Quei trattamenti inumani denunciati anche da Napolitano di Valentina Stella Il Dubbio, 14 febbraio 2018 Continua la lotta nonviolenta del partito radicale per l’approvazione della riforma penitenziaria. “Continueremo a convocare conferenze stampa finché il Governo non comunicherà i tempi certi per l’attuazione della riforma dell’ordinamento penitenziario”. Così ieri pomeriggio, presso la sede di Torre Argentina a Roma, Sergio D’Elia ha aperto il secondo incontro sulla “lotta nonviolenta del Partito Radicale e di 9.400 detenuti e oltre 195 cittadini “liberi” che stanno portando avanti alcuni giorni di sciopero della fame per sollecitare il varo della riforma. Come vi abbiamo raccontato spesso dalle pagine di questo giornale, l’iter è stato tortuoso, osteggiato e si rischia che l’approvazione definitiva salti con l’avvicinarsi del 4 marzo. Giunta al 23esimo giorno di digiuno, Rita Bernardini, membro della Presidenza del Partito Radicale, ha reso noto che “Gentiloni, tramite Roberto Giachetti, mi ha fatto sapere che la riforma andrà in porto prima del voto; nonostante questa rassicurazione indiretta, mi sarei aspettata una telefonata o almeno un sms da lui, considerato che stiamo cercando di contattarlo da giorni; avrebbe dimostrato così almeno un po’ di rispetto per il partito più vecchio d’Italia”. Aggiungendo: se non mi chiama, ma approva la riforma va bene lo stesso. L’esponente radicale ha riletto anche alcuni stralci del messaggio alle Camere dell’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sulla questione carceraria diffuso nell’ottobre 2013, in particolare: “Ma l’Italia viene, soprattutto, a porsi in una condizione che ho già definito umiliante sul piano internazionale per le tantissime violazioni di quel divieto di trattamenti inumani e degradanti nei confronti dei detenuti che la Con- venzione europea colloca accanto allo stesso diritto alla vita” e le conclusioni relative all’esigenza di indulto e amnistia, come ripetuto più volte da Marco Pannella. Presente alla conferenza anche l’onorevole Renata Polverini, candidata con Forza Italia alla Camera: “Ho deciso nuovamente di prendere la tessera del Partito Radicale perché il tema delle carceri lo sento molto e mi ha appassionata da quando ero presidente della Regione Lazio. Proprio le Regioni sono un po’ distratte su quello che realmente potrebbero fare per migliorare la vita detentiva”. La scelta della Polverini di partecipare alla conferenza è stata commentata favorevolmente dal direttore del Dubbio, Piero Sansonetti, invitato a partecipare come rappresentante di quella parte di stampa - purtroppo minima - che si occupa del tema: “È ammirevole il suo coraggio di venire qui in piena campagna a parlare di carceri. E questo mi porta a dire che il problema di questa approvazione non è tanto ascrivibile ai contrari ma alla paura di quelli favorevoli di farsi avanti in questi giorni, a partire proprio da Gentiloni”. Durante l’incontro, a cui erano presenti anche Giandomenico Caiazza e Francesco Petrelli dell’Unione delle Camere Penali Italiane, è arrivato anche un messaggio di Ilaria Cucchi che lanciando un appello a Gentiloni ha dichiarato: “Probabilmente, se questa riforma fosse stata in vigore, mio fratello Stefano sarebbe ancora con noi”. “Senza strumenti adeguati la riforma potrebbe deludere” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 febbraio 2018 La senatrice Maria Mussini, membro della Commissione Giustizia del Senato, lancia l’allarme. “La riforma dell’ordinamento penitenziario promette, può essere realizzabile, ma se non ci saranno gli adeguati strumenti e adeguate attenzioni, potrebbe deludere le aspettative”. A lanciare l’allarme è la senatrice Maria Mussini, membro della commissione giustizia del Senato, che ha discusso e posto delle condizioni per quanto riguarda l’attuazione della riforma, in particolare il decreto riguardante la salute mentale in carcere. Ricordiamo che lei si è dedicata molto, durante la sua attività da parlamentare, alla questione della salute mentale nelle carceri. Senatrice, quali sono i problemi sul fronte sanitario che ha evidenziato durante la discussione in commissione giustizia? Ci tengo a sottolineare che quando in commissione è arrivato lo schema di decreto, ho chiesto appositamente delle audizioni relativamente alla parte sanitaria, ma hanno preferito farle soprattutto per la modifica del 4 bis perché premeva molto ad altri miei colleghi. Mi ha lasciato molta amarezza, perché i provvedimenti destinati a mutare in maniera radicale il trattamento del paziente psichiatrico autore di reato, li considero pieni di punti critici. Quali osservazioni ha posto? Innanzitutto preciso che alla commissione giustizia non ho posto delle osservazioni, ma delle condizioni. Due sono state le questioni: la prima riguarda tutto il parere contenuto dalla conferenza Stato-Regioni, perché la salute nelle carceri è di competenza regionale. Gli elementi che le Regioni hanno messo in evidenzia dovevano a mio parere essere posti come condizione, soprattutto quello relativo alle risorse finanziarie. Altro punto che ho evidenziato - osservazione posta anche dalle Regioni - è quello riguardante la creazione di “Sezioni per detenuti con infermità”, con l’osservazione che venga aggiunta la parola “psichica” al fine di specificare la tipologia di infermità dei detenuti cui sono destinate le sezioni speciali, altrimenti si corre il rischio di mettere insieme i detenuti con problemi fisici con quelli infermi di mente. Così come chiedevo che venisse specificato il percorso di esecuzione esterna dei detenuti con sopraggiunta infermità mentale, perché purtroppo nel decreto manca tutto questo e a chiederlo non sono solo io, ma anche le Regioni stesse. Quindi sono questi i due problemi principali? Problemi di non poco conto. Soprattutto perché mancano le risorse finanziarie, con il rischio che le “Sezioni per detenuti con infermità psichica” non vengano istituite all’interno dei penitenziari. Per questo ho chiesto delle garanzie in tal senso. La mia preoccupazione centrale è che ci ritroveremo in carcere persone affette da malattia mentale senza queste sezioni. Ma scusi, i soldi ci sono nella legge di Bilancio. Le faccio due conti. La legge ha stanziato 10 milioni nel 2018 per attuare in parte la riforma dell’ordinamento penitenziario, 20 milioni per il 2019 e 30 per il 2020. Ma non bastano, per questo io all’epoca chiesi almeno di invertire l’ordine e iniziare da 30 milioni fino a decrescere. Anche perché le leggi di bilancio cambiano ogni anno, chi dice che il prossimo governo non tolga i soldi? Poi c’è anche una questione su quei 10 milioni. Quale? Nella relazione tecnica, di questi 10 milioni, già 6 milioni e mezzo sono stati destinati per gli sgravi fiscali alle imprese che assumono i detenuti, per i mediatori culturali e altre voci. Per il discorso sanitario, quindi, ne rimangono solamente tre. Capisce da solo che non bastano e il rischio che ho paventato è serio. Come lei sicuramente saprà, c’è l’azione non violenta del Partito Radicale, in particolare Rita Bernardini che è arrivata al 23esimo giorno dello sciopero della fame per chiedere l’approvazione della riforma. Non è d’accordo? Guardi, io sono vicinissima alla battaglia del Partito Radicale, del quale sono anche iscritta, e sostengo l’azione non violenta intrapresa dalla Bernardini. Quello che voglio è che la riforma venga approvata, ma con la volontà di applicarla per davvero, scongiurando i rischi che ho paventato. A questo aggiungo anche che il decreto sulla salute mentale non può essere disgiunto da quello relativo alle misure di sicurezza. Però sappiamo che tale decreto è stato lasciato nel cassetto. Riforma dell’Ordinamento penitenziario: tempi stretti, strettissimi! agenziaradicale.com, 14 febbraio 2018 Non bisogna farsi illusioni: in una campagna elettorale che tratta i grandi problemi di attualità di sfuggita o li ignorati del tutto, figuriamoci la fine che possono fare i temi della giustizia e delle carceri, che “forse vengono evocate solo con la famosa frase buttiamo va la chiave”. Ma è proprio per questo, e a maggior ragione, che i radicali non demordono, proseguendo la battaglia per un sistema che rispetti i diritti umani e della persona, come da Costituzione finora disattesa. Presso la sede del partito radicale è stato ieri fatto il punto della situazione, nel corso di una conferenza stampa, purtroppo disertata da un mondo dell’informazione evidentemente in perfetta sintonia con quello politico. Logica conseguenza, i lettori dei giornali questa mattina non hanno potuto nemmeno per caso apprendere dell’iniziativa nonviolenta che vede impegnata dal 20 gennaio Rita Bernardini nello sciopero della fame, con il coinvolgimento di migliaia di detenuti - circa 8.800 - che hanno scelto di partecipare al satyagraha per la definitiva approvazione dei decreti delegati riguardanti la riforma dell’ordinamento penitenziario. Lo storia ormai va avanti da tempo e già in occasione del giubileo dei carcerati, con la marcia per l’amnistia nel nome di Papa Francesco e Marco Pannella, il Partito radicale aveva “chiesto lo stralcio della riforma dell’ordinamento penitenziario da tutta la riforma del sistema penale proposta dal ministro Orlando, per evitare che le divisioni esistenti su intercettazioni telefoniche e prescrizione potessero influire sulla parte della legge che vedeva invece le forze politiche sostanzialmente d’accordo all’unanimità. I radicali avevano altresì messo in guardia più volte il ministro Orlando sul rischio elezioni, che avrebbe reso tutto più difficile in vista del via libera definitivo. E così è stato. Il consiglio dei ministri ha approvato solo il 22 dicembre scorso una prima parte della decreti delegati, riferita all’applicazione delle pene alternative. Con molto comodo le commissioni parlamentari hanno poi espresso il parere previsto non vincolante. In particolare, quella del Senato “sconvolge completamente l’impianto”, nella direzione di lasciar tutto sostanzialmente come prima. L’iter prevede ora la risposta del Governo, che può accogliere le osservazioni o - come i radicali auspicano - può procedere alle controdeduzioni, a cui le commissioni devono rispondere entro dieci giorni con le eventuali obiezioni. Dopodiché il Cdm potrà decidere di adottare