“Carcere, non bloccate la riforma”. L’appello dei giuristi Il Dubbio, 16 febbraio 2018 Ci sono il filosofo Aldo Masullo, il giurista Luigi Ferrajoli, il presidente del Consiglio nazionale Forense Andrea Mascherin e il presidente dell’Unione delle Camere Penali Beniamino Migliucci tra i firmatari dell’appello che pubblichiamo di seguito. La XVII legislatura rischia di chiudersi con il fallimento della riforma dell’Ordinamento penitenziario, il primo intervento organico dopo quello del 1975. Come denunciato da decenni con la loro lotta da Marco Pannella e dal Partito Radicale, le carceri italiane permangono nelle condizioni “inumane e degradanti” da tempo sanzionate dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e solennemente riconosciute nel messaggio alle Camere inviato nel 2013 dall’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Per rispondere a queste pesanti violazioni della nostra Costituzione e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo il ministro della giustizia Andrea Orlando ha dato vita nel 2015 agli stati generali dell’esecuzione penale e consequenzialmente alla riforma dell’Ordinamento. Adesso, ad un passo dall’approvazione definitiva della prima importante parte della riforma, i tempi e le incertezze della politica la mettono a grave rischio, nel silenzio della grandissima parte dell’informazione. Rita Bernardini, che negli ultimi due anni ha a più riprese condotto lunghe fasi di sciopero della fame per aiutare il governo a ricondurre nella legalità il sistema carcerario italiano, è di nuovo in sciopero della fame dal 22 gennaio scorso, con il sostegno e l’adesione diretta di oltre diecimila detenuti. Appello per sollecitare il varo definitivo della riforma penitenziaria Si chiede con questo Satyagraha a Paolo Gentiloni di superare questo pericoloso stallo, convocando con urgenza il Consiglio dei Ministri per ottenere il varo definitivo del testo prima delle elezioni politiche del 4 marzo. Come ha detto il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini non completarne l’iter “a causa delle incertezze della fase post elettorale sarebbe un vero peccato, perché (la riforma) serve alla sicurezza del Paese e a far fare all’esecuzione penale un passo avanti”. Il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Eugenio Albamonte ha a sua volta osservato che “da parte della classe politica, assecondare dinamiche elettorali che non consentissero l’approvazione di una riforma così importante, sarebbe un dato molto preoccupante”. Per questo ci appelliamo a editori, direttori e giornalisti tutti affinché non neghino agli italiani il diritto di conoscere questa importante riforma voluta dal Parlamento che il 23 giugno 2017, approvando la legge n. 103, ha delegato il Governo a metterla in pratica attraverso l’emanazione dei relativi decreti delegati. Nel contempo, invitiamo Rita Bernardini e i detenuti delle carceri italiane a sospendere l’iniziativa nonviolenta in corso. Aldo Masullo Luigi Ferrajoli Giuseppe Di Federico Andrea Pugiotto Davide Galliani Ezechia Paolo Reale Andrea Mascherin Beniamino Migliucci Francesco Petrelli Giandomenico Caiazza Guido Calvi Bruno Mellano Pino Rovereto, garante detenuti Friuli Riforma delle carceri, il tempo per salvarla c’è. Il coraggio no di Susanna Marietti* Il Manifesto, 16 febbraio 2018 Perché il governo si è inceppato ad un passo dalla conclusione di un iter durato due anni. La legge penitenziaria italiana è di oltre quattro decenni fa, parla di un carcere e di un mondo che non esistono più. La determinazione dimostrata dal Governo negli ultimi due anni e mezzo nel volerla riformare è apparsa come la cosa più ovvia, necessaria e ragionevole che si potesse immaginare. Due anni e mezzo nei quali si sono profuse energie a dismisura, prima in quegli Stati generali dell’esecuzione penale che hanno coinvolto circa 200 operatori della giustizia ed esperti, poi con le Commissioni ministeriali appositamente nominate dal ministro Orlando. E adesso cosa succede? A un passo dall’approvazione della riforma, tutto rischia di saltare. I tempi, come capita, si sono dilatati. Le elezioni, oggi troppo vicine, rischiano di vedere assecondate paure populiste contrarie a quella apertura del modello di pena - ampliamento delle misure alternative, potenziamento delle opportunità di lavoro, maggiori contatti tra dentro e fuori - cui le nuove norme volevano tendere. Nel giugno scorso il Governo ha ricevuto una delega parlamentare per riscrivere l’ordinamento penitenziario secondo alcuni criteri direttivi. Il solo decreto delegato a oggi uscito dal Consiglio dei ministri è stato trasmesso alle Commissioni Giustizia delle due Camere che, come previsto dalla legge, hanno espresso il loro parere, chiedendo alcune modifiche. Il Governo può a questo punto dare il via libera definitivo al testo. Se tuttavia non vorrà conformarsi al parere parlamentare, non vincolante, potrà spiegare il perché rimandando indietro le proprie considerazioni. Le Commissioni avranno allora altri dieci giorni di tempo per dire la loro. Dopo quella data, il Governo potrà comunque seguire la propria strada. Il punto nodale riguarda la riforma dell’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario (che vieta l’accesso ai benefici per alcune categorie di reato), dove dal Senato è uscito un parere fortemente restrittivo. Introdotto all’inizio degli anni 90 nel contesto della lotta alla criminalità organizzata, il 4bis ha visto nel tempo aumentare i reati ai quali si applica. Non solo reati di tipo associativo, ma anche reati gravi che possono tuttavia essere commessi individualmente. Le due categorie di reato non sono evidentemente omogenee e gli strumenti che l’istituzione deve mettere in campo per combattere associazioni criminali capaci di costituire un autentico contropotere sono diversi da altri strumenti di contrasto che pure il codice penale offre. Non a caso esiste un procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, con poteri legati a reati intrinsecamente associativi. Ora: la delega parlamentare, nell’escludere esplicitamente dalle possibilità di riforma “le condanne per i delitti di mafia e terrorismo anche internazionale”, mirava a riportare il 4bis alle sue originarie intenzioni. E ci pare che l’articolato uscito dal Consiglio dei ministri, criticato dalla Commissione Giustizia del Senato, abbia raccolto correttamente il senso della delega (che noi avremmo peraltro sperato più ampia). La preclusione automatica per l’accesso ai benefici viene limitata ai reati associativi e a qualche altro reato gravissimo, mentre per gli altri si torna a rimandare alla valutazione del magistrato. Se lo scopo è la reintegrazione sociale, un percorso penitenziario individualizzato va garantito nella maniera più vasta possibile. Non avere il coraggio di affermarlo significherebbe tradire interamente lo spirito degli Stato generali. È necessario che il Cdm rimandi al più presto al Parlamento le proprie considerazioni, senza fare passi indietro. Per non perdere un’occasione storica, bisogna approvare non solo questo decreto ma anche altre norme relative ai punti di delega a oggi non esercitati (uno tra tutti: norme specifiche per le carceri minorili). Se ci si sbriga, gli spazi tecnici per farlo ci sono. Ma non ancora per molto. *Coordinatrice nazionale dell’associazione Antigone L’ok del Csm sulla riforma: no al sistema carcero-centrico di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 febbraio 2018 Parere favorevole al Decreto dal Consiglio Superiore della Magistratura: “ma servono risorse”. giudizio positivo anche sulla modifica dell’articolo 4bis, sottolineando che “il condannato che espia la pena in carcere recidiva nel 68,4% dei casi, laddove chi ha fruito di misure alternative alla detenzione ha un tasso di recidiva del 19%, che si riduce all’1% tra coloro che sono stati inseriti nel circuito produttivo”. Il Consiglio superiore della magistratura esprime un parere favorevole sullo schema di decreto legislativo di riforma dell’ordinamento penitenziario, salvo qualche critica sulla scarsezza delle risorse investite e sull’esclusione dei decreti relativi alle materie del lavoro penitenziario, dell’ordinamento minorile, delle misure di sicurezza, dell’affettività dei condannati e della giustizia riparativa. In particolare, su iniziativa della sesta e della nona commissione, il Csm esprime innanzitutto un apprezzamento per l’impianto complessivo della riforma, annotando “che bilancia le esigenze di sicurezza sociale con la tensione verso modelli di esecuzione della pena volti a garantire un’effettiva rieducazione del condannato e a tutelare i diritti dei detenuti”. Il Consiglio ha sottolineato che “tali obiettivi possono essere raggiunti attraverso un trattamento flessibile e quindi non desocializzante, idoneo al reinserimento sociale del condannato e all’allontanamento da influenze criminali”. Sempre secondo il Csm la linea direttrice entro cui si muove l’intervento del governo è ritenuto condivisibile, con particolare riferimento alla tutela della salute dei detenuti (anche con riferimento alle situazioni di disagio mentale), al trattamento penitenziario rispettoso della dignità, dell’orientamento religioso e sessuale, del legame con il nucleo familiare, alle modifiche procedurali, alla eliminazione - per recidivi e condannati per determinati reati - di automatismi e preclusioni che impediscano di usufruire di determinati benefici, in favore di una valutazione discrezionale del giudice. Nella relazione finale è ricordato che numerose sono state le sollecitazioni del Consiglio per far attuare forme di intervento mirate a rendere il carcere luogo di espiazione della pena nel rispetto dei diritti del detenuto e di opportunità, per lo stesso, d’intraprendere un percorso di responsabilizzazione e di rieducazione, nella prospettiva del suo reinserimento. Il Csm, in sostanza, ricorda di essere stato fautore di iniziative volte a orientare un cambiamento culturale, tendente a contrastare la diffusa convinzione che il carcere sia l’unica risposta alle paure del nostro tempo. “È del resto dimostrata - viene sottolineato nella delibera - la necessità di abbandonare la tradizionale prospettiva carcero-centrica, che vede la detenzione intramuraria come conseguenza naturale della condanna penale, per adottare forme di trattamento sanzionatorio individualizzate e, come tali, idonee al recupero e al reinserimento sociale del condannato; ciò, non solo per il rispetto del principio rieducativo a cui è informato l’art. 27 Cost., ma anche per la dimostrata inadeguatezza della sola misura detentiva a contrastare la recidivanza, notoriamente molto più alta in coloro che subiscono un trattamento detentivo rispetto a coloro che, beneficiando di misure alternative adeguate, abbiano effettive opportunità di riscatto e di allontanamento da influenze criminali dalle quali inevitabilmente la vita penitenziaria non è immune”. Il Csm, salvo qualche piccolo dettaglio, esprime un giudizio positivo anche per quanto riguarda la modifica del 4bis - recentemente criticata non solo da forze politiche come il Movimento 5 Stelle, ma anche dal procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho e dal procuratore aggiunto Sebastiano Ardita, perché permette di eliminare gli automatismi che escludono dalle misure alternative un numero consistente di detenuti che rientrano nei reati cosiddetti ostativi. Il Csm sottolinea che rimangono comunque esclusi i condannati per delitti di particolare allarme sociale, quali quelli associativi in materia di terrorismo e di criminalità mafiosa, nonché quelli mono-soggettivi, ivi incluso l’omicidio, aggravati dalla finalità mafiosa, terroristica o eversiva. Il Csm ha anche sottolineato come recenti studi hanno accertato che “il condannato che espia la pena in carcere recidiva nel 68,4% dei casi, laddove chi ha fruito di misure alternative alla detenzione ha un tasso di recidiva del 19%, che si riduce all’1% tra coloro che sono stati inseriti nel circuito produttivo”. Questa è la colonna portante della riforma, che però rischia di essere inattuata visto che l’iter prevede altri due passaggi a ridosso delle elezioni politiche del 4 marzo. Proprio per questo il Partito Radicale prosegue la lotta nonviolenta assieme a 9.455 detenuti e un numero consistente di cittadini “liberi” per chiedere la conclusione dell’iter. In prima fila c’è l’esponente radicale Rita Bernardini giunta al 25esimo giorno dello sciopero della fame che chiede una riunione straordinaria del Consiglio dei ministri entro questa settimana. Tale