Riforma dell’ordinamento penitenziario appesa ad un filo di Valter Vecellio L’Indro, 15 febbraio 2018 Melina della politica sui diritti dei detenuti. Sciupata una grande occasione? Il “J’accuse” viene da Ilaria Cucchi, la combattiva sorella di Stefano, il ragazzo massacrato il 22 ottobre del 2009 durante la custodia cautelare. Un inquietante caso di cronaca giudiziaria che coinvolge agenti di polizia penitenziaria, carabinieri, medici del carcere, e che dopo quasi dieci anni è una ferita che continua a sanguinare. “Appoggiamo l’iniziativa nonviolenta di Rita Bernardini, giunta al 23esimo giorno di sciopero della fame, e del Partito Radicale per chiedere con forza l’immediata approvazione della riforma dei decreti dell’ordinamento penitenziario” dicono Ilaria Cucchi e Irene Testa, dell’associazione Stefano Cucchi Onlus. “Chiediamo che il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni convochi con urgenza e in settimana un Consiglio dei ministri per licenziare i decreti”, spiegano Cucchi e Testa. “Decreti che rischiano inesorabilmente di diventare carta straccia assieme al lavoro di due anni di tutti gli operatori del settore penitenziario che hanno partecipato attivamente ai tavoli tematici degli Stati generali voluti dal ministro della Giustizia Andrea Orlando”. Probabilmente, aggiunge la Cucchi, “se questa riforma fosse stata in vigore, mio fratello Stefano sarebbe ancora con noi”. Per capire quello che accade, bisogna tener presente che è in corso una campagna elettorale all’ insegna di fake news: dove ognuno si sente in dovere di spacciare le più incredibili corbellerie, e fa leva sulla paura di un’opinione pubblica quotidianamente bombardata da “notizie” che fanno sembrare l’Italia un paese più pericoloso dell’Afghanistan o della Libia. Tra gli “effetti” di questa campagna, neppure tanto collaterali, il sostanziale affossamento di tutte le riforme sulla giustizia che renderebbero il nostro paese un po’ più civile. I fatti: ci sono voluti più di due anni di lavoro, per mettere a punto la riforma dell’ordinamento penitenziario, a 42 anni dall’entrata in vigore delle attuali norme sulla detenzione, ormai obsolete; un lavoro egregio, e che rischia di finire alle ortiche. Vanificato, di fatto l’impegno di centinaia di esperti divisi in una ventina di tavoli di quegli “Stati generali dell’esecuzione penale” fortissimamente voluti dal ministro di Giustizia Orlando. Il 4 marzo è alle porte, siamo in piena campagna elettorale, giorno dopo giorno dipanata all’insegna dell’allarmismo; l’iter “tecnico” (ma è un tecnicismo tutto politico) è tutt’altro che concluso; e se come tutto fa pensare la questione non sarà conclusa entro il 4 marzo, la riforma sarà praticamente archiviata per sempre: il nuovo Parlamento sarà ancor meno disposto dell’attuale a far tornare l’Italia nel solco della legalità internazionale, in materia di diritti umani. Per questo, per richiamare l’attenzione sul “fazzoletto strettissimo di giorni prima delle elezioni” che ormai è rimasto per portare a casa la riforma, Rita Bernardini, della presidenza del Partito Radicale dal 20 gennaio è in sciopero della fame; con lei quasi novemila detenuti e duecento cittadini “liberi”. Il ministro della Giustizia Orlando continua a dire che la riforma è uno dei punti qualificanti dei governi Renzi e Gentiloni. Più propriamente si dovrebbe dire: avrebbe dovuto essere, ma non sarà. È molto probabile che la riforma dell’ordinamento penitenziario che riscrive le regole della detenzione a oltre 40 anni dalla precedente, si areni miserabilmente. Una bolla di sapone che evapora. I decreti delegati che allargano un po’ le maglie della concessione di benefici restringendo l’area delle preclusioni automatiche sono stati approvati dal Governo. Niente di rivoluzionario: “semplicemente” un modo per avvicinare la detenzione a quanto prevede la Costituzione, con il recupero dei detenuti. Niente svuota carceri e premio-delinquenti come si affannano a dire, strumentalmente demagoghi di destra e pentastellati. Un punto fermo della legge delega è il mantenimento del “doppio binario”: divieto per i reati di mafia, terrorismo e altre categorie ritenute particolarmente gravi; la riforma prevede una più ampia possibilità di ottenere forme di detenzione alternative, permessi-premio e ulteriori collegamenti con la realtà esterna per detenuti colpevoli di reati che in gergo vengono definiti “bagatellari”. E anche in questo caso, automatismi: a decidere è il magistrato di sorveglianza. Qui sono cominciati i problemi e le difficoltà. Il Garante nazionale dei diritti dei detenuti, esprime “soddisfazione per il maggiore accesso alle misure alternative, la semplificazione di molte procedure e l’introduzione di percorsi di giustizia riparativa”; con lui, il Partito Radicale e l’associazione “Nessuno tocchi Caino”. Tutti gli altri, pollice verso: dall’Associazione “vittime del dovere”, al procuratore nazionale antimafia, il direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, e molti magistrati. Con le elezioni alle porte, e con i toni assunti dalla campagna elettorale, deputati e senatori in cerca di consenso di “pancia” hanno fatto loro questi rilievi, e suggerito modifiche che snaturano di fatto la riforma. Le commissioni Giustizia di Camera e Senato hanno dato i loro pareri favorevoli, condizionati alla riscrittura dei decreti. Ora tocca di nuovo al governo. Se non accetta le condizioni poste dal Parlamento deve rispedire il testo alle Camere, che hanno altri dieci giorni per nuove valutazioni. Che tutto questo possa accadere prima delle elezioni del 4 marzo è una bella, azzardata, scommessa. Tecnicamente il governo può dare attuazione alla riforma anche dopo le elezioni, ha tempo fino all’insediamento del nuovo Parlamento. Ma voi ci credete che accada, soprattutto se il PD prenderà la sberla che tutti vaticinano, e si dovrà procedere a una Grande Coalizione? Orlando dice di sperare ancora. La verità è che ha sciupato una grande occasione; ecco perché una riforma di civiltà che aspetta da quarant’anni di essere varata è rimandata alle proverbiali calende greche. Quell’anatema dei pm che ha paralizzato la riforma del carcere di Errico Novi Il Dubbio, 15 febbraio 2018 I “no” di Ardita e Cafiero De Raho. Naturalmente i magistrati non corrono alle elezioni. Non sono avversari politici in senso senso stretto: la loro presenza nelle liste è limitata a un paio di casi, peraltro connotati da spiccata “moderazione ideologica”: Cosimo Ferri (in corsa col Pd) e Giusi Bartolozzi (schierata da Forza Italia). Eppure le valutazioni delle (altre) toghe restano temutissime. Quasi quanto quelle di Salvini sugli immigrati o di Grillo sul mancato taglio dei vitalizi. Ne sono una plastica dimostrazione le esitazioni dell’esecutivo tuttora in carica, a guida Gentiloni e dunque Pd, sulla riforma penitenziaria: a rileggere con attenzione i lavori parlamentari, diversi indizi lasciano supporre che a frenare il governo siano più di tutto le valutazioni espresse dai pm nelle audizioni in commissione Giustizia. Il motivo è semplice: potrebbero essere impugnate dai partiti più aspramente contrari alla riforma, sempre la Lega di Salvini e i Cinque Stelle di Grillo, per tuonare contro i dem di Renzi e dello stesso Gentiloni. È vero che difficilmente i magistrati si metterebbero a urlare proclami in tv. Ma alcuni di loro, due in particolare, hanno parlato in atti ufficiali, ovvero nelle audizioni svolte appunto nelle commissioni in vista del parere poi consegnato da queste sui decreti delegati. I due nomi da cui sono arrivate le considerazioni più dure sulla riforma voluta dal guardasigilli Andrea Orlando sono il procuratore aggiunto di Catania Sebastiano Ardita e il procuratore nazionale Antimafia Federico Cafiero de Raho. Due toghe dal profilo specchiatissimo e, come suggeriscono le rispettive cariche, dall’elevato grado di professionalità. Se de Raho occupa un ruolo dal peso forse maggiore rispetto a quello di ogni altro pubblico ministero, Ardita gode di una straordinaria considerazione, tra i colleghi e non solo, per l’alta percentuale di successo delle sue indagini. Al che va aggiunta la sua candidatura per il prossimo Csm nelle file della corrente più giustizialista dell’Anm, Autonomia & indipendenza, il gruppo di Piercamillo Davigo. In caso di elezione, Ardita diventerebbe un temibilissimo spauracchio anche per il governo (probabilmente fragile) che uscirà dalle Politiche del 4 marzo: un censore scomodo anche in vista di un non irrealistico ritorno alle urne. Si tratta di due posizioni piuttosto convergenti, che per la loro durezza e il loro peso potrebbero condizionare molto il governo nelle decisioni delle prossime ore. È vero che le commissioni Giustizia di Camera e Senato hanno espresso parere favorevole sul provvedimento - peraltro privo di contenuti rimasti congelati in altri decreti, mai emanati in via preliminare dal Consiglio dei ministri, che avrebbero dovuto disciplinare temi decisivi come l’affettività e il lavoro. Ma è anche vero che, in particolare nel caso di Palazzo Madama, tale via libera è arrivato sub judice, cioè solo all’eventuale verificarsi di alcune condizioni. Segnatamente rispetto a un improbabilissimo accesso ai benefici per i detenuti al 41bis. L’esecutivo ha la possibilità di riemanare in via definitiva il decreto senza accogliere le richieste di modifica avanzate dal Senato. Ma è evidente che se lo facesse si esporrebbe a un rischio ancora maggiore di strumentalizzazioni violente, proprio in virtù dei “caveat” suggeriti al Parlamento da de Raho e Ardita. Il procuratore Antimafia ha avanzato pubblicamente una richiesta: lasciare nelle nuove norme sull’ordinamento penitenziario la clausola che assegna allo stesso vertice della Dna il potere di negare l’avvenuto superamento delle condizioni che impongono il regime del 41bis per un detenuto. Ipotesi finora non accolta, e che rischia di tornare, di nuovo, come argomento polemico in campagna elettorale. Ardita ha espresso a sua volta critiche severissime sul superamento delle preclusioni che attualmente impediscono l’accesso ai benefici, sempre per chi risponde di reati relativi alla criminalità organizzata. Inoltre, il procuratore aggiunto di Catania si è detto convinto, in una mail diffusa tra tutti i colleghi, che i “magistrati debbano