liberamente il testo voluto. Visti i tempi stretti, la speranza di veder completato il tortuoso percorso legislativo è condizionato dalla convocazione entro questa settimana del primo Cdm necessario. Da qui l’appello di Rita Bernardini, che chiede al premier Gentiloni almeno di procedere con questo pezzo della riforma penitenziaria, fermo restando l’impegno di varare la parte residua non appena possibile. Ucpi. “Si approvi la riforma dell’ordinamento penitenziario” camerepenali.it, 14 febbraio 2018 L’Unione delle Camere Penali Italiane con il proprio Osservatorio Carcere chiede l’immediata approvazione del decreto sulla riforma dell’ordinamento penitenziario. Dopo i pareri espressi dalle Commissioni di Camera e Senato, il Governo può e deve prendere un’immediata decisione sullo schema di decreto elaborato dal Ministero della Giustizia, che non può essere che quella di emanare immediatamente il decreto. Le ragioni sono molteplici. Innanzitutto perché è necessario ottemperare all’obbligo imposto dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ormai 5 anni fa, che ha indotto il Parlamento a delegare il Governo alla realizzazione della riforma. Inoltre perché risulta evidente l’insuccesso di una politica esclusivamente carcerogena e carcerocentrica che, in violazione dei principi costituzionali, pone esclusivamente nella reclusione le aspettative securitarie della intera collettività. E perché, dopo un più o meno lungo periodo di privazione della libertà, senza l’adozione di alcuna misura alternativa volta al reinserimento, il condannato che riacquisterà la libertà, non avrà altra scelta se non quella di tornare a delinquere. Perché, infine, lo schema di decreto è fedele alla delega ricevuta dal Parlamento che rappresenta la sovranità popolare, pur mancando, allo stato, alcuni articolati importanti, come quelli relativi al lavoro e all’affettività, anch’essi già licenziati dalle Commissioni Ministeriali. Perché, ancora, l’attuale situazione delle carceri dovrebbe indurre ad una tempestiva inversione di rotta, in quanto il sovraffollamento continua ad aumentare e le condizioni di vivibilità a diminuire se non a precipitare del tutto in alcuni istituti, rendendo di fatto impossibile ogni forma di trattamento e di vera tutela della dignità del detenuto. Non da ultimo perché vi è un dovere verso coloro che sono reclusi, destinatari da anni di promesse di legalità e che, nonostante tutto, oggi contestano civilmente adottando la protesta non violenta dello sciopero della fame che ha visto, purtroppo, la censura della Suprema Corte di Cassazione. L’Ucpi pronta - come sempre - a far rispettare i diritti di tutti, in particolar modo degli “ultimi”, nel manifestare anche il suo sostegno a Rita Bernardini per la sua iniziativa, chiede l’immediata approvazione del decreto che rappresenta un primo passo verso una detenzione conforme ai principi costituzionali. La Giunta L’Osservatorio Carcere Ucpi Il recupero dei condannati? Più manager, meno carcere di Paola D’Amico Corriere della Sera, 14 febbraio 2018 Un progetto dell’associazione “Sesta Opera San Fedele” al fianco dell’Ufficio di esecuzione penale esterna. Volontari-tutor per “accompagnare” gli ex detenuti o chi deve scontare misure alternative alla reclusione. Al via i corsi di formazione per gli assistenti impegnati fuori dai penitenziari (oggi sono soltanto 150) egli anni trascorsi rinchiuso dietro le sbarre Gianni aveva perso, nell’ordine, il lavoro, la famiglia, la salute. Quel peso, quando è arrivato il momento a lungo agognato dell’affidamento in prova ai servizi sociali e con esso il ritorno a casa, era diventato insostenibile. La sua vita aveva deragliato. La speranza di un riscatto s’era affievolita. Finché non è arrivato Giorgio, il manager, il volontario che l’Uepe (l’Ufficio di esecuzione penale esterna) aveva individuato per lui. I due anni rimasti di pena da scontare sono volati. Da altrettanti Gianni è un uomo libero. Il legame di amicizia e fiducia nato tra l’ex detenuto e il volontario s’è rinforzato. Egli riavvolge il filo dei ricordi e racconta senza schermi dei sogni di gloria svaniti con la bancarotta della sua piccola azienda, fino alla condanna: “Non era mai accaduto nella mia famiglia. All’Uepe si accorsero subito che ero in mille pezzi. Mi chiesero se volevo un aiuto e arrivò Giorgio. Al primo incontro ero riluttante, sfiduciato, vedevo tutto buio. Ero oppresso da mille problemi. Anche i più piccoli erano montagne invalicabili. Giorgio è diventato un barlume. Veniva una volta alla settimana e io aspettavo quel giorno, riuscivo a parlare con qualcuno che mi ascoltava. Ricordare mi dà i brividi, ancora oggi”. Il tutor lo ha preso per mano, guidandolo nel ricostruire la trama di relazioni, nel riordinare le priorità. Tessendo una rete di sostegno, lo ha aiutato a rialzarsi quando cadeva. Ha portato in casa di Gianni gli oltre quarant’anni di esperienza come manager e i quindici di tempo e competenze spese per la “Sesta Opera San Fedele”, una delle più antiche associazioni di assistenza carceraria operanti in Italia. L’inizio è datato 1923, quando un gruppo di pionieri decise di dedicarsi ai reclusi di San Vittore, a Milano, ottemperando al precetto evangelico di visitare i carcerati. Nessuno allora avrebbe forse immaginato che l’iniziativa potesse avere uno sviluppo così duraturo. Fu un oggettivo motore di cambiamento. Guido Chiaretti, presidente dal 2005, spiega che “quando nel 1975 si disegnò l’ordinamento penitenziario furono inseriti nella legge due articoli (17 e 78) proposti dalla Sesta Opera, che hanno di fatto aperto le porte delle case di reclusione alla società civile”. Da allora sono sempre di più i volontari che entrano nelle carceri. Ma non basta. E Chiaretti aggiunge che è diventato cruciale avviare un nuovo percorso: far crescere cioè i volontari, perché siano in grado di “accompagnare i condannati invisibili” - è anche il titolo del libro dato alle stampe per fornire strumenti pratici nei corsi di formazione, cioè coloro per i quali sono disposte le misure alternative dirette a realizzare la funzione rieducativa della pena, quale prescritta dall’art. 27 della Costituzione (l’affidamento in prova ai servizi sociali, la semilibertà, la liberazione anticipata, la detenzione domiciliare). Ci sono effetti positivi che si misurano sul crollo delle recidive quando la pena si sconta fuori dal carcere. “Dal 2013, dopo la sentenza Torre-giani della Corte Europea e la condanna inflitta all’Italia per il sovraffollamento delle carceri - conclude Chiaretti - lo Stato Italiano sta puntando sistematicamente a favorire questo tipo di pena scontata sul territorio”. I numeri gli danno ragione. Nella sola Lombardia “ci sono 8.500 detenuti e fuori dal carcere 14 mila condannati. Questo è il trend del futuro, dobbiamo prepararci”. Ma c’è una grossa lacuna da recuperare, perché contro i 10 mila volontari che entrano nelle strutture di detenzione ce ne sono appena 150 che seguono i detenuti fuori. Quello delle misure alternative è un mondo straordinariamente complesso da osservare con la lente d’ingrandimento, “una realtà difficilissima, molto più complicata che in carcere”, precisa Giorgio il manager-tutor: “In carcere trovi la persona detenuta ma al tempo stesso protetta. A casa può ritrovarsi calata in un nucleo conflittuale o privo di risorse. Per ognuno, insieme all’assistente sociale dell’Uepe, si studia un progetto, si crea una rete di sostegno, vanno risolti problemi economici, di salute, di relazione”. Il ruolo del volontariato è quello di una cerniera per il ritorno al sociale. E risuonano le parole di papa Francesco, pronunciate per il Giubileo dei detenuti nel 2016: “Nessuno può vivere senza la certezza di trovare il perdono! Il ladro pentito, crocifisso insieme a Gesù, lo ha accompagnato in paradiso. Nessuno di voi, pertanto, si rinchiuda nel passato!”. Gianni annuisce: “Il riscatto è possibile, si può avere una seconda possibilità. Se hai vicino la persona giusta”. Dai pm notizie ai giornali prima che agli indiziati di Giulia Merlo Il Dubbio, 14 febbraio 2018 La denuncia della Camera Penale di Lucca sul caso doping nel ciclismo. Intercettazioni e video con il logo della Polizia di Stato fornite ai giornalisti e pubblicate sui siti locali in contemporanea con l’esecuzione di arresti e perquisizioni, che sono divenuti di dominio pubblico prima ancora della conferenza stampa (convocata dagli inquirenti) e addirittura prima che i diretti interessati potessero averne piena conoscenza. Inoltre sulla stampa ha trovato ampio risalto la notizia di una perquisizione avvenuta nello studio di un avvocato, che non ha subito alcuna misura cautelare. È successo a Lucca, nell’ambito di un’inchiesta sul doping nel ciclismo, e a denunciarlo è la Camera Penale della cittadina toscana con un atto formale: “Si assiste a una spettacolarizzazione della giustizia che integra una pratica tanto diffusa quanto illecita; il circo mediatico a cui siamo oramai tristemente avvezzi non solo comporta la violazione della privacy e della dignità di persone, non colpevoli fino a una sentenza irrevocabile di condanna, ma ancor di più si fonda su pratiche contrarie alle norme interne e sovranazionali”. L’indagine sull’utilizzo di sostanze dopanti da parte di giovani ciclisti, avviata dalla Procura di Lucca dopo la morte di un atleta ventunenne il maggio scorso, ha portato a sei misure di arresto domiciliare e all’iscrizione di 17 persone nel registro delle notizie di reato. Nella nota dei penalisti, tuttavia, è decisa la critica alle modalità di diffusione della notizia da parte dei titolari dell’indagine: “La notizia degli arresti e delle perquisizioni è stata pubblicata dalla stampa locale e nazionale ben prima della conferenza stampa convocata per le ore 11.00 del giorno stesso e quindi ancora prima che tutti i diretti interessati potessero averne piena conoscenza. È evidente come ai giornalisti sia stato fornito materiale nella sola disponibilità degli inquirenti (in particolare, la registrazione integrale di alcune intercettazioni oltre a un video che riporta il logo della Polizia di Stato), pubblicato in contemporanea con l’esecuzione delle misure”. La vicenda è stata stigmatizzata con forza dalla Camera Penale di Lucca, che ha sottolineato quanto l’accaduto violi