richiesta ha una sua motivazione. Il Consiglio dei ministri si dovrà riunire in teoria altre due volte, perché se nella prossima seduta non dovesse accogliere le osservazioni, dovrà inviare alle commissioni le eventuali motivazioni. Dopodiché le commissioni avranno tempo dieci giorni per esprimere un parere e rinviarle al Consiglio dei ministri che dovrà riunirsi ancora una volta per l’approvazione definitiva. Due passaggi che devono essere fatti entro questo mese, altrimenti dopo il 4 marzo la riforma rischia seriamente di essere definitivamente affossata. Tempo scaduto: nessuna riforma per le carceri di Marco Franchi Il Fatto Quotidiano, 16 febbraio 2018 Le Camere (sciolte) hanno fatto dei rilievi sui decreti attuativi del governo. Se non li recepisce in blocco deve rimandarli all’aula. I decreti attuativi ci sono, il Consiglio superiore della magistratura ha appena dato l’ultimo parere positivo (pur con qualche distinguo) che mancava, ma la riforma dell’ordinamento penitenziario non è ancora legge. Nonostante le promesse dei governi Renzi e Gentiloni e le assicurazioni di Andrea Orlando. E anche se è ancora in vigore quella di 40 anni fa. La riforma restringe le preclusioni automatiche e prevede - rispetto a ora - una possibilità più ampia di ottenere forme di detenzione alternativa, permessi premio, e collegamenti vari con la realtà esterna. Mantenendo il doppio binario: non è permesso per i reati di mafia, terrorismo, e una serie di altre categorie gravi. E lasciando la decisione al magistrato di sorveglianza. Le critiche principali che sono arrivate riguardano proprio il fatto che sarebbero state allargate troppo le maglie delle pene alternative. E così il tutto si è fermato. Il Governo per gli affari correnti sta lavorando più che a pieno regime in queste settimane che mancano alle elezioni, ma i problemi arrivano dalle Camere (sciolte). Le Commissioni Giustizia di Camera e Senato hanno audito una serie di esperti: dai magistrati al Procuratore nazionale antimafia al direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Tutti hanno fatto dei rilievi, che sono stati in parte recepiti dalle Commissioni. Così, il testo è stato riscritto. E adesso, tocca al governo riformularlo. Se non accetta in blocco i rilievi arrivato dal Parlamento deve rispedire il testo alla Camere, che avranno 10 giorni per intervenire. Dunque, a meno che il governo non dica sì su tutta la linea, non ci sono i tempi tecnici. E tanto meno ci sono in campagna elettorale. Però il ministro della Giustizia non dispera. L’idea resta quella di far approvare la riforma dopo il voto. Tecnicamente, fino all’insediamento del nuovo Parlamento è possibile, ma sarebbe una situazione decisamente ai limiti. Intanto, a fronte di molti critici c’è anche chi si sta spendendo per l’approvazione. Rita Bernardini ha iniziato il digiuno 4 settimane fa. E l’Unione delle camere penali ha indetto una manifestazione per chiedere al governo la sollecita approvazione definitiva. Si tratta di una “grande riforma organica” con cui, “dopo oltre quaranta anni, si è tornati a porre la finalità rieducativa ed il reinserimento sociale del condannato al centro della legislazione penale”, la motivazione dell’Ucpi. L’impressione è che ormai si sia davvero fuori tempo massimo. Se la riforma passasse così tanti boss uscirebbero dal regime di 41bis di Sebastiano Ardita Il Fatto Quotidiano, 16 febbraio 2018 L’intervento in Commissione Giustizia al Senato del procuratore aggiunto di Catania, Sebastiano Ardita, ex direttore dell’Ufficio detenuti del Dap. La disposizione che presenta maggiori problemi interpretativi e potrebbe dar luogo a “pericolose” conseguenze è rappresentata dall’art. 7 del decreto che introduce l’art. 4 ter dell’ordinamento penitenziario. (...) Tale disposizione che prevede per legge il cosiddetto “scioglimento del cumulo”, per la genericità della sua formulazione e per la sua collocazione fuori dal 4bis (ossia all’esterno della norma che specificamente prevede il divieto di accesso ai benefici) sembrerebbe potersi applicare a tutte le possibili situazioni più favorevoli - non solo ai benefici penitenziari - e dunque potrebbe incidere sui presupposti di applicazione dell’articolo 41bis, trasformandosi in un possibile varco attraverso il quale una abbondante fetta di detenuti di mafia uscirebbero dal regime speciale. (...) V’è da ricordare come già nel 2002 - all’indomani della introduzione della prima riforma del 41bis -alcuni tribunali di sorveglianza operarono lo scioglimento del cumulo (istituto normalmente applicato ai benefici penitenziari), anche rispetto ai presupposti di applicazione del 41bis. Ne conseguì una piccola frana che portò complessivamente - per questa e per altre ragioni interpretative - all’annullamento di oltre 70 decreti di 41bis (ma v’è da dire che non tutti i tribunali applicarono lo scioglimento del cumulo ai 41bis, alcuni di essi si rifiutarono). (...) Successivamente il legislatore del 2009 introdusse la modifica sopra richiamata. (...) Oggi questa norma rischierebbe di superare la disposizione del 2009, finendo per incidere pesantemente sui presupposti di applicazione del regime speciale. (...) Con riferimento alla soluzione adottata nel decreto - che consiste nel mero abbattimento dello sbarramento ai beneficio che prima era previsto per coloro che rispondono dei delitti del 4bis - si può formulare qualche osservazione. Innanzitutto le sentenze della Corte censuravano l’eccessiva eterogeneità del 4bis che “contiene reati di diseguale gravità”, rilevando come fosse particolarmente delicata la questione tutte le volte che il bilanciamento di interessi potesse includere per l’appunto soggetti estranei. La Corte non negava questa possibilità di bilanciamento, ma pretendeva che operasse in modo più rigoroso. Inoltre le pronunce della Consulta sono centrate sulle detenute madri giacché affrontano in modo diretto la questione del rapporto madre-figlio; si è deciso invece di estendere questa possibilità anche ai padri. E così i detenuti di mafia uomini, con pena residua fino a 4 anni, vedrebbero la concreta possibilità di essere ammessi al beneficio qualora abbiano prole sotto i dieci anni o affetta da disabilità e la madre sia morta o assolutamente impossibilitata a occuparsene. La norma pone seri problemi di ordine pubblico, nella misura in cui consente a esponenti di mafia, anche pericolosi, di ottenere la possibilità di uscita dal carcere al determinarsi di condizioni impeditive del ruolo della madre. (...) Per quanto riguarda il clima interno agli istituti, dal 2011 - sul presupposto dell’adeguamento a parametri europei - sono stati adottati una serie di interventi legislativi ed amministrativi che hanno modificato le caratteristiche della vita penitenziaria. Alcune disposizioni attengono alle concrete modalità di circolazione all’interno delle strutture ed in particolare hanno introdotto il cosiddetto regime aperto, che consente la libera circolazione dei detenuti fuori dalle camere detentive ed all’interno della sezione durante le ore diurne. Questa innovazione era stata introdotta, prevedendo che fossero i responsabili di polizia caso per caso a stabilire chi potesse essere ammesso al regime aperto. Poi è stato aperto a tutti, anche a soggetti dei quali non era stata preventivamente valutata la pericolosità. Solo recentemente è stata prevista la possibilità di riportare a un regime chiuso i pericolosi. (...) Un altro problema è la mancanza di qualunque connessione tra le opportunità previste per i detenuti attinenti ai maggiori spazi da fruire, a intrattenimento, ad affettività e la risposta alla proposta di rieducazione. (...) Se non si bilancia il sistema, pure le disposizioni ispirate da sacrosante intenzioni di civiltà rischiano di accreditare una rieducazione autogestita, sindacalizzata, imposta agli operatori, produttiva di pretese che si scontrano con la realtà della scarse, o inesistenti, risorse. La giustizia fai-da-te nelle urne Il Mattino, 16 febbraio 2018 Ancora una volta, alla vigilia delle elezioni, Napoli balza alla cronaca nazionale per inchieste che coinvolgono esponenti politici. Niente di nuovo sotto il sole? No, qualcosa di nuovo c’è, ed è che questa volta la Procura della Repubblica, in assoluta discontinuità col recente passato, ha provato a tenere al riparo l’indagine dai clamori mediatici, salvo intervenire quando ha temuto che la diffusione delle notizie comportasse la dispersione di possibili elementi di prova. Nel perverso circuito mediatico-giudiziario in cui è trascinata la vita pubblica del nostro Paese, il pallino è ormai nelle mani di chi è in grado di usarlo nella maniera più spregiudicata possibile. I fatti. La testata Fanpage assolda un ex boss dei rifiuti, e lo manda in giro per sondare la disponibilità dei politici a intascare qualche robusta mazzetta in cambio dello smaltimento illegale di rifiuti. Il materiale così raccolto - gli abboccamenti e gli accordi corruttivi che sarebbero stati stretti con le persone avvicinate, documentati tramite registrazioni e riprese video, non ancora resi pubblici - viene portato in Procura, che ha già in piedi un’inchiesta sullo smaltimento dei rifiuti in cui è coinvolta la Sma, la società regionale per la tutela dell’ambiente. Nei giorni scorsi, disattendendo la preghiera di riservatezza elevata dalla Procura, quelli di Fanpage fanno sapere che stanno per pubblicare sul sito i risultati dell’inchiesta giornalistica. A questo punto la Procura è costretta a intervenire: partono le perquisizioni, i primi nomi dei politici coinvolti finiscono sui giornali, gli stessi giornalisti si trovano ad essere indagati, la bomba mediatica esplode in piena campagna elettorale. E rischia di riservare sorprese anche nei prossimi giorni. Ora, fermo restando il rispetto per il lavoro degli inquirenti, spinti sotto i riflettori dove questa volta avrebbero volentieri fatto a meno di finire, non abbiamo più di un motivo di allarme per gli inquinamenti del confronto politico-elettorale, che fatti del genere causano? Fanpage ha indubbiamente una notizia per le mani, e vuole pubblicarla. Ma quella notizia è stata costruita, e richiede di essere usata nel bel mezzo di una campagna elettorale, quando ovviamente fa molto più rumore. A ritrovarsi tirati in ballo si ritrovano così centrodestra e centrosinistra: per via degli esponenti politici coinvolti, e perché la Sma è una società regionale, e la Regione è in mano al centrosinistra. Domanda: è normale, questo? E bisogna augurarsi che anche altri facciano altrettanto, che per esempio altri giornali si armino di squadre di agenti provocatori, e che magari lo stesso facciano i partiti, provando per esempio a istigare la commissione di reati da parte di avversari politici? La tentazione fa l’uomo ladro, dice il proverbio. Appunto, lo fa: non lo rivela semplicemente, ma lo crea. Per moralizzare il Paese, per estirpare la malapianta della corruzione, dobbiamo moltiplicare le possibili tentazioni, e ingrossare le file dei ladri, per poterli poi arrestarli tutti? C’è effettivamente chi pensa che si debba fare così. Devono finire tutti in galera: è un sentimento diffuso. Piercamillo Davigo ha sempre sostenuto che i mezzi a disposizione della magistratura non sono sufficienti, e che se si volesse davvero fare la guerra alla corruzione bisognerebbe sguinzagliare per il Paese il maggior numero possibile di agenti sotto copertura. Ci vorrebbe una legge, però, perché la dottrina in materia non è univoca, e non è chiaro fino a che punto si possa spingere l’infiltrato o il falso corruttore. E difatti c’è una forza politica che non ha dubbi al riguardo: sono i Cinque Stelle. Meno di un paio di settimane lo hanno detto chiaro: la prima cosa che deve fare Di Maio, appena arriva a Palazzo Chigi, è una bella legge che dia la più ampia libertà all’autorità giudiziaria di impiegare gli agenti provocatori. A quel punto, il clima poliziesco di sospetto, paura e diffidenza sarà generalizzato, e nessuno vorrà più corrompere o lasciarsi corrompere, per il timore di trovarsi di fronte a un collaboratore delle forze dell’ordine. Tanto, aggiungono, gli onesti non avranno mai nulla da temere. E così, per selezionare un manipolo di onesti incorruttibili (certo solo fino a prova contraria, che può arrivare in qualunque momento) si possono gettare nel terrore tutti gli altri. Cioè noialtri, noi potenziali ladri e corruttori, che, se non accettiamo questa logica, mostriamo già di voler delinquere, o almeno di non essere sicuri di non volerlo fare. Siamo già tutti sospettati o sospettabili. Ma se non si ha