Riforma del carcere all’ultimo chilometro: “l’ok il 22 febbraio” di Errico Novi Il Dubbio, 17 febbraio 2018 Gentiloni e Orlando: il prossimo Consiglio dei ministri riapproverà il decreto. La svolta arriva via etere. Andrea Orlando è a Radio anch’io, programma seguitissimo della prima rete Rai. “Allora ministro, può garantire che approverete il decreto sull’ordinamento penitenziario entro il 4 marzo?”. Risposta: “Ho parlato con Gentiloni e ci sono tutte le condizioni per cui questo possa avvenire”. Passano poche ore e il quesito viene posto a La7, durante “Otto e mezzo”, direttamente al premier. Che non solo conferma l’ottimismo del guardasigilli ma fissa anche la data: “Nei prossimi 15 giorni faremo la riforma carceraria: il Consiglio dei ministri si riunisce il 22 per il via libera ai decreti”. È l’atto di coraggio dell’esecutivo invocato da più parti. Non è chiaro se nella prossima riunione a Pazzo Chigi verrà emanato un provvedimento conforme alle correzioni chieste dal Senato. Se viceversa venisse mantenuta la versione originale, inclusa la parte che elimina le “ostatività” nell’accesso ai benefici, il testo tornerebbe in Parlamento con le motivazioni delle mancate modifiche. Sarebbe inevitabile a quel punto uno sforamento oltre il 4 marzo, con un supplemento di suspence. Perché il sì definitivo dovrebbe essere pronunciato da un Consiglio dei ministri in super-prorogatio. Tecnicamente legittimo ma politicamente complicato. Peserà in ogni caso la determinazione di Orlando. Che ai microfoni di Radio Rai chiarisce: “Sono il primo a volere che si arrivi all’approvazione, ho dedicato tanto del mio lavoro a questo obiettivo: anche quando sembrava fosse sfumata ogni possibilità ho continuato a lavorare e siamo riusciti in zona Cesarini ad avviare l’esercizio della delega, a creare il presupposto per completare l’iter”. Il giornalista chiede: “Quindi la risposta è sì, approverete il decreto?”. E Orlando: “La risposta è sì. I tempi sono strettissimi, ma la risposta è sì, ce la possiamo fare”. È un impegno pubblico che a questo punto non sarebbe facile disattendere, per il governo. Non nel pieno di una campagna elettorale in cui gli avversari sono pronti a rinfacciarti tutto, pure le mancate riforme che mai avrebbero votato. Come questa, appunto che umanizza, rende più flessibile, e finalizzato al recupero dei detenuti, il sistema delle carceri. Un intervento per il quale due giorni fa sono scesi in campo intellettuali, giuristi e politici con una lettera-appello, pubblicata ieri da questo giornale. L’iniziativa, a prima firma del filosofo Aldo Masullo, vede impegnati anche il presidente del Cnf Andrea Mascherin e il numero uno delle Camere penali Beniamino Migliucci. Avvocatura dunque in prima fila in uno schieramento di alto livello che sollecita l’esecutivo a piantare l’ultima bandiera. Il doppio annuncio Orlando-Gentiloni ribalta proprio l’apocalittico entusiasmo del giornale diretto da Marco Travaglio, che ieri aveva incorniciato uno stralcio dell’intervento di Ardita in Senato con il titolo “Tempo scaduto: nessuna riforma per le carceri”. Certo, posizioni critiche come quelle del procuratore aggiunto di Catania continuano ad assicurare l’armamentario ideologico di chi si oppone al provvedimento. Come riportato due giorni fa dal Dubbio, il nodo che secondo il magistrato “potrebbe dar luogo a pericolose conseguenze” sarebbe nell’articolo 7 del decreto, che introduce l’articolo 4 ter dell’ordinamento penitenziario: “Tale disposizione”, ha segnalato il pm in audizione, “prevede per legge il cosiddetto scioglimento del cumulo”. Vuol dire che un mafioso con una pena complessiva di 30 anni, composta da 22 per il reato di associazione mafiosa (il 416bis) e da altri 8 per reati diversi, per esempio rapine, potrebbe uscire dal 41bis dopo aver scontato 22 anni anziché dopo 30 qualora, nella sentenza di condanna, gli 8 anni per le rapine non fossero stati accompagnati dall’aggravante del metodo mafioso. Ma si tratta di un’ipotesi estrema: riguarderebbe detenuti che hanno già trascorso diversi lustri al 41bis, e in ogni caso dovrebbe passare per diverse forche caudine giurisdizionali, che vedrebbero il Dap opporsi all’eventuale decadenza del regime speciale. Le modifiche all’articolo 4bis dell’ordinamento - che precludeva appunto benefici per i reati più gravi - prevedono, ha fatto notare ancora Ardita, di concedere le tutele previste per le detenute con figli piccoli anche ai padri. “Detenuti di mafia con pena residua fino a 4 anni vedrebbero la concreta possibilità di uscita dal carcere al determinarsi di condizioni impeditive del ruolo della madre”, ha segnalato il magistrato. Si tratte di reclusi che hanno già scontato gran parte della condanna. Difficile pensare di affossare per questo una riforma che dà finalmente attuazione al principio del fine rieducativa della pena. Carceri, pronti i decreti attuativi, via alle misure anti-affollamento di Francesco Lo Dico Il Mattino, 17 febbraio 2018 Tutti la davano ormai per spacciata, ma la riforma delle carceri alla fine si farà. Nonostante la campagna elettorale. “I decreti attuativi saranno all’ordine del giorno del Consiglio dei ministri del 22 febbraio”, ha annunciato Paolo Gentiloni. Nata in risposta alle condizioni “inumane e degradanti” delle nostre carceri sovraffollate sanzionate dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo, prontamente denunciate da Giorgio Napolitano nel messaggio alle Camere del 2013, la legge delega era stata approvata dal Parlamento a giugno del 2017. Ma rischiava di restare monca, a causa del profondo ritardo registrato nell’emanazione degli ultimi decreti attuativi, che ne costituiscono la parte più consistente; giustizia riparativa, giustizia minorile, affettività e lavoro. Ma che cosa prevede la riforma? L’obiettivo di fondo della legge 103 è sostanzialmente uno: riuscire finalmente a intaccare il sovraffollamento dei nostri istituti di pena, che oggi affastellano 58.115 detenuti in spazi angusti adatti a ospitarne appena 50mila. Sarà pertanto ampliata la platea della popolazione carceraria che potrà ottenere i benefici di legge, come la “messa alla prova” e il lavoro esterno. Più diritti e meno cella spazi di culto agli stranieri così cambia il sistema Nel concreto, la riforma pone le basi per semplificare le procedure davanti al magistrato di sorveglianza, e rendere così più facile e frequente il ricorso alle misure alternative che andranno a valorizzare sia il lavoro all’interno del carcere sia quello all’esterno, con particolare riferimento al volontariato. Occorre tuttavia precisare, a scanso di facili speculazioni, che da questo tipo di benefici saranno esclusi i detenuti condannati all’ergastolo per mafia e terrorismo e quelli che sono comunque giudicati particolarmente pericolosi. Maggiori possibilità di espiare la condanna all’esterno, ma anche maggiori tutele per chi resta tra le sbarre. La riforma dell’ordinamento penitenziario apre ai detenuti la possibilità di avere colloqui con i familiari anche via Skype (misura particolarmente rilevante per gli stranieri) e di estendere l’assistenza sanitaria, anche all’interno delle carceri. Contestato da talune forze politiche, il diritto alla sessualità ci sarà ma resterà per molti soltanto sulla carta: sono poche le carceri italiane che hanno ambienti adatti ad accogliere il principio. Ma la riforma concentra i suoi sforzi anche sui 19.818 detenuti stranieri oggi presenti nelle nostre carceri, per i quali sono previsti più corsi d’italiano, mediatori culturali e spazi per la preghiera. Non ci saranno tuttavia con ogni probabilità negli istituti di pena, i ministri e le guide di culto di tutte le confessioni per ragioni di costi. La legge 103 non dimentica infine le donne, e in particolare le detenute madri: a oggi sono ben sessantadue quelle che scontano la pena m cella insieme ai loro piccoli al seguito. Grazie alla riforma, molte di loro potranno scontare la pena ai domiciliari se incinte, o se madri di minori di dieci anni. Carceri, riforma pronta di Danilo Paolini Avvenire, 17 febbraio 2018 Il nuovo ordinamento penitenziario dovrebbe arrivare al traguardo, secondo quanto annunciato ieri da Gentiloni, seppure in extremis. Appello di giuristi e intellettuali per il varo definitivo. La radicale Rita Bernardini: “Per ora proseguo lo sciopero della fame”. Sembra scongiurato, seppure in extremis, il rischio di lasciare monca, e di fatto vuota, la riforma dell’ordinamento penitenziario: “Nei prossimi quindici giorni faremo la riforma carceraria. Il Consiglio dei ministri si riunisce il 22 (giovedì prossimo, ndr) per il via libera ai decreti”, ha annunciato ieri in televisione il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni. Ormai il tempo stava per scadere e anche i più ottimisti tra i sostenitori della riforma cominciavano a non credere più nell’impresa. Tra loro Rita Bernardini, dirigente del Partito radicale, che dal 22 gennaio ha ripreso lo sciopero della fame sospeso a novembre, dopo aver incontrato il ministro della Giustizia Andrea Orlando e averne ottenuto rassicurazioni circa il varo dei provvedimenti mancanti. Ma, da allora, non si è arrivati al traguardo. Anche se, nel frattempo, le tre commissioni di studio insediate dallo stesso Guardasigilli hanno concluso il loro lavoro tecnico e, poco prima di Natale, il Consiglio dei ministri ha approvato con alcune modifiche una bozza di attuazione della delega parlamentare. Lo schema di decreto legislativo è suddiviso in sei parti: assistenza sanitaria; semplificazione dei procedimenti; eliminazione di automatismi e preclusioni nel trattamento penitenziario; misure alternative; volontariato e vita penitenziaria. Ieri l’annuncio del premier sull’imminente approvazione definitiva, che ravviva le speranze dei circa 10mila detenuti e dei circa 200 cittadini liberi che hanno aderito allo sciopero della fame di Bernardini. La quale ha annunciato a Radio Radicale che proseguirà comunque la sua iniziativa “almeno fino al 22 febbraio” per verificare se il governo varerà “anche i decreti mancanti, in tema di lavoro, affettività, ordinamento penitenziario minorile, misure di sicurezza e giustizia riparativa”. Una battaglia sostenuta anche dagli avvocati penalisti e da numerosi giuristi, intellettuali e accademici. Un gruppo (tra i primi firmatari Guido Calvi, Giuseppe Di Federico, Aldo Masullo, Giandomenico Caiazza, Beniamino Migliucci) ha sottoscritto un appello al governo per sollecitare il varo effettivo della riforma, in cui si chiede appunto a Gentiloni la convocazione “con urgenza” del Consiglio dei Ministri, prima delle elezioni politiche del 4 marzo. Secondo l’avvocato Riccardo Polidori, dell’Unione camere penali, “la bozza di decreto lascia incompiuti alcuni importanti articolati, in materia di lavoro, di affettività, di preclusioni e automatismi, ma la sua entrata in vigore potrà costituire comunque un momento storico per l’esecuzione penale e il banco di prova per ulteriori passi avanti”. I detrattori del provvedimento sostengono invece che si tratterebbe, in sostanza, di un allentamento delle maglie carcerarie in grado di mettere a repentaglio la sicurezza pubblica. argomento più utilizzato per suffragare tale tesi è la possibilità (paventata anche da alcuni magistrati) di concedere benefici carcerari anche a mafiosi non condannati all’ergastolo. In realtà la norma dovrebbe riguardare solo le madri con figli minori di 10 anni o con disabilità grave. Riforma delle carceri: evviva, forse torna Cesare Beccaria! di Piero Sansonetti Il Dubbio, 17 febbraio 2018 Il ministro Orlando e il premier Gentiloni hanno giurato che la riforma del carcere si farà. Dopo 40 anni. Hanno fornito una data: giovedì prossimo. Siccome su questo giornale, da diversi giorni, ci dichiariamo molto scettici e siccome abbiamo spiegato in vari modi perché il governo non troverà mai il coraggio per sfidare i reazionari e i giustizialisti e per varare la riforma, siamo costretti - con molta gioia - a ricrederci. Questo è uno dei casi nei quali la promessa vale, perché è proprio la promessa la cosa più difficile. Il partito principale di governo, e cioè il Pd, sa che la riforma carceraria è una sfida a una parte del mondo politico. E cioè a quello schieramento abbastanza vasto, e forse maggioritario, che va dalla destra di Fratelli d’Italia e della Lega, alla robusta pattuglia dei 5Stelle, a settori di Forza Italia, e forse si spinge a sinistra a lambire qualche settore di Leu. E soprattutto è una sfida molto ardita a tutto lo schieramento dell’informazione populista: dal Fatto Quotidiano, a Libero, alla Verità a una parte consistente del mondo televisivo, al web. E infine è una sfida, davvero coraggiosa, a un pezzo di magistratura, quella più aggressiva e più legata al mondo dell’informazione e dello spettacolo. Nei giorni scorsi alcuni giornali, in particolare Libero e Il Fatto, avevano iniziato a sparare un fitto fuoco di sbarramento preventivo. Parlando di decreto svuota-carceri, e intendendo con questa parola un qualcosa di molto simile ad un abominio, fatto e pensato per riempire le nostre città di criminali. Lasciando capire che se i signori del Pd dovessero