dall’agenzia governativa Bureau of Justice Statistics (basato su dati e informazioni relative al quinquennio 2005 - 2010) il 68% dei detenuti, liberati entro tre anni dal rilascio, viene arrestato per un nuovo crimine. Mentre la percentuale cresce al 77% se si allarga il periodo a 5 anni dopo la liberazione. Insomma, spesso si tratta di un problema di educazione. “Crediamo che mettere una persona nell’angolo, non gli insegni ad essere una persona migliore, ma piuttosto a come non farsi beccare la prossima volta. Per questo motivo gli strumenti che forniamo mirano a fornire non solo la conoscenza di un mestiere ma anche quelle capacità psicologiche e attitudinali per potersi reinserire nella società”, spiega Wahidi, citato dalla giornalista tecnologica Alice Bonasio. Oltre alla mancanza di un’educazione però, un altro problema è l’insorgere di patologie legate allo stress post traumatico della vita in prigione o di problemi mentali in genere. E secondo l’attivista per i diritti dei detenuti Christopher Zuokis, la realtà virtuale potrebbe essere utilizzata anche per il trattamento di disturbi e patologie mentali. “Se il 56% dei detenuti delle prigioni statali e il 64% di quelli delle prigioni locali soffrono di qualche forma di malattia mentale, il potere riabilitativo e i potenziali risparmi economici (poiché vengono alleggeriti i costi di eventuali terapie ndr.) nell’uso della realtà virtuale, sono degli aspetti che meritano di essere esaminati”, scrive Zuokis. Infine, la corretta riabilitazione dei detenuti passa anche attraverso la comprensione dei loro problemi e difficoltà da parte di chi non vive dall’altra parte delle sbarre. Project Empathy è una compagnia che produce piccoli cortometraggi in realtà virtuale, pensati per far approfondire all’utente i problemi della popolazione carceraria, visti attraverso gli occhi degli stessi detenuti o dei loro familiari. La serie è composta da tre episodi: The Letter, Left Behind e Prey e racconta le storie di padri di famiglia, giovani madri e adolescenti, che cercano di riallacciare i rapporti con le loro famiglie o semplicemente, raccontando il loro punto di vista sulla vita dietro le sbarre. Stati Uniti. 14 anni di torture a Guantánamo da innocente Il Dubbio, 18 febbraio 2018 Il marocchino Younes Chekkouri è stato definitivamente assolto: “Finisce un lungo incubo”. Dopo 14 lunghissimi anni passati nel carcere di Guantánamo senza neanche un processo, il marocchino Younes Chekkouri è stato finalmente assolto. “L’errore è stato riconosciuto - ha annunciato il suo avvocato Khalil Idrissi - le accuse per le quali è stato perseguito erano contraddittorie e non avevano alcuna logica”. “È la fine di un incubo”, ha detto Chekkouri, arrestato nel dicembre 2001 in Afghanistan per presunti legami con al-Qaeda. Ma lui lon aveva mai smesso di rivendicare la propria innocenza, sostenendo che il suo viaggio in Afghanistan non aveva nulla a che fare col terrorismo ma era umanitario. Al suo ritorno da Guantánamo, nel 2015, la giustizia marocchina, molto mobilitata sui fascicoli di presunti terroristi, aveva avviato un altro procedimento contro di lui per “costituzione di banda criminale e attacco alla sicurezza interna dello Stato”. In primo grado l’uomo era stato condannato a 5 anni di carcere da passare in Marocco, ma l’appello lo ha finalmente assolto: “È stata una sentenza ingiusta, sapevo che alla fine la mia innocenza sarebbe stata provata”, ha detto venerdì l’ex detenuto .”È solo oggi che sento di aver voltato pagina di Guantánamo”, ha aggiunto, riferendosi a una “prigione crudele”, con “interrogatori quotidiani, torture fisiche e psicologiche”. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha deciso a gennaio di mantenere aperto il sito di Guantánamo e di accogliere i nuovi detenuti, con un decreto che cancella quello del suo predecessore Barack Obama che aveva pianificato di chiudere la prigione denunciata dai difensori dei diritti umani. Situata su una base navale di proprietà degli Stati Uniti all’estremità orientale dell’isola di Cuba, il centro di detenzione e interrogatorio di Guantánamo è stata al centro di numerose protesto da parte di molte associazioni impegnate sul fronte dei diritti umani. Aperto dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, il carcere ha contato fino a 780 detenuti arrestati per presunti legami con Al Qaeda e i talebani. Oggi ne rimangono 41. Olanda. Le carceri vuote diventano luoghi di accoglienza per i