mobilitarsi”. Una chiamata che Ardita ritiene indispensabile “per fare sì che l’effettività della pena nel nostro Paese non scenda sotto il limite del ridicolo”. Oltre che di obiezioni riguardati il generale fluidificarsi dell’accesso ai benefici, lo stesso magistrato siciliano si concentra sul rischio che le nuove norme consentano, almeno in via ipotetica, un’estensione di tali opportunità anche a chi è in regime di 41bis. Potrebbe avvenire, sostiene, a causa del neo-introdotto articolo 4 ter, in virtù del quale un mafioso che avesse scontato la pena relativa al 416 bis potrebbe ottenere favori trattamentali qualora la condanna per reati minori (per esempio rapine) non fosse stata connotata dall’aggravante del metodo mafioso. Obiezioni che hanno spinto non a caso la commissione Giustizia del Senato a chiedere modifiche sul punto. È evidente che l’argomento “favori ai boss” è il più facilmente sventolabile in campagna elettorale. E una volta che i pm hanno messo a punto la trama concettuale, non sarebbe difficile vederla agitata dai partiti. Eventualità che, di certo, non spinge il governo a un ultimo atto di coraggio. Le norme che puntano al recupero dei detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 febbraio 2018 Modifica articolo 4bis, assistenza sanitaria e misure alternative. Il Consiglio dei Ministri non ha esaminato, invece, i decreti sulla giustizia riparativa, quella minorile, le misure di sicurezza, l’affettività e il lavoro. La riforma dell’ordinamento penitenziario, che attende il via libera definitivo con l’approvazione di una parte dei decreti attuativi, si compone di 26 articoli. Il Consiglio dei ministri ha approvato preliminarmente solo una parte dei decreti, tralasciando quelli che riguardano la giustizia riparativa, quella minorile, le misure di sicurezza, l’affettività e il lavoro. Il testo è suddiviso in 6 capi dedicati rispettivamente alla riforma dell’assistenza sanitaria in ambito penitenziario, alla semplificazione dei procedimenti, alla eliminazione degli automatismi e preclusioni nel trattamento penitenziario, alle misure alternative, al volontariato e alla vita penitenziaria. Tutti aspetti di vitale importanza per l’esecuzione penale volta al recupero delle persone e, nello stesso tempo, alla responsabilizzazione del detenuto. Modifica articolo 4 bis - Permette l’accesso al trattamento penitenziario a coloro che ne rimanevano esclusi a prescindere, i cosiddetti reati ostativi. Tale modifica rientra nell’eliminazione degli automatismi e di preclusioni nel trattamento penitenziario volto alla riabilitazione del recluso. L’art. 4 bis dell’attuale ordinamento stabilisce che alcune categorie di reati siano sottratte per legge alla rieducazione e al reinserimento nella società. Ma nessuna pena può essere costituzionalmente legittima se non è proiettata al raggiungimento della libertà. Ecco perché c’è stata una leggera modifica, escludendo categoricamente i terroristi e appartenenti alla criminalità organizzata. Il decreto delegato prevede che la limitazione ai benefici (lavoro all’esterno, permesso premio, misure alternative) in caso di sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata deve essere provata con elementi che provino la esistenza di tali legami. Altra modifica importante è l’esclusione del divieto del lavoro esterno, permessi premio, misure alternative nel caso in cui la procura antimafia stabilisca che non ci sia più il collegamento con la criminalità organizzata. Affidamento in prova, misure alternative - L’affidamento in prova, secondo l’ordinamento attuale, viene applicato alle persone che non hanno superato i tre anni di pena. Con il nuovo ordinamento la soglia si allarga a quattro, relativamente a quella da eseguire. Sempre per l’affidamento in prova, ci sono diverse indicazioni sull’esecuzione. Viene considerata anche l’assunzione di specifici impegni per attenuare le conseguenze del reato e, cosa molto importante, l’adoperarsi anche a favore della vittima. Sempre per l’affidamento in prova, ci sono diverse indicazioni sull’esecuzione. Ad esempio coloro che non hanno una dimora propria, possono accedere a un luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza, oppure a un luogo di dimora sociale appositamente creata per l’esecuzione della pena. Poi, altro elemento importante, c’è anche il discorso relativo alla responsabilizzazione: all’atto dell’affidamento ci sarà un piano di trattamento individuale in cui ci sono i rapporti con l’Uepe (Uffici per l’esecuzione penale esterna) e con altri soggetti pubblici o privati con finalità di cure e sostegno.. Viene considerata anche l’assunzione di specifici impegni per attenuare le conseguenze del reato e, cosa molto importante, l’adoperarsi anche a favore della vittima. Riforma dell’assistenza sanitaria - L’articolo 1 modifica, anzitutto, gli articoli 147 e 148 del codice penale in tema di infermità psichica dei condannati. Con l’equiparazione tra grave infermità fisica e psichica, si determina un passo importante in quanto anche il disagio psichico si potrà giustificare l’applicazione di benefici per una detenzione in favore di una dignità del malato. Gonnella (Antigone): si approvi la riforma dell’ordinamento penitenziario La riforma dell’ordinamento penitenziario è in dirittura d’arrivo. Dopo il parere della Commissione Giustizia della Camera è arrivato anche quello della medesima Commissione del Senato. Ora il testo è tornato al governo che dovrà approvarlo definitivamente, cosa non avvenuta nell’ultimo Consiglio dei Ministri. “Si approvi la riforma prima che sia troppo tardi e che un eventuale cambio di governo possa cancellare questa importante occasione”. A dirlo è Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. “Nell’approvarla invitiamo il governo a non tener conto dei pareri restrittivi del Senato. Si abbia coraggio anzi - sottolinea il presidente di Antigone - di andare nel senso di maggiore apertura”. “Il sistema penitenziario italiano ha bisogno di questa riforma per poter rispondere in maniera più adeguata ai cambiamenti occorsi negli ultimi decenni e mettere al centro della pena la risocializzazione del condannato, investendo innanzitutto nelle misure alternative”. “Non si abbia paura di populisti e razzisti - conclude Gonnella - e si porti a compimento questo percorso di riforma”. Legnini (Csm): “mi auguro che finisca al più presto lo sciopero della fame di Rita Bernardini” di Valentina Stella Il Dubbio, 15 febbraio 2018 “Non posso per coerenza che esprimere solidarietà rispetto all’iniziativa di Rita Bernardini, mi auguro che lei possa cessare al più presto lo sciopero della fame, perché questa è una riforma che va approvata al più presto”. Lo ha detto ieri a Radio Radicale il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, a proposito dello sciopero della fame di Rita Bernardini, membro di presidenza del Partito Radicale, in corso dal 22 gennaio scorso per chiedere la convocazione urgente di un Consiglio dei ministri che approvi la riforma dell’ordinamento penitenziario. “Mi permetto di auspicare l’approvazione rapida della riforma ordinamento penitenziario - ha continuato Legnini - lo dico nel pieno rispetto delle prerogative del Consiglio dei ministri e del Parlamento. Si tratta di una riforma seria e coraggiosa, che avrà un impatto molto esteso sulla materia penitenziaria, sulla umanizzazione della esecuzione della pena, sui percorsi di reinserimento e rieducazione, sulla attuazione concreta dei principi costituzionali assai noti su questa materia”. Intanto ieri nel pomeriggio vi è stata la terza conferenza stampa del Partito Radicale per sollecitare il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, a varare la riforma. Rita Bernardini ha letto una parte della richiesta di incontro che inviarono lo scorso novembre al presidente del Consiglio in cui ricordavano l’apprezzamento di Marco Pannella per le parole di Gentiloni quando era ministro degli Esteri: “I radicali per come li vedo io sono sempre stati contemporaneamente dei grandissimi idealisti “radicali” che però, quando sono stati chiamati a responsabilità di governo o di amministrazione, hanno dimostrato nel contempo di essere profondamente cultori e conoscitori delle regole, appassionati delle istituzioni”. “Appassionati delle istituzioni e dello Stato di diritto è quel che vogliamo continuare ad essere”, ha concluso la Bernardini. Presente anche l’onorevole Fabrizio Cicchitto che ha rinnovato la sua iscrizione al Partito Radicale: “Gentiloni finirebbe il suo mandato in bellezza se varasse il provvedimento, in linea con lo spirito riformista del governo. E ci sarebbe la riabilitazione del ministro della Giustizia”. È intervenuto anche Lillo Di Mauro, dell’ Associazione Onlus “A Roma Insieme” che sostiene progetti legati all’infanzia, per aiutare i bambini in carcere, figli di madri detenute: “Auspico che la riforma venga approvata anche se ha punti critici come lo stralcio della parte dedicata al lavoro e all’affettività”. Durante la conferenza Sergio D’Elia, Segretario di Nessuno Tocchi Caino, ha reso noto anche la posizione di Patrizio Gonnella, presidente di Antigone: “Si approvi la riforma prima che sia troppo tardi e che un eventuale cambio di governo possa cancellare questa importante occasione. Nell’approvarla invitiamo il governo a non tener conto dei pareri restrittivi del Senato. Si abbia coraggio anzi di andare nel senso di maggiore apertura”. In carcere o no? Primo: basta con il populismo di Michele Passione* Corriere Fiorentino, 15 febbraio 2018 Martedì scorso il Corriere Fiorentino ha pubblicato un articolo (“Pagare per riparare il danno, è scontro frontale”) nel quale, forse per un effetto fuorviante del dibattito politico di questi giorni, si mettono insieme riforme in corso d’opera, come quella dell’ordinamento penitenziario, “giustizia riparativa” e norme già esistenti. Absit iniuria verbis, così si fa confusione: l’istituto dell’estinzione del reato per condotte riparatorie, già introdotto con legge 103/2017, non ha nulla che fare con l’ordinamento penitenziario, e tantomeno con la giustizia riparativa (le cui coordinate, in questa sede è impossibile declinare a fondo, riposano su volontarietà ed incontro tra le parti), che non dovrebbe conoscere ostacoli edittali (cioè di limiti massimi o minimi