davvero, pochi giorni prima delle elezioni, varare il decreto, si troverebbero al centro di una campagna feroce che, ragionevolmente, costerebbe loro la perdita di diversi punti in percentuale nelle urne. Per questo dico che la promessa, stavolta, conta molto. Se Orlando e Gentiloni (immaginiamo con il consenso di Renzi) hanno deciso di fare il passo e di dichiarare che loro la riforma la vogliono, e che la faranno, vuol dire che hanno deciso - smentendo la nostra previsione - di correre un rischio sul piano elettorale allo scopo di compiere un’opera di civilizzazione del nostro paese. Non è una cosa molto frequente in politica. Almeno, non lo è da parecchi anni. Non dovete pensare che questa riforma del carcere sia la fine del mondo. Non pensate che sia una meraviglia e una grande costruzione liberale e libertaria. Non è così. È una riforma modesta, però è una buona riforma e permette un miglioramento significativo nella nostra situazione carceraria e nei sistemi di esecuzione della pena. Dopo 40 anni di immobilità nel corso dei quali in Italia si sono alternati - se non ho sbagliato i conti - 33 governi, 18 presidenti del Consiglio e 25 ministri della Giustizia, finalmente è arrivato un governo che ha osato, che si è esposto, e che ha riformato in senso garantista il sistema delle carceri. Secondo me questa riforma è la più importante riforma realizzata in questa legislatura. Perché allora è così osteggiata dai gruppi e dai giornali giustizialisti? Per una ragione molto semplice: perché consegna all’opinione pubblica un segnale in netta controtendenza. Dice: la Costituzione esiste, è viva, ha dei solidi e sani principi, e va applicata. E il nostro sistema Giustizia si fonda su un sistema di pene umano, non ispirato alla ferocia e alla vendetta, ma al principio della rieducazione del condannato. E in nessun caso ammette pene inutili o superiori al necessario, o crudeli. Più o meno sono i principi affermati da un grande intellettuale italiano alla fine del 700 e che poi furono accettati in tutto il mondo. Quell’intellettuale, lo sapete, si chiamava Cesare Beccaria. Il valore della decisione del governo sta tutta qui. Nell’aver ripreso un discorso di difesa e di sviluppo dello Stato di diritto che si era interrotto da troppo tempo. Le nostre carceri da molti anni sono in una situazione di illegalità, il loro funzionamento è in violazione aperta e clamorosa della Costituzione e dello Stato di diritto. La riforma serve a questo: a ridurre almeno un po’ la distanza tra realtà carceraria e Costituzione. Dicono gli avversari della riforma: “Svuoterà le carceri, è una follia”. Naturalmente non è vero. La riforma si limita ad aumentare la possibilità di trattare con pene alternative al carcere i condannati per reati minori. In ogni caso è molto triste che nel 2017, in un paese liberale e colto come l’Italia, esista una parte consistente dell’intellettualità che si straccia le vesti all’idea che si possa ridurre la popolazione carceraria. È inutile che ce lo nascondiamo: quando Erdogan cala il pugno di ferro sui suoi nemici, e inzeppa le celle delle sue prigioni, noi ci indigniamo tutti, si. Ma poi molti di noi la sognano una società un po’ erdoganizzata… P.S. Se questa riforma passerà, naturalmente va dato merito al Pd e al governo. Però anche ad alcuni coraggiosi esponenti di partiti di opposizione che si sono schierati a favore (l’altro giorno abbiamo pubblicato un articolo di Renata Polverini) mettendo da parte i calcoli di bottega. E poi va dato merito a gran parte dell’avvocatura italiana, che si è battuta per la riforma. E a quelli del partito radicale, a partire da Rita Bernardini, che è a digiuno da un mese, insieme a molti altri militanti. E soprattutto va dato merito ai diecimila detenuti che hanno partecipato allo sciopero della fame dei radicali. E infine ai pochissimi intellettuali che hanno avuto il coraggio di aderire a questa battaglia e che hanno provato a rompere il muro di una intellighenzia burocratica e conformista che considera il problema del carcere una quisquilia per avvocati o per gente stravagante. Sul carcere Orlando si gioca la carriera politica di Rocco Schiavone L’Opinione, 17 febbraio 2018 Lui, il ministro Andrea Orlando - sicuramente uno dei migliori Guardasigilli degli ultimi anni (anche se ci vuole poco) - sul decreto che riguarda le carceri si giocherà la futura carriera politica. L’ultima rassicurazione in ordine di tempo è che entro il 4 marzo la delega del governo diventerà finalmente legge, superando le obiezioni dei soliti emergenzialisti antimafia in servizio permanente effettivo e assecondando il cosiddetto grande Satyagraha dei Radicali transnazionali tutti in sciopero della fame insieme a Rita Bernardini dal 22 gennaio scorso. Ma se, non sia mai, la data ultima del 4 marzo non dovesse essere rispettata - per l’ennesima volta - con il solito rinvio alle calende greche dei pareri delle commissioni giustizia magari di un nuovo Parlamento, Orlando già sa che la sua parola in materia di giustizia perderebbe valore fino ad azzerarsi. E passerebbe il messaggio che di questa riforma della giustizia di cui mena vanto in campagna elettorale solo la parte a trazione forcaiola è riuscita a passare, quella sulle intercettazioni e l’allungamento delle prescrizioni, ma non quella garantista per il recupero dei detenuti. Che poi dovrebbe andare di pari passo con il recupero degli immobili cadenti e senza igiene in cui i detenuti sono ristretti. In pratica una questione di vita e di morte. Non solo dei quasi sessantamila reclusi nelle carceri italiane che ormai si sono dovuti assoggettare da decenni a vivere in bolge dantesche. Ma anche politica, di un ministro che nei passati due governi non ha affatto sfigurato promuovendo una serie di iniziative come gli Stati generali della giustizia. Di fatto, però, boicottate dai suoi colleghi di esecutivo. Questa è la posta in gioco: dimostrare di essere capaci di educare l’opinione pubblica alle cose buone e giuste, oltre che di rieducare i delinquenti attraverso la detenzione. Evitando di promuovere l’Italia a Paese delle discariche: dell’immondizia vera e propria e di quella sociale. Entrambe apparentemente impossibili da riciclare. A quasi trecento anni dal Beccaria il livello, grazie a una politica a trazione grillina e a tanti inutili protagonismi pro carriera tra i magistrati della pubblica accusa, con i vari corifei della tv e della carta stampata a far loro da cerimonieri, ormai è questo. La XVII legislatura rischia di chiudersi con il fallimento della riforma delle carceri di Adriano Sofri Il Foglio, 17 febbraio 2018 Si chiede a Paolo Gentiloni di superare lo stallo pericoloso, convocando con urgenza il Consiglio dei Ministri per il varo definitivo del testo prima delle elezioni del 4 marzo. Ripubblico, con piena condivisione, questo appello: “La XVII legislatura rischia di chiudersi con il fallimento della riforma dell’Ordinamento penitenziario, il primo intervento organico dal 1975. Come denunciato da decenni da Marco Pannella e dal Partito Radicale, le carceri italiane permangono nelle condizioni “inumane e degradanti” da tempo sanzionate dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e solennemente riconosciute nel messaggio alle Camere inviato nel 2013 da Giorgio Napolitano. Per rispondere a queste pesanti violazioni della Costituzione e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo il ministro della giustizia Orlando ha dato vita nel 2015 agli stati generali dell’esecuzione penale e alla riforma dell’Ordinamento. Adesso, ad un passo dall’approvazione definitiva della prima parte della riforma, i tempi e le incertezze della politica la mettono a grave rischio. Rita Bernardini è di nuovo in sciopero della fame dal 22 gennaio scorso, con il sostegno di oltre diecimila detenuti. Si chiede a Paolo Gentiloni di superare lo stallo pericoloso, convocando con urgenza il Consiglio dei Ministri per il varo definitivo del testo prima delle elezioni del 4 marzo. Come ha detto il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini non completarne l’iter “a causa delle incertezze post-elettorali sarebbe un vero peccato, perché la riforma serve alla sicurezza del Paese e a far fare all’esecuzione penale un passo avanti”. Il presidente dell’Anm Eugenio Albamonte ha a sua volta osservato che “da parte della classe politica, assecondare dinamiche elettorali che non consentissero l’approvazione di una riforma così importante, sarebbe molto preoccupante”. Per questo ci appelliamo a editori, direttori e giornalisti affinché non neghino agli italiani il diritto di conoscere questa importante riforma voluta dal Parlamento che il 23 giugno 2017 ha delegato il Governo a metterla in pratica attraverso l’emanazione dei relativi decreti delegati. Invitiamo Rita Bernardini e i detenuti delle carceri italiane a sospendere l’iniziativa nonviolenta in corso”. Sottoscrivono: Aldo Masullo, Luigi Ferrajoli, Giuseppe Di Federico, Andrea Pugiotto, Davide Galliani, Ezechia Paolo Reale, Andrea Mascherin, Beniamino Migliucci, Francesco Petrelli, Giandomenico Caiazza, Guido Calvi, Bruno Mellano, Pino Rovereto e altri. I penalisti in piazza per sollecitare il governo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 febbraio 2018 Riforma dell’Ordinamento penitenziario, pressing anche dall’Ucpi. “Il 22 febbraio i decreti attuativi della riforma dell’ordinamento penitenziario saranno all’ordine del giorno del Consiglio dei ministri”. L’annuncio del premier Paolo Gentiloni arriva in serata, durante “Otto e mezzo” su La 7, e conferma l’impegno preso dal guardasigilli Andrea Orlando poche ore prima in un’intervista a Radio Rai. Sembra dunque intravedersi davvero lo striscione dell’ultimo chilometro, per il decreto che dovrebbe rimettere il sistema delle carceri sui binari della Costituzione. Un risultato che sembra anche il frutto delle sollecitazioni arrivate da diversi fronti. A cominciare dal Partito radicale, la cui dirigente Rita Bernardini, giunta al 26esimo giorno dello sciopero della fame, aveva chiesto di velocizzare l’iter di approvazione attraverso una riunione straordinaria del Consiglio dei ministri, per arrivare poi al via libera definitivo prima del 4 marzo, giorno delle elezioni politiche. Un segnale forte è arrivato anche dall’appello firmato due giorni fa da intellettuali e giuristi, tra i quali il filosofo Aldo Masullo, i professori Luigi Ferrajoli e Giovanni Fiandaca, il presidente del Consiglio nazionale forense Andrea Mascherin e il presidente dell’Unione Camere penali Beniamino Migliucci, ai quali si è aggiunto ieri il presidente della commissione Diritti umani del Senato Luigi Manconi. Importante anche il parere favorevole del Csm, che smentisce le osservazioni poste in particolare dal procuratore aggiunto di Catania Sebastiano Ardita, relativamente alla modifica del 4bis. E ancora significativa è un’ulteriore mobilitazione delle Camere penali, che ha indetto una manifestazione pubblica per chiedere l’approvazione della riforma. L’Ucpi chiede al governo “la sollecita approvazione definitiva della riforma nel suo testo già posto al vaglio del Consiglio dei ministri”. I penalisti intendono anche attivare “ogni strumento comunicativo volto alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica sulle tematiche dell’esecuzione penale e alla diffusione dei dati relativi alla riduzione statistica della recidiva laddove i condannati abbiano fruito di misure alternative”. Osservano che “la riforma dell’ordinamento penitenziario voluta dal ministro Orlando è stata salutata come una grande riforma organica dell’esecuzione penale con la quale, dopo oltre quaranta anni, si è tornati a porre la finalità rieducativa ed il reinserimento sociale del condannato al centro della legislazione penale nella luce dei principi affermati dall’articolo 27, comma 3, della Costituzione”. I penalisti tengono a sottolineare, inoltre, che “gli Stati generali dell’esecuzione penale voluti dal ministro hanno prodotto una riforma con la quale, almeno in parte, si ricuce lo strappo della legislazione del doppio binario emergenziale e si aboliscono le ostatività e gli automatismi”. Su quest’ultimo punto, i penalisti ricordano i pareri non vincolanti espressi dalle commissioni Giustizia di Camera e Senato che rischiano di ostacolare l’iter dell’approvazione e anche snaturare lo spirito della riforma. “Il governo - conclude l’Ucpi nella delibera approvata due giorni fa - non deve disperdere inutilmente le preziose risorse scientifiche e culturali e le aspettative politiche che sono state investite nei lavori dei tavoli tematici della commissione ministeriale coordinata dal professor Glauco Giostra: tale investimento deve essere ulteriormente messo a frutto attraverso la realizzazione degli ulteriori fondamentali punti della riforma costituiti dal lavoro e dalla affettività in carcere”. Un’azione avviata da più fronti che sembra dunque portare al risultato atteso, anticipato da Donatella Ferranti, presidente della commissione Giustizia della Camera, la quale aveva spiegato ai microfoni di Radio Radicale che la prossima riunione del Consiglio dei ministri ci sarebbe stata appunto il 22 o 23 febbraio. Ma da dove nasce questa urgenza? Il solo decreto delegato a oggi uscito dal Consiglio dei ministri è stato trasmesso alle commissioni Giustizia delle due Camere che, come previsto dalla legge, hanno espresso il loro parere, chiedendo alcune modifiche. Il Consiglio può a questo punto riunirsi per approvare il testo senza conformarlo ai pareri dei parlamentari. Ma a quel punto dovrà spiegare il perché rimandando indietro le motivazioni. Le Commissioni avranno allora altri dieci giorni di tempo per dire la loro. Rita Bernardini, appresa la conferma che la prossima riunione ci sarà il 22, pone pubblicamente una domanda al ministro della Giustizia Andrea Orlando: “In quale versione? Accogliendo la contro- riforma contenuta nel parere della commissione Giustizia del Senato? È domanda cruciale perché se non l’accoglie (come si spera), ci vogliono altri 10 giorni per le commissioni Giustizia se le controdeduzioni del governo vengono trasmesse immediatamente. E siamo al 4 marzo, cioè al giorno del voto in cui Gentiloni dovrebbe convocare il Consiglio dei ministri e approvarli definitivamente nel testo originale. È plausibile, ministro Andrea Orlando?”