la privacy dei cittadini, disattenda l’attuale normativa in materia di pubblicazione delle intercettazioni e, soprattutto, mini al principio della presunzione di non colpevolezza sino alla condanna definitiva. Nella delibera si legge un auspicio: “che la libertà di informazione, diritto incontestabile, venga sempre esercitata nel rispetto delle più elementari norme di civiltà, ancor prima di quelle penali”. Fatti gravi ma purtroppo non certo isolati: ultimo il caso dell’e-book completo di intercettazioni diffuso durante lo svolgimento del processo Aemilia, anche in quell’occasione denunciato dalla Camera Penale locale. Accanto alla denuncia pubblica, la Camera Penale di Lucca ha interessato dei fatti Unione delle Camere Penali, l’Osservatorio sull’Informazione Giudiziaria UCPI, i Presidenti delle Camere Penali della Toscana, il Consiglio Nazionale Forense e il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lucca, ma anche il Presidente del Tribunale e il Procuratore della Repubblica. Nella speranza che possa essere messo un freno alla pratica, almeno pro futuro. Riciclaggio, limitata l’esenzione da responsabilità di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 14 febbraio 2018 Corte di cassazione - Sentenza 6966/2018. La clausola di esclusione della responsabilità prevista dall’art. 648 bis del Codice penale sul reato di riciclaggio non opera nei confronti dell’aderente dell’associazione che ha il compito di ripulire e reimpiegare i proventi dei delitti scopo, alla cui realizzazione non abbia fornito alcun contributo. In questo caso può invece scattare il concorso tra i reati. Lo sottolinea la Corte di cassazione con la sentenza n. 6966 della seconda sezione penale depositata ieri. La Corte ha così confermato la lettura dei giudici di merito, secondo i quali l’imputato non ha avuto un ruolo nei reati fine dell’associazione, di natura tributaria, che rappresentano i delitti presupposto da cui derivano poi i proventi illeciti oggetto del sequestro che era stato impugnato. Non ha pesato nella valutazione dell’autorità giudiziaria una passata indagine per infedele dichiarazione, in anni comunque esclusi dal perimetro di applicazione della misura cautelare. Stalking nei confronti del quartiere se tutte le vittime sono individuate di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 14 febbraio 2018 Lo stalking nei confronti di un intero quartiere è giuridicamente possibile ma è necessario identificare le vittime e dimostrare gli effetti degli atti persecutori sulla loro psiche e sulle abitudini di vita. In assenza della prova scatta il reato di molestie previsto dall’articolo 660 del Codice penale. La Cassazione, con la sentenza 3271, annulla la condanna per stalking inflitta dai giudici di merito e rinvia al Tribunale per una nuova valutazione che tenga conto delle indicazioni fornite. Il tribunale non aveva avuto dubbi nel qualificare come una stalker la ricorrente, che in 5 anni aveva spedito a tutto il “comprensorio” centinaia di lettere dal contenuto minatorio e diffamatorio. Missive, rigorosamente settimanali, con le quali la donna minacciava gli abitanti, li insultava, metteva in piazza i loro affari privati, e, nel caso di una famiglia, irrideva la figlia affetta dalla sindrome di Down. Comportamenti che avevano indotto molti di loro a progettare di svendere la casa pur di sfuggire alle persecuzioni, che arrivavano puntuali ogni sette giorni. Secondo il Tribunale, al quale il procuratore generale si associa chiedendo il rigetto del ricorso, c’erano gli estremi del reato previsto dall’articolo 612-bis del Codice penale, perché le azioni della donna avevano indotto negli abitanti uno stato di ansia, alterando i rapporti all’interno della comunità. Né si poteva parlare, ad avviso dei giudici di merito, di incapacità di intendere e volere come sostenuto dalla difesa. La Suprema corte però, pur chiarendo che secondo la giurisprudenza di legittimità, la prospettazione dello stalking nei confronti di più persone è possibile, nega che si possa generalizzare. I giudici della quinta sezione penale, rinviano al Tribunale con la richiesta di individuare con precisione tutte le vittime e di verificare le condizioni di sussistenza dello stalking per ciascuno di loro: dall’ansia al cambio di abitudini. In assenza di questo il reato commesso dalla “grafomane” è quello di molestie. Ristorante abusivo, il sequestro preventivo resiste alla condanna di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 14 febbraio 2018 Corte di cassazione - Sentenza 13 febbraio 2018 n. 6940. Il ristorante abusivo realizzato dall’hotel per i propri clienti e sottoposto a sequestro preventivo non va restituito al proprietario dopo la condanna in primo grado se le esigenze cautelari non sono cessate. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza del 13 febbraio 2018 n. 6940, superando un precedente orientamento (n. 32714/2015) secondo cui invece quando il tribunale (con la sentenza di condanna) non dispone anche la confisca, il bene sequestrato va sempre restituito all’avente diritto. Il proprietario di un albergo di lusso a Forio d’Ischia aveva chiesto di rientrare in possesso del ristorante, una struttura di 154 mq in alluminio sottoposta a sequestro preventivo perché abusiva, da cui, stando al sito internet, si godevano “spettacolari scorci di Punta Imperatore e degli Scogli Innamorati”. Dopo il diniego del tribunale di Napoli, l’albergatore è ricorso in Cassazione. I giudici di legittimità però hanno chiarito che il legislatore ha fissato “l’immediata esecutività della restituzione del bene per le sole sentenze di proscioglimento”. Nel caso di condanna, invece, il sequestro va obbligatoriamente mantenuto quando è disposta la confisca. Da ciò però, prosegue la Corte, non può dedursi che quando la confisca non venga disposta il bene vada sempre restituito. In questi casi infatti resta comunque da valutare la permanenza delle esigenze cautelari. Dunque, nel caso in cui venga chiesta la revoca della misura, il giudice dovrà adeguatamente motivare il rifiuto. E così ha fatto, sempre per la Cassazione, il tribunale di merito. Per il giudice di primo grado, infatti, per un verso, “sussiste un sicuro aggravio del carico urbanistico”, dal momento che le opere sono state realizzate “all’interno di una struttura ricettiva che ospita numerosi turisti ed essendo i beni destinati a sala ristorante”; per l’altro, “le opere abusive sono state effettuate in zona paesaggisticamente vincolata, da cui l’attualità del pericolo per l’ambiente, conclamato dal fatto che le strutture realizzate erano visibili nel contesto ambientale di riferimento”. I giudici hanno dunque affermato il principio di diritto per cui “con la sentenza di condanna non definitiva il bene sequestrato per esigenze cautelari può essere restituito solo se alla data della pronuncia della sentenza di condanna non definitiva siano venute meno le esigenze cautelari, altrimenti il vincolo deve essere mantenuto fino alla sentenza definitiva in quanto la cessazione della permanenza non fa venir meno di per sé il pericolo che possa essere reiterato l’abuso edilizio, giacché il sequestro cautelare può essere disposto non solo per evitare l’aggravamento del medesimo reato ma anche l’agevolazione di altri reati anche se della stessa specie”. Pertanto, conclude la Corte, “la cessazione della permanenza con la sentenza di primo grado non costituisce elemento di per sé idoneo a fare ritenere cessate le esigente cautelari rispetto alle quali, se richiesta la revoca, il giudice deve valutare la persistenza del c.d. aggravio del carica urbanistico”. Salerno: detenuta muore in cella. Un anno ancora, poi sarebbe stata libera di Gaetano de Stefano Il Centro, 14 febbraio 2018 La 65enne è stata trovata senza vita a Fuorni: inutili i tentativi di rianimarla. E il Sappe denuncia il sistema sanitario carcerario e la carenza di organici. Avrebbe finito di scontare la sua pena tra un anno. Ancora qualche mese di reclusione e, poi, A.C., 65enne originaria di Napoli, nel 2019 sarebbe uscita dal carcere. La detenuta, però, non ha potuto riassaporare la libertà. Un improvviso malore, nella notte tra lunedì e martedì, le è stato fatale. A rendersi conto della tragedia è stato il personale in servizio nella Casa circondariale di Fuorni, durante un giro di controllo. “Neppure le due compagne di cella - spiega Emilio Fattorello, segretario nazionale Sappe della Campania - si sono accorte di nulla”. Inutili i tentativi di rianimarla, da parte del medico di turno nel penitenziario, “che ha riscontrato - evidenzia Fattorello - un arresto cardiocircolatorio”. A certificare il decesso è stato pur il medico legale, su disposizione del pm di turno. “La morte in carcere - sottolinea Fattorello - è sempre un evento drammatico che lascia un profondo senso di disagio e inquietudine in tutti. E ogni volta si apre il dibattito sulla necessità e reale opportunità di tenere una persona in galera, come in questo caso. L’universo penitenziario gira attorno all’essere umano, sia esso detenuto che poliziotto penitenziario, per cui la morte è una sconfitta per tutti”. Sott’accusa è il sistema sanitario carcerario: “La situazione nelle carceri - rimarca Donato Capece, segretario generale del Sappe - resta allarmante. Nel 2016, nei 190 istituti penitenziari italiani sono transitati oltre 100mila detenuti e, dall’indagine della Società italiana di medicina penitenziaria, è emerso chiaramente che solamente un detenuto su 3 non è malato, mentre la metà è inconsapevole della patologia di cui è affetto. I dati più allarmanti riguardano le malattie infettive: secondo quanto stimato, infatti, i detenuti con l’Hiv sono circa 5mila, i portatori attivi del virus dell’epatite B si aggirano intorno ai 6mila 500, mentre tra i 25mila e i 35mila sono i detenuti affetti da epatite C. Per quanto gli stranieri (circa il 34% della popolazione carceraria italiana) oltre la metà è portatrice latente di tubercolosi”. Capece punta il dito pure contro la vigilanza dinamica, in vigore anche nel carcere salernitano: “Sono in aumento gli eventi critici - puntualizza - da quando vi sono vigilanza dinamica e regime aperto, ossia la possibilità per i detenuti, per più ore al giorno, di girare liberi per le Sezioni detentive con controlli sporadici ed