“Troppe pene alternative”. Carceri, la riforma rischia di slittare a dopo il voto di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 13 febbraio 2018 A rallentare la riforma i rilievi di deputati e senatori e l’imminente scadenza elettorale. L’ultimo parere - positivo seppure con qualche distinguo e raccomandazione - arriverà domani dal Consiglio Superiore della Magistratura, ma potrebbe risultare inutile. Perché giunta in vista del traguardo, la riforma dell’ordinamento penitenziario che riscrive le regole della detenzione a oltre 40 anni dalla precedente, potrebbe arenarsi e finire nel nulla. Era (ma il ministro della Giustizia Andrea Orlando continua a dire “è”) uno dei punti qualificanti dei governi Renzi e Gentiloni. Il Guardasigilli era arrivato a ipotizzare di stralciare questa materia dalla più ampia riforma del processo penale per essere sicuro di portarla a casa quando si temeva che tutto finisse su un binario morto. Invece le nuove norme processuali sono legge, quelle sul carcere ancora no. In realtà il governo ha fatto la sua parte, scrivendo i decreti delegati che - nella sostanza - allargano un po’ le maglie della concessione di benefici restringendo l’area delle preclusioni automatiche. Un modo per avvicinare la detenzione a quanto prevede la Costituzione, con il recupero dei reclusi. Fermo restando, come prevede espressamente la legge delega, il mantenimento del “doppio binario” con il divieto per i reati di mafia, terrorismo e altre categorie ritenute particolarmente gravi, la riforma prevede una più ampia possibilità di ottenere forme di detenzione alternative, permessi-premio e ulteriori collegamenti con la realtà esterna. Sempre senza automatismi, lasciando ogni decisione al magistrato di sorveglianza. Sul presupposto che un “carcere chiuso” produce più recidiva, maggiore propensione a tornare a delinquere e minore sicurezza, rispetto a un regime che metta il detenuto alla prova anche mentre sconta la pena. Poi però, approvato il testo, sono cominciati i problemi. A parte il Garante nazionale dei diritti dei detenuti, che ha espresso “soddisfazione per il maggiore accesso alle misure alternative, la semplificazione di molte procedure e l’introduzione di percorsi di giustizia riparativa”, o i movimenti della galassia radicale che da sempre si battono quasi solitudine per un carcere conforme al dettato costituzionale, altre gruppi hanno preso posizioni opposte. Per esempio l’Associazione vittime del dovere, che contesta i presupposti statistici sulla recidiva. E i rappresentanti delle istituzioni ascoltati dalle commissioni Giustizia di Camera e Senato hanno espresso alcune critiche e preoccupazioni: dal procuratore nazionale antimafia al direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, passando per magistrati considerati esperti della materia. Rilievi che deputati e senatori hanno in gran parte fatto propri, suggerendo modifiche che sostanzialmente tendono a una parziale marcia indietro sulla concessione dei benefici, riallargando il campo delle preclusioni e reintroducendo meccanismi di con- frollo e gradi di giudizio che erano stati ridotti o aboliti. Pareri favorevoli ma condizionati alla parziale riscrittura dei decreti, quindi. Ora la palla è tornata al governo, che se non accetta tutte le condizioni poste dal Parlamento deve rispedire il testo alle Camere, che hanno altri dieci giorni per nuove valutazioni. Accadrà tutto questo prima delle elezioni del 4 marzo? Molto improbabile, quasi impossibile; per motivi di tempo e perché in campagna elettorale c’è chi è pronto alla propaganda contro il Pd e il suo Gli ostacoli A rallentare la riforma ¡ rilievi di deputati e senatori e l’imminente scadenza elettorale “decreto salva-ladri” (espressione del leader leghista Salvini). E dopo il voto, il governo potrà dare