. I tempi sono quindi molto stretti e, salvo spiacevoli sorprese quale sarebbe appunto l’accettazione delle osservazioni poste da Palazzo Madama, è confermato che l’approvazione definitiva potrebbe esserci dopo il giorno delle elezioni. Anche se l’attuale governo rimarrà in carica fino al 22 marzo, resta l’incognita di un possibile stop dovuto a questioni di “opportunità politica”. Ma vorrebbe dire mandare tutto all’aria, giacché la delega deve essere esercitata da un governo che sia espressione dello stesso Parlamento che l’aveva predisposta. Io, madre di un detenuto, digiuno con Rita per non perdere la speranza Il Dubbio, 17 febbraio 2018 La lettera di Irene Sisi che ha paura per la delusione dei reclusi. “Mi chiamo Sisi Irene e sono la mamma di Matteo un ragazzo detenuto a Bollate. Le scrivo come genitore e anche come volontaria in carcere. Sono rammaricata, delusa e impaurita dalla non approvazione dei decreti. Questa volta dopo i pareri positivi avevamo iniziato a sperare. Finalmente il lavoro notevole degli Stati generali veniva riconosciuto, la voglia di riscatto silenziosa di migliaia di detenuti presa in considerazione. Invece dopo l’ultimo Consiglio dei ministri siamo tornati alla realtà. Purtroppo non capendo che questa volta l’illusione è stata tanta. La mia paura, parlando con tanti detenuti e quotidianamente con mio figlio, è quella di aver incattivito ulteriormente la situazione. Sapevamo benissimo che potevano esserci problemi, proposte che non sarebbero passate, ma c’era la convinzione di poter arrivare a qualcosa. Quando vivi in determinate situazioni, ogni miglioramento è sicuramente un traguardo. Invece si sono venduti tutto per dei voti, fregandosene ancora una volta di tante persone che combattono e sperano. Aver tolto la speranza e sentirsi presi in giro è un mix esplosivo. Quindi ho paura, sì. Essere ignoranti e illusi sicuramente ha creato un’ulteriore sfiducia verso quello Stato che dovrebbe prendersi cura di loro. Continuiamo comunque a digiunare, a lottare e a credere in un modo migliore grazie a persone come l’esponente del Partito radicale Rita Bernardini e molti altri. Scusatemi per lo sfogo”. Monitorare per alzare gli standard: come migliorare le carceri in Italia di Federica Brioschi* liberties.eu, 17 febbraio 2018 Una nuova raccolta di raccomandazioni per l’amministrazione penitenziaria getta le basi per il miglioramento delle carceri italiane. Non standard “minimi” di detenzione ma standard “elementari”: sono questi i contenuti di “Norme e Normalità”, un nuovo documento contenente una raccolta di standard per la detenzione degli adulti in Italia. È stato presentato il 29 gennaio durante una conferenza stampa tenuta da Mauro Palma, il garante nazionale italiano dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. Un documento “vivo” - Come ha rimarcato Palma, “Norme e Normalità” è un work in progress. Attualmente raccoglie in un volume tutte le raccomandazioni incluse nelle relazioni scritte nell’arco di due anni di visite ai 59 istituti penitenziarie per adulti in Italia. Man mano che il garante effettuerà nuove visite, verranno aggiunte ulteriori raccomandazioni al documento. I luoghi di privazione della libertà personale che ricadono sotto la supervisione del garante, pur avendo caratteristiche comuni, sono molto diversi l’uno dall’altro. Per questo motivo, gli standard raccolti in questo volume si riferiscono alla realtà specifica delle istituzioni penitenziarie per adulti. Verranno presto diffuse dall’ufficio del garante altre pubblicazioni relative ad altri luoghi di detenzione. Quando visita un istituto penitenziario, il garante utilizza una check list che include tutte le aree tematiche oggetto di monitoraggio, al fine di rilevare eventuali carenze. Gli standard contenuti in “Norme e Normalità” sono gli stessi delle aree tematiche monitorate dalla check-list, ovvero: condizioni materiali e igieniche delle strutture detentive; attrezzatura e utilizzo degli spazi comuni; sezioni e camere particolari; sezioni a regime detentivo speciale 41bis; qualità della vita in detenzione; gestione di eventi critici; prevenzione e gestione della radicalizzazione; regime penitenziario; tutela dei diritti umani; diritto alla salute; registri; personale. Standard elementari - Un aspetto importante che è stato sottolineato durante la conferenza stampa è che le raccomandazioni costituiscono soft law, nel senso che non vincolano le amministrazioni a cui sono indirizzate; tuttavia, rappresentano uno strumento importante per migliorare le condizioni di detenzione. Questo è anche il motivo per cui gli standard contenuti nel volume sono definiti come standard “elementari” piuttosto che “minimi”. Mentre gli standard minimi sono soglie al di sotto dei quali i diritti dei detenuti sono a rischio di violazione, gli standard elementari sono soglie più alte che mirano a un progressivo miglioramento delle condizioni carcerarie. Criticità - Uno dei problemi evidenziati durante la conferenza stampa e definito in “Norme e normalità” come “uno dei punti più critici della vita carceraria” è il problema dei trasferimenti. In particolare, il problema riguarda i trasferimenti di detenuti in istituzioni situate lontano dalla loro famiglia o dalla regione di residenza. Per questo motivo, il garante ha raccomandato alle autorità penitenziarie di istituire una tavola rotonda al fine di creare linee guida e criteri chiari per il trasferimento dei detenuti. L’isolamento è un’altra questione critica evidenziata dalle raccomandazioni di Palma e su questa questione Antigone, membro di Liberties, ha proposto una riforma. I problemi individuati dal garante comprendono la sovrapposizione dell’isolamento come sanzione disciplinare con regimi come quello previsto dal 41-bis della legge penitenziaria italiana, la sovrapposizione del regime 41-bis con l’isolamento in quanto parte della sentenza prescritta dall’articolo 72 del codice penale, e l’applicazione di diverse sanzioni disciplinari di isolamento che possono comportare un prolungato isolamento del detenuto. Le raccomandazioni mirano ad evitare queste situazioni, che costituiscono una violazione dei diritti dei detenuti. *Italian Coalition for Civil Liberties and Rights Università in carcere: in Italia 178 detenuti iscritti, in Spagna oltre mille Redattore Sociale, 17 febbraio 2018 Le falle del sistema universitario penitenziario nell’analisi comparata condotta da Gerardo Pastore, ricercatore del dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Italia e Spagna, due contesti nazionali con storie e politiche penitenziarie simili, eppure con situazioni molto diverse se si focalizza l’attenzione sullo studio universitario in carcere. È quanto approfondito da un’analisi comparata condotta da Gerardo Pastore, ricercatore del dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Il lavoro, appena pubblicato sull’”International Journal of Inclusive Education”, si inserisce nel quadro di una collaborazione di lungo periodo con Andrea Borghini, delegato del rettore dell’Ateneo pisano per il Polo Universitario Penitenziario di Pisa, e Antonio Viedma Rojas della Universidad Nacional de Educación a Distancia (Uned) di Madrid. “Il primo dato che si registra dal punto di vista quantitativo è quello relativo alla partecipazione delle persone detenute a corsi universitari - spiega Gerardo Pastore - e su questo punto, il ritardo dell’Italia è particolarmente marcato, infatti sebbene non sia semplice inquadrare il fenomeno in chiave comparata, i dati ci dicono ad esempio che nel 2015 gli iscritti erano 178 su una popolazione carceraria di circa 52mila persone in Italia e 1.020 su circa 61mila detenuti in Spagna”. Un distacco netto che però si spiega a partire dalle buone pratiche del modello spagnolo che lo studio individua in due elementi ben precisi: l’esistenza di una convenzione nazionale unica tra istituzioni (in questo caso i ministeri dell’istruzione e dell’interno e l’Uned) in grado di assicurare risorse economiche e umane e la piena applicazione delle tecnologie telematiche alla didattica universitaria in carcere. “Si tratta di buone pratiche che sarebbe auspicabile adattare al contesto italiano -conclude Pastore - il carattere straordinario dell’incontro tra carcere e università si può cogliere sotto molti aspetti, sia particolari che generali. Se si guarda nella prima direzione, lo studio appare come uno dei mezzi più efficaci per attenuare l’elemento drammatico della detenzione e riempirla di contenuti costruttivi. Considerando invece gli aspetti più generali, favorire la partecipazione dei prigionieri a corsi universitari ricorda a tutti che un’altra cultura della pena è possibile, senza buonismi di sorta, senza cedimenti, senza sotterfugi, ma nella nitidezza dei profili penali e delle modalità della detenzione”. Giustizia & Pigrizia di Ermes Antonucci Il Foglio, 17 febbraio 2018 Troppi giudici copiano e incollano le tesi dei pubblici ministeri Un motivo in più per insistere sulla separazione delle carriere. Il tribunale del Riesame di Venezia ha annullato il provvedimento di arresto nei confronti di un uomo accusato, con gravi di indizi di reato, di omicidio preterintenzionale della propria compagna. A causare l’annullamento della misura cautelare è stato un errore del giudice delle indagini preliminari che aveva autorizzato la richiesta di arresto della procura: il gip di Treviso Angelo Mascolo (noto per la sua crociata m favore del possesso di armi e per aver annunciato di recente la propria candidatura alle elezioni politiche, salvo poi tornare sui suoi passi) ha infatti copiato di sana pianta intere parti delle motivazioni espresse dai pm. Il Riesame ha così ritenuto che mancasse un’autonoma valutazione dei fatti da parte del giudice, che si è limitato ad aderire pedissequamente alle argomentazioni della procura. L’uomo, accusato di aver picchiato la compagna, poi morta in ospedale dopo un mese di agonia, è stato rilasciato. Non è il primo caso di ordinanze di custodie cautelari annullate a causa di copia-incolla dei giudici rispetto ai testi prodotti dai pm. Esiste una lunga case history, diventata, di fatto, uno dei migliori spot in favore della separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. Lo scorso dicembre, ad esempio, la Cassazione ha annullato per la seconda volta la custodia cautelare nei confronti del senatore calabrese Antonio Caridi (Gai), in carcere dal luglio 2016 con l’accusa di associazione manosa, rilevando che la decisione del gip era stata quasi interamente copiata (3.165 righe su 3.200) dall’ordinanza di custo dia cautelare stilata dalla procura. Nel 2016 il tribunale del Riesame di Palermo ha annullato l’arresto nei confronti di ben 20 persone indagate con l’accusa di aver organizzato o favorito l’ingresso illegale di migranti facendoli figurare come addetti e impiegati di circhi equestri. La richiesta di arresto della procura era stata avallata dal gip che, secondo quanto scritto dal Riesame, avrebbe ricopiato le 420 pagine depositate dai pm aggiungendo “due (sole) pagine” nelle quali erano stati riportati “principi generali sul concetto di gravita indiziaria”. Un’altra scarcerazione di massa si è avuta nell’ottobre del 2015, quando il tribunale del Riesame di Napoli ha annullato gli ordini di custodia cautelare nei confronti di 16 persone coinvolte in un’inchiesta di camorra, perché il Gip aveva “copiato pedissequamente la richiesta del pm, addirittura riproducendo la medesima suddivisione in paragrafi e utilizzando le stesse parole”. L’ordinanza, quindi, difettava del requisito della “autonoma valutazione” da parte del giudice. Nel 2012 un altro caso, probabilmente il più discusso, sempre a Napoli: il Riesame annulla l’arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, accusato di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip si è limitato a riassumere la richiesta di arresto della procura, incappando peraltro m una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole “questo pm” con “questo gip”. Persino l’ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, improvvisamente folgorato sulla via di Damasco nella sua nuova vita di avvocato, alcune settimane fa, intervistato dal Dubbio, ha lanciato l’allarme: “Basta con i gip copia-incolla. Da avvocato vedo cose folli!”