occasionali. Oggi abbiamo in cella 58.087 detenuti per circa 45mila posti letto: 55.646 sono gli uomini, 2.441 donne. Gli stranieri sono 19.818. E, inoltre, mancano gli agenti di Polizia penitenziaria”. Milano: Don Rigoldi “il carcere minorile Beccaria nel caos, il governo intervenga” di Zita Dazzi La Repubblica, 14 febbraio 2018 “La situazione al Beccaria è arrivata al limite. Siamo al collasso. O interviene qualcuno e prende delle decisioni, oppure si potrebbe anche chiudere, lo dico paradossalmente. Tanto così non si può più andare avanti”. A lanciare il grido di allarme è don Gino Rigoldi, cappellano del carcere minorile di via dei Calchi Taeggi, dopo l’ennesima rivolta, sabato sera, che è sfociata in un danneggiamento degli arredi dell’istituto, con una guardia ferita al volto e diversi altri coinvolti nella colluttazione per sedare la rivolta. Don Rigoldi lei ha lanciato diverse altre volte l’allarme, ma pare che le sue parole cadano nel vuoto. “Adesso siamo arrivati a un punto di rottura, io sono pronto ad azioni di protesta clamorose se non mi ascolteranno”. Ma chi la deve ascoltare? “Ho chiamato Roma e aspettiamo l’ispezione da parte del direttore generale del ministero. E durante questa visita parleremo di tutto, innanzitutto del fatto che si deve risolvere una volta per tutte la questione della direzione dell’istituto, che non può più restare affidato a una reggente. Perché questo non permette di mettere mano al caos attuale, con rischi gravi per tutti quelli che vivono e lavorano al Beccaria”. Ma lei ha in mente qualche soluzione? “Io ho proposto due nomi, le due vicedirettrici attuali dei penitenziari di Bollate, Cosima Buccoliero, e di San Vittore, Teresa Mazzotta. Ho parlato anche con le due dirigenti ed entrambe sarebbero ben disposte ad assumere un incarico al Beccaria, mettendo fine a quest’interregno che sta degenerando nel caos. Se il ministero non può per questioni burocratiche nominare subito il direttore, dovrebbe distaccare almeno una delle due”. Ma al di là del tema direttore, al Beccaria le risse e le rivolte ormai sono all’ordine del giorno. Come si può fare? “C’è un problema serio per quel che riguarda le guardie. Il personale di polizia penitenziaria è troppo giovane, gli agenti non hanno la sufficiente esperienza per gestire quella situazione, non hanno la tenuta emotiva. Servirebbero uomini più strutturati. Per questo chiedo una delle due vicedirettrici che sono abituate a gestire carceri da oltre mille detenuti. Loro sono in grado di gestire una struttura con 30 ragazzi”. Ma non è che questi che lei chiama “ragazzi” siano particolarmente ingestibili, scalmanati, visto che creano tanti problemi? “Assolutamente no. Sono i soliti ragazzi che arrivano al Beccaria e che sono sempre arrivati. Non c’è nessuno che presenti aspetti di particolare pericolosità”. E come si fa a gestire questi giovani così agitati? “C’è bisogno di autorevolezza. Oggi questo manca e non servono grandi eventi per far esplodere il “cinema”, com’è successo l’altra sera. Servirebbe solo un po’ di senso pedagogico per far tornare la calma”. Quindi che cosa chiederà al direttore del ministero? “Di completare il rifacimento dell’istituto. Hanno sistemato un quarto della struttura - e anche lì ci sono vari problemi - ma i restanti tre quarti sono un letamaio. E possiamo avere solo 30 ragazzi, quando servirebbero 60 posti. Il che significa che i minori arrestati a Milano vengono spediti in giro per l’Italia da mesi. Un problema”. E poi? “Bisogna alzare il muro di recinzione del cortile perché dall’esterno tirano dentro il fumo per gli amici reclusi. Questo fa sì che non si possano portare fuori i ragazzi in cortile, per evitare che raccolgano la droga. Questo esaspera gli animi. Ma per le condizioni attuali del muro di cinta non si possono nemmeno alzare le reti: ci vuole un intervento strutturale rapido”. Insomma, un carcere che è un colabrodo, nonostante i lavori appena fatti. “La gran parte dell’edificio versa ancora in condizioni tremende e questa scomodità, questi problemi di vivibilità degli spazi, incidono sulla qualità della vita dei ragazzi e quindi anche sulla possibilità di lavorare con loro, come dovrebbe essere, visto che questo è tecnicamente un istituto di prevenzione, oltre che di pena. Così non si può andare avanti”. La ascolteranno questa volta o rimarrà il solito grido nel deserto? “Devono ascoltarmi, così non si può più andare avanti. Altrimenti lo dicano, che è meglio chiudere e lasciare perdere: Abbiano il coraggio di farlo”. Cuneo: carcere e società, un confronto pubblico in Casa Delfino cuneocronaca.it, 14 febbraio 2018 Giovedì 15 febbraio, alle 21, presso la Fondazione Casa Delfino di corso Nizza 2 a Cuneo si terrà una serata pubblica di confronto sul tema del carcere dal titolo “Carcere, come cambiare?”. La serata, ad ingresso libero, è organizzata da “Potere al popolo” in collaborazione con l’associazione Cipec - Centro di iniziativa politica e culturale di Cuneo. Un tema poco affrontato in campagna elettorale, ma che vede l’Italia maglia nera in Europa per il problema del sovraffollamento e delle pessime condizioni degli istituti penitenziari. Parlare di ergastolo e 41 bis è spesso un tabù, ma la domanda se siano compatibili con l’articolo 27 della Costituzione è sempre più legittima e attuale. Lo scopo della serata è quello di creare un confronto tra la politica e chi si occupa quotidianamente di queste tematiche: domandarsi se sia possibile un dialogo tra il dentro e il fuori, tra il carcere e la società. L’incontro vedrà le testimonianze di: Emanuela Savio e il fotografo Davide Dutto, autori del libro “Evasioni”, nato da un progetto del 2012 da 3 laboratori di scrittura creativa, coinvolgendo circa 50 detenuti tra Media Sicurezza e Alta Sicurezza. Il libro raccoglie racconti e fotografie: una raccolta di storie da ascoltare e osservare per riflettere su un tema come il carcere, una realtà scomoda, difficile ma sempre di grande attualità; Andrea Bertola, mastro birraio che per otto anni ha lavorato al progetto unico in Italia di un micro-birrificio artigianale nel carcere di Saluzzo; Anna Cattaneo, candidata capolista alla Camera per Potere al popolo nel collegio proporzionale di Cuneo, Asti, Alessandria, impegnata da tempo in progetti di cooperazione e dialogo interculturale che hanno coinvolto anche il carcere di Cuneo. L'Aquila: vita dietro le sbarre tra speranza e riscatto Il Centro, 14 febbraio 2018 Gli studenti a contatto con la realtà del carcere, dal tema del sovraffollamento al recupero dei detenuti. “Dopo la pena... la vita”. Il Liceo Cotugno riflette sui diritti inviolabili degli uomini e delle donne. “Non fatemi vedere i vostri palazzi, ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione”: è citando Voltaire che i ragazzi della 3ªC e 3ªD del Liceo Classico presentano il progetto di alternanza scuola-lavoro “Dopo la pena... la vita”, che vede coinvolte anche le classi 4ªB e 4ªC del Liceo delle Scienze Umane. L’attività, attualmente nella prima fase della sua realizzazione, è organizzata in collaborazione con la Camera Penale dell’Aquila, con il Centro Antiviolenza per le donne dell’Aquila e con la testata il Capoluogo.it. Il percorso ha lo scopo di affrontare le problematiche legate alle diverse funzioni, punitiva e riabilitativa, della sanzione penale e sensibilizzare su vari temi: la vita nel carcere, i princìpi costituzionali di uguaglianza, il diritto alla difesa e la presunzione d’innocenza. Si concluderà con la pubblicazione di reportage. Abbiamo incontrato alcuni degli studenti partecipanti, Arianna D’Archivio, Giulia Giusti, Francesca Laurenzi, Luigi Colagrande, Dario De Viti e Andreea Badescu, che con estrema chiarezza hanno delineato un argomento tanto delicato quanto complesso. Quali sono, attualmente, i principali problemi della condizione carceraria? “I problemi sono tanti, la radice è comune: il sovraffollamento. L’eccessivo numero di detenuti non è obbligatoriamente indice di un’elevata criminalità, ma di una burocrazia lenta; si registra un numero enorme di processi penali pendenti in cui, purtroppo, si ritrovano coinvolti anche innocenti”. Come si può sintetizzare la condizione attuale delle carceri italiane? “È una condizione in molti casi disumana: dodici in una cella da quattro, stanze buie, condizioni igieniche intollerabili. Può essere questo l’ambiente di rieducazione per i carcerati? Non è trascurando la dignità del singolo che si può sperare in un suo futuro reinserimento nella società. Determinante per la riabilitazione è, inoltre, il supporto psicologico che non può essere garantito dal personale specializzato, insufficiente a fornire sostegno adeguato a ciascun detenuto. A mancare sono anche, nella maggior parte dei casi, momenti per le attività ricreative, un “lusso” concesso solo dalle carceri migliori. È la somma di questi diversi fattori, con le conseguenti ripercussioni a livello psicofisico sui condannati, che fa crescere in maniera pericolosamente vertiginosa il tasso di suicidi”. Quali potrebbero essere i rimedi? “Occorrerebbe richiamare l’attenzione non solo delle istituzioni, ma della società tutta sulla questione carceraria. Sembra strano, ma a rendere ancora più difficile il percorso del carcerato è l’opinione pubblica che vede le carceri esclusivamente come luogo punitivo, senza pensare alla possibilità per l’ex detenuto di riprendere in mano la propria vita”. Si potrebbe pensare alle carceri luogo di formazione? “Le ore di formazione professionale permetterebbero al singolo di vivere il periodo di detenzione con umanità e dandogli un senso, anche con l’acquisizione di competenze o titoli di studio da utilizzare nella nuova vita fuori dalle sbarre”. I ragazzi si sono entusiasmati al progetto già dal primo confronto con i rappresentanti degli enti coinvolti e sono ansiosi di scoprire di più sull’argomento. La sensibilizzazione deve partire dai giovani, nonostante questo problema sia all’apparenza lontano. Quale luogo migliore della scuola per iniziare a guardare con occhi diversi e più consapevoli questa realtà? Roma: carcere senza sbarre, la scuola contro i pregiudizi Il Dubbio, 14 febbraio 2018 L’iniziativa dei i ragazzi del Liceo Carducci di Roma per abbattere gli stereotipi sociali sulla figura del detenuto. Il clima