di pena, ndr). Così come quando si parla di “aumentare l’uso delle misure alternative per le condanne fino a 4 anni”, non si considera che l’affidamento in prova è già consentito dal 2014. La riforma prevede che quanto si può chiedere da detenuti vale anche per chi propone l’istanza in stato di libertà. Ma vediamo cosa dicono i due deputati interpellati. David Ermini, responsabile giustizia del Pd, rivendica la paternità degli aumenti di pena per furti e rapine e l’intervento sulla prescrizione per impedire che “un sacco di delinquenti restino impuniti”; incredibilmente l’avvocato penalista, smettendo la toga, dimentica la presunzione di non colpevolezza. Ma vi è di più. Ermini afferma che “se ad una persona diamo uno sconto della pena di un terzo perché fa il processo abbreviato” (è legge, dal 1989) “e poi diamo misure alternative” (legge, dal 1975) “di pena ne sconta poca”. Qui, davvero, è impossibile commentare la comparazione tra frutti diversi. Non pago, il deputato afferma che bisogna “distinguere i delinquenti incalliti, che devono restare in carcere, e chi ha sbagliato una sola volta”; forse Ermini non ha letto la delega, che espressamente prevede “l’eliminazione di automatismi e preclusioni che impediscono o ritardano... per i recidivi… l’individualizzazione del trattamento rieducativo”. Domande simili vengono rivolte al deputato del M5S Alfonso Bonafede, avvocato civilista, partendo da una considerazione: “Sostiene il Governo che solo chi ha commesso il primo reato, non i recidivi, potrà trovare misure alternative”. Il deputato grillino soffia nella vela già ben spiegata dal collega di governo. Ed infine, ciò che nuovamente accomuna i due deputati, torna prepotente il tema della “giustizia riparativa”: secondo Ermini, questa “serve solo per i reati lievi”, mentre il collega la vorrebbe limitata “ai reati contro il patrimonio”, con declinazione veterotestamentaria (“se hai rubato un’auto, ricompri almeno l’auto”), “ma deve decidere chi ha subito il furto, non deve decidere il giudice da solo”. Servirebbe un’ammissione di colpa ma è impossibile attenderla. Le parole sono pietre. Sarebbe lecito, invece, attendersi la riforma; quella vera. Quella per la quale il governo ha impegnato il Parlamento, ponendo la fiducia, ottenendo la delega per cambiare l’ordinamento penitenziario; perché è giusto farlo, perché così vuole la Costituzione, non perché “ce lo chiede l’Europa”. Nello schema di decreto sul quale il governo deve finalmente pronunciarsi, prima che sia troppo tardi, non c’è il lavoro, non c’è l’affettività, non ci sono le norme per i minori e le misure di sicurezza; non c’è (ma i colleghi non lo sanno) la “giustizia riparativa”. Prima che i corpi, occorre liberare il pensiero; dalla demagogia, dall’ipocrisia, dal populismo. *Avvocato e componente della commissione ministeriale Pelissero Un “barometro” per misurare l’odio in campagna elettorale di Riccardo Noury Corriere della Sera, 15 febbraio 2018 Non passa neanche un’ora senza che i social o i media diano conto di una dichiarazione intrisa d’odio: verso i migranti, le donne, i rom, le persone Lgbti, le minoranze religiose. Nella campagna elettorale italiana il discorso d’odio domina. Più difficile convincere sulla bontà dei programmi, più facile persuadere che il “nemico” da cui difendersi non è alle porte ma è già entrato. Per provare a cambiare la rotta, Amnesty International Italia ieri ha lanciato “Conta fino a 10”, una campagna di sensibilizzazione che mira al contrasto del discorso violento, aggressivo, discriminatorio e alla diffusione di un uso corretto delle parole, nella consapevolezza che la diminuzione del linguaggio d’odio conduce a una società più inclusiva e accogliente. Attraverso un monitoraggio affidato ai suoi attivisti locali e al suo staff nazionale, fino al 2 marzo l’organizzazione per i diritti umani prenderà nota delle dichiarazioni e dei commenti postati sui profili social ufficiali da tutti i candidati dei collegi uninominali di Camera e Senato dei quattro principali partiti e coalizioni, dei candidati premier e dei candidati alla presidenza delle regioni Lazio e Lombardia. L’obiettivo è verificare il livello d’odio nel discorso politico, l’uso di stereotipi, espressioni offensive, razziste, d’incitamento alla violenza e l’utilizzo della narrativa del “noi contro loro”. Sulla base di un metodo quantitativo e qualitativo, i dati raccolti verranno trasposti su un “barometro” dell’odio che aggiornerà quotidianamente l’andamento della campagna elettorale, misurando i livelli di criticità del discorso discriminatorio. A urne chiuse, oltre al rapporto finale con tutti i dati raccolti verrà pubblicata la “mappa dell’odio”, che mostrerà per ogni regione il livello raggiunto dal discorso d’odio e le categorie prese di mira. Amnesty International Italia ha informato i leader dei maggiori partiti politici in corsa alle elezioni dell’avvio del monitoraggio e ha chiesto loro di proporre un linguaggio non discriminatorio durante la fase finale della campagna elettorale e di diffondere le raccomandazioni tra i candidati del proprio partito. Dell’Utri è in ospedale. In carcere si accorgono che è un malato grave di Luca Fazzo Il Giornale, 15 febbraio 2018 L’ex senatore ricoverato su iniziativa di Rebibbia: “Accertamenti”. È sorvegliato a vista. Ci sono voluti quasi quattro anni di carcerazione ininterrotta di Marcello Dell’Utri perché per la prima volta lo Stato italiano decidesse che una prigione non è il posto migliore dove un uomo nelle sue condizioni di salute possa venire curato. Da ieri mattina, l’ex senatore è fuori dal carcere di Rebibbia. A deciderlo non è stata la magistratura di sorveglianza, che appena otto giorni fa, contro le perizie dei medici della Procura, aveva rifiutato la scarcerazione per motivi di salute. A firmare il provvedimento è stato il funzionario che ha in prima persona la responsabilità della salute del detenuto Dell’Utri, la direttrice del nuovo complesso di Rebibbia, Rosella Santoro. Così ieri mattina, scortato dalla polizia penitenziaria, Dell’Utri viene spostato al lato opposto della Capitale, al Campus Biomedico di via Alvaro del Portillo. Non è la scarcerazione che i suoi legali chiedevano da tempo, e anzi per alcuni aspetti il trasferimento peggiora le condizioni di vita dell’anziano detenuto: “È piantonato dagli agenti - racconta uno dei suo difensori, Alessandro de Federicis - non può uscire dalla stanza, non può andare all’aria, non può avere rapporti con gli altri ricoverati. In sostanza, non è una situazione che possa protrarsi troppo a lungo”. Ma è comunque un segnale di attenzione, che va in controtendenza rispetto alle ultime decisioni. A fare scattare la decisione della direzione di Rebibbia non è stato peraltro alcun fatto nuovo, non c’è stato un peggioramento delle condizioni né una nuova richiesta. Semplicemente, si è preso atto di quanto Dell’Utri sostiene da tempo: all’interno della struttura carceraria mancano gli strumenti adeguati non solo per la terapia ma pure per la diagnosi dei malanni che lo affliggono. “Accertamenti”, è la motivazione ufficiale. Per la moglie di Dell’Utri, Miranda, è una prima battaglia vinta: “Adesso spero che facciano a Marcello finalmente i controlli di cui ha bisogno, e che riguardano non solo le forme tumorali. Serve un check up completo delle sue condizioni di salute. Penso al glaucoma all’occhio, che è una patologia insidiosa, potenzialmente degenerativa perché può portare alla cecità, e per la quale a Rebibbia non aveva a disposizione nemmeno il collirio. L’ultima volta che ha finito il farmaco ci sono voluti due mesi per potergli consegnare la nuova confezione. Ma come è possibile? Siamo di fronte a dinamiche perverse, nei suoi confronti come in quelli degli altri detenuti, a una mancanza di umanità da parte dello Stato. Lo stesso Stato che ha la responsabilità di tutelare la loro salute”. Impossibile prevedere quanti giorni saranno necessari perché i sanitari del Campus Biomedico traccino un quadro clinico esauriente di Marcello Dell’Utri: un paziente in cui il guaio principale, ovvero il tumore alla prostata, convive con una grave cardiopatia e con un diabete cronico. In teoria, al termine degli esami i sanitari potrebbero indicare la necessità di cure più continue e specializzate di quanto sia possibile riceverne in carcere, e a quel punto si riaprirebbe la strada alla richiesta di Dell’Utri di un trasferimento in pianta stabile alla clinica Humanitas di Milano. E l’ex senatore potrebbe attendere sotto cure adeguate l’esito della sua sfida più importante, il processo di revisione della sua condanna per concorso esterno in associazione mafiosa, alla luce della sentenza europea sul caso Contrada. Maglie più larghe sul “bis in idem” di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 15 febbraio 2018 Corte di cassazione - Sentenza 6993/2018. La contemporaneità del procedimento amministrativo e di quello penale in materia tributaria esclude la violazione del bis in idem di due distinte pronunce. La Terza penale della Cassazione (sentenza 6993/2018) torna ancora una volta sul tema caldissimo della doppia punibilità dell’infrazione fiscale, allineandosi con la più recente giurisprudenza della Cedu e avallando i percorsi paralleli dell’accertamento tributario e del processo penale ex Dlgs 74/2000. L’unica condizione posta dai giudici di legittimità è, appunto, la sostanziale contemporaneità dell’azione punitiva da considerare come una “connessione temporale” tra i due procedimenti, volti ognuno a perseguire i propri fini (nel caso specifico, l’obbligazione tributaria uno e la condotta fraudolenta l’altro). Il ricorso da cui scaturisce la nuova pronuncia riguarda la vicenda di un imprenditore individuale bergamasco, indagato per dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (articolo 2 del Dlgs 74/2000) ed emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (articolo 8). A cavallo della chiusura delle indagini preliminari e della sentenza di primo grado, al contribuente erano state notificati gli avvisi di accertamento e l’atto di contestazione di una sanzione amministrativa unica di 4,8 milioni di euro, non contestati e perciò divenuti definitivi. L’imprenditore ha pertanto impugnato la sentenza di Appello che lo aveva condannato (anche) a 2 anni e 8 mesi