rifugiati di Rudi Bressa lifegate.it, 18 febbraio 2018 In dieci anni i detenuti sono dimezzati, grazie anche a politiche meno repressive. Ora le carceri vuote e non più utili ospitano rifugiati, richiedenti asilo e le loro famiglie. Afgani, siriani, ivoriani, etiopi, eritrei. Tutti esseri umani costretti ad abbandonare il proprio Paese, spesso con tutta la famiglia al seguito. Perché scappano? Perché a “casa loro” si muore, per strada, a casa, a scuola. Un flusso migratorio che ha portato migliaia di persone a cercare rifugio in Europa. E ogni nazione, chi più chi meno, si trova oggi a gestire centinaia se non migliaia di persone che lasciano tutto in cerca di una vita migliore. Ma c’è un Paese europeo che si è distinto al pari di altri nell’accoglienza, o che comunque ha trasformato un problema in opportunità: l’Olanda. Nel 2015, l’Agenzia nazionale per l’accoglienza dei richiedenti asilo (Coa) ha dovuto gestire quasi 60mila migranti, calati di quasi la metà l’anno successivo. Allo stesso tempo nel Paese si è registrata una significativa riduzione dei detenuti, che sono calati passati da 20,463 nel 2006 a 10.102 nel 2016. Perché questo collegamento? Perché meno detenuti significa carceri vuote. E le carceri vuote sono dei perfetti luoghi per l’accoglienza temporanea: grandi spazi, stanze che possono ospitare più persone, servizi igienici, mensa. Carceri vuote diventano luoghi di accoglienza - È quello che è successo nel carcere di Bijlmerbajes ad Amsterdam, chiuso nel 2016 e divenuto un centro di accoglienza per richiedenti asilo. Qui il fotografo e due volte vincitore del Pulitzer, Muhammed Muheisen, ha realizzato un toccante reportage fotografico all’interno della struttura, raccontando la vita delle decine di famiglie e migranti che sono giunti fin qui. Ma questo non è l’unico esempio: anche il carcere di De Koepel ad Haarlem, vicino ad Amsterdam, è stato trasformato in uno spazio temporaneo per richiedenti asilo. “Abbiamo dovuto pensarci due volte prima di usare le prigioni con le porte (delle celle)”, ha detto all’Associated Press Janet Helder, membro del consiglio di amministrazione dell’ente governativo olandese responsabile per gli alloggi per i richiedenti asilo. “Alcune persone del quartiere ci hanno chiesto: ‘Come puoi mettere gente dalla Siria che potrebbe essere stata imprigionata in una cella qui?’ Quindi abbiamo deciso che se le persone avessero davvero un problema, troveremmo da qualche altra parte per loro”. L’organizzazione guidata da Helder accoglie 41mila persone, sparse in 120 strutture. I numeri dei detenuti in Olanda - Indubbiamente interessante notare quale sia il fenomeno “carceri” in Olanda. Soprattutto se paragonati con gli altri Paesi europei, e non solo. Grazie ai dati raccolti ed analizzati da World prison brief, la media dei detenuti nei Paesi Bassi è di 59 prigionieri ogni 100.000 abitanti. In Italia il dato sale a 95 (57.608 detenuti alla fine del 2017, contro i 10.102 olandesi), mentre in Francia è di 101, nel Regno Unito (Inghilterra e Galles) di 143. Andando oltreoceano, gli Stati Uniti hanno numeri ben più alti: 666 detenuti ogni 100mila persone per un totale di 2,1 milioni di persone dietro le sbarre. Le proposte in Italia - Anche nel nostro Paese non mancano iniziative lungimiranti, obiettive, concrete. E non sono certo mancate proposte che, oggettivamente, darebbero ampio respiro sia alla situazione odierna che al dibattito ad essa legato. Come quella da Report, già a maggio 2016. “Facciamola noi l’accoglienza, gestione pubblica, l’Europa ci paga e poi ogni paese si prende la sua quota, già formata e identificata”, diceva Milena Gabanelli in prima serata su Rai3. “Gli spazi non ci mancano, dai resort che sono stati confiscati alla mafia, agli ex ospedali, e come abbiamo visto, l’immenso patrimonio delle caserme”. La proposta è praticabile, da subito: “Allora, le camerate già esistono, e si possono modulare, separando la zona maschile da quella femminile. Con il cartongesso si fanno stanze più piccole per il nucleo familiare. La mensa poi per tutti gli ospiti e, negli altri edifici, che sono tanti, ci fai le aule per corsi quotidiani di lingua italiana, inglese, tedesco, insegni le regole della democrazia europea, che da noi per esempio le donne sono uguali agli uomini, con obbligo di frequenza e regole severe. Poi visto che nelle caserme lo spazio non manca, le aule possono anche essere dei prefabbricati piazzati all’esterno, dove fare corsi di