giustizialista che avvolge il Paese non sembra lasciare spazio ad un pensiero garantista. Più si accende la campagna elettorale più vengono sfornate ricette securitarie. Costruzione di nuovi carceri, fondi per le forze dell’ordine, assunzioni di altri poliziotti. In tutto questo c’è lo spazio per una visione differente della società? Forse si ma bisogna cercarlo. Allora, magari, si trovano un liceo e un progetto in controtendenza. Stefano, Arianna, Ludovica, Paola, Francesca, Giorgia, sono solo alcuni dei nomi dei ragazzi del liceo Giosuè Carducci di Roma che hanno lavorato con passione a “Carceri senza sbarre”. Un progetto realizzato in collaborazione con l’associazione Rising - Pari in genere. L’intento non era semplice: quello di eliminare i pregiudizi sugli ex detenuti e sensibilizzare i cittadini sulle loro condizioni sfatando i luoghi comuni sulla popolazione carceraria. I risultati di questo impegno sono stati presentati al pubblico il 7 febbraio. La professoressa Barbara Festuccia, che ha coordinato l’iniziativa, spiega come “i ragazzi avevano già un’idea abbastanza punitiva del carcere quindi all’inizio erano anche un po’ restii, non erano entusiasti”. Poi però “sono rimasti colpiti dalle storie dei detenuti, dai rapporti con i loro parenti”. L’aspetto umano ha contribuito a prendere coscienza che esistono possibilità alternative al carcere e che proprio l’isolamento delle persone contribuisce ad aumentare molto il tasso di recidiva, il ricadere di nuovo nel reato. Una realtà messa in evidenza anche dal Garante per i detenuti della Regione Lazio, Stefano Anastasia: “Il fatto che ci siano decine di ragazzi che discutono di questi temi, discutono della necessità di superare i pregiudizi a partire dai luoghi nei quali si manifestano, credo sia un segno di speranza per la nostra società”. “Il clima nel paese è incentrato anche sul disprezzo delle persone - continua Anastasia, non dobbiamo dimenticare quello che è successo pochi giorni fa a Macerata. Invece le misure alternative al carcere sono una scommessa sulla possibilità di reinserimento e quindi prospettano una soluzione completamente differente”. Alla fine, come dicono i ragazzi, è stato incrinato quel muro mentale che “tende a chiudere le persone dietro il carcere perché la società non li vuole vedere”. Milano: “InGalera”, il ristorante del carcere più stellato d’Italia di Chiara Marando salaecucina.it, 14 febbraio 2018 Non sempre il termine “cibo da galera” ha un’accezione negativa, c’è un caso in cui rappresenta qualcosa di completamente diverso. Un caso in cui la particolarità della situazione va a braccetto con la bontà dell’idea in modo direttamente proporzionale. Aperto da ottobre 2015, il ristorante InGalera riserva un’esperienza unica e inaspettata. Situato all’interno del carcere di Bollate, è nato dalla volontà di portare avanti un progetto di integrazione e inclusione sociale rivolto ai detenuti, dare loro la possibilità di apprendere la cultura del lavoro. Ecco, oggi questa realtà è riuscita ad abbattere, almeno in parte, i pregiudizi legati alla capacità dei pregiudicati di sapersi riscattare. La brigata, composta da carcerati, è seguita da uno chef e da un maître professionisti che dirigono la cucina e danno l’impronta che contraddistingue il ristorante, quella di una scelta culinaria curata e raffinata. Non a caso, “InGalera” viene definito “Il ristorante del carcere più stellato d’Italia” e, sempre non a caso, i piatti del menù sono stati più che promossi da uno chef del calibro di Carlo Cracco. Proposte di terra e di mare che raccontano, con semplicità ed eleganza creativa, ingredienti accuratamente scelti e lavorati con maestria. Perché i detenuti, che qui si destreggiano come camerieri, aiuto cuochi e lavapiatti, secondo quanto dettato dall’articolo 21 che permette di svolgere attività controllate al di fuori delle mura della prigione, vengono istruiti e formati attraverso corsi di cucina e gestione della sala. Ogni aspetto è curato nei dettagli e anche la location, minimale ma accogliente, risulta piacevole e in linea con la filosofia del progetto: guardare la sostanza delle cose e ciò che trasmettono. C’è un richiamo alla grande cucina d’autore con il Risotto alla barbabietola e crescenza di capra, ma anche la volontà di preparare ricette che fondono consistenze, materie prime e profumi in modo differente, come nel caso della Sfoglia alle rose con gallinella e menta piperita, oppure della Ricciola con spuma alla curcuma. Un totale di 50 coperti e due versioni di menù: una per il pranzo, il Quick Lunch a prezzo fisso, ed una più elaborata per la cena, dedicata ad un tempo più lungo, dove si sceglie alla carta. Buona la selezione delle etichette. Il progetto è l’evoluzione di un’iniziativa che coinvolge da anni il carcere di Bollate e viene portata avanti dalla cooperativa sociale Abc. In un primo momento ha preso vita con il servizio di catering nel 2004, poi è stata la volta della scuola, grazie all’aiuto dell’Istituto Alberghiero Paolo Frisi. Infine, nel 2015, ecco il ristorante. E oggi InGalera ha raggiunto una sua solidità, cresce e si trasforma grazie alla costante passione che spinge chi lavora in prima persona in cucina, ma anche chi si occupa di organizzare e gestire questo ambizioso progetto. Milano: il 26 e 27 febbraio concert-show “L’amore vincerà” con i detenuti di Opera agensir.it, 14 febbraio 2018 Saranno i detenuti del circuito alta sicurezza della Casa di reclusione di Milano Opera i protagonisti concert-show “L’amore vincerà” che sarà messo in scena il 26 e 27 febbraio. Ad ospitarlo l’evento “per la pace nel mondo” sarà proprio la Casa di reclusione di Milano Opera, in via Camporgnago 40. Per accedere allo spettacolo è obbligatoria la prenotazione, da effettuarsi attraverso il sito www.edvprenotazioni.it. Il progetto, sostenuto dal ministero della Giustizia-Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e organizzato dall’associazione culturale Eventi di valore, ha una finalità rieducativa e coinvolge detenuti a fianco di professionisti del mondo dello spettacolo. Migranti. I numeri degli sbarchi che non tornano di Gianandrea Gaiani Il Mattino, 14 febbraio 2018 La polemica suscitata dai dati diffusa dall’agenzia europea delle frontiere, Frontex, circa i flussi migratori illegali in Italia nei primi 40 giorni dell’anno risente inevitabilmente del dibattito elettorale, già molto “caldo” proprio su questi temi. I 4.800 clandestini sbarcati in gennaio dal Nord Africa (per lo più salpati dalla Libia e in misura minore dalla Tunisia) sono il doppio di quelli sbarcati in dicembre, “quando le attività dei trafficanti erano state colpite dai combattimenti vicini alle aree di partenza e dal cattivo tempo”, riferisce Frontex. Il numero rappresenta un incremento rispetto ai 4.467 arrivi del gennaio 2017 registrato dal Viminale che però aveva registrato “solo” 4.081 sbarchi nel gennaio scorso dichiarando un meno 8,6 per cento rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Al di là di alcune differenze, anche rilevanti, tra i dati diffusi dal Viminale e da Frontex è chiaro che a seconda di quali dati si prendano in esame il bicchiere può essere visto mezzo pieno o mezzo vuoto. Tra i dati incoraggianti va rilevato che nel 2017 sono arrivati in Italia il 34% in meno di immigrati illegali, 120mila contro 181mila, oppure che nei primi 12 giorni di febbraio ne sono sbarcati appena 320, cioè il 95% in confronto al totale dei primi dodici giorni del febbraio 2017. Tutto bene quindi? No di certo poiché 120mila in un anno restano davvero troppi anche se non va dimenticato che la “politica di contenimento” del governo italiano con gli accordi con il governo libico sono stati applicati solo a partire da luglio, non caso il mese successivo alla batosta elettorale subita dai partiti della maggioranza alle elezioni amministrative. A influire sul numero di sbarchi, specie se si prendono in esame periodi limitati, contribuiscono le condizioni meteo che possono incoraggiare o meno la partenza dei barconi e l’efficienza della Guardia costiera libica, che con i mezzi limitati di cui dispone non può intercettare tutti i gommoni e barconi in partenza. Nulla di nuovo invece, a quanto emerge dal rapporto, dalle aree di partenza lungo la costa libica in cui li porto più utilizzato resta quello di Zuara, già da molto tempo hub prioritario dei trafficanti della Tripolitania. Il problema non è quindi legato tanto ai numeri quanto alle decisioni che vengono assunte da Italia ed Europa per cercare di bloccare definitivamente i flussi illegali. Le opzioni ci sono e più volte sono state evidenziate anche su Il Mattino. Sarebbe sufficiente che anche le navi militari italiane ed europee come le navi delle Ong provvedessero a riportare in Libia (o in Tunisia da dove crescono di mese in mese i flussi) gli immigrati illegali soccorsi in mare. Respingimenti assistiti che salverebbero molte vite e bloccherebbero ogni accesso all’Italia garantendo ai migranti il rimpatrio che dalla Libia viene assicurato dalle agenzie dell’Onu. Nessuno rischierebbe più la vita né i propri soldi per un viaggio che offrirebbe come unica certezza il ritorno a casa. Una strategia già utilizzata con successo, su spazi marittimi ben più ampi, dall’Australia con la campagna “No way” e l’operazione militare “Sovereign Borders”. Italia e Ue continuano invece a mandare messaggi ambigui: i migranti soccorsi dalle motovedette libiche tornano indietro e vengono rimpatriati, chi riesce a raggiungere le navi europee viene portato invece in Italia. E certo non aiutano le dichiarazioni del presidente del consiglio Paolo Gentiloni che non perde occasione per dichiarare pubblicamente che l’Italia non chiuderà i porti ai migranti e che fermare i flussi è impossibile. Boldrini-Salvini, match in tv. “Quanto odio sui migranti” di Alessandra Longo La Repubblica, 14 febbraio 2018 Stretta di mano e ironie nel primo scontro tra i due avversari. Lui fa ammenda sulla bambola gonfiabile ma attacca: “Razzista con gli italiani”. Lei: “Carriera costruita sui profughi”. Lui ha seguito i consigli della nonna (“Sorridi sempre”), lei si è preparata al confronto come per una campagna militare in Kosovo. Per la prima volta Matteo Salvini e Laura Boldrini si incontrano fisicamente nello studio televisivo di Lilli Gruber. Lei arriva prima, lui in ritardo. Si stringono la mano. Bon ton della presidente, oggi candidata Leu: “Non si fanno aspettare le signore”. Il primo match della coppia e il primo duello televisivo di questa pessima campagna elettorale. Com’è andata? “È andata bene, io parlo con tutti”, dice la Boldrini. “L’ho trovata affascinante”, ironizza Salvini. In realtà, dietro i sorrisi da salotto, botte da orbi con mazza felpata. Si parla di migranti, i due sono preparati. Salvini esibisce i dati su “quello che ci costano gli stranieri”, sui 700 reati al giorno che commettono, sui 1500 stupri che li vedono protagonisti: “Boldrini, lei è incapace e razzista, danneggia gli italiani, favorisce l’immigrazione fuori controllo, i tanti delinquenti, compromettendo quella regolare”. Boldrini, al collo una sciarpa anti-violenza, è soave, risposta non buonista: “I delinquenti e gli spacciatori non sono amici miei. E comunque per me chi non ha il permesso di soggiorno regolare deve andarsene. Ma vorrei capire, caro Salvini, come li manda via”. Lui la fa semplice: “Quando sarò al governo, tra 15 giorni, si va a rifare gli accordi. Alla Tunisia, alla Nigeria, dico: “Noi vi diamo i soldi, voi vi riprendete i delinquenti”. Non funziona così. Scuote la testa Boldrini, l’alunno non ha studiato. “Cosa ne fa, Salvini, di tutti quelli che non hanno documenti o che vengono da Paesi con i quali non abbiamo accordi bilaterali? Li mette in un’isola in mezzo al mare?”