di reclusione, eccependo appunto il bis in idem sostanziale avendo già “accettato” la soccombenza tributaria. La Terza penale della Cassazione gli ha tuttavia dato torto, ritenendo improprio il richiamo alla nota decisione Cedu sui casi Grande Stevens/Italia e Nykanen/Finlandia e l’equiparazione sostanziale della sanzione amministrativa “particolarmente afflittiva” rispetto a quella penale. Per la Corte infatti, nonostante la progressiva estensione del divieto di bis in idem anche ai casi “pur non formalmente penali”, ma sostanzialmente tali per il “peso” della sanzione, la Cedu ha nel frattempo mitigato la portata del divieto allargato. La sentenza del 15 novembre 2016 (ricorsi 24130/11 e 29758/11) della Grande Camera ha introdotto il criterio della “connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta” come principio in grado di neutralizzare il divieto di doppia punibilità. Di fatto, spiega il giudice europeo dei diritti individuali, è sufficiente verificare che si tratti di “un sistema integrato che permette di affrontare i diversi aspetti dell’illecito in maniera prevedibile e proporzionale, nel quadro di una strategia unitaria”. Nel caso specifico della concorrenza tra la sanzione tributaria e quella penale, è sufficiente verificare che la seconda aggiunga un elemento ulteriore rispetto al mero mancato pagamento del tributo. come per esempio può essere la condotta fraudolenta dell’emissione e dell’utilizzo in dichiarazione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. Ulteriore presupposto per la tenuta della doppia punibilità è che esistano nel sistema “meccanismi in grado di assicurare risposte sanzionatorie nel loro complesso proporzionate e, comunque, prevedibili”. Dj Fabo, atti a Consulta sull’aiuto al suicidio di Enrico Bronzo Il Sole 24 Ore, 15 febbraio 2018 “All’individuo va riconosciuta la libertà di decidere come e quando morire” in forza di principi riconosciuti dalla Costituzione. Questo uno dei passaggi dell’ordinanza di ieri della Corte d’Assise di Milano con cui la stessa ha deciso di trasmettere gli atti alla Corte costituzionale per il caso di dj Fabo. La decisione è giunta nell’ambito del processo che vede come imputato Marco Cappato, l’esponente radicale sott’accusa per aver accompagnato in Svizzera a morire Fabiano Antoniani, noto come dj Fabo, 40 anni, che l’anno scorso ha voluto porre termine alla sue sofferenze nella clinica Dignitas di Zurigo, dopo essere diventato cieco e tetraplegico in seguito a un incidente stradale nel 2014. Per i giudici, in sostanza, Marco Cappato non ha rafforzato il proposito suicidiario e la parte della norma che punisce l’agevolazione al suicidio senza influenza sulla volontà dell’altra persona è costituzionalmente illegittima. “Ha certamente realizzato la condotta di agevolazione al suicidio, ma è stato escluso che lo abbia rafforzato nella sua decisione”, scandisce il presidente della Corte. Un distinguo che porta i giudici a dire che “Cappato deve essere assolto dall’addebito di aver rafforzato il proposito suicidario”, ma sulla questione nel suo insieme e sul reato di aiuto al suicidio nei suoi vari aspetti deve essere la Consulta a pronunciarsi. “Principio cardine della Costituzione è quello personalistico, che pone l’uomo e non lo Stato al centro della vita sociale e afferma l’inviolabilità dei suoi diritti come valore preminente” scrivono i giudici nell’ordinanza. Impiega oltre un’ora il presidente della Corte a leggere un’ordinanza che per il procuratore aggiunto, Tiziana Siciliano “è completa, perfetta e destinata a lasciare traccia”. I pm avevano chiesto l’assoluzione mettendo in luce che Cappato aiutò Fabo “a esercitare un suo diritto, non il diritto al suicidio ma il diritto alla dignità” nel morire. Chiedendo in subordine la trasmissione degli atti alla Consulta per la valutazione della legittimità del reato di aiuto al suicidio, previsto dall’articolo 580 del Codice penale, con pene da cinque a 12 anni. Sulla stessa linea le richieste dei difensori di Cappato. L’ordinanza di ieri ha ripercorso le principali pronunce italiane ed estere sul fine vita, dal caso Welby a quello Englaro, fino alla recente legge sul biotestamento, che ha riconosciuto “il diritto a morire, rifiutando i trattamenti sanitari o scegliendo anche la sedazione profonda”. Una norma che ha sancito come oggetto di tutela da parte dello Stato la dignità nella fase finale della vita. Dj Fabo: il tribunale non decide e chiede aiuto alla Corte Costituzionale di Simona Musco Il Dubbio, 15 febbraio 2018 Né un’assoluzione né una condanna per Marco Cappato, ma di certo una vittoria. La Corte d’Assise di Milano ha deciso di inviare alla Consulta gli atti affinché valuti la costituzionalità del reato che lo vede accusato, cioè aver aiutato Fabiano Antonioni, alias dj Fabo, a morire in una clinica svizzera ricorrendo al suicidio assistito. La Corte costituzionale è chiamata a chiarire la legittimità dell’articolo 580 del codice penale, nella parte in cui “incrimina le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione”, in quanto in violazione di alcuni articoli della Costituzione e degli articoli 2 e 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Nella lunga e articolata ordinanza, letta in aula alla presenza della fidanzata di Fabo, Valeria Imbrogno, i giudici hanno rimarcato il diritto costituzionale di ciascuno alla libertà di decidere “quando e come morire” e che di conseguenza solo le azioni che pregiudicano la libertà di tale decisione possono costituire “offesa al bene tutelato dalla norma in esame”. Altra questione da dirimere riguarda la pena prevista dal reato, che non fa distinzione tra istigazione e aiuto. Per la Corte, le azioni che non incidono “sul percorso deliberativo dell’esecuzione dell’aspirante suicida non sono “sanzionabili”, cristallizzando, di fatto, l’innocenza di Cappato. Quella di morire, hanno dimostrato le testimonianze in aula, fu una decisione lucida e cosciente del 40enne milanese Fabiano, rimasto tetraplegico e cieco per due anni e 9 mesi dopo un grave incidente d’auto prima di prendere l’irremovibile decisione di ricorrere al suicidio assistito. Una decisione presa rifiutando l’alternativa italiana, ovvero la sospensione delle cure, che pure era stata prospettata dallo stesso Cappato. Erano stati i pubblici ministeri Tiziana Siciliano e Sara Arduini a suggerire, in subordine all’assoluzione “perché il fatto non sussiste”, l’invio degli atti alla Consulta. Suggerimento che la Corte d’Assise di Milano, presieduta dal Ilio Mannucci Pacini, ha fatto proprio, richiamando numerose sentenze, tra cui anche quelle relative ai casi Welby ed Englaro. Il comportamento di Cappato, che accompagnò l’uomo nella clinica Dignitas, dove strinse tra i denti il pulsante col quale si iniettò il veleno, “non ha inciso sulla decisione di Antoniani di mettere fine alla sua vita e quindi va assolto dall’accusa di aver rafforzato il suo proposito suicidario”. Dopo la lettura dell’ordinanza, il radicale ha ringraziato la scelta di Fabiano “per quello che ha fatto e che clandestinamente fanno molte persone ogni anno”, ricordando inoltre “che in Parlamento giace da 32 anni” una legge sul fine vita: “è ora che la politica agisca”. Cappato, commosso, ha poi affermato che “aiutare Fabo era un mio dovere, la Consulta stabilirà se era anche un mio diritto e soprattutto un suo diritto”. Soddisfatta anche la fidanzata del 40enne. “Siamo felici - ha detto sorridendo. Era quello che volevamo”. La decisione ha messo, dunque, d’accordo tutti. Per il procuratore aggiunto Siciliano si tratta infatti di “un’ordinanza giuridicamente impeccabile”, in grado di fornire “fortissimi elementi di valutazione alla Consulta”. Cappato, prima della sentenza, aveva chiarito che “piuttosto che essere assolto per un aiuto giudicato irrilevante, mentre è stato determinante, preferirei essere condannato. Altro sarebbe essere assolto per incostituzionalità del reato. Perché altrimenti si accetterebbe che solo chi è in grado di raggiungere la Svizzera può essere libero di scegliere”. Un pensiero condiviso dall’associazione Luca Coscioni tramite le parole dell’avvocato Filomena Gallo, per la quale la decisione dei giudici rappresenta “un’occasione senza precedenti” per superare un reato introdotto nell’epoca fascista “e per le persone capaci di intendere, affette da patologie irreversibili con sofferenze per ottenere legalmente l’assistenza per morire senza soffrire anche in Italia”. Nell’articolata requisitoria dello scorso 17 gennaio, l’accusa aveva evidenziato come l’esponente dei Radicali non avesse aiutato Fabo a suicidarsi, ma soltanto ad esercitare il proprio “diritto alla dignità”. Nel momento esecutivo del suicidio, Cappato era fuori dalla clinica e non poteva dunque essere considerata un aiuto al suicidio la sua presenza a fianco di Antoniani nelle fasi pregresse. Il radicale è finito a processo su decisione del gip Luigi Gargiulo, che ha disposto l’imputazione coatta dopo aver respinto la richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura. Per la quale, però, “non ha rafforzato il proposito suicidario di Fabiano, ma semplicemente rispettato la sua volontà”. Veneto: cibi doc ai carcerati, è guerra legale di Angela Pederiva Il Gazzettino, 15 febbraio 2018 Il Tar annulla il bando di gara impugnato da tre aziende: troppe pretese per 3,90 centesimi al giorno tutto compreso. Colazione, pranzo e cena, a 3 euro e 90 centesimi al giorno, tutto compreso. Troppi pochi soldi perché il fornitore possa garantire un’offerta in linea con le richieste del committente, come derrate di provenienza biologica e prodotti con certificazione Dop, Igp e Stg, da destinare ai carcerati del Nordest. Per questo con tre sentenze gemelle il Tar ha annullato il bando e il disciplinare di gara sul servizio di mantenimento dei detenuti negli istituti penitenziari di Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige. A presentare i ricorsi erano state le aziende Saep Spa di Balvano (Potenza), Campania Alimentare Srl di Napoli e Arturo Berselli & C. Spa di Milano. I colossi delle forniture alimentari, che hanno sedi in tutta Italia e si contendono il mercato delle commesse carcerarie, avevano chiamato in causa il ministero della Giustizia, da cui dipende il Provveditorato regionale che aveva indetto