formazione per imparare un mestiere. Con infermeria e un medico in ognuno di questi posti. Poi tutti gli edifici devono essere provvisti di pannelli fotovoltaici per renderli autosufficienti e, visto che a gestire è lo Stato, può anche diventare fornitore di energia a basso costo a impatto zero ai quartieri vicini”. Non sarebbe un grande esempio di cultura, di empatia, di preparazione e perché no, di capacità di saper trasformare un problema in opportunità e diventare, per una volta, una nazione leader in tutta Europa? Etiopia. Tornano le leggi speciali. E guai a chi “semina discordia” Il Manifesto, 18 febbraio 2018 Repressione dura e crisi politica. Dopo l’ultima ondata di proteste antigovernative e le dimissioni del premier Desalegn, il ministro della Difesa annuncia che i mesi di stato d’emergenza saranno sei più eventuali quattro. Durerà sei mesi più eventuali quattro - ha fatto sapere ieri il ministro della Difesa Siraj Fegessa - lo stato d’emergenza decretato venerdì scorso in Etiopia, all’indomani delle dimissioni del premier Hailemariam Desalegn e al culmine dell’ennesima ondata di proteste antigovernative represse nel sangue, negli stati di Oromia e Amhara. Se qualcuno si faceva illusioni sulla possibilità di maggiori aperture democratiche da parte del regime, dopo l’amnistia che negli ultimi giorni avrebbe rimesso in libertà migliaia di prigionieri politici e dopo l’annuncio a sorpresa di Desalegn, si è dovuto ricredere. La misura prevede il divieto assoluto di manifestare e pene severe per chiunque pubblichi o diffonda materiale che “semina discordia”, ha detto il ministro. La censura, per capirsi, non farà sconti. E le carceri torneranno a riempirsi di oppositori. Fegessa allo stesso tempo ha smentito pericoli di un colpo di stato imminente, aggiungendo che Desalegn resta in carica per le funzioni ordinarie. Analogo provvedimento era stato preso nell’ottobre del 2016 ed era rimasto in vigore appunto dieci mesi. Dopo centinaia di morti, due regioni importanti in stato semi-insurrezionale e migliaia di arresti che hanno falcidiato le file dell’opposizione, la coalizione al potere dell’Ethiopian Peoplès Revolutionary Democratic Front (Eprdf), in cui primo partito è espressione della minoranza tigrina, cerca di reprimere il reprimibile con un altro giro di vite. In una cupa deriva autoritaria che stavolta sembra preoccupare anche Washington. Il decreto ora passa al parlamento per la ratifica. Ma il prossimo passaggio importante sarà la scelta del nuovo primo ministro. L’opzione più “distensiva” potrebbe ricadere sull’attuale ministro degli Esteri, Workneh Gebeyehu, appoggiato dall’Organizzazione democratica del popolo oromo, la forza che più ha spinto per le dimissioni di Desalegn. Messico. “Non esiste un narco-stato. Esiste uno stato criminale” di Andrea Cegna Il Manifesto, 18 febbraio 2018 “La violenza aumenta per lo stato di eccezione non per i trafficanti: è tanto grande quanto è grande la presenza massiccia della polizia”. Il Messico viene descritto da anni con il termine “narco-democrazia”. Una narrazione imposta dai governi Calderon e Nieto. Non tutto però si riesce a spiegare con quella chiave di lettura, e voci critiche dimostrano come i margini tra stato, economie legali e illegali siano inesistenti. Il caso della sparizione dei 43 di Ayotzinapa è stato emblematico. Tra chi osserva il paese senza fermarsi al punto di vista maggioritario è Oswaldo Zavala, messicano di Ciudad Juarez, docente di storia latinoamericana all’Università pubblica di New York e giornalista, che sta per pubblicare un libro intitolato I cartelli non esistono. L’abbiamo incontrato e intervistato. È corretto quindi parlare di narco-democrazia in Messico? Parlare di narco-democrazia in Messico o di narco-stato è il risultato di una pratica discorsiva alimentata dello stato. L’imposizione del problema del narcotraffico in Messico, in realtà, è un qualcosa che stava nell’agenda ufficiale delle istituzioni da anni. Il fine è la definizione di uno spazio di criminalità a cui dare la colpa del presunto fallimento del paese. Non credo, quindi, esista davvero un narco-stato messicano, credo esista uno stato criminale, uno stato cooptato da gruppi di gangster. Oggi la priorità del capitalismo è l’appropriazione di risorse naturali. Gli stati messicani dove c’è grande ricchezza di risorse naturali vedono una forte presenza di movimenti a difesa del territorio. Sono anche gli stessi stati che si dice siano governati