. Poi la presidente tira fuori il cartello con l’hashtag “Parole, parole, parole”. Ne ha anche altri due, di hashtag, che userà in altri momenti della trasmissione: “Riserve boldriniane” (frase beffarda entrata nel repertorio leghista, ndr) e “Donne, non bambole gonfiabili”. Lui sorride. Colpa della Bossi/Fini, colpa del centrodestra che si è inventato il reato di clandestinità facendo “un flop totale”, colpa delle due sanatorie per un milione di persone che avete fatto voi. Salvini la lascia fare, aria di sufficienza (del confronto dirà poi: “È inizio Quaresima, dovevo fare penitenza”). Per lui è stata la peggior presidente della Camera, lo conferma: “Non avete fatto niente per i disoccupati, per i precari, per i pensionati”. Boldrini se la cava così: “Io non sono mai stata in maggioranza e non rispondo delle politiche del governo. Sono una figura terza. Lei non conosce l’Abc istituzionale”. Va bene il bon ton ma lei non può dimenticare la “campagna di odio” di cui è stata fatta oggetto: “Matteo Salvini mi ha buttato addosso un fiume di odio, un’onda terribile verso me e la mia famiglia. Lo ringrazio perché, per questo motivo, sto ricevendo affetto, solidarietà e sottoscrizioni per la mia campagna elettorale”. Lilli Gruber gli ricorda l’episodio della bambola gonfiabile. Salvini la esibì ad un comizio definendola “una sosia della Boldrini”. Pentito? “Mi dolgo e mi pento in occasione del mercoledì delle Ceneri, mi cospargo anche il capo”. Si parla di Macerata. Gruber è affilata: “Presidente lei ritiene che sia colpa di Salvini se il leghista Traini ha preso la pistola e sparato? Boldrini rivela di aver parlato con la mamma di Pamela “che vuole giustizia e non vendetta”. E attacca Salvini: “Come mai non si è accorto di lui?. Ho visto foto in cui vi davate il cinque”. Non faccio lo psichiatra, è la risposta tranchant. La trasmissione scorre verso la fine e Boldrini fa l’appello spiazzante all’avversario: “Si liberi dall’ossessione dei migranti, anche se sono le sue galline d’oro, si occupi più degli italiani! Io vorrei parlare d’altro, della denatalità, del lavoro”. Come nei quiz, Salvini ha la busta pronta: “Queste sono le carte di una ragazza di 40 anni, cieca, che l’Inps vorrebbe mandare in pensione nel 2047”. Scorrono i titoli. Salvini cosa augura alla Boldrini? “Di raccogliere quello che ha seminato con le sue battaglie”. Staff di Boldrini soddisfatto: “Lui ci sembrava intimidito”. Salvini, liberato, spara la prima cattiveria: “Capisco perché Boldrini non si candida nelle Marche. Vi saluto. Vado a casa, della mia fidanzata, a vedermi L’isola dei famosi e Juve-Tottenham. Non c’è serata migliore”. Droghe. Francia e Norvegia, prove di depenalizzazione di Giorgio Bignami Il Manifesto, 14 febbraio 2018 Dopo i sostanziali cambiamenti nelle politiche delle droghe, e non solo di quelle riguardanti la cannabis, in alcuni Paesi come l’Uruguay, in diversi Stati degli Usa e recentemente in Canada, alcuni segni di cedimento si cominciano a vedere anche nelle roccaforti del proibizionismo e della repressione. Un chiaro esempio di presa di distanza dalla posizione storicamente compatta dei paesi scandinavi è il voto a larghissima maggioranza del parlamento norvegese - cioè di un Paese con un altissimo tasso di mortalità da droghe - con il quale si chiede al governo di cambiare strada, aprendo alla depenalizzazione del possesso e dell’uso personale di droga. Ovviamente siamo ben lontani da una legalizzazione anche della sola cannabis, mentre le dichiarazioni del vicepresidente della suddetta commissione chiaramente indicano l’intenzione di trattare i consumatori di droghe come dei malati: un passaggio dalla repressione alla medicalizzazione che desta non poche perplessità. Un altro esempio significativo riguarda la Francia, dove le pene per possesso e uso personale di droga sono particolarmente severe e dove la polizia è spesso accusata di discriminazioni che penalizzano i soggetti delle classi sfavorite e in particolare quelli di colore. Il governo, attraverso la Commissione Giustizia dell’Assemblea Nazionale, ha commissionato a due parlamentari uno studio delle politiche francesi per le droghe, con l’obiettivo di alleviare il carico eccessivo causato da tali politiche sul sistema penale francese. Il primo, del partito al governo di Macron, si è già pronunciato a favore di una ammenda fissa tra 150 e 200 euro per l’uso personale e possesso di droga, tuttavia col passaggio del caso alla giustizia penale in caso di mancato pagamento entro una data scadenza. Il secondo, del partito repubblicano di opposizione di centro-destra, si è invece pronunciato a favore di una depenalizzazione tout court, con ammende di ammontare crescente nelle successive “ricadute” del soggetto, ma mai col rinvio del medesimo al giudice penale. Anche qui siamo ben lontani da una ipotesi di legalizzazione; ma dato che la legge francese non fa distinzione tra cannabis e altre sostanze la seconda proposta comporterebbe una depenalizzazione del possesso e dell’uso personale di tutte le droghe. Anche qui non sono mancate le critiche: a parte il fatto che lo scopo dell’iniziativa è quello di alleggerire il carico della giustizia penale, e non di alleviare i danni provocati dalla penalizzazione degli utilizzatori di droghe, soprattutto la proposta del parlamentare governativo rischia di perpetuare la discriminazione nel sistema della giustizia penale; cioè le stesse persone seguiterebbero a essere arrestate e perseguitate per possesso e uso di droga, particolarmente i giovani dei quartieri impoveriti, con conseguente rinfocolamento delle tensioni tra tali popolazioni e le forze dell’ordine. Infine merita la massima attenzione lo scontro che si è aperto negli Usa con la dichiarazione di guerra del governo federale non solo agli Stati che hanno legalizzato la cannabis ricreativa ma anche a quelli più numerosi che sinora si sono limitati ad autorizzarne l’uso terapeutico. La Casa Bianca resta cioè la principale roccaforte proibizionista: e questo, in barba alle molte analisi che hanno documentato le ricadute positive della legalizzazione, sino a quella minuziosa della Drug Policy Alliance. L’esito di tale scontro avrà importanti ricadute al livello internazionale e sui molti “sospesi” che attendono la nostra prossima legislatura. Famiglia Regeni: “Il rientro dell’ambasciatore in Egitto è stato un fallimento” di Chiara Cruciati Il Manifesto, 14 febbraio 2018 Caso Regeni. A sei mesi dall’annuncio ufficiale e da cinque dall’invio di Cantini in Egitto, non ci sono passi avanti. La famiglia chiede un’immediata inversione di rotta perché il ritorno al Cairo “non abbia il sapore di una resa”. Sei mesi fa l’annuncio del rientro dell’ambasciatore italiano al Cairo, cinque mesi fa l’insediamento ufficiale. Ma di novità sul caso Regeni non ce ne sono state, se non la consegna lo scorso dicembre alla famiglia di Giulio dell’incartamento della procura egiziana. Ed è proprio la famiglia, in occasione del 14 febbraio e della scorta mediatica che cade ogni 14 del mese da agosto, a parlare chiaramente di “fallimento”: la missione di Giampaolo Cantini, scrivono in una nota i genitori, “doveva consentire il raggiungimento della verità processuale su tutto il male del mondo inferto su nostro figlio”. “Crediamo sia necessario un immediato cambio di rotta, pretendere senza ulteriori indugi un incontro tra le due procure finalizzato all’immediata consegna dei video della metropolitana”, quelle registrazioni delle telecamere di sicurezza che a ferragosto la Farnesina aveva spacciato come la condizione per il ritorno dell’ambasciatore in Egitto. Così non è stato, due anni dopo dei video non c’è traccia né esiste un’intesa su chi dovrebbe recuperare le immagini: i video non sono mai stati consegnati, nonostante la promessa egiziana ribadita il 14 agosto dalla procura generale, né si hanno dettagli sulla ditta che dovrebbe provvedere al loro recupero. A ciò si aggiunge l’ennesimo ostacolo posto dal Cairo, ovvero l’assenza di reazioni “sull’informativa italiana che ricostruisce le precise responsabilità di nove funzionari di pubblica sicurezza egiziani perfettamente individuati”. Per questo è necessaria, aggiungono “la concertazione di una strategia investigativa comune sulle nove persone già identificate come responsabili dai nostri investigatori e magistrati. Solo così la presenza dell’ambasciatore al Cairo non avrà il sapore di una resa ma acquisterà la dignità di una pretesa e, possibilmente, di una conquista di giustizia”. “Temevamo che questo gesto sarebbe stato interpretato come una resa incondizionata a quel potere che ha annientato Giulio e che occulta impunemente la verità da ormai due anni - continua la nota - E in effetti l’ambasciatore Cantini non aveva ancora fatto in tempo ad insediarsi che le autorità egiziane, forti di questa “normalizzazione dei rapporti”, provvedevano a oscurare il sito della Ercf, l’ong alla quale appartengono i nostri consulenti egiziani; arrestare in aeroporto l’avvocato Ibrahim Metwaly che stava recandosi a Ginevra invitato dall’Onu a riferire sulle sparizioni forzate e sul caso di Giulio; disporre una perquisizione e un tentativo di chiusura di Ecrf”. Un filo rosso lega obiettivi e strumenti dell’articolata macchina istituzionale della repressione, che ingurgita giovani giornalisti (gli ultimi due desaparecidos, Hassan al-Banna e Mustafa al-Aasar, scomparsi il 3 febbraio), che tiene in prigione da quattro anni il fotoreporter Mahmoud Abu Zeid, reo di aver testimoniato il massacro di mille sostenitori dei Fratelli Musulmani a Rabaa nell’agosto 2013 (ieri il processo è stato rinviato per la 48° volta), che detiene leader dell’opposizione e ne incarcera i portavoce (sempre ieri è stato arrestato Hisham Genena, ex capo dell’anti-corruzione e responsabile della tentata campagna elettorale di Sami Anan, generale che ha provato a candidarsi alle presidenziali). Quel filo ha stritolato anche Giulio, impegnato in Egitto in una ricerca sui sindacati indipendenti, figli della rivoluzione di piazza Tahrir e spina nel fianco del golpista al-Sisi. Come ha detto il pm Pignatone in una lettera ai giornali lo scorso 25 gennaio: “Giulio è stato ucciso per le sue ricerche, ed è certo il ruolo dei servizi”. Certezze che rimbalzano sul muro di gomma eretto dal presidente al-Sisi, lo stesso che di nuovo a fine gennaio, accanto all’ad di Eni Descalzi, all’inaugurazione del mega giacimento di Zohr, ribadiva la fittizia volontà di collaborare del Cairo. Conscio che di punizioni non ce ne saranno, che gli interessi politici ed economici sono più che sufficienti a calpestare la verità per Giulio e per milioni di egiziani intrappolati da un regime repressivo e dittatoriale. La famiglia Regeni chiede conto. Al governo e allo stesso Cantini che domenica, incontrando il premier egiziano Ismail, tornava a chiedere “risultati definitivi” dopo aver trascorso gli ultimi cinque mesi a stringere intese o a imbastire nuove collaborazioni. Pochi giorni prima, l’8 febbraio, il caso tornava in Europa: dopo la richiesta di verità formulata in una risoluzione del marzo 2016 dal parlamento europeo, Strasburgo si è rifatta viva per denunciare “l’assenza di progressi nell’inchiesta” e esprimere “sdegno per la tortura e l’uccisione di Giulio”. Israele. Processo a porte chiuse per la 17enne Ahed Tamimi di Michele Giorgio Il Manifesto, 14 febbraio 2018 Il giudice militare Menachem Lieberman ha giustificato la decisione con la necessità di proteggere la minore palestinese, sotto processo per aver schiaffeggiato due soldati. Per la difesa è solo un modo per non dare risonanza internazionale al caso. Processo a porte chiuse per tutelare Ahed Tamimi, ancora minorenne, o per evitare ulteriori imbarazzi a Israele che sta processando una 17enne che ha schiaffeggiato due soldati? L’avvocato Gabi Lasky, che assiste la ragazza palestinese, non ha dubbi. “La corte ha deciso per un processo in presenza solo degli avvocati e dei familiari per tutelare i propri interessi”, ossia perché il caso avesse la minore risonanza internazionale possibile, ha spiegato Lasky la decisione presa ieri dal giudice militare Menachem Lieberman di vietare a reporter e diplomatici la presenza alla prima udienza del processo a carico di Tamimi. La 17enne fu arrestata lo scorso dicembre in seguito alla diffusione di un filmato girato dalla madre, Nariman, anche lei sotto processo, in cui l’adolescente prende a schiaffi e sferra un calcio a due soldati davanti alla sua abitazione nel villaggio di Nabi Saleh. Immagini virali, che hanno fatto il giro del mondo, e alle quali gran parte dell’opinione pubblica e del mondo politico in Israele ha reagito con sdegno e rabbia chiedendo una punizione esemplare per la ragazza palestinese. Questo procedimento in un Paese democratico si sarebbe chiuso con un’ammenda, considerando anche l’età dell’imputata, e Nariman Tamimi non avrebbe mai visto il carcere solo per aver postato un video sui social. Non è azzardato ipotizzare che un civile israeliano per un “reato” simile non avrebbe trascorso quasi due mesi in prigione. L’hanno denunciato più volte nelle scorse settimane anche Amnesty International e Human Rights Watch. Ma Ahed e Nariman Tamimi sono processate da un tribunale delle forze di occupazione militare, l’occupazione che la ragazza e, in generale, tutta la sua famiglia denunciano costantemente da anni. Basem Tamimi, il padre, è stato più volte arrestato e detenuto per la lotta (pacifica) contro l’occupazione e per la partecipazione alle proteste contro la costruzione del Muro israeliano a ridosso di Nabi Saleh. Ieri l’uomo ha lanciato un invito, “Sii forte”, alla figlia arrivata in aula in divisa da carcerata e con le manette ai polsi e alle caviglie. L’avvocato Gaby Lasky spiegava ieri che, di norma, i dibattiti processuali che riguardano i minorenni si svolgono a porte chiuse per proteggere i loro diritti “mentre in questo caso Ahed stessa ha chiesto con forza che fosse aperto al pubblico”. Lasky ha aggiunto che l’incriminazione dell’attivista è stata “gonfiata” per scoraggiare altre proteste contro i militari. Per il quotidiano israeliano Haaretz è stato un colpo di genio quello del giudice Lieberman, per impedire che Ahed Tamimi potesse continuare, con la sola esposizione davanti alle telecamere di tv di mezzo mondo, a denunciare l’occupazione e la sproporzione tra la condanna al carcere che rischia concretamente e i “reati” che le vengono contestati”. Come ufficiale delle forze di difesa israeliane, ha scritto Haaretz, il giudice Lieberman ha due doveri: “Deve soddisfare il desiderio di punizione (di Tamimi) da parte del pubblico israeliano, furibondo per il fatto che a una palestinese di 16 anni sia stato permesso di spintonare e schiaffeggiare un militare dell’Idf (le forze armate israeliane, ndr). Allo stesso tempo deve fare tutto ciò che è in suo potere per impedire che la corte diventi un circo mediatico, al punto da offrire a Tamimi, alla sua famiglia, agli avvocati e agli attivisti una conveniente opportunità per processare l’occupazione israeliana”. Che potesse accadere tutto ciò non è mai stato in dubbio visto che centinaia di giornalisti, diplomatici e operatori delle Ong per i diritti umani erano pronti a seguire e a dare pieno risalto alla vicenda. Il processo pubblico a Ahed Tamimi avrebbe anche fatto emergere il dato di oltre 300 minori palestinesi che sono detenuti in Israele. Così ieri un’ora dopo l’inizio del procedimento, senza preavviso, tutti hanno ricevuto l’ordine di lasciare l’aula, tranne la famiglia. Il colpo di genio del giudice Lieberman comunque non servirà a molto. I riflettori sull’adolescente palestinese e sua madre restano ugualmente accesi in tutto il mondo, mai come in questo momento. L’Egitto esporta il suo modello autoritario di Rami Khouri* Internazionale, 14 febbraio 2018 Per buona parte degli ultimi due secoli l’Egitto è stato l’epicentro e il banco di prova di tutte le tendenze politiche e culturali del mondo arabo. Per questo dovremmo essere preoccupati dagli eventi che, nell’ultimo mese, hanno strangolato, incriminato, intimidito, detenuto o eliminato politicamente tutti i potenziali candidati che avrebbero potuto seriamente sfidare il presidente-generale Abdel Fattah al Sisi alle elezioni presidenziali di quest’anno. Dovremmo preoccuparci perché questo modello egiziano di manipolazione, incentrata sulla sicurezza e l’esercito, e di monopolizzazione del potere continua a diffondersi negli altri paesi arabi. I risultati prestabiliti delle elezioni presidenziali o la spartizione di seggi parlamentari a vantaggio dell’élite al potere sono preoccupanti principalmente perché sottraggono alla società la possibilità di affrontare il deterioramento delle condizioni di vita in corso in buona parte del mondo arabo. L’istruzione, l’occupazione, l’accesso all’acqua, la sanità, la qualità dell’aria, la sicurezza del cibo, la corruzione, la negazione dei diritti umani, la povertà, la debolezza delle reti di protezione sociale, il lavoro sommerso, le disuguaglianze, la mancanza di partecipazione politica e di responsabilizzazione, l’espansione urbana fuori controllo: sono tutti aspetti della vita quotidiana che continuano a peggiorare. Invisibili agli occhi del potere - La violenta eliminazione, in Egitto, di tutti gli altri seri concorrenti alla presidenza è preoccupante anche perché porta a nuovi livelli la disumanizzazione di milioni di donne e uomini nei paesi arabi, che spesso si trovano nudi, bendati, ammanettati e invisibili di fronte alle loro autorità politiche. I diritti politici, sociali, economici e culturali di milioni di persone nel mondo arabo sono sistematicamente schiacciati da élite egoiste che hanno seguito il copione scritto in Egitto con il colpo di stato militare degli anni cinquanta, e che oggi si diffonde in tutta questa martoriata regione. Queste élite prendono il potere con la forza, creano e manipolano gli strumenti che influenzano e controllano la società, corrompono, creano clientele, applicano un indottrinamento di massa e meccanismi di propaganda che indicano cosa sia lecito leggere, ascoltare, dire o pensare. Per poi presentarsi come salvatrici della patria con promesse populiste che sfruttano la disperazione della popolazione. È importante osservare l’Egitto perché rimane il cuore e la fonte di questa tendenza autoritaria e distruttiva di tutta la nostra regione. Ma è importante sottolineare anche le qualità del popolo egiziano che cerca di resistere. Qualità come l’indistruttibile saggezza, l’umanità e la gioia che sopravvivono sotto la superficie, nonostante la violenza del potere. Le elezioni presidenziali sono l’ultimo esempio di come funziona il processo di controllo del potere. Il sistema autocratico egiziano di questi 65 anni è descritto con grande efficacia in Egypt, dello storico Robert Springborg, che ripercorre in modo approfondito e con chiarezza le tradizioni e i meccanismi del deep state - lo stato profondo - che hanno modellato l’Egitto contemporaneo, compresi alcuni capitoli sulla presidenza, le forze armate e le forze di sicurezza, il parlamento, la società civile e