l’appalto per l’approvvigionamento dei viveri destinato al confezionamento dei pasti e l’erogazione del cosiddetto “sopravvitto”, cioè la possibilità per i reclusi di acquistare in prigione provviste supplementari rispetto a quelle standard. La stazione appaltante aveva fissato la diaria giornaliera in 3,90 euro, per 1.096 giorni, per tre pasti quotidiani completi. In base ai documenti di gara, per determinate quantità le derrate dovevano derivare da produzione biologica o ecosostenibile. Inoltre venivano richieste ulteriori prestazioni, come quelle di dietisti, derattizzazione e disinfestazione, manutenzione degli immobili, pulizia giornaliera ed igienizzazione dei locali, nonché il pagamento del canone di occupazione del suolo per i locali da destinare al sopravvitto. Con argomentazioni fra loro analoghe, le tre ditte avevano lamentato il fatto che le pretese su prodotti bio e servizi aggiuntivi rendevano maggiormente onerosa la fornitura, che oltretutto comportava il rispetto di esigenze di ordine e di sicurezza superiori a quelle solitamente applicate nelle mense “normali”. Per dimostrare l’impossibilità di rendere la prestazione, le aziende avevano così citato alcune richieste insostenibili. Per esempio venivano richiesti prodotti con certificazione Dop (Denominazione di origine protetta), Igp (Indicazione geografica protetta) e Stg (Specialità tradizionale garantita) non reperibili sul mercato. In alcuni casi nelle quantità volute (soprattutto per quanto riguarda carne e pesce bio), in altri introvabili in assoluto, per esempio con riferimento alle uova di categoria A del peso compreso fra 53 e 63 grammi; al latte Uht intero; al formaggio da tavola Emmenthal con umidità minore del 35%; ai piselli in scatola; ai piselli fini lessati del diametro compreso fra 8,75 e 10,2 millimetri, al netto della sgocciolatura. Contestazioni a cui l’amministrazione penitenziaria aveva risposto affermando che la percentuale di cibi certificati valesse in maniera flessibile per macro-categorie, non per singoli alimentari, tanto da ammettere una compensazione tra prodotti. Secondo il Tar del Veneto, invece, “la base d’asta è risultata priva di una chiara e preventiva verifica di fattibilità e sostenibilità economica”. Dopo che già alcune relazioni tecniche di parte avevano evidenziato la sottovalutazione dei prezzi, anche i giudici hanno stabilito che non poteva essere riproposto il tariffario del 2013 senza considerare i rincari maturati da allora, né poteva essere preso a riferimento uno studio di sei anni fa sulle forniture dei pasti in scuole e asili, in quanto i bambini mangiano notoriamente meno degli adulti. Di conseguenza la gara dovrà essere rifatta. Messina: sovraffollamento, aggressioni e suicidi. Qualcuno salvi il carcere di Barcellona lecodelsud.it, 15 febbraio 2018 La situazione in cui versa il carcere di Barcellona Pozzo di Gotto, ex Opg, è arrivata al limite della decenza civile ed istituzionale, della sostenibilità, della stessa dignità di coloro che si ritrovano ad esservi detenuti e coloro che vi lavorano, come penitenzieri e come medici. A suonare il campanello d’allarme è ancora una volta la Segreteria regionale della Fimmg settore polizia penitenziaria, che definisce “abominevole” la condotta dell’Amministrazione Penitenziaria regionale che con scelte incomprensibili sta riportando logiche manicomiali all’interno dell’istituto di Barcellona. La situazione appare davvero fuori controllo, con un numero eccessivo di detenuti, ben oltre il limite massimo di posti del carcere barcellonese, dato che se messo a confronto con il numero esiguo di personale impiegato, rende bene l’idea del perché gli episodi di violenza all’interno del carcere stiano aumentando. Come ricorda la stessa Fimmg, diversi medici sono rimasti vittime di aggressioni, ma cresce anche il numero di episodi di autolesionismo tra i detenuti, nonché i suicidi, ben due solo nell’ultimo mese con la morte di qualche giorno fa di un ragazzo di trent’anni. La Fimmg Polizia penitenziaria, all’interno di una nota denuncia il silenzio delle istituzioni sulle condizioni del carcere barcellonese, ma anche le colpe della politica che continua sulla strada di scelte scellerate. In una nota della Federazione si legge: “Questa segreteria aveva già lamentato le gravi criticità ed annunciato lo stato di agitazione per le scelte operate dal precedente governo regionale (giunta Crocetta) e dall’Assessore Gucciardi in particolare. Infatti contro il parere degli esperti di questa rappresentanza dei lavoratori sono state emanate direttive che, nel mese di agosto 2016, hanno decapitato il corpo sanitario dell’Istituto determinando molte criticità tra le quali l’avvicendarsi continuo, ogni 6 mesi, del personale medico deputato a garantire la copertura del servizio h24. Si deve dare atto che grande sforzo è stato profuso dalla Direzione Generale della ASP Messina, che con risorse proprie, ha cercato di far fronte alle molte esigenze dell’istituzione penitenziaria barcellonese, pur dovendosi attenere alle disposizioni e direttive emanate dal precedente Assessore e dal suo staff. Grave è la posizione dell’Amministrazione Penitenziaria Regionale che non ha mai coinvolto la Direzione Generale dell’azienda territoriale nella definizione degli ambiti e delle capienze in modo tale da poter avviare un percorso di programmazione. In ultimo, addirittura, ha respinto la richiesta dell’Area Sanitaria di bloccare temporaneamente l’invio di detenuti con problematiche psichiatriche, al fine di rivedere il modello organizzativo e definire gli ambiti detentivi da assegnare alla Atsm oltreché procedere alla definizione del numero dei posti letti. In spregio ad ogni logica di collaborazione, con fare autoritario, lo specifico ufficio palermitano - non curante del richiamo alla responsabilità - ha attuato invece l’immediata assegnazione di un soggetto ed ha annunciato la assegnazione di altri detenuti prevedendo la possibilità di ulteriore incremento di ancora 30 unità”. La struttura di Barcellona può accogliere massimo 270/300 unità, ma questo dato non ha impedito al Dap di continuare le assegnazioni arrivando a sfiorare i 400 detenuti. Un sovraffollamento che rende pericola la convivenza e ciclopica l’impresa dei medici. Il nuovo Governo regionale, l’assessore al ramo, dovranno intervenire sulla vicenda facendosi affiancare da un pool di esperti, questo è l’augurio della Fimmg polizia penitenziaria. Un intervento nel senso di garantire sicurezza, assistenza sanitaria e umane condizioni di detenzione sono necessità la cui soddisfazione in Sicilia non è più procrastinabile, perché il problema non riguarda solo Barcellona Pozzo di Gotto, ma l’intero sistema carcerario regionale. Campobasso: morì in carcere per infarto, archiviato il caso Ianno primonumero.it, 15 febbraio 2018 “Fatto imprevedibile e inevitabile”. Il Giudice per le indagini preliminari Teresina Pepe ha firmato il decreto di archiviazione sulla morte di Alessandro Ianno avvenuta il 19 marzo 2015 nella casa circondariale di Campobasso. Su quel decesso erano stati sollevati immediatamente sospetti e dubbi relativi a carenze della struttura portando all’iscrizione sul registro degli indagati due medici e due infermieri. Dopo una battaglia giudiziaria lunga due anni e fatta di ricorsi e contro perizie nei giorni scorsi la decisione del tribunale che ha chiuso definitivamente il caso: “Quella morte è stata imprevista e nonostante i soccorsi tempestivi era inevitabile”. Il caso Ianno si chiude con un’archiviazione. La morte del detenuto di Campobasso, 34enne, avvenuta nel 2015 nel carcere di via Cavour dopo un malore è stata - per la giustizia - imprevedibile e senza alcun addebito. Il decreto di archiviazione porta la firma della dottoressa Pepe ed è datato 8 febbraio. Dopo due anni di percorso giudiziario e altrettante opposizioni con le quali i familiari di Alessandro Ianno chiedevano chiarezza su una morte che sin da subito avevano definito “sospetta”, nei giorni scorsi i dubbi si sono diradati dalla sentenza di archiviazione del Tribunale di Campobasso. Una sentenza con la quale “non sono state ravvisate alcuna omissione o condotte anomale a carico dei sanitari che per quei fatti sono stati indagati” ha spiegato l’avvocato di Stefano Brienza che ha difeso un medico e due infermieri in servizio presso la Casa circondariale di Campobasso. Un altro medico, pure indagato, era difeso invece dall’avvocato Bruno di Termoli. Il giudice Teresina Pepe, facendo proprie le determinazione del medico legale, Vincenzo Vecchione ha ritenuto che la morte è stata causata da un aritmia cardiaca imprevedibile e inevitabile. Quindi i soccorsi seppure tempestivi non sono stati sufficienti “per ovvi motivi a impedirne il decesso”. La famiglia di Ianno, a quella morte sopraggiunta improvvisamente, però non si era mai arresa. I fratelli avevano fatto due opposizioni alla richiesta di archiviazione già avanzata nei mesi scorsi ma dalla ricostruzione dei fatti così come emersa è stato dato atto che i sanitari finiti sotto inchiesta non solo si erano adoperati tempestivamente ma anche che l’evento non era prevedibile e quindi non può esserci alcun addebito a carico loro. Per l’avvocato Brienza non ha motivo di esistere anche la ricostruzione fantasiosa dell’insulina praticata post mortem. “In quel registro - ha spiegato - vengono appuntate tutte le somministrazioni fatte ai pazienti e quell’insulina non si riferiva certo ad Alessandro Ianno che era spirato un’ora prima. Ma del resto non si comprende l’utilità di praticare un’insulina su un cadavere detto questo posso affermare tranquillamente che quel tipo di somministrazione non è mai stata praticata anche perché alle 18 la salma non era più nelle possibilità dei sanitari bensì già sottoposta a sequestro dall’autorità giudiziaria”. In questi due anni l’avvocato Silvio Tolesino ha difeso la famiglia Ianno. Ha provato in ogni modo e con tutti gli strumenti a disposizione a fare luce e chiarezza sui fatti accaduti nella casa di reclusione di via Cavour, ma sentito per un commento sulla sentenza ha soltanto riferito di non avere ancora il decreto. “Ho saputo sommariamente - ha spiegato - ma senza le carte non ho voglia di commentare. Vorrei prima capire cosa ha indotto il giudice a prendere questa decisione per farmi