la forza di respingere questa logica perversa, di denunciarla pubblicamente per timore di finire nel novero dei potenziali delinquenti, si guardi almeno a cosa sta accadendo: che l’uso fai da te della giustizia spinge ad usare un camorrista, o ex camorrista, per stanare i corrotti. Che a farlo non è neanche il magistrato, che certamente non ci avrebbe mai pensato, ma il giornalista. E che, facendolo, interferisce pesantemente con indagini in corso. Così è, se vi pare. Naturalmente, appena i video di cui si parla verranno pubblicati, passerà fatalmente in secondo piano ogni genere di preoccupazione per il modo in cui quel video è stato ottenuto, e non sarà certo sui giornali che si discuterà del suo eventuale valore probatorio. Roba da legulei, da sottili azzeccagarbugli. L’indignazione travolgerà ogni cosa. Ed allora, se ancora c’è tempo, proviamo a farlo adesso: sommessamente, “sine ira ac studio”, prima che la tempesta perfetta si sollevi. La sinistra ha paura. Dell’uomo nero. Intervista a Luigi Manconi di Riccardo Staglianò Venerdì di Repubblica, 16 febbraio 2018 C’è una “catastrofe culturale” dietro ai silenzi del suo partito (il Pd) sui fatti di Macerata. Parola di Luigi Manconi, che studia i razzismi da anni: “Meglio perdere le elezioni che l’identità” I fatti risalgono alle undici di sabato 3 febbraio. Luca Traini, ventinovenne di Macerata simpatizzante della Lega e dei neofascisti di Terza posizione, spara e ferisce sei neri a caso, in quanto neri. Vuole difendere la “razza bianca” e vendicare, a campione, la morte di Pamela Mastropietro, per la cui uccisione si sospetta un nigeriano. Con gli sfortunati appena portati in ospedale Salvini emette il suo commento. Premette che “chiunque spari è un delinquente”, per lasciare subito spazio all’avversativa (a questo proposito Jon Snow, tra i protagonisti di Game of Thrones, cesella una grande verità: “Tutto ciò che viene prima di un ma sono stronzate”), “ma è chiaro ed evidente che un’immigrazione fuori controllo, un’invasione come quella organizzata, voluta e finanziata in questi anni, porta allo scontro sociale”. Ce l’ha col Pd. Il cui segretario Matteo Renzi ribatte con un tweet insolitamente tiepido: “Abbassiamo i toni”. Peggio fa il candidato premier dei Cinque-stelle che in ben meno di 280 caratteri annuncia la linea del movimento: “Restiamo in silenzio”. Passano 24 ore e, con l’eccezione obbligatoria del ministro Minniti, nessun politico di grosso calibro si presenta nel centro marchigiano. Ne passano 48 e ancora niente. Il silenzio, soprattutto nelle file della sinistra, si fa sempre più assordante. Settantadue ore e la porta di Macerata è inviolata da qualsiasi significativo esponente nazionale della sinistra. Liberi e Uguali manda finalmente Beatrice Brignone. A quel punto il Pd, che a quanto pare equipara l’immigrazione alla kryptonite, invia un esponente della sua minoranza, il ministro Andrea Orlando (siamo ormai nelle 96 ore). È normale o è molto deludente una sinistra così cauta con un tema così centrale? L’abbiamo chiesto a Luigi Manconi, senatore in scadenza (non è stato ricandidato e come risarcimento sarà presidente dell’Unar, l’ufficio nazionale anti-discriminazioni razziali), sociologo con una lunga militanza dalla parte di chi ha meno diritti, dai carcerati agli immigrati, nonché studioso del razzismo. Hombre vertical della cui perspicacia una sensata compagine di sinistra avrebbe fatto meglio a non privarsi. Com’è possibile che i suoi compagni di partito abbiano aspettato così tanto per dire così poco? “All’origine c’è una catastrofe culturale. A questo credo fermamente, non al fascismo strisciante, perché il numero di razzisti e fascisti, ancorché in crescita, costituisce tuttora una minoranza irrilevante. La catastrofe invece ha una storia lunga 25 anni, da quando l’immigrazione è diventata un fenomeno significativo anche in Italia. Nel 1990, con Laura Balbo, già scrivevamo degli “imprenditori politici della paura” e dei “razzismi possibili”. Che oggi si sono trasformati in razzismi reali. Già allora sentivamo dire “non sono razzista ma...”, eppure quella frase oggi ha assunto una tonalità ancora più drammatica e sembra corrispondere a una domanda di soccorso: “Aiutatemi a non diventare razzista”. Termine, peraltro, che lei usa con moderazione: perché? “Perché il vero problema è la xenofobia, che non è sinonimo di razzismo e che significa esattamente ciò che indica l’etimologia: paura dello straniero. Una pulsione profonda della psiche che accompagna da sempre la storia dell’umanità. Che non è razzismo, anche se può diventarlo. ma non è fatale che così accada. Sta a noi, sta alla politica, evitarlo”. Temo che non ci siate riusciti troppo bene, o sbaglio? “Non sbaglia, e torniamo alla catastrofe culturale. La sinistra ha risposto con la retorica della solidarietà e l’ideologia del multiculturalismo, con un racconto che ha ignorato la ruvida e dolente realtà delle faticose relazioni tra residenti e immigrati. Di fronte alle sofferenze degli strati più deboli ha saputo offrire solo slogan: fraternità predicata dai privilegiati ai non privilegiati perché accogliessero gli ultimi fra gli ultimi”. Tornando a Macerata, cosa doveva fare un grande partito di sinistra? “Esistono pochi principi, due o tre, su cui non si può mai transigere. Se qualcuno spara su altri esseri umani per difendere la razza bianca una forza di sinistra lo affronta a viso aperto, senza mezzi termini e senza alcuna mediazione. Ci costruisce sopra un pezzo della campagna elettorale e porta tutto il partito in quella città. E dice che Matteo Salvini è il mandante morale: è una pura e semplice constatazione. Eppure l’ha detto solo Roberto Saviano. Io dico mandante morale perché questa formula definisce esattamente l’operato di Salvini. Non una responsabilità penale, concreta, operativa, bensì il ruolo altrettanto irresponsabile di seminatore d’odio”. Lei dice: no slogan, non basta predicare la solidarietà. Cosa serve, in pratica? “Serve una politica che si basi su due pilastri: economia e demografia. Dunque serve ricordare, per esempio, che la percentuale degli over 65 sta crescendo a dismisura e che nei prossimi anni ci sarà bisogno di centinaia di migliaia di badanti. Un discorso che è sbagliato considerare strumentale. È piuttosto una questione di coesione sociale: spetterà ai sindacati garantire giusti salari e diritti alle badanti, o a chi raccoglie i pomodori. Ma ricordare che gli italiani hanno bisogno degli stranieri almeno quanto gli stranieri hanno bisogno degli italiani non è cinismo. È realismo. La solidarietà è una virtù meravigliosa, che può albergare nel nostro cuore e motivare le nostre opzioni morali. Ma sul piano pubblico servono solo strategie razionali e intelligenti”. E invece spesso la sinistra sembra o schiacciata nell’angolino del buonismo, per dirla con il linguista George Lakoff, intrappolata nel frame securitario della destra. Mi dica che è un’impressione sbagliata... “Purtroppo no. L’esempio perfetto sono i campi nomadi. Abbiamo consentito che lo scenario venisse rappresentato con una caricatura dove, da una parte, c’è Salvini con la ruspa e, dall’altra, noi che - per dovere di copione - difendiamo quei campi. Ma quando mai? I campi nomadi sono uno strumento perverso di ghettizzazione e auto-ghettizzazione. E perché il Pd non ha candidato una come Giusi Nicolini, ex sindaco di Lampedusa, e Liberi e uguali non ha garantito un seggio a Pietro Bartolo, il medico della stessa isola? Sono simboli, ma i simboli contano, e molto”. Perché temono di passare per il partito dei migranti, in una stagione in cui non va affatto di moda? “L’esito della catastrofe culturale è che il Pd realisticamente, forse motivatamente, teme tutto ciò che può danneggiarlo sul piano elettorale. Ma guardiamo fuori dai nostri confini. Perché solo la Merkel ha avuto il coraggio di dire “Ce la faremo” di fronte ai profughi? Per questo ha quasi subito una scissione interna e ha messo a repentaglio l’esito del voto. Insomma, si può anche perdere, ma non è detto, ed esistono anche sconfitte remunerative dal punto di vista dell’identità e dei valori. Chi non ha il coraggio di correre dei rischi né vince né convince”. Il che ci porta alla triste vicenda dello ius soli. Era davvero così mortalmente pericoloso votarlo? “La legge era passata alla Camera nell’ottobre del 2015. In due anni non si è trovato il tempo di portarla al voto in Senato. Dunque, ci è arrivata all’ultimo minuto e in condizioni di grande incertezza. Ma, ecco il punto, si è considerato che i possibili voti persi, a causa di quella legge, sarebbero stati compensati probabilmente da altrettanti, se non più, voti conquistati proprio grazie all’approvazione dello ius soli? Se ci fossimo preoccupati a tempo debito di non rinunciare alla competizione a sinistra, sono convinto che avremmo oggi qualche centinaia di migliaia di elettori in più”. Magari quella resa vi ha invece sguarnito sul fianco sinistro... “Di sicuro. Ma nessuno l’ha preso in considerazione e nessuno ha valutato quanto il Pd abbia perso dal punto di vista della sua fisionomia culturale e politica”. Che servirà alla sinistra per svegliarsi da questo lungo, brutto incantesimo? “A rischio di ripetermi: la cultura. Leggere i libri. I rapporti dell’Istat e dell’Inps (il suo presidente Tito Boeri, che conosce a fondo i dati relativi al contributo dato dagli stranieri per pagare le nostre pensioni, è uno dei pochi a spiegare una verità cosi spesso trascurata). Lui fa il suo mestiere di tecnico, ma siamo noi - è stata la sinistra - la prima a ignorare quei dati e a non farne il cuore del proprio discorso pubblico. Per questo parlo di cultura: perché è indispensabile una vera e propria battaglia culturale, a partire dai dati di realtà. E, come dicevo, da economia e demografia. È mai possibile che Silvio Berlusconi, a distanza di una settimana, prima parli di “476mila clandestini” e, poi, di “630mila”? Dove li teneva nascosti quegli oltre 150 mila irregolari? Studiare e raccontare la verità e costruire una rappresentazione la più vicina possibile alla realtà significa esattamente fare una grande azione culturale. Infatti, l’intera dimensione drammatica dell’immigrazione discende da quel circa mezzo milione di irregolari: dove si trovano gli autori di reato e i marginali, i senza fissa dimora e i senza documenti, i non integrati e quanti non si vogliono integrare. Ma in Italia, e da decenni, vivono oltre 5 milioni e 200mila immigrati regolari che lavorano e realizzano l’8 per cento del nostro Pil, pagano le tasse, mandano i figli a scuola e contribuiscono alla ricchezza nazionale. Di questi, innanzitutto, dobbiamo parlare. Questa è, in primo luogo, l’immigrazione. Così come non dobbiamo respingere un solo profugo e dobbiamo lavorare per un’accoglienza la più ampia e per un’integrazione la più efficace possibile. Guardi, la convivenza è difficile, faticosa, spesso dolorosa, ma non ha alternative. Attrezziamoci”. Legittima difesa, il centrodestra spinge di Angelo Picariello Avvenire, 16 febbraio 2018 Berlusconi: “Legge ridicola”. Salvini vuole cambiarla. Ma Pd e M5S contrari. Nel maggio scorso la Camera diede il via libera a un nuovo testo che inseriva come scriminante il turbamento psichico Visitatori incuriositi dai fucili esposti. La sicurezza è uno dei temi centrali di questa campagna elettorale. In risposta ai timori crescenti intorno a un allarme, tutto sommato, più ‘percepito’ che reale, stando ai dati ufficiali di Istat e Viminale. In riferimento, almeno, alla maggior parte degli indicatori, fatta eccezione per i rischi legati alla crescita delle baby gang e a un’impennata di reati sfondo sessuale. Un clima che impone a tutti i partiti di prendere posizione, con ricette molto diverse fra loro. Tutti d’accordo però sulla necessità di più uomini e mezzi a presidio delle aree più a rischio, ma si torna ad essere divisi sull’impiego dell’esercito, che il centrodestra vorrebbe. E soprattutto sull’inasprimento dei criteri per la legittima difesa. Insicurezza uguale immigrati? - Il tema sicurezza viene accostato dai partiti del centrodestra a quello dell’immigrazione. Il centrosinistra non ci sta, anche se è innegabile la presenza di immigrati in alta percentuale nelle carceri. “Non scambiare la situazione migratoria con quella della sicurezza”, ha ammonito il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni dopo i fatti di Macerata. Ma il ministro dell’Interno Marco Minniti non ha nascosto il rischio di un’impennata di criminalità, a fronte di un problema non ‘gestito’: “Traini l’avevo visto