. Siamo di fronte a un’emergenza copia-incolla di giudici e pm? In realtà la copiatura dei provvedimenti dei secondi da parte dei primi (chiaramente quelli che presiedono l’udienza preliminare, non il dibattimento) è sempre stata prassi piuttosto comune. È proprio per cercare di limitare questa deriva che il Parlamento, sull’onda di una giurisprudenza di Riesame e Cassazione sempre più critica, è intervenuto nel 2015 con la riforma dell’istituto della custodia cautelare (legge n. 47). La novità più importante della riforma è rappresentata dall’inserimento all’articolo 309 del codice di procedura penale (alla fine del comma 9) della frase: “Il tribunale annulla il provvedimento impugnato se la motivazione manca o non contiene l’autonoma valutazione, a norma dell’art. 292 c.p.p., delle esigenze cautelari, degli indizi e degli elementi fomiti dalla difesa”. Ciò significa che il giudice, nell’autorizzare la misura cautelare proposta dal pm, deve procedere con una valutazione autonoma degli elementi emersi nel corso delle indagini: deve avanzare proprie argomentazioni critiche e non può limitarsi alla mera esposizione delle risultanze investigative ne alla mera pedissequa riproposizione degli argomenti sviluppati dal pm nella richiesta di emissione della misura cautelare. Ma non basta: come previsto dal comma 2 ter dell’articolo 292 c.p.p., il giudice, pena la nullità del suo provvedimento, deve tenere conto anche della valutazione degli elementi a favore dell’indagato, contenuti sia negli atti presentati dalla difesa sia nel fascicolo del pm (l’art. 358 c.p.p. prevede infatti l’obbligo, spesso dimenticato, del pm di raccogliere elementi anche a favore dell’indagato qualora questi emergessero dalle indagini in corso). In altre parole, il giudice non deve recepire in maniera acritica le argomentazioni avanzate dal pm nella richiesta di misura cautelare (altrimenti che giudice sarebbe?), ma deve esaminare gli atti in modo autonomo, leggendoli, studiandoli e confrontandoli (incrociando, cioè, gli elementi dell’accusa con quelli della difesa). È per questo che la risposta del giudice Mascolo (“La prossima volta cercherò di scrivere di più”), accusato di aver portato alla scarcerazione di un presunto omicida con i suoi copia-incolla, non coglie nel segno: ciò che la legge e la giurisprudenza chiedono non è di impolpare i provvedimenti di considerazioni inutili, tanto per allungare il proprio testo rispetto a quello redatto dai pm, quanto di mostrare di aver almeno letto le carte. Certo, di fronte alle montagne di fascicoli di indagine che spesso affollano le scrivanie, è forte per il giudice la tentazione di risparmiare tempo e fatica scopiazzando intere sezioni direttamente dalle ordinanze dei propri colleghi pm, tanto più se si considera la facilità con cui è possibile oggi compiere il gesto sullo schermo di un computer (con le puntuali combinazioni di tasti Ctrl + C per copiare e Ctrl + V per incollare). È stato lo stesso tribunale del Riesame di Napoli a notarlo, bocciando l’ordinanza che disponeva l’arresto per indagati di camorra che ricordavamo prima: “L’intervento del legislatore si è ritenuto necessario in considerazione della circostanza, che non sfugge agli addetti del settore, che l’avvento della tecnologia con la trasmissione informatica dei files ha inciso profondamente sulla tecnica di redazione dei provvedimenti cautelari consentendo la trasposizione di intere parti di informativa”. “Atti di indagine - prosegue il Riesame - che in passato necessariamente venivano riportati per sintesi ragionata, risultando in tal modo sottoposti ad un vaglio, sia pur minimo, del giudice”. In effetti, ci sono stati anche casi in cui la tecnica del copia-incolla è completamente sfuggita di mano, come nel maggio del 2012, quando la Cassazione ha annullato un’ordinanza di custodia cautelare disposta dal gip di Napoli poiché redatta “ricopiando, in maniera disattenta quanto maldestra, il passo motivazionale di altro provvedimento emesso in un diverso procedimento penale”. Il gip in questione, cioè, si era spinto persino a ricopiare passaggi di altri provvedimenti cautelari, che con la vicenda non c’entravano niente, riferendosi ad esempio al “capillare controllo del territorio” di un gruppo di spacciatori e alla loro “commercializzazione di sostanze stupefacenti di diverso tipo”, nonostante la vicenda oggetto del procedimento riguardasse un gruppo criminale attivo nel traffico internazionale di un unico tipo di droga e senza alcun controllo del territorio. L’altro caso esemplare è quello che si registrò a Milano nel dicembre 2010, quando la procura del capoluogo lombardo chiese la carcerazione di un ex sindaco locale trascrivendo nella richiesta interi passaggi di un altro parere già espresso nei confronti di un altro indagato, senza ricordarsi di cambiare il nome della persona interessata. Come se non bastasse, il gip non si accorse di nulla, accogliendo la richiesta di carcerazione. Nel 2014 sempre la Cassazione annullò un’ordinanza di custodia cautelare in carcere, la cui motivazione era costituita dalla trascrizione integrale della richiesta del pm, seguita solo dalla locuzione: “Ricorrono, sulla base delle considerazioni sopra esposte, gravi indizi di colpevolezza in ordine ai gravi reati ipotizzati”. Infine, terminando questa rassegna dell’orrore, spicca l’episodio avvenuto nell’ottobre del 2007 a Trento, quando il gip accolse la richiesta di custodia cautelare andando ben oltre il copia-incolla, rinviando direttamente alla lettura delle schede personali redatte dalla polizia giudiziaria che erano state allegate alla richiesta del pm. Insomma, anziché valutare gli elementi prodotti dall’accusa e della difesa, il giudice si affidò completamente agli atti predisposti dalla polizia giudiziaria (senza neanche riportarne stralci, ma rinviando alla loro lettura). Una decisione annullata dalla Cassazione, che sottolineò la mancanza di “valutazione critica degli elementi indiziari e della gravita degli stessi, propria del provvedimento giurisdizionale, che non può essere rimessa alla ricostruzione contenuta nella relazione della polizia giudiziaria”. Il divieto di fare copia-incolla, comunque, non si traduce nell’obbligo di riscrivere da zero l’ordinanza di custodia cautelare. Come ha evidenziato Luigi Giordano, magistrato addetto all’ufficio del massimario della Corte di Cassazione, in un articolo pubblicato in Diritto penale contemporaneo nel luglio 2015, l’obbligo di autonoma valutazione comporta per il giudice “l’obbligo di dare dimostrazione di aver valutato criticamente il contenuto degli atti dell’indagine e di averne recepito il tenore perché funzionale alle proprie determinazioni”. In questa prospettiva non è escluso il ricorso al copia e incolla, ma i passaggi riportati “dovrebbero essere intervallati da commenti del giudice, da un lato necessari per manifestare il giudizio su tali elementi, dall’altro indice del fatto che sono stati adeguatamente ponderati dal giudicante”. In alternativa, il giudice “dovrebbe redigere punti di sintesi relativi ai gravi indizi di colpevolezza e alle esigenze di cautela, i quali, però, andrebbero corredati dagli opportuni riferimenti alle pagine precedenti relative all’esposizione dei dati forniti dal pubblico ministero, allo scopo di rivelare l’approfondimento compiuto; i richiami agli atti delle indagini, inoltre, non dovrebbero essere vaghi o ampi, ma puntuali e specifici”. Nonostante la riforma del 2015, però, come abbiamo visto continuano a registrarsi periodicamente casi di gip che, vuoi per mancanza di tempo, vuoi per pigrizia se non addirittura completo appiattimento alle richieste dei pubblici ministeri, procedono al copia-incolla dei provvedimenti redatti dai propri colleghi requirenti, per poi essere bocciati dai tribunali del Riesame o dalla Cassazione. E c’è da credere che non sono poche le circostanze in cui ciò avviene, se si considera il richiamo che lo stesso procuratore generale della Cassazione, Riccardo Fuzio, ha voluto lanciare a tutte le toghe all’ultima inaugurazione dell’anno giudiziario, quando ha sottolineato con preoccupazione i “casi di copia-incolta, non solo di provvedimenti del gip rispetto alla richiesta del pubblico ministero, ma anche di richieste cautelari del pm rispetto al rapporto informativo della polizia giudiziaria”. La prassi del copia-incolla dei giudici rispetto ai testi dei pm finisce co sì per rappresentare inevitabilmente il miglior manifesto in favore della separazione delle carriere fra funzione giudicante e funzione requirente. Lo scorso 31 ottobre, l’Unione camere penali italiane ha depositato a Montecitorio 60 mila firme a sostegno del progetto di legge di iniziativa popolare per la separazione delle carriere. Alla consegna dei plichi, il presidente dell’Uopi, Beniamino Migliucci, ha dichiarato: “Non è una riforma contro la magistratura, ma nell’interesse del cittadino, che ha diritto di essere giudicato da un giudice distinto da chi accusa”. E magari che non sia un copione. “Separazione delle carriere giudici-pm, mai come oggi necessario attuare la terzietà” di Diodato Pirone Il Messaggero, 17 febbraio 2018 Separazione delle carriere e giudice terzo. Questo uno dei cavalli di battaglia dell’avvocato Nunzio Luciano, del foro di Campobasso e presidente della Cassa Nazionale Forense, candidato di Forza Italia in Molise nel proporzionale del Senato. Avvocato, che cosa significa per lei terzietà? “Mai come oggi sarebbe necessario attuare quanto espressamente previsto dall’art. 111 della nostra Costituzione, che prescrive l’imparzialità e la terzietà del giudice. Naturalmente, e questo ci sembra superfluo sottolinearlo, terzietà vuoi dire appartenenza di un giudice ad un ordine diverso da quello del pubblico ministero”. Quindi se sarà eletto lei si batterà per la separazione delle carriere. “Non c’è dubbio. Chiediamo la separazione delle carriere in modo tale da poter garantire che il giudice sia diverso sia da chi accusa che da chi difende. Del resto il giudice non può avere la stessa cultura di chi invece è deputato a svolgere un lavoro investigativo, m sostanza di chi porta avanti le indagini. Per questo quando parliamo di separazione intendiamo che il pubblico ministero, organo dell’accusa e il giudice, organo deputato ad emettere la decisione nell’ambito del procedimento, appartengono oggi allo stesso ordine ossia la magistratura”. Quali vantaggi porterebbe la separazione? “L’attuale situazione è un controsenso perché chi giudica e chi accusa dovrebbero appartenere a due organi distinti. Così accade in tutte le democrazie evolute in cui vige un sistema accusatorio, come il modello a cui si ispira il nostro codice, nonostante le varie modifiche peggiorative fatte negli anni sin dall’adozione. Per questo si è anche costituito un Comitato promotore per la separazione delle carriere in magistratura. La Costituzione impone la terzietà del giudice, il legislatore ordinario deve garantirla ed attuarla con ogni mezzo”. Ha altre proposte? “La riforma della giustizia civile. È lontana dalla sua realizzazione e sono ancora molti i punti deboli ai quali si deve porre rimedio con celerità per cercare perlomeno di accorciare i tempi dei processi. La giustizia civile resta la vera malata malgrado gli sforzi, ne do atto, del governo Nunzio Luciano, presidente della Cassa forense e del ministro Orlando. Alcuni timidi segnali di miglioramento ci sono stati con una diminuzione dell’arretrato. Ma siamo lontani dagli obiettivi. Infine mi auguro che ci siano finalmente degli investimenti nei tribunali e soprattutto una radicalizzazione ben definita del processo civile telematico”. Toscana: Sportelli Asl in carcere per far lavorare i detenuti come centralinisti gonews.it, 17 febbraio 2018 Sportelli amministrativi delle Asl all’interno degli istituti penitenziari. O, viceversa, detenuti che vanno a lavorare nelle sedi Asl. Opportunità lavorative per i detenuti previste dall’accordo di collaborazione tra Regione Toscana e Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per la Toscana e l’Umbria, siglato stamani dall’assessore regionale al diritto alla salute e al sociale e da Antonio Fullone, provveditore del Prap. Da tempo la Regione Toscana è impegnata per migliorare le condizioni di vita dei detenuti degli istituti penitenziari presenti sul territorio regionale (teatro in carcere, materassi, libri di testo e narrativa, ecc.). Già prima del passaggio delle competenze di sanità penitenziaria dalla Giustizia al Servizio sanitario regionale (aprile 2008), venivano inoltre garantiti alcuni servizi sanitari (tossicodipendenze, psicologia, ricoveri ospedalieri, ecc.). Dal 2010 al 2014 sono stati firmati protocolli con l’amministrazione penitenziaria, con l’obiettivo di migliorare le condizioni di vita della popolazione detenuta, attivare opportunità formative e lavorative, preparare