un’idea precisa dell’accaduto”. Era il 19 marzo 2015 quando Alessandro Ianno si è sentito male durante l’ora d’aria in carcere morendo poco dopo. Il 31 gennaio 2017 il Gip aveva accolto l’opposizione all’archiviazione dei legali del 34enne deciso a riaprire la partita sulla scorta della nuova perizia di parte che i difensori della famiglia Ianno avevano ottenuto fosse messa agli atti. Ma ha prevalso la perizia del Vecchione per il quale il decesso era stato “asintomatico e silente” escludendo nessi di causalità tra la morte del ragazzo e l’operato dei sanitari intervenuti quel giorno. Il Gip ancora l’8 febbraio scorso non ha ravvisato incongruenze sulla la perizia del medico chiamato dalla procura per questo la decisione finale: il caso è archiviato come morte naturale. Novara: detenuti e cantieristi al lavoro in via Pianca freenovara.it, 15 febbraio 2018 Impegnativo intervento ieri, martedì 13 febbraio, da parte di Assa che ha iniziato a riportare decoro e sicurezza nelle aree esterne del complesso scolastico di via Pianca, Scuola dell’infanzia “Sulas” e Scuola primaria “Don Ponzetto”, entrambi plessi scolastici dell’Istituto comprensivo “Bellini” di via Vallauri. Il presidente di Assa Giuseppe Antonio Policaro sottolinea come “ancora una volta si sia riusciti a restituire la fruizione di un giardino scolastico a bambini e ragazzi grazie al protocollo di intesa per l’impiego dei detenuti in interventi di pubblica utilità dedicati al recupero del patrimonio ambientale e grazie agli altri progetti sociali che abbiamo in essere con il Comune, che ci permettono di garantire e incrementare i servizi per la pulizia della città senza aumentare i costi a beneficio dell’intera comunità novarese. Ringraziamo tutti gli Enti che con noi collaborano nella nostra ferma lotta al degrado, i detenuti chi prestano la loro attività volontaria e gli agenti della Polizia Penitenziaria per il loro fondamentale servizio”. Coordinati dal personale Assa, sono stati operativi i detenuti usciti in permesso premio dalla Casa circondariale per prestare la loro attività volontaria nell’ambito del Protocollo tra Comune, Casa circondariale, Magistratura di sorveglianza, Assa, Atc e Ufficio esecuzioni penali esterne. Sono stati supportati logisticamente e operativamente dai detenuti cantieristi attivi in Assa. Nuovi lavori anche nei prossimi giorni, sempre sotto il coordinamento di Assa e con i cantieristi della categoria disoccupati. L’area è stata ripulita dai rifiuti presenti in grande quantità. Sono stati demoliti i giochi in cemento obsoleti ed è iniziata la manutenzione degli arredi. Quella del verde sta richiedendo una grande mondatura della vegetazione presente, ormai costituita da rovi e sterpaglie, ed è stato raccolto un grande quantitativo di ramaglia. Tutti i cumuli di materiale verranno rimossi nei prossimi giorni, quando i lavori proseguiranno anche con il ripristino dei camminamenti e dei pozzetti di regimazione acque meteoriche e sarà completata la chiusura dei varchi ancora presenti nella siepe perimetrale. Gorizia: progetto “La città entra in carcere”, pannello fotografico donato a don De Nadai Ristretti Orizzonti, 15 febbraio 2018 L’Ente di formazione e di sicurezza Formedil che ha concluso a settembre 2017 il corso “Tecniche di ripristino e di tinteggiatura di interni” nel carcere di Gorizia, ha rilasciato un attestato di presenza e di formazione ai cinque detenuti che hanno superato il test di apprendimento sia con la decorazione della Cappella sia con la costruzione di una parete divisoria in cartongesso. Il laboratorio faceva parte del progetto “La città entra in carcere”, per mettere in comunicazione la città visibile e la città invisibile come propone l’articolo 17 della Riforma carceraria. La Direzione della Formedil ha donato a don Alberto De Nadai, Garante uscente delle persone private della libertà e rappresentante dei volontari penitenziari, un pannello fotografico dei lavori eseguiti e che era già stato esposto al pubblico, nella sala Dora Bassi e al teatro Verdi in via Garibaldi a Gorizia, in occasione del convegno “A scuola di libertà 2017”. Il gruppo dei volontari, sentito il parere di don Alberto a cui era stato donato, unanimemente ha deciso di donare a sua volta il pannello fotografico al carcere affinché venga esposto nella sala colloqui dove i detenuti possono incontrare i loro familiari e i loro cari che avranno l’opportunità di ammirare il pannello e, ai detenuti stessi, di esprimere così i propri sentimenti, le proprie emozioni, i propri affetti. Per questo si sente il bisogno di far uscire dal carcere non solo voci ma anche testimonianze. È importante far conoscere alle persone libere questo mondo separato e recluso e, con quelle foto si racconta una opportunità di rieducazione e di un possibile reinserimento dei detenuti in modo da rendere credibile il loro recupero nella società civile. Alcuni di loro, sotto la supervisione degli esperti che hanno coordinato tutti i lavori, hanno lavorato con interesse sia per la realizzazione dei disegni per la cappella-sagrestia sia per i lavori di ripristino e di decorazione. La Fondazione Carigo si è fatta carico del supporto economico per l’attuazione dei lavori: solo così si è potuto trasmettere ai cinque detenuti impegnati una nuova cultura del lavoro, delle passioni, degli interessi per un futuro reinserimento. Il laboratorio è stato così un luogo di confronto per conoscersi, frequentarsi, apprezzarsi, per ascoltare voci diverse e arricchirsi vicendevolmente. Il carcere in fondo è città in miniatura. Oltre ai ristretti, moltissime sono le persone che ruotano intorno al carcere per motivi diversi: è un luogo in cui vivono persone, spesso concittadini, con cui mettersi in comunicazione per rendersi coscienti che si può fare qualcosa insieme senza evidentemente dimenticare i motivi per cui sono rinchiusi i detenuti, gli errori commessi e anche la pericolosità di alcuni di loro. Non si può entrare in carcere e dimenticare o far finta di non vedere i grossi problemi che potrebbero esserci, se lo scopo della propria presenza è quello di aiutare i detenuti. Per questo bisogna tessere fili, collegamenti, far nascere energie e lavorare insieme al di qua e al di là delle mura. I confini della città devono far si che il dentro e il fuori si influenzino. Il lavoro dei volontari è anche questo: fare in modo che il fuori sia portato dentro. Ci sembra particolarmente importante essere riusciti, superando veri e vari ostacoli, ad iniziare un dialogo con la città sul problema del carcere. Le varie attività che da anni abbiamo cercato di proporre e poi di realizzare per i detenuti hanno ricevuto l’approvazione degli Enti preposti: per questo siamo orgogliosi della collaborazione della Fondazione Carigo e dell’Ente di formazione Formedil e non possiamo che ringraziare. Questa donazione ci impegna a continuare nei tre progetti - rilegatura, restauro formelle, campo di pallavolo - compatibilmente con le esigenze carcerarie. I volontari penitenziari della Casa Circondariale di Gorizia Napoli: raccolta di beni di prima necessità per i detenuti di Poggioreale tvcity.it, 15 febbraio 2018 Tra i tanti problemi per i detenuti del carcere di Poggioreale vi è anche quello del “sopravvitto”, ossia la vendita nello spaccio dell’istituto di pena di quei beni che non sono passati dall’istituto stesso ai detenuti. Ci riferiamo ad alimenti che non rientrano nella quotidiana fornitura delle cucine, oggetti per l’igiene personale e per la pulizia delle celle, che l’amministrazione vende a prezzi maggiorati rispetto a quelli che si possono trovare all’esterno (e non certo perché abbiano una qualità maggiore). Questa situazione va ad acuire una differenza tra i detenuti, tra chi può permettersi qualche acquisto e quelli in condizione di indigenza totale, rendendo la pena ancora più dura da accettare. Lanciamo una raccolta di beni di prima necessità per i detenuti di Poggioreale, in particolare raccoglieremo detersivo, sapone, shampoo, bagnoschiuma, mollette per il bucato, sacchetti per la spazzatura, dentifricio, deodorante, rasoi usa e getta, spazzolini per denti. Tutti beni durevoli e che saranno consegnati ai detenuti tramite associazioni che operano all’interno della struttura detentiva. Vi invitiamo a portare gli oggetti alla Casa del Popolo di II Vico Abolitomonte 9, a Torre del Greco (Na), dal lunedì al venerdì dalle 17,00 alle 20,00. È un semplice gesto verso chi è privato della libertà, a pochi passi dalle nostre case. Processo a Marco Cappato. Il confine tra legge e dignità di Michela Marzano La Repubblica, 15 febbraio 2018 Ogni persona è libera di decidere come e quando morire: è un principio cardine non solo della Convenzione dei diritti dell’uomo, ma anche della nostra Costituzione. Ce lo ha ricordato ieri la corte d’assise di Milano, riconoscendo che Marco Cappato non ha rafforzato la volontà di Dj Fabo di porre fine alla propria vita, e chiedendo al tempo stesso alla Consulta di pronunciarsi sulla legittimità costituzionale del reato di aiuto al suicidio. Una decisione storica, quindi, nonostante l’apparente neutralità, visto che il processo a Cappato è stato sospeso in attesa che si pronunci la Corte Costituzionale. Solo la Consulta può d’altronde stabilire fin dove può spingersi il diritto all’autodeterminazione di ciascuno di noi e quale sia la relazione esatta tra la dignità della persona e l’autonomia individuale. Al di là della mancanza di coraggio da parte di un pezzo importante del mondo politico italiano, la vicenda di Fabiano Antoniani e la decisione di Marco Cappato di accompagnarlo in Svizzera, ci costringono a riflettere sullo spazio che la nostra società è disposta a dare al desiderio profondo di chi, costretto dalla sorte a ritrovarsi in un limbo di sofferenza e di impotenza, vorrebbe solo mettere fine a una vita che, di vita, ha ormai molto poco. È una questione delicata sia dal punto di vista giuridico sia, soprattutto, dal punto di vista etico. Ma dalla quale non è più possibile esimersi, visto che sono numerosissime le persone che aspettano che il proprio diritto all’autodeterminazione, nel momento in cui decidono di accedere al suicidio assistito, sia finalmente preso in considerazione. In nome di quale principio si può d’altronde obbligare un’altra persona a comportarsi come