attuazione alla riforma? Tecnicamente sì, almeno fino all’insediamento del nuovo Parlamento, ma si aprirebbe una questione di opportunità, soprattutto se Pd e alleati uscissero sconfitti dalle urne. Ecco perché, al di là delle intenzioni del ministro Orlando e delle speranze di quanti considerano la riforma una conquista di civiltà, il carcere rischia di rimanere fermo a quarant’anni fa. Riforma delle carceri: anni di lavoro andranno in fumo il 4 marzo di Eleonora Martini Il Manifesto, 13 febbraio 2018 Radicali: “Il governo agisca ora”. Rita Bernardini e 8.800 detenuti in sciopero della fame per la riforma dell’ordinamento penitenziario: “Occorrono due Consigli dei ministri prima delle elezioni”. Ci sono voluti oltre due anni di lavoro per mettere a punto la riforma dell’ordinamento penitenziario, a 42 anni dall’entrata in vigore delle attuali norme sulla detenzione, ormai obsolete, e occorrono appena due Consigli dei ministri ad hoc per evitare di buttarla all’aria. L’impegno di 200 esperti divisi in 18 tavoli che hanno dato vita agli Stati generali dell’esecuzione penale voluti dal ministro di Giustizia Andrea Orlando sarà stato vano, se l’iter non sarà concluso entro le elezioni del 4 marzo. La riforma infatti sarà praticamente archiviata per sempre, se diamo per certo che il nuovo parlamento sia ancor meno disposto dell’attuale a far tornare lo Stato italiano nel solco della legalità internazionale, in materia di diritti umani. Per questo, per richiamare l’attenzione sul “fazzoletto strettissimo di giorni prima delle elezioni” che ormai è rimasto per portare a casa la riforma, la radicale Rita Bernardini - che dal 20 gennaio scorso ha ripreso lo sciopero della fame insieme a 8.800 detenuti e 175 cittadini - ha indetto ieri una conferenza stampa nella sede del Partito Radicale nonviolento, transnazionale e transpartito insieme al presidente della Commissione Affari sociali della Camera, Mario Marazziti, a Ilaria Cucchi, Irene Testa e Elisabetta Zamparutti, del Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa. Un’iniziativa nonviolenta, quella di Bernardini, che vuole soprattutto andare in aiuto dello Stato italiano, già condannato più volte dalla Corte europea dei diritti umani. Ma il tempo stringe: la legge delega è stata approvata dal Parlamento nel giugno scorso e i testi dei quattro decreti delegati - redatti da commissioni nominate appositamente e sui quali c’era il parere positivo del Garante dei detenuti Mauro Palma - sono rimasti per settimane a Palazzo Chigi, in attesa di essere approvati in Cdm, malgrado l’insistenza dello stesso Orlando. Dei quattro decreti, solo il primo è stato varato dal Cdm, quello relativo alle pene alternative. Ma dopo l’ok della Conferenza Stato-Regioni, la scorsa settimana le commissioni di Camera e Senato hanno sollevato molte obiezioni, nei loro pareri che in ogni caso non sono vincolanti. “In particolare - spiega Bernardini - il Senato ha bocciato totalmente la riforma dell’articolo 4 bis che precludeva ad alcune tipologie di detenuti l’accesso ai benefici”. La procedura prevede ora che il governo debba dare una risposta a questi pareri e decidere se accoglierli, in quale misura, oppure no. “Se, come noi auspichiamo - continua Bernardini - il governo farà subito le sue controdeduzioni, le commissioni hanno fino a 10 giorni di tempo per rispondere, e a quel punto il Cdm può approvare il testo che preferisce del decreto legislativo, quello originario o uno corretto”. In sostanza, come hanno sottolineato i Radicali rivolgendosi direttamente al presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, sono necessari almeno altri due Cdm dedicati alla riforma: “Uno da tenersi questa settimana, in modo da lasciare i dieci giorni di tempo utili alle commissioni, e poi uno da tenersi il 22 o 23 febbraio per