all’uscita in modo da ridurre la recidiva e favorire il reinserimento sociale. In questo quadro si inserisce l’accordo firmato stamani, che prevede l’attivazione di sportelli amministrativi (Cup, ecc.) e call center delle aziende sanitarie all’interno degli istituti penitenziari. O anche (qualora le condizioni giuridiche lo consentano) l’uscita di alcuni detenuti dal carcere, per andare a lavorare nei call center e agli sportelli amministrativi delle sedi Asl. Obiettivo, avviare e sperimentare in alcune carceri un format organizzativo che possa essere riproducibile anche in altri istituti penitenziari. L’assessore ha sottolineato che quello siglato oggi è uno dei tanti accordi fatti con il Prap per migliorare le condizioni di vita dei detenuti, che devono avere le stesse opportunità e gli stessi servizi dei cittadini liberi. e ha ringraziato il provveditore per la disponibilità e la comunanza di visione. Il provveditore Fullone ha ricordato che il carcere è un momento importante di socializzazione, sicurezza e costruzione per quando poi si uscirà. Questo progetto, ritagliato sul target della popolazione detenuta, è un valore aggiunto. Ai detenuti sarà garantita un’opportuna formazione da parte della Asl titolare degli sportelli amministrativi, e corrisposto un compenso tramite borsa lavoro per un periodo di almeno sei mesi. Dopo la formazione e questi primi sei mesi, il rapporto di lavoro potrà essere trasformato, previa valutazione individuale di idoneità da parte della Asl, in contratto interinale per un periodo massimo di un anno. Al momento dell’uscita dal carcere, l’ex detenuto, a questo punto formato e con esperienza, potrà eventualmente accedere ai normali percorsi per un rapporto di lavoro strutturato al pari degli altri cittadini. L’esperienza è già in atto nel carcere di Massa, dove funzionano due postazioni amministrative call center della Asl Toscana nord ovest. Come prima ipotesi, si prevede l’attivazione, entro l’estate, di altri due call center della Asl Toscana centro nel carcere Gozzini di Firenze (a custodia attenuata, conosciuto come Solliccianino), e la presenza di alcuni detenuti nel call center, sempre dalla Toscana centro, a San Salvi, per un totale, in fase di avvio, di circa 10 detenuti. Per il 2018 la Regione ha stanziato 100.000 euro, con la previsione di un rinnovo per il 2019. La Asl coinvolta si impegna a fornire le apparecchiature necessarie (computer, mobili, rete dati e telefonica, apparecchi telefonici Voip, software) e ogni altro intervento necessario per garantire la funzionalità del servizio. La Asl garantirà adeguati percorsi di formazione con i detenuti partecipanti e con affiancamento formativo al personale già operante nei servizi; e anche la supervisione del corretto svolgimento dei servizi. Le direzioni degli istituti penitenziari coinvolti garantiranno la sicurezza complessiva relativa all’attivazione degli sportelli all’interno del carcere, la selezione dei detenuti ritenuti idonei per le attività previste, sia per gli sportelli dentro il carcere che per quelli nelle sedi Asl, il reperimento di locali idonei per le postazioni di lavoro, l’attivazione di tutte le autorizzazioni per l’accesso esterno a internet e alle reti delle Asl. Il Prap si impegna a sensibilizzare e coinvolgere nelle attività previste dall’accordo le direzioni degli istituti penitenziari. Reggio Calabria: protesta di 70 detenuti di Alta Sicurezza nel carcere di Arghillà cn24tv.it, 17 febbraio 2018 “Dopo mesi di reiterate e inascoltate richieste di miglioramento delle condizioni di detenzione in queste ore esplode la protesta pacifica segnata dalla rabbia e dalla sofferenza dei detenuti del carcere di Arghillà appartenenti a quattro regioni di residenza. Dall’acquisto dei generi di prima necessità - informa una nota del sindacato Cosp, Coordinamento sindacale penitenziario - alle richieste più semplici di vita penitenziaria alla riduzione arbitraria dei giorni di fruizione dei colloqui con i propri familiari, fino all’utilizzo dei fondi riservati a questi ultimi. La pazienza dei detenuti che per mesi hanno chiesto invano la tutela dei propri diritti è cessata. La gestione superficiale e approssimativa dei vertici dell’istituto - si legge ancora nella nota stampa - ha provocato tensioni e malumori non più sanabili con gravi ripercussioni del clima carcerario, provocando pesanti ricadute sul personale di polizia penitenziaria che da tempo denuncia continue vessazioni da chi mostra scarsissime capacità gestionali della casa circondariale di Arghillà. Una struttura voluta dall’amministrazione centrale quale modello all’avanguardia del sistema penitenziario italiano, gestita senza alcuna efficacia, in modo approssimativo e personalistico. Il disagio crescente è la risultante diretta di azioni prive di ogni valutazione normativa e non più tollerate sia dai detenuti che dal personale che chiede il trasferimento in altre sedi nella impossibilità di svolgere il proprio lavoro in maniera serena. Il Coordinamento sindacale penitenziario al riguardo - si legge infine - esprime grande preoccupazione a fronte di una situazione che rischia di degenerare in presenza di scarsissime risorse non nelle condizioni oggettive di fronteggiare il diffuso malessere in un generalizzato clima di tensione che potrebbe sfociare in situazioni ben più gravi”. Vicenza: i detenuti diventano sarti per i bambini più poveri di Lorenzo Maria Alvaro Vita, 17 febbraio 2018 Nella casa circondariale San Pio X, grazie al Centro Sportivo Italiano, è nato il laboratorio sartoriale “Un filo che unisce” che occupa cinque carcerati e produce le coperte che vengono usate dai bimbi della scuola Monumento ai Caduti di Bassano. Un piccolo laboratorio che produce plaid e coperte da destinare ai bambini dell’asilo. Detto così non sembra niente di strano e neanche tanto interessante. Il laboratorio però è nella casa circondariale San Pio X di Vicenza, occupa cinque reclusi con la supervisione di tre volontarie e l’asilo in realtà è la scuola cittadina Monumento ai Caduti dove vengono accolti i figli di famiglie che vivono in condizioni di disagio economico. Il progetto è targato Centro Sportivo Italiano, che coordina alcune attività educative e ricreative all’interno del carcere dove è impegnato sin dal 1999, e ha sostenuto la realizzazione del laboratorio sartoriale. Le volontarie (Elda Moncecchi, Sandra Zilio e Silvana Gasparetti) hanno scelto quella scuola perché tra le più multietniche della città. “È il primo risultato portato a termine nell’ambito del percorso educativo e riabilitativo avviato a Vicenza e abbiamo voluto fosse a beneficio dei bambini”, spiega Moncecchi, la coordinatrice dell’iniziativa, ex docente di scienze motorie, nonché volto noto nel mondo dello sport bassanese. L’altro risultato lo stanno ottenendo i detenuti coinvolti, che si fanno guidare dalle volontarie definite dagli stessi come “Il respiro del nostro cuore”. Ogni giorno, gli aspiranti sarti si impegnano seguendo le consegne settimanali delle “maestre”. Oltre alle copertine, hanno prodotto raffinate parure di asciugamani e altri manufatti. “Siamo partiti con lavori semplici, ma punteremo a qualcosa di più elaborato - afferma Moncecchi. Il gruppo di lavoro ci ha stupito per dedizione, capacità creativa e manuale, per la precisione il rigore che ci mette nel confezionare il prodotto”. Ma il progetto ha anche un importante risvolto educativo. “Questi detenuti che in passato hanno commesso un reato contro la società, cercano un riscatto rendendosi utili per gli altri”, sottolineano le volontarie. “È anche un modo concreto di portare la bellezza in un contesto degradato - sottolinea l’assessore Mazzocchin. Quando Elda Moncecchi ci ha offerto questo dono lo abbiamo subito accettato con riconoscenza e gioia per i tanti significati profondi che queste semplici coperte rivestono. Che alcuni adulti segnati dalla vita e desiderosi di impegnarsi in qualche cosa di bello e di utile pensino ai bambini e al loro benessere è un segno di speranza per la nostra comunità. Per questo siamo orgogliosi che questo “filo che unisce” coinvolga anche Bassano”. “È lo sviluppo di un progetto partito quattro anni fa dalla passione per la sartoria di una persona detenuta”, spiega Enrico Mastella presidente Csi Vicenza, “e inizialmente la funzione era da sartoria interna. Si occupavano di mettere a posto i vestiti degli altri ospiti del carcere. Per questioni organizzative quel primo progetto ebbe una battuta di arresto e riprese con la forma attuale grazie alla passione della prof. Moncecchi. È lei la vera anima della proposta. Noi ci siamo limitati a dotarli di due macchine da cucire e li sosteniamo con le pratiche burocratiche. Tutto il nostro impegno nel carcere ha come funzione principalmente dare a queste persone una nuova possibilità di vita. Lavorare e nello stesso tempo aiutare chi è in difficoltà rende questo progetto unico da questo punto di vista”. Pistoia: carcere, è ancora allarme per il sovraffollamento quinewspistoia.it, 17 febbraio 2018 Il Garante dei diritti dei detenuti Franco Corleone ha fatto un sopralluogo all’istituto penitenziario di Pistoia accompagnato dal direttore Bianchi. Nel carcere di Pistoia la ristrutturazione ha portato migliorie a spazi e ambienti ma resta ancora una situazione di sovraffollamento. È l’analisi del Garante regionale dei diritti dei detenuti che questa mattina ha effettuato un sopralluogo nel carcere di Pistoia, accompagnato dal direttore Tazio Bianchi. La tappa rientra nel tour che Franco Corleone sta effettuando negli istituti penitenziari della Toscana per verificare criticità, aspetti positivi e condizioni di vita dei detenuti. Quello di Pistoia è un carcere piccolo con 4 reparti destinati alla media sicurezza, alla semilibertà, al transito-isolamento ed alla custodia attenuata. L’istituto, costruito negli anni ‘30, è stato recentemente riaperto dopo la chiusura di un anno e mezzo per i danni causati da un uragano. Corleone ha evidenziato alcune positività in seguito alla recente ristrutturazione ma ha sottolineato ancora alcune carenze e lavori da effettuare il prima possibile. Secondo il garante va eliminata la copertura pesante che impedisce lo sguardo al cielo nel passeggio e devono essere aggiunti dei lavandini fuori dai bagni. Tra le criticità Corleone ha parlato del sovraffollamento, il carcere, infatti ospita 83 detenuti dei quali 41 stranieri provenienti da Albania, Nigeria, Marocco e Romania per una capienza di 57. Le celle non sono a misura d’uomo ma troppo piccole e troppo affollate, oppure troppo grandi, alcune anche con 6 letti. Tra gli aspetti positivi Corleone ha messo in risalto la presenza di una sala per i colloqui ampia e funzionale, di una bella area verde che favorisce gli incontri, della biblioteca aperta tutti i pomeriggi e della sala polivalente per l’attività teatrale. L’impegno del garante è adesso quello di chiedere fondi al Provveditore per l’apertura di uno spazio da adibire a palestra e per sistemare il locale per i servizi sanitari specialistici come l’odontoiatria. Sassari: salute in carcere, l’Assl incontra il Garante dei detenuti La Nuova Sardegna, 17 febbraio 2018 Nei giorni scorsi si è svolto un incontro tra il direttore del Distretto Sanitario di Sassari, Nicolò Licheri, e il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, Mario Dossoni, per analizzare lo stato della sanità penitenziaria e per condividere la riorganizzazione di questa funzione all’interno dell’Assl di Sassari. L’incontro è stato anche l’occasione per mappare i servizi attivi nella casa circondariale di Bancali e per esaminare le criticità dell’offerta sanitaria destinata ai pazienti-detenuti. “Negli ultimi mesi, da quando il servizio per la Tutela della Salute in carcere è stato affidato al Distretto di Sassari, ci siamo dedicati alla pianificazione dell’attività medico-generica e specialistica - afferma Nicolò Licheri. L’obbiettivo della riorganizzazione è quello di governare meglio domanda e offerta sanitaria ponendo particolare attenzione alla prevenzione e all’attività medica di base. Rimodulare il lavoro sulle priorità cliniche - conclude il direttore del Distretto Sanitario di Sassari - renderà più efficiente l’accesso e l’erogazione dei servizi sanitari”. Anche la definizione dell’organico infermieristico è all’attenzione del Distretto Sanitario di Sassari che, per supplire a un forte turnover, ha predisposto gli atti necessari per assumere nuovi infermieri. Inoltre sono stati assunti due Oss: uno di loro è già operativo mentre l’altro si è dimesso senza prendere servizio e pertanto si stanno avviando le pratiche per l’acquisizione di un altro operatore. Da parte della Direzione di Distretto c’è comunque la volontà di convocare le rappresentanze sindacali per discutere sia le criticità sia le modalità di riorganizzazione del servizio sanitario in carcere. Infine il direttore del Distretto Sanitario di Sassari e il Garante dei detenuti si sono confrontati sulla necessità di prevedere un incontro periodico tra i protagonisti della sanità penitenziaria: ampliare il numero delle comunicazioni e delle segnalazioni di eventuali problemi che ostacolano