alcuni pensano che si debba comportare? In nome di quali valori si può anche solo pensare di cancellare la soggettività altrui e di imporre agli altri la propria concezione del mondo e dell’esistenza? La vita è sempre sacra, si sente ripetere da chi, forse, non si è mai dovuto confrontare con quella sofferenza profonda e quell’assenza di speranza - perché non c’è più nulla da fare se non aspettare che finisca quella “notte senza fine”, come diceva Dj Fabo parlando della propria esistenza dopo l’incidente - che talvolta tolgono alla vita ogni dignità. Uccidere è un reato, si sente dire da chi, forse, non ha mai fatto lo sforzo di capire la differenza che esiste tra il “far morire” e il “lasciar partire”, il privare della vita chi, quella vita, la vuole vivere e il liberare dal peso dell’esistenza chi, quell’esistenza, l’ha già abbandonata da tempo. “Ho visto polmoni respirare da soli su un tavolo, macchine che sostituiscono cuori... ma è vita questa?”, si era chiesta la pm Tiziana Siciliano durante la requisitoria, chiedendo ai giudici o l’assoluzione di Marco Cappato o l’eccezione di legittimità costituzionale. Il cuore del problema, per lei, era proprio il senso che ha il termine “vita” quando non si ha più la possibilità di esercitare la propria dignità. Non è allora anodina la scelta della corte d’assise di trasmettere gli atti alla Consulta: significa aver deciso che la questione dell’autodeterminazione non è più solo il cardine dell’etica contemporanea, ma anche il pilastro attorno al quale ricostruire il nostro ordinamento giuridico. Certo, l’ultima parola spetterà al legislatore. Ma come potrà il legislatore tirarsi indietro una volta stabilito che è in nome della dignità umana che nessuno può giudicare cosa possa essere o meno degno per un’altra persona, compreso l’accesso al suicidio assistito? Più emigrazione con lo sviluppo di Danilo Taino Corriere della Sera, 15 febbraio 2018 Uno studio del Center for Global Development di Washington ha calcolato che il flusso cresce quando un Paese arriva a un reddito di circa duemila dollari pro capite. È bene che ci diciamo la verità: per quanto aiutiamo i Paesi poveri, non fermeremo il movimento di grandi masse di popolazione dall’Africa verso l’Europa. Non significa che il Vecchio Continente debba abbandonare i piani di collaborazione con le regioni meno sviluppate del mondo: vuole però dire che non sarà la loro crescita economica a fermare le migrazioni. Anzi, i dati indicano che, sulla strada di diventare più ricco, un Paese povero manda all’estero più persone. Pericoloso illudersi del contrario. Uno studio del Center for Global Development di Washington - realizzato da Michael Clemens e Hannah Postel - ha calcolato che la curva dell’emigrazione inizia a salire quando un Paese arriva a circa duemila dollari pro capite (a parità di potere d’acquisto) e cresce fino a quando raggiunge gli 8-10 mila dollari. Solo a quel punto l’emigrazione comincia a rallentare. Al loro ritmo di crescita storico, Paesi poveri - quelli, per dire, che hanno un reddito pro capite tra i mille e i duemila dollari l’anno - impiegherebbero fino al 2198 per arrivare al livello di sviluppo in cui tipicamente l’emigrazione inizia a calare, dice lo studio. Ma se anche il loro tasso di crescita triplicasse, “questo processo impiegherebbe fino al 2067”. Clemens e Postel osservano che “i Paesi in cui i redditi pro capite annuali sono 8-10 mila dollari hanno tre volte tanti migranti rispetto ai Paesi che hanno redditi di duemila dollari o meno”. Ciò suggerisce che “nei contesti più poveri lo sviluppo incoraggia l’emigrazione più di quanto la riduca”. Nei Paesi molto poveri, pochi hanno i mezzi per andarsene; “in contrasto, l’emigrazione è aumentata in 67 dei 71 Paesi che negli scorsi 50 anni hanno raggiunto uno status di reddito medio”. Lo studio nota che la decisione di emigrare è fatta per ragioni di investimento o di assicurazione. Una famiglia investe subito nel viaggio di un suo membro in attesa di guadagni futuri, ma solo se ne ha i mezzi. Se invece usa chi emigra come protezione contro choc nel suo Paese, è evidente che la necessità di assicurarsi è più forte con il migliorare delle condizioni di vita. Questo legame tra aumento del reddito (fino a un certo livello) e aumento del numero di chi lascia il proprio Paese “implica che gli aiuti possano in effetti avere incoraggiato la migrazione invece di scoraggiarla”. Quanto si guadagna sul traffico di esseri umani? di Giovanna Maria Fagnani Corriere della Sera, 15 febbraio 2018 Adrian che vive segregato in un’azienda agricola del mezzogiorno. Lavora nei campi per 10 ore al giorno e poi come custode nelle altre. Prende 25 euro al giorno, da cui il suo datore di lavoro ne detrae 10 o 15, per vitto e alloggio. Jamilah invece aspetta i suoi clienti nella piazzola di una strada provinciale del Milanese e deve ripagare un debito di 70 mila euro ai trafficanti di esseri umani che l’hanno portata in Italia dalla Nigeria. La prostituzione coatta, lo sfruttamento lavorativo e la tratta degli esseri umani sono i volti principali della schiavitù moderna in Italia: un fenomeno che coinvolge nel nostro Paese oltre 200 mila persone. Nel mondo questi “schiavi invisibili” sarebbero invece addirittura 40 milioni. Numeri emersi a Milano, in occasione della Giornata Mondiale contro la Tratta di Persone, che è stata celebrata con un convegno al Pime, promosso in collaborazione con Mani Tese e Caritas Ambrosiana. Un tema urgente, che tuttavia stenta a entrare nell’agenda politica dei governi. Eppure porta un profitto illegale di 150 miliardi di dollari l’anno nelle tasche delle organizzazioni criminali che gestiscono la tratta, come denuncia Mani Tese nella campagna “I exist”. Questi mercati del lavoro paralleli, oltre a fondarsi sulla sistematica violazione di diritti fondamentali dell’uomo, determinano un enorme costo in termini di evasione fiscale e alterano significativamente la concorrenza, pregiudicando i diritti delle imprese che rispettano le regole. “Milioni di persone nel mondo non hanno la libertà di dire no allo sfruttamento e al lavoro schiavo” spiega Chiara K. Cattaneo, program manager della campagna. Sono i “working poors”: persone che lavorano ma restano nella soglia di povertà, come ha spiegato Leonardo Becchetti, professore di Economia Politica a Tor Vergata. “La diseguaglianza fra i salari fra una nazione e l’altra è un’enorme questione politica. Quasi il 40 per cento dei lavoratori del settore tessile in Asia ha stipendi che sono inferiori al salario minimo che è già un quarto di quello di sopravvivenza. Così questa forza lavoro fa concorrenza al ribasso ai nostri lavoratori, che non hanno più potere contrattuale. Ma le disuguaglianze si traducono in crisi finanziarie”. Come dare il proprio contributo per evitare che milioni di persone finiscano a fare un lavoro da schiavi? “Esercitando il cosiddetto “voto col portafoglio”, cioè scegliere aziende che portano avanti il rispetto per i dipendenti e per l’ambiente. Il sito Eyeonbuy.org aiuta a trovarle. Mentre il motore di ricerca “Lilo.org” coi proventi pubblicitari sostiene alcune cause che possono essere scelte dagli utilizzatori”. Ma qualcosa sta cambiando anche nella finanza: “Le aziende ambientalmente sostenibili valgono di più delle altre: i più importanti fondi d’investimento oggi misurano quanto inquina il loro portafoglio di titoli e vendono quelli che inquinano di più”. Quanto allo Stato, “Quando assegna gli appalti non dovrebbe scegliere il massimo ribasso, perché si rischia di sfruttare i lavoratori. Lo Stato deve passare dal massimo ribasso all’offerta più vantaggiosa e questo cambiamento è già cominciato ma ci sono resistenze enormi. E poi dovrebbe introdurre i dazi antidumping: i prodotti di aziende in cui il salario è sotto al tasso di sopravvivenza vanno tassati, gli altri favoriti”. Il settore dell’edilizia, dell’agricoltura, degli stabilimenti manifatturieri, della produzione tessile, del lavoro domestico, della pesca, del turismo e del mondo dello spettacolo, sono - secondo la Caritas - tra gli ambiti lavorativi che maggiormente fanno registrare situazioni di grave sfruttamento del lavoro. Tra gli esseri umani sfruttati, i lavoratori migranti e coloro che si trovano in situazioni di povertà o di fuga da conflitti sono, per la loro vulnerabilità, tra le principali vittime. Per questo, in Campania, Lazio, Puglia, Sicilia, Calabria e Piemonte quattro anni fa la Caritas ha lanciato il “progetto Presidio” per contrastare lo sfruttamento lavorativo e aiutare i lavoratori che vivono in baracche senza luce, acqua e servizi igienici. Sono stati attivati presidi fissi e mobili con operatori che offrono ai “nuovi schiavi” assistenza sanitaria e consulenze legali, in un clima di forte tensione e intimidazioni. “È però lo sfruttamento sessuale la tipologia di tratta di esseri umani più presente in Italia seguita da sfruttamento lavorativo, dall’accattonaggio e poi dal traffico di organi. La novità rispetto agli scorsi anni è che questi traffici sono molto più interconnessi di quel che sembra - racconta Mirta Da Pra del Gruppo Abele. Un tempo arrivavano donne forti, ma adesso sempre meno, adesso le organizzazioni scelgono le più vulnerabili. Dall’Est scelgono le orfane o chi vive in istituto, dall’Africa quelle delle famiglie più numerose”. Riuscire a fermare la tratta è una sfida grande e il Gruppo Abele chiede che nei centri di prima accoglienza ci sia un responsabile antitratta, in grado di intercettare la presenza di vittime e sfruttatori. Va inoltre prestata maggiore attenzione alla prostituzione al chiuso: le ordinanze anti-luccciole adottare da molti comuni “Non hanno risolto, ma hanno di fatto legalizzato lo sfruttamento sessuale”. Fiammetta Casali dell’Unicef ha invece sottolineato come sia l’istruzione la chiave di volta in grado di far uscire i minori sfruttati sul lavoro e da altre situazioni tragiche, come quella dell’avviamento al mercato del sesso o il caso dei bambini soldati. I curdi sono stati una diga contro l’Isis. Ora fermezza con la Turchia di Bernard-Henri Lévy Corriere della Sera, 15 febbraio 2018 Questi combattenti hanno bloccato l’Isis e adesso sono braccati da Erdogan che usa la situazione geografica del suo Paese per ricattare l’Occidente. Bisogna rompere, non più “congelare” i negoziati di adesione all’Unione Europea. Non ripeteremo mai abbastanza che i curdi, in Siria come in Iraq, sono stati la nostra diga, il nostro baluardo, il muro di coraggio e di energia che ci ha protetti da Daesh. Dappertutto, in Siria non meno che in Iraq, sono riusciti a tener chiuse le frontiere dove gli eserciti iracheno e turco lasciavano aperte le porte attraverso cui arrivavano, scappavano, ripartivano gli islamisti che, mentre straziavano la regione, venivano in Europa a commettere attentati. Giunta la vittoria, questi combattenti curdi hanno avuto l’ingenuità di pensare che avrebbero potuto vivere, in pace, nel territorio da loro difeso, dove i loro cari sono morti e dove ora riposano. Ed ecco che, come premio della loro innocenza, sono ancora una volta perseguitati, torturati, assassinati, mutilati, ma ad Afrin, nel Nordest della Siria: sono stati la nostra diga, il cordone sanitario che conteneva la peste islamista ed ora sono braccati da un portinaio machiavellico, da uno che svuota le porte dell’inferno, da un Erdogan che trasforma la propria situazione geografica in pretesto per ricattare l’Occidente. Di fronte a tanto cinismo, nelle alte sfere della comunità internazionale si è come le tre piccole scimmie della favola. Con gli occhi bendati davanti al martirio di uomini e donne, considerati dunque ammirevoli negli anni pari e insignificanti negli anni dispari. Con le orecchie otturate, soprattutto per non sentire il rumore delle cannoniere del neo sultano, che spinge il sarcasmo, l’insolenza e la provocazione fino al punto di chiamare - mescolando cinismo orwelliano ed esultanza beffarda - la sua pulizia etnica “operazione Ramo d’olivo”. Con il dito sulle labbra, miserevoli per vigliaccheria, fingiamo di credere sulla parola alle dimostrazioni di umiltà plenipotenziaria e benevola della propaganda di Ankara, e non sappiamo far altro che ripetere, scuotendo gravemente il capo: “Niente, non è successo niente ad Afrin”. A Mosca, alcuni vedono nel sudario di obbrobrio e di vergogna che la soldatesca turca, e quella al soldo della Turchia stendono sul Kurdistan siriano, il prezzo da pagare per la vittoria della loro vischiosa strategia regionale. A Washington, altri recitano la parte di esperti delle anticamere politiche, di demiurghi del tè delle cinque, ma in realtà hanno trovato, nel lasciapassare offerto agli artefici della pulizia etnica, la soluzione alla loro nuova volontà di avere la pace senza dover fare la guerra. Altrove, ovunque, regna lo stesso lungo e doloroso silenzio. Oppure si odono parole vane: “Oriente complicato... incomprensibili storie di frontiere e di cambiamenti di alleanze... perché litigare con un Paese potente e sovrano?”. O ancora si odono chiacchiere da bar, dove i piccoli furbi e i grandi pigri, chini su presunti misteri nascosti, e non osando rialzare la testa per paura di dover osservare la propria codardia, sanno soltanto ripetere ininterrottamente che non si andrà a morire per Afrin come ieri non si andò a morire per Danzica... È l’eterna storia - classica, ahimè, nelle democrazie - dei migliori amici a tempo determinato, dei fratelli quando ci conviene, dei compagni d’armi che svaniscono velocemente come una story su Instagram. È la continuazione della lunga notte dei popoli sfruttati e poi abbandonati come kleenex; dei liberatori trasformati in truppe ausiliarie; degli eroi strumentali, ma solo per il tempo di una battaglia e, per il resto, moneta spicciola del Grande Gioco delle transazioni geopolitiche. E poi, ma questo è inedito, è il frutto del patto faustiano che abbiamo stretto con Erdogan e che, semplicemente, non è più sopportabile. La Turchia, come il gatto di Schrödinger, può essere in effetti, e visibilmente, sia nella Nato che al di fuori. Può pretendere di stare sotto l’ombrello, certo bucato, dell’America, liquidando al tempo stesso apertamente coloro che furono i migliori alleati di quest’ultima. La Turchia ha generali ambidestri, che con una mano firmano decreti di eterna alleanza, a Londra o a Parigi, e con l’altra, tradendo subito gli impegni presi, con il Ramo d’olivo umiliano i loro presunti alleati. Ricicla i più temibili jihadisti, dà loro uno stipendio e li rimanda subdolamente a combattere, restando formalmente il Paese civile che continua ad ambire, come la Svizzera, la Norvegia o la Bosnia, a un partenariato strategico con l’Unione Europea. Ed ha un pre-sidente che, grazie alle nostre debolezze, almeno per ora si sente abbastanza forte da fare dichiarazioni insensate, attraverso i propri ministri, sul presunto massacro dei curdi che sarebbe cosa da nulla in confronto alla colonizzazione dell’Algeria, colonizzazione che non autorizzerebbe certo la Francia a impartire lezio-ni. Questa atroce commedia è durata fin troppo. Se non la si blocca, il 2018 sarà da ricordare come un anno nero: con una cortina di ferro, turca, che si abbatterà sul popolo curdo. E bloccarla, oggi, significa rompere, non più “congelare”, quella farsa che sono diventati i negoziati di adesione all’Europa; significa sciogliere la commissione parlamentare mista che continua ad esistere nel parlamento di Bruxelles; significa espellere la Turchia da un Consiglio dell’Europa che, detto fra parentesi, l’ha condannata 2.812 volte da quando vi è entrata; infine, significa porsi seriamente la questione della sua presenza in seno all’Alleanza atlantica. Erdogan non ci lascia più la scelta. O questi gesti di elementare fermezza, oppure, all’orrore del massacro dei curdi, si aggiungerà la vergogna di vedere il massacratore sogghignare, e continuare a sogghignare, sulle rovine del nostro onore. Altan, lo scrittore turco che rischia l’ergastolo. “Muore lo stato di diritto” di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 15 febbraio 2018 “Vostro Onore, il misero surrogato di atto d’accusa presentato contro di me, privo non solo di intelligenza ma anche di rispetto per la legge, è troppo debole per sostenere il peso immenso della sentenza di ergastolo con applicazione delle relative aggravanti richiesta dal pubblico ministero, e non merita una difesa seria”. Inizia così il libro Ritratto dell’atto d’accusa come pornografia giudiziaria che Io scrittore turco Ahmet Altan, 67 anni, ha scritto dalla cella del carcere di Silivri dove è rinchiuso da 17 mesi insieme al fratello Mehmet, alla giornalista Nazli llack,74 anni e veterana della stampa turca, e altri quattro reporter. Domani il giudice, cui si rivolge Altan in un dialogo immaginario, emetterà il verdetto. E il primo di una serie contro i rappresentanti della stampa accusati di essere dei gulenisti e aver fatto parte del fallito golpe del 15 luglio 2016. A nulla è valsa la mobilitazione internazionale lanciata in questi mesi per la loro liberazione da Free Turkey Media che comprende tra gli altri Reporters Sans Frontieres, gli italiani di Articolo 21 e l’associazione dei Cento Autori. A nulla è valsa la sentenza della Corte Costituzionale che aveva disposto la scarcerazione degli imputati perché erano stati violati i loro diritti umani. “Nel condanneranno sarà decretata la morte dello stato di diritto in Turchia. Nessuno avrà più alibi” commenta amara Antonella Napoli, coordinatrice di Free Turkey Media. Altan e compagni sono accusati, di aver inviato dei “messaggi subliminali” nei giorni precedenti al golpe per favorire la sua riuscita. “A parte qualche mio articolo e un’unica apparizione in tv, l’imputazione di golpismo nei nostri riguardi si basa sulla seguente asserzione: si ritiene che noi conoscessimo gli uomini accusati di conoscere gli uomini accusati di essere a capo del colpo di stato”, spiega lapidario lo scrittore nel suo libro. Iran. Il caso del professore ambientalista morto in carcere. È stato un suicidio? Left, 15 febbraio 2018 L’ambientalista iraniano Kavous Seyed Emami, morto due giorni fa nella prigione di Evin a Teheran, si è suicidato perché le prove di spionaggio contro di lui erano schiaccianti. O, almeno, è questa è la versione ufficiale delle autorità iraniane e del giudice Abbas Jafari Dolatabadi: “ha commesso suicidio in prigione perché sapeva che molti avevano testimoniato contro di lui, lui stesso aveva confessato”. Parole che descrivono una spia, che si sarebbe tolto la vita per la vergogna. Ma l’intellettuale ed accademico Emami, 63 anni, doppio passaporto, - canadese ed iraniano, era un professore di sociologia all’università Imam Sadigh, fondatore della Persian Wildlife Heritage Foundation. Era stato arrestato il mese scorso, il 24 gennaio, e trasferito nella prigione di Evin, dove nel 2003 la fotografa iraniana canadese Zahra Kazemi, 54 anni, è morta dopo essere stata arrestata solo per aver scattato delle fotografie. Emami aveva combattuto nella guerra contro l’Iraq, per diventare poi, strenuo difensore dell’ambiente del suo Paese. Il figlio di Emami, il musicista Ramin, insieme a molti altri attivisti, non crede che si sia tolto la vita. Cominciano a porre interrogativi sulla sua morte anche i membri dell’Associazione dei sociologi iraniani. Ali Shakourirad, a capo del Partito dell’Unione islamica riformista, ha ribadito che questa morte “solleva molte domande e preoccupazioni pubbliche”. Questa non è la prima morte sospetta, bollata come suicidio, tra i detenuti delle carceri persiane. Due manifestanti iraniani, arrestati durante le recenti proteste che hanno scosso il Paese il mese scorso, sono morti in cella e anche in quel caso, la spiegazione ufficiale delle autorità è stata: “suicidio”. I familiari, insieme ai loro avvocati, hanno chiesto un’indagine indipendente per una verità altra, che credono non assomigli a quella ufficiale delle toghe. Si continua a morire a Teheran. La repressione continua. Quello di Emami non è stato il primo arresto tra la comunità accademica degli ecologisti iraniani. Sette persone sono state ammanettate la settimana scorsa per aver fornito informazioni classificate “sotto la copertura di progetti ambientalisti e scientifici”, perché, riferiscono le autorità, le loro ricerche nei siti erano in realtà una copertura “per attività di spionaggio”. Dopo le preoccupazioni espresse da Antonio Guterres e dall’Onu sulla vicenda, sono arrivate quelle del Center for Human Rights in Iran: “il sistema giudiziario è fuori controllo, sta collaborando a coprire la verità”.