all’orizzonte dieci mesi fa, quando abbiamo cambiato la politica dell’immigrazione”, ha detto il titolare del Viminale. Concorrenza Lega-Fi - Nel programma comune del centrodestra immigrazione e sicurezza viaggiano assieme. Gli obiettivi per punti sono: la lotta al terrorismo; il blocco degli sbarchi; l’abolizione di una politica umanitaria di accoglienza che viene definita una “anomalia solo italiana”; navi schierate a tutela dei confini e respingimenti assistiti; rimpatrio di tutti i clandestini; ampliamento della legittima difesa. Si parla poi dell’introduzione di poliziotti e carabinieri ‘di quartierè, di un codice di difesa dei diritti delle donne, di una nuova disciplina delle intercettazioni e della custodia cautelare. La stretta sull’immigrazione viene abbinata alla previsione di un “piano Marshall per l’Africa”. Sul tema, nelle dichiarazioni dei leader - anche sull’onda dei fatti di Macerata le differenze fra Forza Italia e i suoi alleati si assottigliano. Silvio Berlusconi ha ribadito il suo obiettivo di “rimpatriare 600mila clandestini”, anche se ha poi aggiunto che “bisogna farlo in accordo con l’Ue” e puntando su “trattati con i Paesi d’origine”. Obiettivo, i rimpatri di massa, che i tecnici del Viminale definiscono non percorribili, non fosse altro perché molti sono privi di documenti e non forniscono dati sulla loro identità. Legittima difesa, Lega all’attacco - Nei programmi dei singoli partiti, poi, ci sono le diverse accentuazioni sui singoli temi. La Lega, che ha fatto della legittima difesa ‘sempre e comunquè in caso di violazione di domicilio o furto il suo cavallo di battaglia, ha chiesto e ottenuto di inserire nel programma comune la correzione della normativa, a supporto della proposta da tempo depositata dal partito di Salvini che prevede l’uso sempre legittimo delle armi nei casi di furti in casa e negli esercizi commerciali, e un inasprimento delle pene per i furti di appartamento, le rapine e gli scippi. La stretta mai approvata - In realtà una stretta sulla legittima sicurezza nel maggio scorso era già stata approvata alla Camera. Essa prevedeva una discussa scriminante per il fatto che la violazione di domicilio fosse compiuta “in tempo di notte”, ovvero “con violenza alle persone o alle cose”, o “minaccia o inganno”. L’altra scriminante era il “grave turbamento psichico” all’origine della reazione. Un ampliamento notevole della previsione che comunque non era bastato alla Lega (Matteo Salvini minacciò un referendum abrogativo) ma nel contempo aveva suscitato grandi dubbi nel Pd, che pure aveva votato a favore. Dubbi, di cui si era fatto carico lo stesso Matteo Renzi, all’origine del binario morto nel quale è finita alla fine la riforma, al Senato. Col risultato che quella previsione appare, ora, figlia di nessuno. Non di chi (Lega e Fdi) ne vorrebbero una ancora più dura. Non del Pd che la ha disconosciuta. Solo Noi con l’Italia, nel centrodestra difende quella mediazione approvata dalla Camera il 4 maggio 2017 definendola “una norma equilibrata, che estendeva i casi di non punibilità inserendo in pratica il concetto di inversione dell’onere della prova”, rivendica Maurizio Lupi, accusando il Pd. La cosiddetta ‘quarta gambà del centrodestra, però, non ha partecipato alla stesura del programma della coalizione, che ha di fatto recepito, invece, la spinta della Lega. Di “legge ridicola sulla legittima difesa” parla anche Silvio Berlusconi. Pd e Leu: investire sulla sicurezza - Fuori dal centrodestra non si parla più di riforma della legittima difesa, con l’eccezione dell’Italia dei valori, aderente a Civica popolare. Il Pd propone il riordino delle carriere delle forze dell’ordine, senza cedere all’idea della giustizia ‘fai da tè dei cittadini. Il partito di Renzi rivendica di aver investito 7 miliardi sulla sicurezza nello scorso quinquennio e ora punta tutto sulla linea Minniti, mostratasi in grado di contenere i flussi migratori, auspicando nel contempo una revisione del Trattato di Dublino che espone i paesi di confine della Ue a sforzi difficili da sopportare. Nella convinzione di fondo, però, che non si debba alimentare la tentazione di identificare le problematiche sicurezza-immigrazione. Il Pd punta molto sulla polizia di prossimità. Riempire i vuoti in organico nelle forze dell’ordine, sono invece le priorità di Leu, e insieme ripristino della certezza della pena. Ma superando la Bossi-Fini, che avrebbe contribuito, per il partito di Grasso, ad affollare le carceri di immigrati. M5S: “meno armi in casa” - “Il M5S farà in modo che una persona non si debba difendere con un’arma da uno che gli entra in casa”, promette dal canto suo Luigi Di Maio. L’avversione del candidato pentastellato alle armi in casa è antica. “La detenzione di armi va ridotta drasticamente - avverte -. Non siamo una società abbastanza serena per prenderci questi rischi. Togliamo le armi dalle case degli italiani”. Si tratta, per M5S, invece, di riorganizzare i comparti sicurezza e Difesa, accorpando Polizia di Stato, Carabinieri, Guardia di Finanza e Polizia penitenziaria, trasformando ciascun corpo in una specialità, dando vita a un’unica Forza di Polizia. Nel programma pentastellato anche due nuove carceri e 10mila nuove assunzioni. Ma la legittima difesa va bene così. Mafie. Prigioniero nel carcere dell’Ucciardone di Franco la Torre La Repubblica, 16 febbraio 2018 All’alba dell’undici marzo 1950 Pio La Torre fece il suo ingresso nel carcere dell’Ucciardone e, dopo le perquisizioni di rito, venne scortato in cella. Sarebbe uscito il ventitré agosto 1951. Del periodo del carcere, mia madre ricordava l’angoscia del distacco improvviso, la tristezza del non sapere quando avrebbe riabbracciato suo marito, padre del figlio che aveva in grembo. Aveva dovuto attendere diverse settimane prima di ottenere un colloquio. Ricordava la vergogna, per sé e per mio padre, di dover piegarsi a quei piccoli ricatti del coraggioso e generoso agente di custodia, che chiudeva un occhio sui libri censurabili e su altre piccolezze, da questi ritenuti rischiosissimi favori da ricompensare adeguatamente. “Le lettere che ci scrivevamo, venivano previamente lette e anche censurate - raccontava mia madre - per cui, io e papà, ci accordammo che alla fine avremmo aggiunto la parte più intima, scritta col limone, illeggibile se non si passa una fiammella sotto al foglio”. Quando riassaporava questi particolari, mia madre rivolgeva a mio padre uno sguardo complice, da lui corrisposto, e sorridevano, come fanno i bambini quando custodiscono segreti condivisi. Seppur mitigata negli anni, restava l’amarezza per un partito che, nei primi mesi, lo aveva dimenticato in carcere, considerandolo colpevole di mancato rispetto delle posizioni espresse dagli organi dirigenti regionali, che ritenevano che il partito non fosse preparato, che non fossero maturi i tempi per lanciare la mobilitazione. Il PCI siciliano era guidato da Girolamo Li Causi, mitico dirigente comunista, capace di affascinare e di suscitare rispetto e grande ammirazione. Accadde che, a Roma, Pietro Secchia, responsabile nazionale dell’organizzazione del PCI, si fosse persuaso che i metodi e le decisioni assunte a Palermo avessero nociuto al partito e, conseguentemente, andasse a Palermo a presiedere la riunione del Comitato regionale che, con l’accordo di Li Causi, approvò una mozione che ridimensionava analisi e decisioni e, in una certa misura, riabilitava i giovani. Questa svolta fu accompagnata dall’arrivo a Palermo di Paolo Bufalini - dirigente autorevole inviato dal centro del partito, come si diceva allora, venuto ad assumere la responsabilità di vice segretario regionale, a fianco di Li Causi - che risvegliò l’interesse del partito verso mio padre in carcere. Bufalini promosse la costituzione di un comitato di solidarietà e un collegio di difesa che ottenne, in pochi mesi, l’assoluzione e la successiva scarcerazione “del compagno La Torre”. Di quell’anno e mezzo trascorso in carcere mia madre e mio padre condividevano il ricordo della tristezza che avvolgeva le visite dei familiari ai carcerati all’Ucciardone. “Venivamo condotti in uno stanzone dove, per vedere i detenuti e potergli parlare, dovevamo infilare la testa in uno dei buchi nella porta di ferro di fronte a noi - ecco che il tono di voce di mia madre tradiva un attimo di commozione - sembrava un girone dell’inferno dantesco: dall’altra parte, un’altra porta di ferro con altrettanti buchi, da dove si affacciavano i detenuti, in mezzo un corridoio con un agente di custodia che faceva su e giù. L’unico modo per farsi sentire era urlare a squarciagola. Papà rimase praticamente muto e io piansi così tanto, che non sarei voluta più tornare a vederlo in quel posto. Visto che ero incinta, richiesi un colloquio più umano. Le mie condizioni lo prevedevano. Non fu concesso, perché il processo aveva carattere politico”. E mio padre aggiungeva, con un sorriso agrodolce. “Avevo seguito con emozione e apprensione la maternità di mamma, anche se non ero accanto a lei - lasciando intendere che la lontananza non gli impediva di cogliere pienamente il senso di quanto stava accadendo - e quando, appena partorito, venne a dirmi che Filippo era nato, fui l’uomo più felice del mondo”. Proprio così - a questo punto, ho ascoltato la storia più volte, mia madre prendeva la parola - e la sua prima reazione fu quella di dirmi che era doppiamente felice, per la nascita del figlio e per l’approvazione della legge di riforma agraria all’Assemblea Regionale Siciliana. Non c’era polemica in quelle parole, piuttosto un’affettuosa consapevolezza del carattere e della natura dell’uomo. Dai loro ricordi affiorava, nettamente, l’amarezza per il divieto opposto a mio padre di visitare sua madre morente e per quello opposto a mia madre di consegnargli tra le braccia il figlio appena nato e vivere insieme quell’attimo di felicità. Lo fece, al posto suo una guardia carceraria. Portò a mio padre, in attesa nel cortile, mio fratello Filippo avvolto in una specie di sacchetto. “Fu una scena per me un po’ patetica - rammentava mio padre - ero confuso e, forse, questo è stato uno dei momenti della mia vita di maggiore commozione, la presa di coscienza che in quelle condizioni ero diventato padre”. Dei suoi giorni in carcere, mio padre ricordava il primo periodo in isolamento, poi in cella con altri detenuti. Ad un certo punto, fu accusato, persino, di aver aggirato la censura: una sua lettera inviata a Bufalini, da quest’ultimo fatta pubblicare su l’Unità, ne era la prova: “In questi ultimi anni il popolo siciliano ha dato prova di sapersi battere generosamente per conquistarsi un regime di libertà, di progresso e di pace. Ha dato la vita di alcuni dei suoi figli migliori nella lotta contro la mafia che si opponeva allo sviluppo delle organizzazioni democratiche dei comuni della nostra isola: da Miraglia a Li Puma, a Rizzotto a Cangelosi”. Questa lettera gli costò il trasferimento in una cella con due detenuti condannati per reati gravi, uno dei quali per omicidio, con i quali trascorse una notte insonne, subendo sfottò e minacce. La punizione durò, fortunatamente, ventiquattro ore. “Mi immergevo nella lettura, studiavo e scrivevo tanto - raccontava - e presi l’abitudine a fare un po’ di ginnastica a corpo libero, tutte le mattine, appena sveglio”. Abitudine che ha mantenuto dopo il carcere. Mio padre era salutista, a modo suo. Amava fare lunghe passeggiate, gli piaceva nuotare, anche se il suo stile libero non era raffinato, e si divertiva a giocare a pallone, senza gran controllo di palla e irruento nei contrasti. Uccise la moglie malata, anziano condannato: “non è un’attenuante” di Eduardo Izzo La Stampa, 16 febbraio 2018 Cassazione: gesto senza valore etico. La Corte di Cassazione non ha riconosciuto le attenuanti per motivi di particolare valore etico a un pensionato che nel 2014 a Firenze fece morire la moglie di 88 anni, affetta Alzheimer, strangolandola con una sciarpa. Al signor G.V., che oggi ha 86 anni ed è anche lui molto malato, è stata confermata la condanna a sette anni e otto mesi: una pena severa in considerazione dell’età del soggetto. La difesa aveva chiesto invece alla Suprema Corte di concedere almeno le attenuanti sulla base di un valore oggi condiviso, quello “di porre fine alle sofferenze della persona, conformemente ai suoi desideri”, e sostenendo che in questo caso “sussisteva l’ulteriore elemento” di aver posto fine “alle sofferenze di un soggetto amato, insieme all’ossequio della volontà di chi non era più in grado di esprimerla”. Il piano dell’anziano, secondo i suoi