il corretto percorso assistenziale equivale ad accrescere l’efficacia dei servizi offerti. Roma: all’Isola Solidale inizia un corso di formazione per i volontari del carcere romasette.it, 17 febbraio 2018 “Reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti”. Questo il tema del percorso proposto a quanti sono impegnati negli istituti detentivi di Roma e Lazio. In programma 10 incontri a cadenza settimanale. Sarà presentato oggi, sabato 17 febbraio, dalle 9.30 (Isola solidale di via Ardeatina) il secondo corso di formazione per i volontari impegnati negli istituti detentivi di Roma e del Lazio. L’iniziativa, che quest’anno ha come tema “Il reinserimento della persona detenuta nell’ambiente sociale lavorativo” è organizzata dall’Isola Solidale in collaborazione con l’Associazione Co.n.o.s.c.i. In occasione del lancio del corso di formazione interverranno, tra gli altri, l’assessore regionale alle Politiche sociali, Rita Visini, il presidente dell’Isola Solidale, Alessandro Pinna, il presidente del Coordinamento nazionale degli Operatori per la Salute nelle Carceri Italiane Sandro Libianchi e lo psicoterapeuta, Daniele Sadun. Il programma prevede dieci incontri con cadenza settimanale che verranno tenuti da esperi nelle varie discipline giuridiche, sociali, psicologiche e mediche. La partecipazione è gratuita e al termine del ciclo formativo verrà rilasciato l’attestato di partecipazione. In particolare i temi che verranno trattati saranno: il coinvolgimento del Terzo Settore nei programmi di co-progettazione e co-gestione della Regione Lazio; Il reinserimento sociale e lavorativo del detenuto all’interno del carcere; il reinserimento sociale e lavorativo del detenuto all’esterno del carcere; le iniziative di Roma Capitale a sostegno dei soggetti fragili; Il detenuto straniero; il ruolo dell’architettura nel miglioramento del benessere del detenuto; Gli stati generali sul carcere: il confronto con le Associazioni. Il 23 marzo, infine, la chiusura del corso e la consegna degli attestati. Romo: nasce squadra di rugby dei detenuti di Rebibbia “lottiamo per il nostro riscatto” di Raffaele Nappi Il Messaggero, 17 febbraio 2018 “Ragazzi, grazie di cuore. Per due ore ci è sembrato di essere liberi e di giocare nel parchetto sotto casa”. Quando si sono ritrovati di fronte i volontari pronti a giocare una partita di rugby per i detenuti della casa circondariale di Rebibbia è stata una sorpresa inaspettata. Hanno avuto così la possibilità di placcare, correre e sudare, giocando una partita vera e propria. L’obiettivo? Quello di creare la prima squadra di rugby in carcere della capitale. “Abbiamo deciso di puntare su Roma dopo il blocco delle attività dei Bisonti Rugby, la squadra composta da detenuti del carcere di massima sicurezza di Frosinone - racconta Germana De Angelis, responsabile del progetto e presidente dell’associazione Gruppo Idee - Dopo il tentativo di fuga dell’anno scorso, infatti, nonostante i “rugbisti” fossero completamente estranei, sono state fermate tutte le attività. Da qui l’idea di ricominciare da Rebibbia”, continua. La direzione ha accolto con entusiasmo l’idea di una squadra di rugby composta da detenuti. “L’anno scorso c’era stata già una prima esperienza, era andata bene e così ci hanno chiesto di ripartire”, continua De Angelis. Lo scorso 10 febbraio si è tenuto così il primo incontro all’interno della casa circondariale di Rebibbia. Il progetto, dal titolo “Ovale oltre le sbarre”, rientra nell’attività del Progetto Carceri della Federazione Italiana rugby seguito dal consigliere federale Stefano Cantoni e che interessa da anni già altri cinque istituti penitenziari(Torino e Bologna, vedi video, i più attivi) con altri in attesa. I detenuti coinvolti sono già 25, di molte nazionalità e quasi tutti “digiuni” di palla ovale. Qualcuno si sta aggiungendo con il passare dei giorni. L’adesione è entusiasta, i ragazzi sono contentissimi. Il coach, Stefano Scarsella, ha iniziato gli allenamenti solo due mesi fa, un giorno a settimana per due ore. Il motto è “aiutare gli altri per aiutare se stessi”. “È un bel gruppo, ci si impegna e c’è un ottimo rapporto con l’allenatore. Lo adorano - sorride De Angelis - Dopo il primo incontro di sabato scorso sono gasatissimi, non vedono l’ora di fare il prossimo”. A differenza di Frosinone il problema vero è il campo d’allenamento, un misto di terra e brecciolino che però risulta troppo piccolo e non è adeguato per il rugby a 15. “Stiamo lavorando con la direzione per capire se c’è la possibilità di usufruire di uno spazio più grande”, conclude la responsabile. Per il momento il nome rimane lo stesso, Bisonti Rugby. “Per noi è come un marchio - sorride Emanuele Bertea, volontario - indica un progetto vincente nato all’interno del carcere”. Anche la Federazione ha fatto sentire il suo appoggio. Qualche giorno fa è arrivato ad allenarsi con i detenuti anche un consigliere federale. Prossimo passo? Partecipare al campionato di C2 (l’ultima serie nel rugby). Essendo comunque una condizione detentiva di media sicurezza e non massima come quella di Frosinone, l’obiettivo è magari quello di fare anche partite esterne, organizzare trasferte. Sempre secondo i valori del rugby: l’incontro, il lavoro di gruppo, il sostegno reciproco. “Da parte nostra ce la stiamo mettendo tutta. La voglia di riscatto è immensa”. Rispuntano i missili atomici, ma l’Europa è distratta di Franco Venturini Corriere della Sera, 17 febbraio 2018 Russia e Usa si accusano reciprocamente da qualche mese di violare l’accordo Inf del 1987 che bandì i vettori con gittata fino a 5.000 chilometri. Quasi senza rendersene conto, l’Europa si accinge a diventare teatro di un nuovo braccio di ferro nucleare tra Mosca e Washington. Come al tempo degli euromissili, quando la base siciliana di Comiso ospitava i Cruise e la Germania faceva altrettanto con i Pershing II americani per far fronte agli SS-20 sovietici. Ma con l’aggravante, questa volta, che i pericoli innescati da una corsa al nucleare in Europa sarebbero maggiori e meno controllabili rispetto a quelli sperimentati nella guerra fredda degli anni Ottanta. Le premesse esistono, e sono in costante e allarmante accelerazione. La prima. Mosca ha confermato nelle scorse settimane di aver schierato permanentemente a Kaliningrad, nell’antica Koenisberg di Immanuel Kant, una nuova generazione di missili Iskander capace di portare testate nucleari a 450 chilometri di distanza. Le Repubbliche Baltiche e la Polonia, territorio Nato, sono sotto tiro. Il Cremlino spiega che si tratta di una risposta allo schieramento di circa cinquemila soldati dell’Alleanza Atlantica in Polonia, Estonia, Lettonia e Lituania per garantire a questi Paesi di prima linea che in caso di aggressione russa scatterebbe la solidarietà degli alleati prevista dall’Articolo 5 del trattato. La seconda. Russia e Usa si accusano reciprocamente da qualche mese di violare l’accordo Inf del 1987, che eliminò in un colpo solo i missili nucleari con base a terra e con gittata tra i 500 e i 5.000 chilometri: i già citati euromissili. Gli Iskander di Kaliningrad per un soffio non rientrano in questa categoria, ma gli americani affermano che Mosca ha già pronto un vettore con portata tra i 2.000 e i 3.000 chilometri e hanno pubblicamente annunciato di aver studiato una adeguata risposta da schierare in Europa se necessario. La Russia nega e ritorce le accuse puntano l’indice contro una componente dello “scudo” anti-balistico Usa operativo in Romania e quasi pronto in Polonia. Malgrado gli appelli di Gorbaciov, a Mosca e ancor più a Washington tira aria di denuncia del trattato del 1987. Il che lascerebbe a entrambi mano libera. Soprattutto in Europa. La terza. Ai primi dello scorso febbraio gli Usa hanno rivisto la loro dottrina nucleare annunciando lo sviluppo di armi atomiche di minore potenza che potrebbero essere utilizzate anche in risposta ad attacchi non nucleari. Si pensa forse al Medio Oriente, forse alla Corea del Nord, ma di sicuro si pensa all’Europa, come dimostrano le vivaci reazioni di Mosca. L’intento americano è di creare una deterrenza regionale là dove la geografia favorisce la Russia: Putin deve sapere che in Europa anche le guerre “ibride” (in particolare quella cibernetica), o le piccole incursioni locali, possono far scattare una reazione nucleare tattica. Secondo alcuni è una buona idea perché oggi nessuno crede più alla deterrenza della Mad (Distruzione Reciproca Assicurata, lo spauracchio dell’apocalisse che ha garantito la pace durante la guerra fredda). Ma altri, e sono i più, credono che la soglia nucleare sia stata così abbassata e banalizzata, senza poter garantire in alcun modo che la catena delle risposte non arrivi velocemente e con pochi controlli al cuore degli arsenali nucleari delle potenze. Terreno di collaudo privilegiato per capire chi ha ragione, quello classico dall’Atlantico agli Urali. Serve un’Europa davvero molto distratta per continuare a tacere su circostanze del genere. Ma non basta, perché resta da spiegare per quali ragioni lo scenario degli euromissili sarebbe oggi più insidioso di ieri. Tre elementi, anche qui. Il primo è che oggi in Europa c’è già una guerra, cosa impensabile durante la guerra fredda. Dal 2014 a oggi in Ucraina i morti sono stati oltre diecimila. La Crimea è stata annessa da Mosca. L’Occidente appoggia Kiev e l’America ha deciso di fornire al presidente Poroschenko armi letali teoricamente difensive, cosa che Obama aveva rifiutato di fare su richiesta delle capitali della “vecchia” Europa. La Russia che appoggia e arma i separatisti del Donbass minaccia di rispondere, ma in realtà l’attuale conflitto le sta bene perché rimanda alle calende greche una ipotetica e sempre più difficile riunificazione dell’Ucraina. L’Europa qui si è mossa, ha patrocinato gli accordi di Minsk che tuttavia sono bloccati. Servono idee nuove, per esempio favorire l’invio di una forza Onu prendendo in parola Putin. Altrimenti il focolaio resterà acceso, e potrà fornire una infinità di pretesti a chi volesse premere grilletti tattici o meno. Secondo, l’Europa non è obbligatoriamente compatta come ai tempi della guerra fredda. La Polonia e i Baltici hanno una idea della Russia diversa da quelle di Berlino, Parigi o Roma. Questo offre a Putin la possibilità di frantumare l’Occidente, di giocare le due Europe l’una contro l’altra, e quella “vecchia” a sua volta contro Trump dal quale nell’ultimo anno si è sistematicamente smarcata. Terzo, sono enormemente aumentati i rischi di incidenti e di errori, anche in campo nucleare. Due falsi allarmi sono di recente scattati alle Hawaii e in Giappone: cosa accadrebbe nelle dimensioni europee? E non basta, perché si ritiene che gli hackers più avanzati siano ormai in grado di penetrare molti se non tutti i sistemi di lancio di missili nucleari. Come accadde all’Europa dei “sonnambuli” alla vigilia della prima guerra mondiale, l’Europa di oggi sembra voler guardare dall’altra parte. Soprattutto quando qualcuno sospetta che Putin e Trump abbiano in realtà un comune interesse a far saltare i limiti del trattato Inf per non dover tenere a freno le loro tecnologie missilistiche e nucleari. Eppure se l’Europa non parlerà subito come ha fatto sinora soltanto Berlino, se non dirà ora e con la massima energia a Putin e a Trump che non vuole tornare ad essere terreno per la dislocazione di euromissili all’ultimo grido, quando arriverà il risveglio sarà ormai troppo tardi. Gli scandali contro i difensori dei diritti umani di Francesco Martone Il Manifesto, 17 febbraio 2018 La vicenda degli abusi sessuali commessi da alcuni operatori dell’organizzazione internazionale Oxfam, poi allargata ad altre Ong offre spunto per una riflessione sul contesto che va al di là di considerazioni specifiche sul caso, o sul concetto e la pratica dell’aiuto umanitario, tema già toccato su queste pagine. Da decenni Oxfam si impegna a combattere la povertà e le disuguaglianze sociali, sostenendo difensori dei diritti umani in tutto il mondo. In Italia è anche attiva nella solidarietà con migranti e rifugiati. L’anno scorso, per aver denunciato insieme ad altre organizzazioni, i mandanti dell’assassinio di Berta Caceres, fu al centro di una campagna di delegittimazione in Honduras. Ma in una pericolosa spirale di generalizzazioni e stigmatizzazione, gli abusi di alcuni funzionari ad Haiti e in Ciad - già oggetto d’indagine interna - sono divenuti pretesto per delegittimare l’intera organizzazione. Inoltre, le accuse e gli attacchi sono stati estesi a chiunque si occupi di diritti umani e cooperazione internazionale. L’episodio quindi fornisce occasione per ricordare l’esistenza di una strategia sistematica volta a restringere gli spazi di agibilità civile, e delegittimare organizzazioni della società civile, grandi Ong e movimenti sociali. In parallelo cresce il numero di difensori e difensore dei diritti umani uccisi ogni anno: nel 2017 sono stati circa 300 in gran parte difensori della terra e dell’ambiente, e per i diritti Lgbtqi. Prima le organizzazioni e movimenti, ora anche le Ong, sono sotto attacco per l’avanzata di forze politiche di destra e xenofobe e per