dai narcos. In quei territori viene così imposto uno stato d’eccezione e inizia anche l’espropriazione delle risorse. Esiste un rapporto tra il fenomeno del para-militarismo e quello che oggi viene chiamato il narcotraffico? Senza dubbi. Troppo spesso si confondono i termini paramilitari e narcotrafficanti. E troppo spesso si fa confusione tra gruppi. Ad esempio gli Zetas a volte si dice siano paramilitari a volte un cartello. La versione ufficiale è che gli Zetas controllino lo stato del Tamaulipas e che sovrastano il potere dello stato sfidando esercito e le forze dell’ordine. Difficile dire se è vero perché non abbiamo risorse e protezione necessaria per svolgere un’indagine. Così l’unica voce è quella dominante dello stato. Abbiamo però potuto studiare e verificare che i gruppi del Tamaulipas sono una cosa mentre quelli del Chihuahua un’altra. I gruppi di potere che operano nella sierra di Chiuhuahua non trafficano prioritariamente droga ma vengono chiamati comunque narcos. Però il Chapo era il capo di un cartello, no? La parola cartello è molto inefficace. È stata coniata negli Usa, un’invenzione del sistema statunitense in Colombia per definire i gruppi di potere di Pablo Escobar e poi quello di Cali. Un cartello è un’associazione di realtà che, in maniera orizzontale, manipolano i prezzi di un dato prodotto. È inspiegabile come possano essere chiamati “cartello” cinque contadini di Sinaloa o del Tamaulipas, senza avere le prove della loro capacità di modificare il prezzo della droga. Non chiamerei “cartello” quello di Sinaloa, meglio dire che è un gruppo di trafficanti. Sicuramente trafficano e muovono droga, dentro e fuori dal paese, ma abbiamo pochissime informazioni reali sul loro operato. Se ci basiamo su quel che diceva Forbes sulla presunta fortuna del Chapo e sulla presunta capacità di infiltrazione del cartello di Sinaloa in più di 50 paesi di tutto il mondo, non si spiega come tale organizzazione non abbia traduttori, non abbia esperti di economia globale e nemmeno come non abbia i soldi necessari per pagare un avvocato privato a New York. Da quel che ne so, il Chapo è seguito da difensori d’ufficio. Il presunto impero del cartello di Sinaloa pare inesistente. A Sinaloa c’era un’associazione di trafficanti che quando è servito è stata sacrificata dallo stato. Assumiamo come reali cose che non lo sono, tipo chiamare “cartelli” dei semplici trafficanti. Così la presunta guerra tra cartelli, per me, è un’idea manufatta dal governo.. L’idea che i loro presunti scontri per il controllo del territorio sia l’origine della violenze in Messico è molto pericolosa, non perché coincide con il discorso ufficiale, ma perché giustifica l’esercizio da parte dello stato della violenza con l’imposizione di stati d’eccezione. Come con la “legge sulla sicurezza interna”? Chiaro. La legge è simile ma più avanzata, alla legge di sicurezza nazionale statunitense del 1947. È la carta bianca per giustificare ogni sorta di repressione, nel nome della sicurezza, verso chiunque. Per me è il punto finale di un processo securitario iniziato nel 2006 e dove lo stato non esita a usare la violenza dell’esercito contro la popolazione. Questa è in verità la “guerra alla droga”. Come si spiega la violenza in Messico? In molti modi. La prima cosa da capire è che la violenza non è il risultato del traffico di droga. I trafficanti non sono interessati alla violenza come stile di vita. Come qualunque altro tipo di economia informale, il traffico di droga, è un processo clandestino il cui scopo è la produzione di soldi. Se sei dentro il traffico di droga non puoi ritirarti, se ad un certo punto vuoi farlo vieni ammazzato. Ma è inspiegabile il perché dal 2008 esploderebbe la violenza territoriale di questi gruppi. Ciò che chiamano “cartelli” si formano in Messico dal 1975 e dalla loro nascita al 2008 non si registrano scontri per il controllo del mercato né violenze generalizzate sulla popolazione. Di colpo, però, secondo lo stato, iniziano a uccidere smisuratamente e contendersi le zone di traffico. Ciò che possiamo notare è che nelle aree dove dal 2008, nel nome della guerra alla droga, sono cresciuti militari e poliziotti decretando stato d’eccezione è incrementata la violenza. Detto in modo filosofico, la condizione d’incremento della violenza è l’apparizione dello stato di eccezione non dei trafficanti. Per dirla come un amico giornalista “la violenza è tanto grande quanto è grande la presenza di polizia”.