legali, era semplicemente quello di assecondare il desiderio della moglie di interrompere la sofferenza. Niente di più rispetto a ciò che prevede l’eutanasia. Un tema, quello del suicidio assistito, che in questi giorni è al centro della discussione, dopo la decisione del tribunale di Milano di rimandare alla Consulta la decisione finale sulla legittimità del reato di aiuto al suicidio, di cui è accusato l’esponente dei Radicali, Marco Cappato, che accompagnò dj Fabo nel suo ultimo viaggio in Svizzera. Quello sul caso dell’anziano fiorentino è un primo parare della Cassazione che, pur riconoscendo all’uomo di aver preso una decisione “difficile e disperata” quando era ormai “incapace di sopportare le sofferenze e l’inarrestabile decadimento fisico e cognitivo della moglie”, ha sentenziato che tutto questo non basta per evitare una condanna per omicidio, così come non lo è il fatto di aver agito, come sostiene il pensionato, per evitare, che il peso di assistere la moglie, se lui fosse morto per primo, potesse ricadere sulla figlia, dal momento che non ci sono strutture pubbliche che si fanno carico di questi casi. Per i giudici della Suprema corte, infatti, è da “escludere che la consapevolezza della carenza delle strutture pubbliche, insieme alla preoccupazione di gravare sulla vita di altri parenti, pure se moralmente e giuridicamente obbligati verso la persona malata, possa generare, secondo la coscienza etica prevalente nella collettività, la spinta necessaria per sopprimere la vita dell’infermo come motivo di particolare valore morale e sociale”. Barcellona Pozzo di Gotto (Ms): suicidio in carcere, interviene Padre Giuseppe Insana 98zero.com, 16 febbraio 2018 Una lunga nota per accendere i riflettori sull’assistenza psichiatrica ai detenuti dopo il suicidio di un giovane di 25 anni, originario di Sant’Agata Militello, avvenuto nel pomeriggio di sabato 10 febbraio. Padre Giuseppe Insana, in qualità di presidente dell’associazione CA.S.A., è intervenuto sulla questione ricordando gli episodi del 16 gennaio scorso e dello scorso anno. Episodi che “ci obbligano - afferma il sacerdote - a rinnovare la denuncia in modo forte alle istituzioni preposte e responsabili delle case di pena dove insistono detenuti con patologie psichiatriche. Lo stesso Roberto Piscitello, direttore generale del Dap, ammette che si tratta di una situazione illegittima, mentre il dott. Vincenzo Raffa, ex psichiatra della casa circondariale di Barcellona ha asserito che i detenuti con patologie psichiatriche sono abbandonati al loro destino”. “Questi episodi e le dichiarazioni - sostiene il padre Giuseppe Insana - confermano che la situazione in cui vivono le persone detenute con patologia psichiatrica nella Casa Circondariale di Barcellona è insostenibile, ingiusta, incivile, incostituzionale perché continua a produrre suicidi, tentati suicidi, autolesioni. Condividiamo che le persone che hanno commesso reato devono scontare la giusta detenzione, ma sosteniamo che hanno diritto ad essere curate in modo adeguato. E per le persone con patologia psichiatrica la giusta cura non si può limitare all’assunzione di psicofarmaci; è importante e necessaria l’attività socializzante e riabilitativa che, con tutta la stima e l’impegno, non possono dare i due tecnici della riabilitazione assunti qualche mese addietro. I detenuti passano le ore chiusi nei reparti, in situazioni di promiscuità in cui c’è il soggetto con disturbo di personalità prepotente e, insieme, soggetti timidi, insufficienti mentali, che subiscono continue prepotenze e soprusi di vario genere, dove è assente la presenza di operatori; per cui spesso succedono aggressioni, autolesioni, tentati suicidi e anche suicidi. Dominano l’ozio, la noia, la mancanza di prospettiva futura, la mancanza di relazioni, la solitudine, il senso di abbandono. Solo pochi, in modo saltuario, possono usufruire di incontri di gruppo. Molti di loro non hanno relazioni coi familiari. Questo lugubre contesto spinge ad atti di aggressioni, di autolesioni, di suicidio. Non s’intende dare colpa al personale addetto alla vigilanza o al personale addetto alla sanità. Da tutte le parti si riconosce che è molto insufficiente. L’ultimo suicidio accade nell’alternanza di turno dell’agente di custodia”. Campobasso: morì in carcere a 34 anni, la famiglia ricorre in Cassazione primonumero.it, 16 febbraio 2018 L’avvocato Silvio Tolesino, legale della famiglia del detenuto 34enne morto in carcere a marzo 2015, ricevuta la notifica della sentenza di archiviazione del caso che riguardava il suo assistito, in queste ore sta valutando di ricorrere in Cassazione, ultima spiaggia dopo il verdetto del giudice Teresina Pepe. Mentre “certamente - ha spiegato - si apre adesso un procedimento civile per il risarcimento dei danni ai fratelli e alla madre di quel ragazzo”. Il caso è stato archiviato dal gip del Tribunale di Campobasso il 14 febbraio. “Il giudice, in accoglimento della richiesta del pm, rigetta la opposizione, dispone l’archiviazione del procedimento e dispone la restituzione degli atti al pm”. Il giudice Teresina Pepe chiude così il caso Ianno, il detenuto 34enne morto in carcere il 15 marzo 2015. E spiega nella sentenza che la morte del giovane è stata causata da un arresto cardiocircolatorio causato da probabile aritmia ventricolare innescata dalla sofferenza cronica. Il paziente, inoltre, si legge nella relazione del dottore Vecchione, consulente della Procura, soffriva di ipertrofia ventricolare sinistra. Da qui il gip ha quindi escluso la responsabilità dei medici e degli infermieri intervenuti poiché vi è stata “un’improvvisa e inemendabile modificazione della condizione cardiologica dello Ianno, condizione sconosciuta al paziente che mai aveva dichiarato disturbi cardiaci”. In sostanza, come ha riferito ieri in esclusiva a Primonumero uno degli avvocati dei quattro indagati, Stefano Brienza, “Alessandro Ianno non sapeva di essere malato di cuore e quindi la sua morte è stata improvvisa e nonostante i soccorsi tempestivi, inevitabile”. E alla famiglia di Ianno che per quella morte ha sempre chiesto giustizia perché aveva ipotizzato negligenza del personale e lentezza negli interventi, il gip replica anche alla relazione di parte eseguita da due periti nominati dai familiari del detenuto. Il dottor Martini e il dottor Corradi concludono che Alessandro Ianno si poteva salvare se le manovre di soccorso fossero state fatte in tempo e se in carcere fosse stato presente un defibrillatore (con incidenza del 70% sulla possibilità di riuscita). Ma il gip, accogliendo la tesi di Vecchione, specifica che : “Ianno non era deceduto per infarto ma per una patologia silente, sconosciuta e che ha determinato una morte repentina, priva di sintomi specifici anticipatori”. Detto questo, va accolta la richiesta di archiviazione. Come il giudice ha fatto. Invece il legale della famiglia Ianno, l’avvocato Silvio Tolesino ricorrerà probabilmente in Cassazione. “Valuterò se ricorrere alla corte Suprema - ha detto repentino l’avvocato Tolesimo - Dal punto di visto penalistico è questo certamente l’unico strumento che posso utilizzare per far emergere le anomalie che, nonostante tutto, la famiglia continua a sostenere pur rispettando naturalmente la sentenza dell’8 febbraio”. Non solo. “Dal punto di vista civilistico - ha annunciato - inizieremo una causa civile di risarcimento del danno perorata da me per i fratelli e la mamma della vittima”. Arezzo: il Garante regionale in visita al carcere “priorità alla conclusione dei lavori” arezzonotizie.it, 16 febbraio 2018 Corleone: “Rispetto alle denunce effettuate due anni fa, quando la casa circondariale di Arezzo era infestata dagli escrementi di piccione, c’è un netto miglioramento nella pulizia complessiva ed è stato messo a punto il muro di cinta”. Visita alla casa circondariale di Arezzo questa mattina da parte del garante regionale dei diritti dei detenuti Franco Corleone. La visita presso la struttura di via Garibaldi è stata condotta dal direttore Paolo Basco, che ha illustrato la situazione aretina. “La priorità in questo carcere, ha spiegato Corleone al termine del sopralluogo - è quella di portare a compimento i lavori di ristrutturazione. Attualmente siamo infatti davanti a una struttura a scartamento ridotto, che ospita 27 detenuti invece dei 100 per cui avrebbe la capienza, a causa dei lavori in corso”. Dei 27 ospiti, 9 sono collaboratori di giustizia, 8 in semilibertà e gli altri detenuti per vari reati. Corleone ha sottolineato che “rispetto alle denunce effettuate due anni fa, quando la casa circondariale di Arezzo era infestata dagli escrementi di piccione, c’è un netto miglioramento nella pulizia complessiva ed è stato messo a punto il muro di cinta. Rimane il nodo dei tempi di realizzazione dei lavori. A questo proposito il Garante incontrerà nei prossimi giorni i responsabili tecnici per fare il punto della situazione; anche perché il fatto che la struttura di Arezzo sia in funzione solo parzialmente ha ricadute negative sul carcere fiorentino di Sollicciano. Napoli: convenzione Comune-Tribunale, ai condannati affidati lavori di pubblica utilità di Paolo Ventriglia Il Mattino, 16 febbraio 2018 Diventa operativa la convenzione tra il Comune e il Tribunale di Napoli Nord per i lavori di pubblica utilità da svolgere dai condannati selezionati alla missione. L’accordo siglato dal presidente Elisabetta Garzo del Tribunale aversano e dal sindaco Andrea Moretti consentirà ad alcuni condannati di poter “scontare” la pena impegnandosi in lavori di utilità per la comunità. Infatti il giudice può applicare la pena di lavoro di pubblica utilità in sostituzione della pena detentiva e pecuniaria consistente in un’attività non retribuita da svolgersi presso lo Stato, le Regioni, le Province, i Comuni, le Aziende sanitarie o presso enti ed organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato e anche presso i centri specializzati alla lotta alle dipendenze. Si tratta della legge n. 67 entrata in vigore il 17 maggio 2014 che ha introdotto l’istituto della sospensione del procedimento penale con messa alla prova di un lavoro di pubblica utilità, istituto che consente all’imputato di reati puniti con la sola pena pecuniaria o con la pena detentiva non superiore a quattro anni di reclusione. il Comune ha dato la disponibilità a ricevere presso le proprie strutture soggetti ammessi al lavoro di pubblica utilità da svolgere, per quanto riguarda ai “condannati”, presso organizzazioni di assistenza sociale in particolare nei confronti di tossicodipendenti, persone affette da Hiv, portatori di handicap, malati, anziani, minori, ex detenuti ed extracomunitari. Non solo. Saranno chiamati in causa anche per lavori con finalità di protezione civile (calamità naturali, tutela del patrimonio ambientale e culturale) ed altre prestazioni pertinenti la specifica professionalità del condannato. Mentre per i cosiddetti “ammessi alla prova”, le prestazioni di lavoro saranno finalizzate ad attività sociali e socio-sanitari nei confronti di alcoldipendenti e tossicodipendenti, diversamente abili, malati, anziani, minori e stranieri e più o meno tutte le altre attività svolte dalle persone condannate. “Naturalmente l’accoglienza di queste persone - fanno sapere dal Palazzo di città - è limitata sia al numero di ammessi ai lavori di pubblica utilità sia ai giorni della settimana: tre per un massimo di quattro ore al giorno”. Riva Ligure (Im): studenti e detenuti al lavoro per la manutenzione delle aree verdi di Mario Guglielmi rivierapress.it, 16 febbraio 2018 “Il protocollo d’intesa - spiega il Sindaco Giorgio Giuffra - rispecchia, inoltre, i dettami della legge penitenziaria che prevede il coinvolgimento, a titolo volontario e gratuito, di detenuti nell’esecuzione di progetti di pubblica utilità in favore della collettività”. “I buoni esiti della sperimentazione avviata due anni fa dal nostro Comune, dall’Istituto d’Istruzione Superiore “E. Ruffini - D. Aicardi” e dalla Casa di Reclusione di Sanremo, per opere di manutenzione del verde, hanno indotto le tre istituzioni a rinnovare il progetto anche per il 2018. La Civica Amministrazione continuerà dunque a mettere a disposizione l’aiuola di Piazza Matteotti dedicata ai Caduti e le 2 aiuole di Via Mazzini; gli studenti ed il personale docente e tecnico provvederanno alla messa a dimora delle fioriture stagionali; un detenuto si occuperà del relativo mantenimento”. È con queste parole che il Sindaco Giorgio Giuffra ha presentato la nuova convenzione rinnovata qualche giorno fa dalla Giunta