l’espansione della frontiera estrattivista. In Italia se ne sono percepite le avvisaglie circa un anno fa con le dichiarazioni del procuratore di Trapani contro le organizzazioni che fanno soccorso in mare, tra cui Msf, SOS Mediterranée, Jugend Rettet, accusate di collusione con gli scafisti. Dichiarazioni cui seguì una campagna di criminalizzazione e stigmatizzazione e la decisione del Ministro Minniti di istituire un “codice di condotta” per quelle Ong che avessero deciso di sottostare a criteri restrittivi ed inaccettabili per la loro indipendenza e operatività. A farne le spese non solo le Ong che hanno visto ridurre il loro spazio d’azione, le donazioni dalle quali dipendono ed il livello di fiducia dell’opinione pubblica, ma anche attivisti dei movimenti. La restrizione degli spazi di agibilità per le organizzazioni e i difensori che proteggono i migranti e rifugiati è il tema dell’ultimo rapporto del Relatore Speciale Onu sui Difensori dei Diritti Umani Michel Forst, che verrà presentato al Consiglio Onu sui Diritti Umani a Ginevra il prossimo 1 marzo. Forst era stato in Italia in visita accademica su invito della rete “In Difesa Di” a maggio scorso, al culmine della campagna mediatica contro le Ong che praticano soccorso in mare. Il rapporto dedicato ai difensori dei diritti delle persone in “movimento” (People on the move categoria che trascende la distinzione arbitraria tra “migrante” e “rifugiato”) si sofferma su varie condizioni di negazione dei diritti umani. Da quella dei difensori dei diritti umani costretti all’esilio o a lasciare temporaneamente il loro paese, ai migranti che diventano essi stessi attivisti per i loro diritti, a chi si adopera per il soccorso e la protezione. L’Italia è uno degli unici paesi citati assieme all’Ungheria. In particolare viene denunciata la pratica dell’emissione di fogli di via per difensori e difensore che operano nelle zone di confine. Viene anche riportata la testimonianza di un difensore italiano secondo cui: “la criminalizzazione della solidarietà minaccia di promuovere nella pubblica opinione e tra le forze politiche, un’attitudine di indifferenza verso i migranti ed I rifugiati, o posizioni apertamente razziste e nazionaliste”. In conclusione Forst invita gli stati ad assicurare l’agibilità delle organizzazioni della società civile e di chi difende i diritti dei migranti e rifugiati, abbandonando la pratica di criminalizzare chi soccorre persone in mare, assicurando accesso alla giustizia per persone “in movimento” e chi li difende per proteggere i propri diritti. Per quanto riguarda i difensori che devono lasciare temporaneamente il loro paese si raccomanda di concedere visti umanitari che permettano loro di accedere a programmi di protezione, e si esprime sostegno programmi di accoglienza e rifugio per attivisti, come ad esempio quello olandese delle Shelter Cities o del Paese Basco. Anche queste proposte assai pertinenti anche per il nostro paese, soprattutto alla luce della presidenza italiana Osce 2018 e della recente risoluzione del Consiglio della Provincia Autonoma di Trento per la creazione di un programma di protezione per difensori dei diritti umani a rischio. Droghe. Vaccino in grado di prevenire l’overdose da eroina sta per essere testato sull’uomo di Valentina Arcovio La Stampa, 17 febbraio 2018 Oltre a fermare la letalità di alte dosi, potrebbe anche eliminare le ricadute. Testato con successo sui topi, si è rivelato sicuro e, cosa molto importante, adatto a essere conservato. In futuro, grazie a un innovativo vaccino ci si potrà liberare una volta per tutte dalla dipendenza da eroina. Non solo. Si potrebbero prevenire anche le overdose causate da questa droga. Un gruppo di ricercatori dello Scripps Research Institute (Tsri), in California, infatti ha messo a punto un vaccino già pronto per essere testato sugli esseri umani. Testato con successo sui topi, si è rivelato sicuro e, cosa molto importante, adatto a essere conservato. In realtà, la prima formulazione del vaccino risale al 2013. Ora però i ricercatori sono riusciti a migliorarla. In uno studio, pubblicato sulla rivista Molecular Pharmaceutics, gli scienziati infatti hanno mostrato come la nuova formulazione sia sicura ed efficace nei modelli animali, stabile per trasporto e per lo stoccaggio. Inoltre presenta un adiuvante, l’allume, che è stato già approvato dalla Food and Drug Administration degli Stati Uniti. E quindi la sperimentazione sull’uomo potrebbe essere davveor molto vicina. “Il vaccino contro l’eroina è un passo avanti nella valutazione clinica”, afferma Candy S. Hwang, prima autrice dello studio. Il vaccino anti-eroina agisce istruendo gli anticorpi del sistema immunitario su come attaccare le molecole di eroina, impedendo al farmaco di raggiungere il cervello e quindi provocare la nota sensazione di sballo. La molecola dell’eroina non attiva in modo naturale una risposta anticorpale, quindi i ricercatori hanno cercato il modo di collegarla a una proteina trasportatrice (carrier) che avverte il sistema immunitario di iniziare a produrre anticorpi. Lo scorso luglio, lo stesso gruppo di ricercatori, guidato da Kim Janda, aveva presentato i risultati dei primi test sul Journal of the American Chemical Society. Hanno quindi proseguito i loro esperimenti sui modelli di roditori dimostrando che la migliore formulazione del vaccino conteneva una proteina trasportatrice chiamata tossoide tetanico. Si tratta di una buonissima notizia, perché l’eroina rappresenta ancora una vera e propria emergenza. In Italia, secondo l’ultima Relazione del Governo al Parlamento (2017), i consumatori sarebbero 280mila. Tra gli studenti quasi 17.000 ne fanno uso 10 o più volte al mese e torna a crescere il numero di studenti che riferisce di averla provata almeno una volta nella vita: dall’1,3% del 2015 all’1,5% nel 2016 (quasi 37.000 studenti). Dei 266 decessi per droga registrati nel 2016, il 73 per cento era causato da questo oppiaceo. Ed è sempre l’eroina la droga da cui sono dipendenti il 70% degli assistiti presso i Servizi per le Dipendenze (Serd), ovvero 100.448. Numeri più alti di quanto normalmente si percepisce e che non preoccupano solo l’Italia. Turchia. Ergastolo allo scrittore Altan: “è un terrorista” di Marta Ottaviani La Stampa, 17 febbraio 2018 Stessa pena inflitta ad altri cinque giornalisti. Un anno fa, a La Stampa, dalla prigione dove era recluso, aveva detto “non so che ne sarà di me”. E ieri la magistratura turca ha deciso che le porte del carcere per Ahmet Altan e altri cinque giornalisti, fra cui suo fratello, Mehmet, devono rimanere chiuse per sempre. Il tribunale di Istanbul ha riconosciuto i sei reporter colpevoli di aver cercato di sovvertire l’ordine costituzionale e di essere membri di Feto, il network di Fethullah Gülen, ex imam in autoesilio negli Usa, un tempo alleato di Erdogan e oggi considerato il nemico numero uno da buona parte del Paese, il mandante del golpe del luglio 2016 a cui è seguita la caccia alle streghe del presidente della Repubblica. I fratelli Altan sono figli di Cetin Altan, uno dei maggiori intellettuali turchi e adesso molti pensano che la stessa sorte possa toccare agli altri 140 giornalisti che si trovano in carcere con accuse gravi come adesione a organizzazione terroristica e golpismo. Ahmet, in particolare, era noto nel Paese per le sue posizioni controcorrente. Fortemente critico nei confronti degli apparati ultra-laici prima, prudente all’inizio e - in seguito alla sua virata autoritaria - grande oppositore di Recep Tayyip Erdogan dal 2009 aveva diretto il quotidiano Taraf, da cui spesso aveva attaccato le forze armate per le loro posizioni anti curde. La giornata ieri si era aperta con un filo di speranza, alla notizia della liberazione, dopo un anno di carcere, del giornalista turco-tedesco Deniz Yücel resa possibile, però, dalle grandi pressioni portate avanti da Berlino per mesi. Lo stesso ministro degli Esteri di Ankara, Mevlut Cavusoglu, ha fatto intendere sulla decisione dei giudici possono avere influito considerazioni politiche. La Germania, dal canto suo, nelle scorse settimane aveva annunciato un “cambio di rotta” nei confronti di Ankara, nonostante gli oltre tre milioni di immigrati turchi che vivono sul suo territorio nazionale. In Turchia ci sono ancora 51mila persone dietro le sbarre, fra cui migliaia di magistrati, militari e docenti universitari, nonché 13 deputati dell’Hdp, il partito curdo, dietro le sbarre non per legami con Gülen, ma con il Pkk. A queste vanno aggiunte le 134mila persone che hanno perso il posto di lavoro in seguito al contro-golpe del presidente. Le persone che hanno lasciato il Paese si contano a centinaia. Di fatto, Recep Tayyip Erdogan tiene in scacco un Paese intero, lo stesso che il 16 aprile dell’anno scorso gli ha consegnato un potere pressoché illimitato approvando una riforma della costituzione in senso presidenzialista. Un potere enorme, ma che non basta al presidente della Repubblica, che sta cercando di consolidare il suo primato mettendo a tacere tutti i potenziali oppositori, a partire dai più pericolosi, come giornalisti autorevoli del calibro di Altan e di dare vita a un Paese nuovo, con un’identità nazionale sempre più improntata alla matrice turca e al conservatorismo religioso, aggressivo in politica estera e sempre meno in sintonia con l’Occidente. Turchia. All’ergastolo lo stato di diritto di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 17 febbraio 2018 Una sentenza atlantica e crudele quella del tribunale di Istanbul che ieri ha condannato all’ergastolo aggravato sei giornalisti e accademici turchi, tra cui i fratelli Ahmet e Mehmet Altan e la reporter veterana Nazli Ilicak, accusati di aver tentato di “rimuovere l’ordine costituzionale” (parliamo del fallito golpe militare del luglio 2016), sostenendo la presunta rete golpista di Fethullah Gulen. Accuse insostenibili, si parla di “messaggi subliminali prima del colpo di stato”. Eppure Ahmet Altan, romanziere di valore, sarà - come lui stesso accusa - da oggi l’unico scrittore in galera dell’intera Europa. Sì, atlantica. Non troviamo aggettivi migliori. Giacché considerare la Turchia del Sultano Erdogan una propaggine lontana e barbara della civiltà europea è pura menzogna. Erdogan è già, a modo nostro e suo, in Europa: è il nostro supermercato delle armi, di quelle italiane in particolare; e rappresenta il baluardo sud della Nato; oltre che essere attualmente, come “posto sicuro”, il campo profughi più grande e più affidabile che ci sia. Dove scarichiamo, con i migranti, la nostra coscienza pagando profumatamente miliardi di euro al governo di Ankara. Al Sultano la coalizione degli Amici della Siria aveva poi affidato il lavoro di diventare il santuario (in addestramento e retroterra) dello jihadismo in ingresso nella guerra siriana per destabilizzare il Paese ormai ridotto in macerie e sentiero di rifugiati. Can Dundar direttore del prestigioso quotidiano d’opposizione Cumhuriyet, è stato condannato a 5 anni e 10 mesi di prigione per violazione del segreto di Stato per avere pubblicato lo scoop sul passaggio di armi in Siria con annessi traffici di petrolio tutti diretti all’Isis quando, solo un anno e mezzo, fa governava mezza Siria e mezzo Iraq. Ora è dovuto fuggire in Germania dopo avere subito un attentato alla vita. Ora poi è un via vai di carri armati turchi in Siria. Il membro della Nato, infatti, con i tank tedeschi Leopard accompagnati in buona armonia dalle milizie legate ad Al-Qaeda e a parte del cosiddetto Esercito Libero Siriano, sta massacrando nel silenzio del mondo i curdi siriani ad Afrin, proprio mentre in Turchia 176 città dell’Anatolia a maggioranza curda sono sotto coprifuoco e il leader dell’Hdp Demirtas è in carcere. Eppure, dirà qualcuno, la giornata era cominciata bene. Ed è vero. La prima notizia turca di ieri infatti era stata la liberazione di Deniz Yucel, corrispondente di Die Welt, dopo un anno di prigione in attesa del processo per “propaganda del terrorismo”. Merkel si è subito congratulata. Ma nelle ore successive si è capito quale era il dare e avere che Erdogan si giocava: da una parte ha ottenuto proprio ieri il via libero di Trump a cacciare da Afrin in Siria i curdi che ancora la difendono e che ora vengono abbandonati dall’impossibile alleato, gli Stati uniti, che finora sembrava sostenerli; dall’altra la liberazione del giornalista turco-tedesco di Die Welt mirava e mira in verità ad ottenere nello scambio il silenzio-assenso europeo sulla cancellazione di fatto della libertà di stampa in Turchia. Perché altri giornalisti in carcere rischiano la stessa condanna: secondo il database dello Stockholm Center for Freedom, aggiornato a ieri, in Turchia sono detenuti 208 giornalisti, 33 quelli già condannati e altri 140 i ricercati, su cui pesa un mandato d’arresto. Siamo nel posto che tutti i governi europei chiamano “sicuro”, ma dove lo stato di diritto viene semplicemente fatto a pezzi e i giornalisti e gli scrittori vengono condannati all’ergastolo. Svetta e vince dunque l’arroganza e l’impunità di Erdogan. Quando sapremo che cosa davvero è accaduto dentro la Nato prima e dopo l’improbabile e