la lunga strada accidentata che attende il paese. Lo consiglio a chiunque voglia comprendere le tendenze autoritarie presenti nella nostra regione. La bocciatura, da parte del governo egiziano, delle candidature presidenziali di Ahmed Shafiq, Sami Hafez Anan, Khaled Ali e Mohamed Anwar Sadat non è stata una sorpresa, dati i precedenti del potere del regime di Al Sisi, a partire dalla deposizione del primo presidente egiziano legittimamente eletto, Mohamed Morsi, nel 2013. Quel che stupisce è che, subito dopo la repressione delle rivolte arabe del 2010-2011 operata dagli apparati statali e dai loro sostenitori, orientali e occidentali, tanti altri paesi arabi abbiano seguito il modello egiziano, che utilizza la forza bruta per stroncare qualsiasi opposizione, oltre che ogni tentativo di libertà d’espressione. Dunque, oltre a quello egiziano, anche altri governi arabi impediscono ai loro cittadini di esprimersi nella sfera pubblica e sui social network. La criminalizzazione delle espressioni politiche e della libertà d’espressione è l’ultimo capitolo di questa barbarie. Tanti governi arabi, come l’Egitto, cercano di contenere la rabbia e l’umiliazione dei loro stessi cittadini, che in molti casi vogliono semplicemente esprimere le loro opinioni, partecipare pacificamente alle discussioni e alle decisioni che hanno un impatto sulle loro vite, e in molti casi trovare un modo di poter dare da mangiare ai loro figli, o di consentirgli di avere dei posti di lavoro dignitosi in economie che sono in buona parte controllate da piccole élite di potere. Milioni di cittadini arabi sono castrati politicamente, socialmente ed economicamente alla nascita, e crescono sapendo di non avere alcuna voce, alcun potere, alcun diritto e forse addirittura alcun valore in quanto esseri umani. Il vero cuore di questa brutta faccenda rimane, a mio avviso, la libertà d’espressione. In molti paesi arabi il semplice fatto di esprimere la propria opinione in pubblico sta diventando sempre più difficile o pericoloso. Eppure gruppi di attivisti dei diritti umani e coraggiosi e patriottici individui continuano a far sentire la propria voce, poiché capiscono che solo se tutti gli arabi avranno l’opportunità di partecipare alla loro vita pubblica e alle politiche dei loro paesi le loro società avranno una possibilità di affrontare le grandi difficoltà che caratterizzano oggi tutti i settori della vita. In un mondo che continua a essere postcoloniale, è significativo leggere un editoriale del Washington Post sulle dure pene detentive inflitte a due cittadini sauditi per aver cercato di creare una piccola organizzazione di difesa dei diritti umani online, che peraltro avevano chiuso su richiesta del governo. Commentando il contrasto con l’immagine futuristica e progressista del paese che i suoi funzionari hanno presentato al vertice globale di Davos, il giornale statunitense scrive: “La vecchia Arabia Saudita è ancora ben salda. Due attivisti per i diritti umani, Mohammed al Otaibi e Abdullah al Attawi, sono stati condannati rispettivamente a 14 e sette anni di reclusione, per aver brevemente creato un’organizzazione di difesa dei diritti umani circa cinque anni fa. A poco è servito che abbiano ubbidito alla richiesta del governo di chiuderla. Il pubblico ministero ha definito la pubblicazione di rapporti sui diritti umani, la rivelazione d’informazioni alla stampa e la condivisione di post su Twitter come atti criminali. Le sfavillanti promesse fatte agli investitori stranieri a Davos non possono mascherare il fatto che l’Arabia Saudita sia, per chi osa parlare, ancora quel che era cinque anni fa: una prigione”. La cosa è grave. Ma impallidisce di fronte a quanto ho visto intorno a me, negli ultimi decenni, nei miei spostamenti all’interno del mondo arabo: milioni di donne e uomini arabi le cui menti e la cui autostima si sbriciolano davanti ai nostri occhi ogni volta che si tenta di metterli al tappeto, di chiudere le loro bocche, di oscurare i loro cervelli, o di farli semplicemente obbedire ossequiosamente. Tutte azioni ordinate e messe in pratica da piccoli gruppi di uomini armati attratti dal potere ma incapaci di usarlo a beneficio del loro popolo. Il lento e doloroso svuotamento morale e la concreta disumanizzazione delle società arabe le priva della capacità dei loro uomini, delle loro donne e dei loro giovani di essere parte attiva dei meccanismi, delle decisioni, delle valutazioni e dello sviluppo delle loro stesse società. Le terre dove esseri umani e cittadini sono trasformati in docili animali da soma sono terre infelici. *Traduzione di Federico Ferrone Niger. Morelli (Unhcr): “Terra di asilo ostaggio di cinque crisi” Dire, 14 febbraio 2018 “Il Niger è diventato uno spazio di asilo nel cuore dell’Africa; potrà tenere solo se a livello internazionale vince un principio di corresponsabilità”: Alessandra Morelli, responsabile dell’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr), parla con l’agenzia DIRE da Niamey. Sono giorni nei quali di Niger scrivono anche i quotidiani europei in relazione alle missioni militari, da ultimo quella autorizzata dal parlamento italiano a gennaio. Viste da Niamey, però, priorità e problemi appaiono rovesciati. “L’Africa è madre, accoglie” dice Morelli, una vita per i piu’ deboli, giunta in Niger dopo aver lavorato 25 anni in aree di crisi come l’Afghanistan e la Somalia: “In Europa invece il concetto di solidarietà sta scivolando via, nonostante l’85 per cento di chi fugge non arriva al Nord ma si sposta in un altro Paese del Sud del mondo”. A Niamey o ad Agadez, snodo della rotta dei migranti attraverso il Sahara, lo si vede ogni giorno. “Nel Paese ci sono cinque situazioni drammatiche, che si possono guardare come sul palmo di una mano segnata da guerre e terrorismo” spiega Morelli. L’elenco comincia dai circa 108mila nigeriani fuggiti dalle violenze di Boko Haram nel nord del loro Paese; poi ci sono i quasi 130mila sfollati interni del sud, nell’area di Diffa dove pure opera il gruppo islamista; gli oltre 56mila rifugiati del Mali, giunti nella regione orientale di Tillaberi; le “migrazioni miste”, che da Niamey puntano ad Agadez, sulla via di Tripoli e del Mediterraneo; infine, la quinta crisi, con l’evacuazione per ragioni umanitarie dei migranti detenuti nei centri libici. “Uno dei compiti di Unhcr è identificare chi ha bisogno di protezione internazionale nella zona di Agadez” sottolinea Morelli. Convinta che l’impegno internazionale sia messo alla prova oggi anche dall’ultima delle crisi, al centro del summit tra l’Unione Europea e l’Unione Africana che si è tenuto a novembre ad Abidjan. Spiega Morelli: “C’è un ponte aereo della speranza verso la ripresa della dignità, cominciato l’11 novembre con il trasferimento di 25 persone, donne e bambini già sotto mandato Unhcr, portati via da centri libici. Oggi in Niger assistiamo 617 rifugiati, eritrei, etiopici e sudanesi, con anche 215 minori non accompagnati. Entro fine febbraio contiamo di arrivare a un totale di mille trasferimenti dalla Libia”. Secondo la responsabile, “per la tenuta del Niger si riveleranno decisivi il sostegno e la solidarietà internazionali”. L’Italia si è mossa già a dicembre con l’invio a Tripoli di due C-130 per mettere in sicurezza 162 persone vulnerabili, assistite poi dalla Conferenza episcopale e dalla Caritas. Altri segnali sono arrivati dalla Francia. “Dopo il summit di Abidjan - ricorda Morelli - il governo di Emmanuel Macron si è impegnato ad accogliere 3000 richiedenti asilo dal Niger e dal Ciad”. Siria. I foreign fighter detenuti saranno processati nei Paesi d’origine di Eugenia Fiore occhidellaguerra.it, 14 febbraio 2018 Gli Stati Uniti vogliono dare la possibilità ai foreign fighter detenuti in Siria di essere sottoposti a un giusto processo nei loro Paesi d’origine. Lo ha detto il Segretario alla difesa degli Stati Uniti, James Mattis. Il capo del Pentagono è oggi a Roma per discutere della questione durante la sesta riunione ristretta dei ministri della Difesa della coalizione che combatte contro lo Stato islamico. Si apre quindi una nuova e delicatissima fase della lotta contro il terrorismo delle bandiere nere in cui si dovrà gestire, oltre la messa in sicurezza e la ricostruzione, anche il destino di migliaia di foreign fighter catturati in Siria. Oggi gli ex combattenti dell’Isis si trovano nelle sempre più affollate prigioni delle Forze democratiche siriane, che sono, appunto, sostenute dagli Usa. Per questo l’ex generale dei marines chiede “aiuto” ai Paesi alleati per gestire la situazione, riportando a casa i combattenti stranieri e facendoli giudicare dai tribunali dei Paesi d’origine: “Ci sono giorni che ne vengono catturati anche 40-50, e non ci sono neanche dei buoni centri di detenzione, nel senso che si trovano in Siria e non è una zona sicura”, ha detto, rispondendo alle domande dei giornalisti che stanno accompagnando Mattis nella sua missione europea. Il caso dei “Beatles dell’Isis” - La proposta di Mattis arriva in una fase di emergenza in cui molti Paesi stanno vivendo nella paura di attacchi terroristici condotti proprio dai combattenti dell’Isis rientrati in Europa. A riportare questa preoccupazione sono anche alcuni funzionari britannici dopo la cattura, nei giorni scorsi, dei due cittadini britannici chiamati “Beatles dell’Isis”: El Shafee Elsheikh e Alexanda Amon Kotey. La cellula è sospettata di aver catturato e trucidato una ventina di ostaggi. Del gruppo di aguzzini, il più noto era Jihadi John, che decapitò 7 ostaggi davanti ad una telecamera, a partire dal primo, l’americano James Foley il 19 agosto del 2014. La madre del giornalista, Diane Foley, si è espressa sull’argomento chiedendo che i carcerieri siano puniti con l’ergastolo: “I loro crimini vanno oltre ogni immaginazione”, ha affermato. La sorte dei due catturati è assolutamente incerta e ha riportato la questione nell’occhio del ciclone. Il ministro della Difesa britannico, Gavin Williamson, la settimana scorsa ha detto che non dovrebbero “mai più mettere piede nel Regno Unito”. L’amministrazione Trump non intende metterli a Guantánamo, la prigione per “nemici combattenti” nell’enclave statunitense a Cuba, mentre la Francia è contraria alla proposta del Segretario Usa e vorrebbe far processare i combattenti sul posto.