Municipale che consentirà agli studenti, al personale docente e tecnico dell’Istituto d’Istruzione Superiore “E. Ruffini - D. Aicardi” ed ai detenuti della Casa di Reclusione di Sanremo di essere impiegati in attività di supporto agli interventi di manutenzione delle aree verdi. La convenzione avrà validità sino al 30 dicembre 2018 e potrà essere rinnovata previo accordo tra le parti. Nello specifico, l’Istituto Aicardi si impegna durante la messa a dimora delle piantine a coinvolgere nel progetto, ai fini di vigilanza e di supporto didattico agli alunni, unità del proprio personale docente e tecnico, provvedendo al rinnovo delle fioriture a fine ciclo vegetativo; mentre la Casa di Reclusione di Sanremo garantirà per l’intera durata della convenzione l’attuazione di tutte le buone pratiche colturali necessarie per il mantenimento ed il decoro delle aiuole concesse in uso temporaneo. “Il protocollo d’intesa - spiega ancora il Sindaco - rispecchia, inoltre, i dettami della legge penitenziaria che prevede il coinvolgimento, a titolo volontario e gratuito, di detenuti nell’esecuzione di progetti di pubblica utilità in favore della collettività”. La Civica Amministrazione, a titolo di contributo, riconoscerà all’Istituto Aicardi, la somma di € 2.400,00, per la fornitura e messa a dimora delle fioriture e si impegnerà ad assicurare il detenuto, preposto alla manutenzione delle aiuole durante tale periodo, contro gli infortuni sul lavoro presso l’Inail. Sarà facoltà della Civica Amministrazione visitare il cantiere didattico in qualsiasi momento per verificare il regolare svolgimento del progetto e le buone condizioni delle aiuole, avvalendosi del personale appartenente all’Ufficio Tecnico. Roma: 50 detenuti di Rebibbia al giorno per lavori di pubblica utilità di Mariolina Iossa Corriere della Sera, 16 febbraio 2018 I detenuti si dedicheranno ad attività gratuite e volontarie per interventi straordinari di pulizia e decoro urbano. Due gli obiettivi: reinserimento nel mondo del lavoro dei carcerati e cura della città. I detenuti di Rebibbia in un progetto di pubblica utilità per Roma Capitale. È stato firmato dalla sindaca Virginia Raggi e dal direttore della Casa circondariale “Rebibbia N.C. Raffaele Cinotti” Rossella Santoro, il protocollo di intesa per il progetto “Lavori di pubblica utilità e recupero del patrimonio ambientale”, con il coinvolgimento dei detenuti per il reinserimento socio lavorativo dei condannati. “Lavoro volontario e gratuito” - Verranno coinvolti fino a 50 detenuti al giorno, per attività di pubblica utilità, in particolar modo per un intervento straordinario di pulizia e restituzione del decoro di alcuni spazi pubblici, aree verdi e piazze di Roma. Si tratta di “lavoro volontario e gratuito”, tenendo conto delle specifiche professionalità e attitudini lavorative, che hanno come obiettivo primario il rispetto del bene comune e della legalità, e l’osservanza delle regole e delle norme, come elementi imprescindibili per il percorso di reintegrazione del reo. “Reinserimento nel mondo del lavoro” - Il tutto, dice l’assessore alle Politiche giovanili Daniele Frongia, “per il reinserimento nel mondo del lavoro, ma anche sociale, dando allo stesso la possibilità di svolgere un’azione riparatoria nei confronti della collettività. Senza dimenticare la sensibilizzazione nei confronti della nostra Città, il riciclo dei rifiuti, la conservazione del patrimonio ambientale”. “Conoscere e avere cura della città” - Per il vicesindaco Luca Bergamo, “conoscere la città, imparare ad averne cura e poi amarla, renderla più bella e pulita, con semplici gesti, può rappresentare un cambio di prospettiva e di crescita per i detenuti che, con il loro lavoro volontario, cureranno il decoro di alcuni spazi pubblici della città. Anche questa è crescita culturale”. Il rebus Dj Fabo. La Consulta e il lasciarsi morire di Sabino Cassere Corriere della Sera, 16 febbraio 2018 La punizione dell’aiuto al suicidio rispetta la libertà costituzionale di decidere quando e come morire, e può essere sanzionata nello stesso modo dell’istigazione al suicidio? Questa è la domanda che la Prima Corte di assise di Milano ha posto alla Corte costituzionale. Il giudice milanese non dubita che determinare altri al suicidio o rafforzarne il proposito debbano esser puniti. Si chiede se il solo fatto di accompagnare in auto in Svizzera Fabiano Antoniani, detto Fabo, perché questi realizzasse il suo proposito di suicidarsi, possa essere considerato un reato, commesso da Cappato. L’istigazione e l’aiuto al suicidio sono puniti dall’articolo 580 del codice penale Rocco (1930). La Corte di Cassazione ha interpretato “aiuto” nel senso più ampio, includendovi qualsiasi contributo materiale al suicidio. La Corte di assise di Milano fonda il suo ragionamento su numerosi articoli della Costituzione italiana e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come interpretati rispettivamente dalla Corte costituzionale italiana e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Il potere della persona di disporre del proprio corpo - dice la Corte - include la libertà per l’individuo di decidere sulla propria vita. Il diritto di lasciarsi morire deriva dal diritto all’autodeterminazione e dal diritto al rispetto della vita privata - sostengono i giudici milanesi. La Corte costituzionale, ora chiamata a decidere sulla legittimità costituzionale della legge, ha davanti un problema non facile. La prima difficoltà deriva, paradossalmente, dai progressi fatti dalla medicina. Questa riesce oggi ad assicurare la sopravvivenza delle persone anche in condizioni estreme, mentre una volta la morte sopravveniva in modo naturale. La seconda deriva dalla ardua definizione della nozione stessa di vita: può definirsi tale quella del corpo di un individuo tetraplegico, cieco, non autonomo nella respirazione, nell’alimentazione, nell’evacuazione, con ricorrenti contrazioni e spasmi? Qualche decennio fa, un problema analogo si pose per la definizione di morte. Una commissione medica, negli Stati Uniti, decise che questa si verifica con la morte cerebrale. Tale conclusione venne accettata dovunque e ha dato vita a centinaia di persone, consentendo trapianti di organi che prima non erano possibili, a cominciare dal cuore. La terza deriva dalla contraddittorietà delle norme legislative italiane. L’aiuto al suicidio è punito, non lo è il tentato suicidio. L’aiuto al suicidio è punito, ma al medico, nel caso di pazienti con prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte, in presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, è consentito di ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua, in associazione con la terapia del dolore, con il consenso del paziente. L’ultima difficoltà deriva dalla necessità di delimitare l’aiuto al suicidio, per evitare che una sua decriminalizzazione possa essere intesa come una legittimazione della istigazione al suicidio. Nel luglio 2009, una solenne adunanza dell’Appellate Committee dell’House of Lords inglese decideva un caso simile. Debbie Purdie, una donna colpita da sclerosi multipla, si chiedeva se non fosse una violazione dei diritti umani non sapere, prima della sua prossima morte, se suo marito sarebbe stato punito per accompagnarla in una clinica svizzera per realizzare la sua decisione di suicidarsi. Molti dei presenti, nella austera e fastosa sala delle udienze, erano commossi, sia per la dolorosa richiesta e la prova di affetto che veniva così manifestata, sia perché quello era l’ultimo giorno di vita di una istituzione pluricentenaria, i cosiddetti Law Lords (dopo qualche giorno sarebbe entrata in funzione la Corte Suprema del Regno Unito). La Corte decise che il diritto alla vita privata di quella donna meritava rispetto e che il marito che l’avrebbe accompagnata nell’ultimo viaggio, verso la morte, non poteva esser ritenuto colpevole. Andare a morire in Svizzera non è un reato: quel precedente di tre anni fa di Valter Vecellio Il Dubbio, 16 febbraio 2018 Prima di dj Fabo c’è stato il caso di Oriella Cazzarello che, nel gennaio 2014, fu accompagnata a morire dall’amico Angelo Tedde, poi processato e assolto. Commovente la storia di Dj Fabo; e atroce quella “dura lex” che ha imposto un processo che vede imputato chi lo ha aiutato a “liberarsi” da un corpo e da una esistenza che gli erano estranei, ostili. Straziante aver dovuto vedere la madre e la compagna di Fabiano Antoniani deporre in un’aula di tribunale, e dobbiamo forse al fatto che il pubblico ministero fosse una donna, se l’intera vicenda è stata affrontata con un misericordia e umanità. Fabiano, giova ricordarlo, era in inchiodato in un letto in seguito di un incidente, perfettamente lucido, immobile, cieco. Prigioniero in un inferno di vita, senza speranza. È morto in Svizzera a fine febbraio: suicidio assistito. “Vai Fabiano, la mamma vuole che tu vada”. Così la madre di Fabiano racconta le ultime parole dette al figlio prima che “schiacciasse” con la bocca il pulsante. Già dopo l’incidente stradale, ha raccontato la donna, quando seppe di essere diventato cieco, decise di “andare a morire” in Svizzera: “Non voleva morire soffocato interrompendo le cure”. “Non devi sentirti sconfitta”, le ultime parole di Fabiano alla fidanzata Valeria. Lo racconta lei stessa nel corso delle due ore di deposizione: “Per me questa è una vittoria”. Fabiano, aggiunge, in questo modo si è sentito di nuovo “vivo e utile”. A Valeria, prima di andarsene, dice: “Ora sarò energia nell’universo”. Un simile processo lo si sarebbe dovuto e potuto evitare. Una analoga vicenda avrebbe dovuto e potuto costituire precedente di cui tenere debito conto. Non viviamo, è vero, in un paese di tradizione anglosassone; tuttavia sentenze già emesse e passate in giudicato un peso dovrebbero, potrebbero averlo. Il precedente è costituito dalla storia di Angelo Tedde e di Oriella Cazzarello. Il Corriere Veneto del 14 ottobre 2015 la riassume così: “ Assolto perché il fatto non sussiste. Così ha sentenziato, nel pomeriggio di mercoledì, il giudice Massimo Gerace nei confronti di Angelo Tedde, 60enne ligure di Chiavari, che era finito a processo per aver portato a morire l’amica Oriella Cazzanello, 85enne di Arzignano, per averla accompagnata - nel gennaio 2014 - in una clinica in Svizzera, in cui le era stata praticata l’eutanasia. Il pubblico ministero Gianni Pipeschi aveva chiesto tre anni e quattro mesi per l’ex portiere d’albergo accusato di aver istigato al suicidio la benestante vicentina, che gli ha lasciato una bella fetta dell’eredità, circa 800 mila euro. “Oriella era convinta, non ha voluto sentire ragione, non c’era modo di farla rinunciare all’eutanasia, ci ho provato fino all’ultimo” ha sempre sostenuto Angelo Tedde, che l’aveva già fatta desistere una volta. Oggi, al termine del processo con rito abbreviato, dopo circa due ore di camera di consiglio, il giudice ha pronunciato la sentenza di assoluzione piena dell’uomo”. Ancora una volta la magistratura arriva prima della politica. O meglio: sopperisce alle lacune, alle omissioni, ai ritardi, alle indifferenze di certa irresponsabile politica. Quella stessa irresponsabile politica che magari, poi, lamenta “invasioni di campo” da parte dei giudici. Oggi “tutta la città” parla del caso di Dj Fabo, ed è certamente un bene, che finalmente se ne parli, se ne discuta, ci si confronti e scontri. Lo si poteva fare già tre anni fa. Vero è che, oltre a una classe politica responsabile, ci vorrebbero anche giornalisti più attenti, sensibili, meno prime donne e attenti ai fatti. Merce rara, ormai. Migranti e ordine pubblico, spunta un 20% di tifosi del duce di Roberto Biorcio La Repubblica, 16 febbraio 2018 L’intolleranza è diventata un tema centrale della campagna elettorale, i cui toni portano in superficie sentimenti che sembravano, fino a qualche tempo fa, inconfessabili. Lasciando così spazio ai tentativi della destra radicale di ricollegare le paure suscitate dall’immigrazione ai simboli e alle nostalgie del passato. In particolare dopo i “fatti” di Macerata. L’Atlante politico di Demos, così, registra la crescita della “tolleranza verso l’intolleranza”. La paura nei confronti dello straniero, visto come una minaccia per la sicurezza, torna a coinvolgere oltre quattro persone su dieci. E, in non pochi casi, questi sentimenti si traducono in razzismo. Per averne una “misura” è sufficiente registrare le reazioni dell’opinione pubblica di fronte a quanto avvenuto, ormai due settimane fa, a Macerata. Se il 73% condanna, senza se e senza ma, il gesto di Luca Traini che ha