a dir poco impreparato “colpo di stato militare” del luglio 2016, partito dalla super-base atlantica di Incirlik, scopriremo probabilmente che l’Unione europea al suo interno - al di là dei lamenti e delle chiacchiere sulla “democrazia in pericolo” che anche adesso si leveranno - ha attivamente seguito quel tentativo, per poi altrettanto attivamente prenderne le distanze una volta sconfitto. In fondo è tutto accaduto dentro l’Alleanza atlantica. Che c’è e destabilizza allegramente a Est e a Sud. Mentre l’Unione europea resta sempre più un angoscioso punto interrogativo. “Turchia come l’Italia nel ventennio. Ma l’Europa si fa solo ricattare” di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 17 febbraio 2018 L’ex direttore di Can Dündar: “Basta un tweet per la galera”. “È inutile chiedere prese di posizione forti all’Europa. Io non mi fido più. Non lo faranno. Loro pensano solo a fare affari con la Turchia, non hanno intenzione di inimicarsela”. Can Dündar parla al telefono dalla sua casa in Germania dove vive in esilio dal giugno del 2016. La sua voce è fredda, non tradisce emozioni. Da poche ore si è avuta notizia della sentenza all’ergastolo aggravato per lo scrittore Ahmet Altan, suo fratello Mehmet, e la veterana del giornalismo turco Nazli Ilicak, 74 anni, e altri tre giornalisti. “Non chiamiamola prigione - dice al Corriere, è tortura. Nel dispositivo della sentenza si prevede l’isolamento per i detenuti, un’ora di aria al giorno, restrizioni più severe per le chiamate e le visite dei familiari”. L’ex direttore di Cumhuriyet sa bene cosa voglia dire essere chiusi in cella. Lui fu arrestato con il collega Erdem Gül nel 2015 dopo aver rivelato il traffico di armi pesanti e munizioni destinate all’Isis e al-Qaeda in Siria orchestrato dal governo turco. Per quello scoop il deputato Enis Berberoglu, del partito secolarista Chp, è stato condannato a 25 anni di carcere nel giugno del 2017, pochi giorni fa la corte di Appello ha ridotto la pena a cinque anni. Si aspettava una sentenza di condanna così dura? “Assolutamente sì. C’era stato troppo clamore intorno al caso dei fratelli Altan e degli altri giornalisti. Era chiaro che la magistratura avrebbe dato una condanna esemplare. Ne seguiranno altre”. È finito lo Stato di diritto? “La Turchia oggi assomiglia all’Italia nel periodo fascista. C’è un uomo forte al potere che usa la retorica nazionalista, quella delle quattro dita dei Fratelli Musulmani: una nazione, una bandiera, una patria, uno Stato. Il potere esecutivo, giudiziario e legislativo sono completamente in mano al presidente Erdogan. Diversi parlamentari del principale partito d’opposizione sono in prigione, per non parlare di quelli appartenenti al partito filo-curdo Hdp. Ormai non si può più parlare. Basta un tweet per finire in carcere”. E in tutto questo l’Europa cosa fa? “Con l’accordo sui rifugiati l’Europa ha accettato un ricatto da parte di Erdogan, ha scelto di risolvere la questione dei migranti invece di difendere le persone che in questo momento in Turchia resistono e difendono i diritti umani. Per questo non mi aspetto più nulla. La Germania oggi (ieri, ndr) ha ottenuto la libertà condizionata del corrispondente di Die Welt, Deniz Yucel. La decisione è frutto di una trattativa tra le più alte cariche dello Stato tedesco e quello turco. Ecco questo è l’atteggiamento europeo”. Però lei non si arrende. Cosa propone? “Penso che l’unica strada che abbiamo davanti sia quella della società civile. Siamo noi che dobbiamo mobilitarci e far sentire a quei turchi che protestano che siamo al loro fianco. Al di là dei toni arroganti Ankara oggi è isolata internazionalmente ma sa anche che l’Europa non le volterà mai le spalle. Noi, invece, possiamo farlo. I risultati del referendum costituzionale del 2016 hanno dimostrato che metà della popolazione turca è pronta a resistere”. Il Papa, Mattarella e Gentiloni hanno appena ricevuto Erdogan a Roma ma non c’è stata nessuna presa di posizione forte a difesa dei diritti umani. Un segno di debolezza? “È chiaro che nessuno in Europa è felice di ospitare il presidente turco. Lo fanno perché non possono farne a meno ma poi evitano le conferenze stampa per non rispondere ai giornalisti. Per riassumere: gli Stati della Ue non possono vivere senza Erdogan ma non vogliono vivere con Erdogan”. Tillerson e Cavusoglu hanno dichiarato che le relazioni tra i due Paesi si normalizzeranno. Ma a guardare la Siria non si direbbe. “Le tensioni tra Ankara e Washington sono più forti di quelle con l’Europa. In Siria sono quasi in guerra, gli americani appoggiano i curdi siriani dell’Ypg che per i turchi sono terroristi”. Messico. Tre italiani scomparsi da fine gennaio, giallo sul ruolo della polizia locale Corriere della Sera, 17 febbraio 2018 Si tratta di Raffaele Russo, 60 anni, il figlio Antonio, 25, e il nipote Vincenzo Cimmino, 29: sono tutti venditori ambulanti della provincia di Napoli. Tre italiani sono scomparsi nel nulla in una cittadina di 16mila abitanti a settecento chilometri da Città del Messico, dove facevano i venditori ambulanti. La denuncia arriva da una famiglia napoletana che non ha più notizie dei familiari ormai da 18 giorni. Della vicenda è stata informata anche la Farnesina che sta seguendo il caso con l’ambasciata a Città del Messico in stretto raccordo con le autorità locali e in costante contatto con la famiglia. I tre scomparsi sarebbero il sessantenne Raffaele Russo, suo figlio Antonio e suo nipote Vincenzo Cimmino, rispettivamente di 25 e 29 anni. L’allarme dei familiari - “Ad oggi non è pervenuta nessuna richiesta di riscatto - dicono i familiari in un comunicato - chiediamo la massima diffusione della notizia e delle foto segnaletiche”. Russo si trovava in Messico da tempo: era a Tecaltitlan, città dello stato di Jalisco, dove vendeva in strada prodotti acquistati a Napoli da commercianti cinesi. Antonio e Vincenzo, invece, erano arrivati soltanto cinque giorni prima della sparizione, anche loro per lavorare. Secondo il racconto dei familiari, le tracce di Raffaele si persone il 31 gennaio scorso attorno alle 15. Il figlio e il nipote provano a chiamarlo ma il cellulare è muto. In Messico ci sono anche altri due figli di Russo, Francesco e Daniele. Ed è quest’ultimo, rientrato in Italia, a raccontare quel che accade dopo “Noi eravamo troppo lontani, così abbiamo chiamato Antonio e Vincenzo e gli abbiamo detto di andare a cercarlo”. I due partono dal punto nel quale il gps dell’auto noleggiata dal sessantenne segnava la sua ultima posizione. “Quando sono arrivati, non hanno trovato né la macchina né mio padre. Hanno chiesto alla gente, ma nessuno aveva visto nulla”. I due ragazzi, sempre secondo il racconto dei familiari, a quel punto si sarebbero fermati a fare benzina in un distributore. E lì sarebbero stati avvicinati da diversi poliziotti a bordo di due moto e un auto, che hanno intimato loro di seguirli. I contatti con la polizia - “Antonio è riuscito a mandarmi una serie di messaggi con Whatsapp - dice ancora Daniele - ma ad un certo punto anche i loro telefoni sono risultati spenti”. Daniele e il fratello sono tornati cosi in albergo, a Ciudad Guzman e hanno cominciato a contattare la polizia di Tecaltitlan. “In un primo momento - sostiene Daniele - ci hanno detto che Antonio e Vincenzo erano stati arrestati e stavano andando all’ufficio, mentre di Raffaele non sapevano nulla. Ma durante una seconda telefonata questa versione è stata negata dalle autorità messicane”. Da allora non c’è più traccia dei tre. Secondo i familiari, nessuno di loro ha avuto problemi in passato con la giustizia né hanno mai avuto rapporti con narcotrafficanti. “Loro sono solo lì per vendere giacche, non hanno nulla a che fare con la droga” dice Modesta, una cugina, sottolineando che anche ad altri loro conoscenti è capitata una storia simile in passato: “lì funziona così, ti rapiscono e poi chiedono il riscatto. Ma finora nessuno si è fatto sentire”. “È già capitato ad altre persone del nostro quartiere - conferma Daniele - speriamo che vogliano solo il riscatto e ci ridiano i nostri cari”. Kenia. La Erin Brockovich d’Africa e le terre piene di veleno. “Lotto per mio figlio” di Marta Serafini Corriere della Sera, 17 febbraio 2018 Storica class action dell’attivista keniana Phyllis Omido, chiesti 12 milioni per le vittime di inquinamento da piombo. Le hanno quasi ucciso un figlio, hanno tentato di rapirla, l’hanno arrestata e l’hanno minacciata. Lei, però, la testa davanti ai prepotenti non l’ha mai piegata e, finalmente, il 19 marzo riuscirà a varcare la soglia di un tribunale. La storia di Phyllis Omido inizia nel 2007 quando le offrono un lavoro come impiegata in una fonderia nello slum di Owino Uhuru, a Mombasa. Un buon impiego, sembrava allora, tanto più che Phyllis è una mamma single e quel posto le serve. Ma quando l’anno successivo suo figlio di due anni e mezzo King David si ammala, la vita della donna si spezza. “Piangeva, aveva sempre la febbre, io ero disperata perché non capivo cosa gli stesse capitando”, racconterà. Le analisi del sangue rivelano che il bambino ha un livello di piombo nel sangue di 17 microgrammi, un valore 35 volte superiore ai parametri indicati dall’Organizzazione mondiale della Sanità. L’avvelenamento ha avuto luogo durante l’allattamento, nonostante la madre non abbia mai lavorato a contatto con sostanze tossiche. King David rischia danni neurologici e potrebbe morire. Viene ricoverato e curato. Phillys presenta il conto delle spese mediche di 1.500 sterline (1.600 euro) al suo datore di lavoro. La Metal Refineries EPZ Ltd, proprietaria dell’impianto, si offre di pagare in cambio del suo silenzio. Ma lei non ci sta. “Avevo il dovere di avvisare i miei colleghi”. Così si licenzia e mette in guardia gli altri. Phillys prova a denunciare l’accaduto, organizza manifestazioni e sit in. Viene arrestata. Ma fermarsi non è un’opzione. Ad essersi ammalati non sono solo i dipendenti dell’impianto ma anche i residenti della zona che usano il fiume dello slum per lavare i vestiti e per cucinare. “Le donne avevano aborti, i bambini piaghe strane, acqua e aria erano contaminate”. Una sera qualcuno tenta di rapire lei e King David davanti a casa. “Ci siamo salvati solo perché è arrivata una macchina”, racconterà all’Independent. Nonostante le minacce, Phyllis tira dritto fino al 2013, quando l’impianto viene chiuso. Ma per la donna la battaglia non è finita. Troppe persone sono morte e nessuno ha ricevuto un centesimo di risarcimento. Così fonda il Center for Justice, Governance and Environmental Action, una ong diventata ormai celebre in tutta l’Africa per le sue lotte. Ottiene il sostegno di Human Rights Watch. Per tutti Phyllis diventa la Erin Brockovich d’Africa. Nel 2015 vince il Goldman Prize, attribuito anche a Bertha Cáceres, l’attivista honduregna uccisa nel marzo 2016. Oggi Phyllis è ancora viva, e ha cambiato casa più volte. “Ogni volta che torno nello slum non abbraccio mio figlio finché non mi sono lavata da capo a piedi”. Il 19 marzo sarà un giorno importante per lei e per chi crede nella giustizia perché finalmente le vittime andranno in tribunale a testimoniare contro la Metal Refineries EPZ Ltd, una seconda società e il governo. Obiettivo, 11,5 milioni di sterline (12 milioni di euro circa) per risarcire 3.000 persone. “Una class action storica al di là della cifra”, l’ha definita il Guardian. E chissà che Phyllis Omido non riesca a vincere contro i prepotenti proprio come Erin Brockovich. Sudan. Gli Usa denunciano condizioni inumane dei detenuti Nigrizia, 17 febbraio 2018 Tramite un comunicato stampa rilasciato giovedì, l’ambasciata americana a Khartoum si è dichiarata “inquieta” rispetto alle centinaia di arresti di leader politici, attivisti e semplici cittadini. L’allarme riguarda anche le condizioni di detenzione, definite “inumane”. Sembrerebbe che i detenuti siano esposti a trattamenti degradanti e gli sia impedito l’accesso all’assistenza legale e alle visite familiari. È dallo scorso gennaio che il Sudan è teatro di un’ondata di proteste contro l’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità, soprattutto quello del pane. Le forze dell’ordine hanno sempre reagito con metodi repressivi, ricorrendo all’incarcerazione di numerose persone, tra cui il numero due del principale partito di opposizione Umma, Fadlalah Burma Nasir, e il segretario generale del partito comunista, Mokhtar al-Khatib. Tra gli attivisti spiccano i nomi di Kamal e Mohamed al-Hafiz. Anche numerosi giornalisti sono stati vittime di arresti, ma la maggior parte sono già stati liberati. L’ambasciata americana ha dichiarato di “credere nel diritto sudanese di godere delle libertà fondamentali, incluso il diritto di riunirsi pacificamente e senza discriminazione”, aggiungendo che gli Usa rinnovano il proprio impegno di lavoro al fianco del Sudan per progredire in diverse direzioni, prime tra tutte la protezione dei diritti umani e le libertà. Le osservazioni dell’ambasciata arrivano in un momento in cui le relazioni tra Washington e Khartoum sono ai massimi storici dopo anni. Il 12 ottobre 2017 è stato revocato l’embargo imposto dagli Usa al Sudan nel 1997.