ferito a colpi di pistola sei immigrati, altri intervistati si mostrano più incerti nella valutazione. Il 12%, pur ritenendo si tratti di un crimine gravissimo, pensa che ormai “i neri sono troppi”. Un ulteriore 11% afferma che sparare per strada a persone di pelle nera è qualcosa che “molti altri vorrebbero fare”. Un orientamento, quest’ultimo, che tra gli elettori della Lega è condiviso dal 31%. Sul fuoco dell’intolleranza soffiano, senza dubbio, i gruppi della destra estrema, come Casa Pound e Forza Nuova, nel tentativo di rilanciare idee politiche che sembravano ormai relegate nei libri di storia. O circoscritte a frange ampiamente minoritarie della popolazione. Al contrario, sono tornate al centro del dibattito politico. E godono di un seguito tutt’altro che trascurabile nell’opinione pubblica: il 19% degli italiani, oggi, giudica molto o abbastanza positivamente Benito Mussolini. In questa componente, è largamente maggioritaria la “comprensione” verso i gesti più estremi, come la tentata strage nella città marchigiana. Il tentativo di “sdoganare” i riferimenti al ventennio fascista, ricollegandoli alla diffidenza verso gli immigrati, sembra favorito, o quanto meno “tollerato”, dalle forze del centrodestra e in primo luogo dal partito di Salvini. Le simpatie per il duce superano la quota di un elettore su tre nell’area di centro-destra, con una punta del 38% nel caso della Lega. Mentre si scende sotto il 10% tra gli elettori di centro-sinistra e di sinistra. Il salvagente dei cronisti digitali di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 16 febbraio 2018 La blockchain, tecnologia di certificazione alla base di criptovalute come i bitcoin, entra anche nell’informazione e suscita l’attenzione dei grandi centri di ricerca Usa. La blockchain, la tecnologia di certificazione alla base di criptovalute come i bitcoin, entra anche nell’informazione digitale. Un salvagente del giornalismo secondo le startup che la sperimentano. E i grandi centri di ricerca Usa sull’informazione, dal Poynter Institute alla Neiman Foundation passando per l’osservatorio della Columbia University, prendono la cosa molto sul serio. Svanita l’illusione del citizen journalism, gratuito ma non professionale, preso atto che la strada del pay wall, il pagamento di un canone, funziona bene solo per le testate più prestigiose, spunta la “terza via” di piccoli gruppi che vogliono produrre news locali o fare giornalismo investigativo sostenuti dai micro-pagamenti dei lettori. Accantonato fin qui per problemi di complessità e costo del sistema, questo modello “democratico” riemerge oggi per la possibilità di usare la “catena di blocchi”: una tecnologia che certifica tutto, anche le operazioni minime, in pochi secondi e a costo zero. I promotori vogliono eliminare gli intermediari: banche, inserzionisti pubblicitari, perfino gli editori. Del progetto di pagare i redattori in token, cioè in criptovalute convertibili in dollari, si parla dal 2016, quando furono lanciati Steemit e Decent: piattaforme che usano monete virtuali, decise a disintermediare il mondo delle news seguendo i modelli Uber (autotrasporto) e Airbnb (alternativa all’hotel). Un filone che prende consistenza: a settembre il miliardario trumpiano Joe Ricketts ha chiuso due grossi siti, Gothamist e Dna.info, rei di aver votato per l’iscrizione al sindacato. Rivolta dei lettori, ora pronti a pagare, e a Chicago i giornalisti di Dna.info creano una non profit sostenuta da Civil: la piattaforma sviluppata da Consensys, un grosso incubatore di software, che sta già sostenendo con la blockchain lo sviluppo di 20 testate come Sludge (incursioni di un commando di giornalisti tra le lobby di Washington). Per i fan del decentramento antiautoritario è l’alba di un “giornalismo sostenibile”. Per altri solo il ritorno di vecchie utopie. Con, in più, un rischio di “uberizzazione”: la blockchain porta soldi senza intermediari, ma i contenuti sono valorizzati se generano profitti, non per i loro pregi giornalistici. Qualcosa, però, deve essersi messo in moto se il capo della ricerca del Washington Post, Jarrod Dicker, lascia la testata di Jeff Bezos per il giornalismo con la blockchain della sua neonata Po.et. Stati Uniti. A mani nude contro la lobby delle armi di Guido Moltedo Il Manifesto, 16 febbraio 2018 L’altra parte dell’America, che può anche risultare maggioritaria, specie all’indomani di un massacro, sembra incapace di farsi ascoltare, di fare breccia a Washington. Una delle ragioni è che la discussione, da parte democratica, per un eccesso di realismo politico, verte soprattutto sulle misure per contenere il possesso delle armi da fuoco. Pochi osano posizioni un po’ più radicali, e in effetti più realistiche, temendo di perdere voti in quei settori della popolazione, anche democratici, i cacciatori in particolare, che sono allergici a forme di controllo. I proiettili dell’Ar-15, sparati da vicino, non penetrano nel corpo umano. Lo devastano. Con l’effetto di una granata. L’Ar-15 è una variante civile di un fucile utilizzato dall’esercito americano. È l’arma a canna lunga più diffusa negli Stati uniti, dove ce ne sono in circolazione quasi dieci milioni. È l’arma della strage di san Valentino nella Douglas High School di Parkland, Florida. 17 morti, 15 feriti. È l’arma di numerose altre stragi. Fu usata da Adam Lanza, quando uccise 26 persone, bambini e personale scolastico nella scuola elementare Sandy Hook nel dicembre 2012. Fu impiegata, insieme a una pistola, da Omar Mateen per massacrare nel giugno 2016 49 persone che si divertivano nel Pulse, il night club gay di Orlando. E poi nella strage di San Bernardino, dicembre 2015, 14 persone uccise. Ad Aurora, in Colorado, nel 2012, dove morirono 14 persone. Sempre nel 2012 nella scuola elementare di Newtown, in Connecticut, 26 morti tra bambini e personale scolastico. A Las Vegas, lo scorso ottobre, Stephen Paddock uccise 58 persone e ne ferì oltre 515, usando 23 fucili tra cui diversi 16 Ar-15 potenziati e trasformati in mitra. L’Ar-15, lo puoi comprare con la massima facilità praticamente ovunque in America, in molti stati senza documenti, senza certificati sanitari e di buona condotta. Se, in quei pochi stati meno permissivi, non lo puoi acquistare in un negozio autorizzato, perché non hai 21 anni e non hai la documentazione richiesta, puoi sempre rivolgerti a un privato. Un buco nella legislazione americana che la politica al potere non vuole colmare. Un buco nel quale s’è infilata disinvoltamente gran parte di stragisti. Come Nick Cruz, l’autore del massacro di Parkland. Giovani sotto i 25 anni sono responsabili di oltre il 50 per cento di tutti gli omicidi commessi con armi da fuoco e di parte considerevole di crimini collegati all’uso di pistole e fucili. Anche per questo, oltre che oscenamente cinico, è insensato il commento di Donald Trump, quando stigmatizza in un tweet che “l’autore della sparatoria in Florida era mentalmente disturbato”, e arriva ad addossare la responsabilità dell’eccidio alle vittime: “era stato persino espulso dalla scuola per comportamento aggressivo e irregolare. I vicini e i compagni di classe sapevano che rappresentava un grosso problema. Bisogna sempre segnalare tali casi alle autorità, in continuazione!”. Ma che altro può dire un presidente che ha ricevuto donazioni dalla lobby delle armi per oltre 30 milioni di dollari nella sua campagna elettorale? La stessa, la National Rifle Association, spese oltre sei milioni di dollari per un’offensiva pubblicitaria pro-Trump e anti-Clinton. E Trump è stato il primo presidente dai tempi di Reagan, a rivolgersi alla riunione annuale dei dirigenti della Nra, lo scorso aprile, confermando l’impegno solenne a sostenerne gli interessi. La destra, di cui Trump è alfiere, vuole “controllare la tua sessualità e la tua vita affettiva; controllare la tua facoltà di decidere quanti figli avere; controllare e tagliare i tuoi diritti alla sicurezza sociale; controllare la tua religione, essendo quella cristiana quella che deve comandare su tutte; controllare i media, diffondendo paura e odio; controllare le elezioni impedendo ai poveri di votare”. Controlla quello che non deve e non può controllare della tua vita, come dice Occupy Democrats, ma non ha alcuna intenzione di controllare chi la tua vita può toglietela in un attimo. Non far nulla per fermare il massacro quotidiano è una scelta politica che di tanto in tanto può essere solo scalfita dall’ennesima strage. Il fatto è che ancora una parte consistente della società americana sostiene quella scelta. Non è facile capire perché una quota non trascurabile di americani pensi che sia la cosa preferibile addirittura dotare di armi i propri figli, anche piccoli, con l’idea che sia il modo migliore per difendersi da un eventuale attacco armato. L’altra parte dell’America, che può anche risultare maggioritaria, specie all’indomani di un massacro, sembra incapace di farsi ascoltare, di fare breccia a Washington. Una delle ragioni è che la discussione, da parte democratica, per un eccesso di realismo politico, verte soprattutto sulle misure per contenere il possesso delle armi da fuoco. Pochi osano posizioni un po’ più radicali, e in effetti più realistiche, temendo di perdere voti in quei settori della popolazione, anche democratici, i cacciatori in particolare, che sono allergici a forme di controllo. Né va sottovalutata la capacità propagandistica della lobby delle armi, che alle campagne classiche di persuasione associa forme sofisticate di diffusione di fake news contro le posizioni dei fautori del controllo delle armi. è una guerra in cui una parte è armata fino ai denti, metaforicamente e nei fatti, e un’altra combatte a mani nude. Libia. Evacuati oltre 1.000 rifugiati con voli verso il Niger e Roma La Repubblica, 16 febbraio 2018 Grazie alla collaborazione dei partner dell’Unhcr, come Coopi e altre Ong, oltre al supporto del governo del Niger, i 128 rifugiati evacuati martedì a Niemey stanno ricevendo accoglienza, dove è stata fornita assistenza e sostegno psicologico in attesa di essere trasferiti attraverso il reinsediamento o altre soluzioni durature. Dal mese di novembre, l’Unhcr, l’Agenzia Onu per i Rifugiati, ha evacuato dalla Libia più di 1.000 rifugiati e sta individuando per loro soluzioni durature in altri Paesi. L’altro ieri un volo ha portato 128 rifugiati da Tripoli a Niamey, in Niger, e ieri, mercoledì 14, con un secondo volo sono arrivati a Roma da Tripoli 150 rifugiati. In totale, in tre mesi, sono quindi 1.084 le persone rifugiate che sono state evacuate dall’inizio delle operazioni dell’Unhcr. “Queste evacuazioni hanno portato una nuova speranza nelle vite di oltre 1.000 rifugiati che erano detenuti in Libia in condizioni di estrema sofferenza. Entro la fine del 2018 speriamo di evacuarne almeno altri mille”, ha dichiarato Vincent Cochetel, Inviato Speciale dell’Unhcr per il Mediterraneo centrale. Madri sole e bambini non accompagnati. Grazie alla collaborazione dei partner dell’Unhcr, come Coopi e altre Ong, oltre al supporto cruciale del governo del Niger, i 128 rifugiati evacuati martedì 13 febbraio in Niger stanno ricevendo accoglienza in strutture dedicate a Niamey, dove è stata fornita loro assistenza e sostegno psicologico in attesa di essere trasferiti attraverso il reinsediamento o altre soluzioni durature. Sono 772 i rifugiati finora evacuati in Niger, tra loro famiglie, madri sole con bambini e minori non accompagnati o separati. Tra i 150 rifugiati estremamente vulnerabili, evacuati ieri da Tripoli a Roma, ci sono anche donne e bambini, che si trovavano in detenzione per lunghi periodi di tempo. Si tratta della seconda evacuazione dalla Libia direttamente in Italia che non sarebbe stata possibile senza il grande impegno delle autorità italiane e il supporto del governo libico. Sono in tutto 312, i rifugiati evacuati direttamente in Italia. Dopo l’arrivo a Roma, i rifugiati sono stati sottoposti a controlli medici ed è stato dato loro un pasto caldo e vestiti pesanti prima di cominciare con le procedure di identificazione. I rifugiati sono stati trasferiti poi in diverse strutture d’accoglienza. L’appello dell’Unhcr: “Rendete disponibili altri luoghi”. “Queste evacuazioni sono l’esempio migliore dell’impatto che la solidarietà internazionale può avere sugli stessi rifugiati, tuttavia - ha aggiunto Cochetel - bisogna fare molto di più. Finora sono solo 16.940 i posti messi a disposizione per il reinsediamento nei 15 principali Paesi lungo la rotta del Mediterraneo centrale, tra questi Libia e Niger. L’Unhcr - ha concluso Cochetel - chiede a tutti i Paesi di rendere disponibili altri posti in modo che si possa trovare una soluzione concreta per molti altri rifugiati che sono ancora in Libia”. Francia. Carceri ostaggio dell’islam radicale? di Lupo Glori controinformazione.info, 16 febbraio 2018 In Francia la polizia penitenziaria è in sciopero per i continui e sempre più frequenti attacchi ai quali sono sottoposti i secondini per mano di detenuti islamisti. Come riporta infatti la giornalista Yves Mamou sul sito del Gatestone Institute: “In meno di dieci giorni, un certo numero di secondini che prestano servizio in varie carceri del paese è stato aggredito e ferito, soprattutto da islamisti reclusi per reati di terrorismo o da piccoli criminali che hanno intrapreso la strada della radicalizzazione. In risposta, gli agenti hanno bloccato l’ordinario funzionamento della maggior parte delle prigioni”. Una vera e propria escalation di violenze nei confronti del personale penitenziario, iniziata l’11 gennaio 2018 con l’episodio che ha visto “tre agenti di custodia del carcere di Vendin-le-Vieil, nel nord della Francia” riportare lievi ferite, “in seguito a un’aggressione all’arma bianca da parte di Christian Ganczarski, un tedesco convertito all’Islam che si è unito ad al-Qaeda e mente organizzatrice dell’attacco a una sinagoga di Djerba, in Tunisia, nel 2002”. Le aggressioni sono poi proseguite il 15 gennaio 2018, quando sette agenti penitenziari sono stati vittime delle violenze di un detenuto “radicalizzato” nella prigione di Mont-de-Marsan, nel sud della Francia. Il 16 gennaio, continua Mamou, “un agente di custodia della prigione di Grenoble-Varces ha rischiato di perdere un occhio nel corso di un’aggressione. Prima di entrare in una cella l’uomo ha effettuato un controllo attraverso l’apposito spioncino, ma all’improvviso un detenuto ha cercato di conficcargli una matita nell’occhio. Fortunatamente, il secondino non è rimasto ferito. Sempre il 16 gennaio, un detenuto di 28 anni rinchiuso nella prigione di Tarascon ha dato un pugno in faccia a un supervisore donna. Arrestato per rapina, l’uomo è sospettato di essere un islamista sottoposto a radicalizzazione”. Aggressioni che si sono ripetute il 17 gennaio, presso il carcere di Grenoble-Varces, il 19 gennaio nella prigione di Borgo, in Corsica e il 21 gennaio nel penitenziario di Longuenesse e nel carcere di Fleury-Mérogis, situato all’interno di una banlieue parigina. Infine, il 22 gennaio, gli agenti del penitenziario di Craquelin, a Chateauroux hanno dovuto disarmare, non senza difficoltà, un detenuto che al grido di “Allah Akbar” minacciava i propri compagni di reclusione con un coltello. Tale spirale di violenze, come reso noto da un comunicato diramato il 22 gennaio dal Ministero di Giustizia, ha infine portato al blocco totale per sciopero di ben 27 prigioni transalpine. Islamisti radicali - Secondo i sindacati, la maggioranza dei 28 mila agenti in sciopero ha dichiarato che continuerà la mobilitazione fino a quando il governo non fornirà sufficienti risorse per garantire la loro sicurezza. “Bernard”, una guardia carceraria che ha chiesto di rimanere anonimo, ha espresso così il clima di paura con il quale si trova, suo malgrado, a convivere: “Prima, ogni mattina avevo paura di trovare qualcuno appeso nella sua cella. Sapete di cosa ho paura oggi? Di essere ammazzato, spogliato, pugnalato alla schiena. In nome dell’Islam e dell’Isis. Tutti giorni, andando al lavoro, questa paura mi fa stare male”. Secondo Joaquim Pueyo, ex direttore del carcere di Fleury-Mérogis, oggi deputato, l’islam radicale, sempre più presente all’interno delle carceri francesi, ha determinato un mutamento decisivo all’interno delle strutture penitenziarie: “In passato, il comportamento aggressivo era legato alle difficoltà della vita quotidiana. Ora, l’odio e la violenza [da parte degli islamisti] si riversano contro la nostra autorità, la nostra società e i nostri valori. Non sorprende che gli agenti, trovandosi ad affrontare la radicalizzazione dei detenuti, diventino dei bersagli”. Il fenomeno della radicalizzazione e del proselitismo islamico all’interno delle carceri è da tempo sotto l’occhio vigile del personale carcerario e dell’intelligence internazionale, pronti a captare informazioni e stroncare sul nascere qualsiasi segnale di pericolo. A tale riguardo il magistrato Francesco Cascini ha condotto un interessante studio, intitolato La radicalizzazione del terrorismo islamico. Elementi per uno studio del fenomeno di proselitismo in carcere, che analizza da vicino il rapporto tra radicalizzazione islamica e istituti penitenziari. Dalla ricerca, pubblicata sui Quaderni Issp (Nr 9, giugno 2012, e scaricabile su issp.bibliotechedap.it), “emerge una situazione allarmante - descritta dall’Europool e da altri osservatori europei”, in particolare nel Regno Unito, “dove la radicalizzazione avviene grazie all’influenza di altri detenuti o i colloqui con familiari e visitatori autorizzati per l’assistenza religiosa. Negli istituti di pena londinesi risulta che molti detenuti non musulmani siano stati costretti, con la violenza fisica, a convertirsi all’Islam, a non consumare carne di maiale e a seguire i dettami della sharia. E proprio in un carcere inglese Richard Reid, cittadino britannico, si convertì all’islam e iniziò la sua formazione terroristica che lo portò ad addestrarsi in Afghanistan e in Pakistan e, infine, nel dicembre 2001, a tentare di far esplodere un aereo in rotta verso Miami imbarcandosi con polvere e detonatore nascosti nelle scarpe”. Lo studio riporta anche il caso italiano di Domenico Quaranta, convertitosi all’islam nel penitenziario di Trapani e successivamente “arrestato nel 2002 per il compimento di attentati incendiari ad Agrigento ed all’interno della metro di Milano, e poi riconosciuto imam dai detenuti accusati di terrorismo internazionale nel carcere dell’Ucciardone dove si trova tuttora”. Sempre secondo Cascini, l’islamizzazione dei detenuti in senso jihadista passa prima attraverso la radicalizzazione, il rifiuto integrale dell’Occidente, e trova terreno fertile in individui fragili che “cercano nell’Islam una tregua da un passato inquieto e credono che alcune azioni, come ad esempio la partecipazione ad un attentato suicida, possano offrire un’opportunità per la propria salvezza e perdono”. La maggior parte dei reclusi che abbracciano l’Islam all’interno dei penitenziari, prima della loro conversione conoscono poco o per nient’affatto la religione islamica, e si convertono, dunque, per farsi accettare dalla comunità di individui che sono già musulmani e per acquisire/consolidare un’identità. Dalle strade e dalle piazze delle nostre città fino alle celle delle nostre carceri, al grido di “Allah Akbar”, l’islam conferma dunque il suo carattere intrinsecamente violento e il suo fermo rifiuto e odio dell’Occidente che loro chiamano, non a caso, la “Casa della Guerra” (Dar al-Harb). Sparizioni, torture, condanne a morte: il terrore huthi nello Yemen di Riccardo Noury Corriere della Sera, 16 febbraio 2018 Il 30 gennaio il Tribunale penale speciale istituito dagli huthi nella capitale dello Yemen Sanàa ha condannato a morte tre imputati per “collaborazione con un paese nemico nella guerra contro lo Yemen”, ossia gli Emirati arabi uniti, uno dei paesi protagonisti della coalizione a guida saudita che dal marzo 2015 bombarda il paese. Asmaa al-Omeissy, Saeed al-Ruwaished e Ahmed Bazawer sono stati arrestati nell’ottobre 2016 a uno dei posti di blocco istituiti dagli huthi nella capitale. Successivamente è stato arrestato anche Matir al-Omeissy, padre di Asmaa. Dal momento dell’arresto, i quattro detenuti sono stati trasferiti da una struttura detentiva a un’altra, senza poter avere contatti col mondo esterno, e hanno subito minacce, percosse, umiliazioni ed estorsioni di denaro. “È stata una vera e propria guerra psicologica: ci accusavano di tutto, di essere terroristi, di far parte di una cellula dormiente”, ha raccontato Matir al-Omeissy. I tre uomini sono stati tenuti per quasi otto mesi nella prigione chiamata al-Makhli o “la prigione nascosta”. Asmaa al-Omeissy vi è stata per 60 giorni prima di essere trasferita alla prigione centrale di Sanàa. “Gli interrogatori duravano anche 24 ore e ci torturavano costantemente. Continuavano a chiedere se facessimo parte della Coalizione araba e per chi facessimo le spie”, ha riferito Saeed al-Ruwaished. Dopo mesi i detenuti hanno avuto il permesso di contattare i familiari e hanno dovuto chiedere di spedire o portare soldi per pagare le spese sostenute dal carcere. È iniziato così un giro di estorsioni, in base al quale i detenuti dovevano consegnare ai secondini metà delle somme ricevute. In prigione, Bazawer si è ammalato al fegato ed è stato necessario ricoverarlo in ospedale, sempre a carico della famiglia. Successivamente si è ammalato anche Matir al-Omeissy. Nel giugno 2017 entrambi sono stati rilasciati su cauzione per motivi di salute. Dietro pagamento di una cauzione ingentissima ha potuto lasciare la prigione anche al-Ruwaished. I tre uomini sono fuggiti in zone dello Yemen non controllate dagli huthi. Al processo, Bazawer e al-Ruwaished sono stati condannati a morte e Matir al-Omeissy a 15 anni per aver favorito “atti indecenti”, tutti e tre in contumacia. Asmaa al-Omeissy, 22 anni, madre di due figli, era l’unica presente in aula al momento del verdetto: oltre alla pena capitale, è stata condannata a 100 frustate per gli “atti indecenti” che sarebbero stati favoriti dal padre, ossia aver viaggiato nella stessa automobile con uomini non legati da vincolo di parentela, ovvero i tre co-imputati. Quella di Asmaa al-Omeissy è la prima condanna a morte inflitta a una donna per “reati contro la sicurezza”. Nel gennaio 2018 il tribunale penale speciale di Sanàa ha emesso un’altra condanna a morte, nei confronti di Hamid Haydara, membro della minoranza religiosa bahài. Per Amnesty International è un prigioniero di coscienza. Sudan. Ambasciata Usa “preoccupata” per detenzione membri opposizione Nova, 16 febbraio 2018 L’ambasciata degli Stati Uniti a Khartum si è detta “profondamente preoccupata” dalle “centinaia di arresti” di esponenti dell’opposizione effettuati in Sudan nelle ultime settimane a seguito delle proteste contro il carovita. In una nota diffusa ieri, l’ambasciata Usa si è inoltre detta allarmata dalle condizioni di detenzione nelle carceri sudanesi, descritte come “disumane”, denunciando i trattamenti “degradanti” nei confronti dei detenuti e gli ostacoli all’accesso dei detenuti a un avvocato e alle loro famiglie. Dallo scoppio delle proteste, il 6 gennaio scorso, le forze di sicurezza sudanesi hanno represso le sporadiche proteste contro l’aumento dei prezzi in diverse città arrestando diversi esponenti dell’opposizione tra cui il numero due del Partito della Nazione (Umma), Fadlalah Burma Nasir, e il segretario generale del Partito comunista sudanese, Mokhtar al Khatib. Oltre agli esponenti politici di opposizione, un totale di 15 giornalisti sono stati arrestati nell’ambito delle proteste, nelle quali è rimasto ucciso anche un manifestante. Nelle scorse settimana le ambasciate europee a Khartum hanno chiesto alle autorità sudanesi di liberare le decine di manifestanti, oppositori politici e attivisti arrestati durante le recenti manifestazioni contro il rincaro del pane. “Condanniamo le violenze usate contro manifestazioni pacifiche e continuiamo a incoraggiare coloro che esercitano i loro diritti fondamentali a farlo pacificamente”, si legge in una dichiarazione congiunta ripresa dal quotidiano in lingua inglese “Al Arabiya”. “Gli ambasciatori dei paesi membri Ue presenti in Sudan sono molto preoccupati per la detenzione prolungata senza processo di un gran numero di leader politici, attivisti dei diritti umani e altri cittadini”. In precedenza la Casa Bianca aveva denunciato in una nota “gli abusi, la detenzione arbitraria e gli attacchi contro i giornalisti” nel paese, esprimendo “profonda preoccupazione per la libertà di espressione, la repressione dello spazio politico per i cittadini sudanesi e la scarsa tutela dei diritti umani in Sudan”. Le proteste sono scoppiate contro il rincaro dei prezzi del pane, che sono raddoppiati come conseguenza dell’incremento del prezzo della farina, dovuto a sua volta alla decisione del governo di sospendere le importazioni di grano, affidandole ai privati. Nel 2013 i tagli del governo di Khartum dei sussidi al carburante provocarono violente proteste in tutto il paese, sfociate nella morte di più di 80 persone.