l’adozione definitiva dei testi”. Purtroppo c’è poco da sperare, invece, per gli altri decreti delegati che non sono stati ancora varati dal Cdm, quelli riguardanti l’ordinamento penitenziario minorile, la giustizia riparativa, il lavoro in carcere e l’affettività, che, come spiega Bernardini, “non vuol dire solo sessualità ma telefonate, colloqui, vicinanza geografica del detenuto alla famiglia”, tutti fattori a tutela soprattutto dei figli dei reclusi. La sicurezza si fa anche così. “Un Cdm straordinario per approvare la riforma penitenziaria” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 febbraio 2018 È la richiesta indirizzata al Presidente del Consiglio dei Ministri Paolo Gentiloni dal Partito Radicale. Richiesta urgente di una convocazione straordinaria del Consiglio dei ministri per l’attuazione della riforma dell’ordinamento penitenziario, indirizzata al presidente Paolo Gentiloni dal Partito Radicale durante la conferenza stampa di ieri. “Chiediamo che ci sia una riunione del Consiglio dei ministri entro questa settimana - spiega in conferenza Rita Bernardini della presidenza del Partito Radicale, al 22esimo giorno di sciopero della fame, impegnata nella lotta non violenta con 8.800 detenuti e oltre 160 cittadini “liberi” - in maniera tale che si riunisca per l’ultima volta entro fine mese per l’approvazione definitiva”. Il motivo di questa richiesta l’hanno spiegato, nel corso della conferenza con la presenza di Ilaria Cucchi - sorella di Stefano, morto durante la custodia cautelare il 22 ottobre 2009-, l’esponente radicale Ilaria Testa e collaboratrice dell’associazione Stefano Cucchi, Elisabetta Zamparutti, tesoriera di Nessuno Tocchi Caino e rappresentante italiana nel Comitato per la Prevenzione della Tortura nel Consiglio d’Europa, e Mario Marazziti, presidente della XII commissione Affari sociali della Camera. Rita Bernardini ha spiegato che le commissioni giustizia di entrambe le Camere hanno certa- mente approvato i testi dei decreti, ma nello stesso tempo hanno anche inviato al Governo delle loro osservazioni. “Alcune costruttive - ha spiegato Bernardini, altre invece, soprattutto quelle della commissione del Senato, chiedono di limitare la modifica del 4 bis, affinché sostanzialmente rimanga tutto come prima”. Quindi il Consiglio dei ministri si dovrà riunire in teoria altre due volte, perché se nella prossima seduta non dovesse accogliere le osservazioni, dovrà inviare alle commissioni le eventuali motivazioni. Dopodiché le commissioni avranno tempo dieci giorni per esprimere un parere e rinviarle al Consiglio dei ministri che dovrà riunirsi ancora una volta per l’approvazione definitiva. Oppure ne basterebbe una, ma ciò vorrebbe dire che il governo dovrebbe accogliere tutti i pareri, compresi quelli del Senato, con il rischio di svuotare la riforma che, ricordiamo, è già parziale perché sono rimasti nel cassetto i decreti riguardanti l’affettività, il lavoro penitenziario, l’ordinamento penitenziario minorile, misure di sicurezza e giustizia riparativa. I tempi quindi sono strettissimi. La richiesta del Partito Radicale ha una sua urgenza, proprio alla luce del fatto che - stando alle parole della presidente della commissione giustizia della Camera Donatella Ferranti intervenuta ai microfoni di Radio Radicale, la prossima seduta del Consiglio dei ministri è stata programmata per il 22 o 23 febbraio. Una settimana prima del giorno delle elezioni. Durante la conferenza stampa - trasmessa in diretta streaming sul sito di Radio Radicale -, è intervenuta Ilaria Cucchi che ha fatto ascoltare una nota audio che risale al giorno in cui il fratello Stefano si è recato in aula per l’udienza di convalida dell’arresto, avvenuta il 16 ottobre del 2009: “Buongiorno sono Cucchi Stefano, nato a Roma il primo ottobre 1978. Mi scusi, non riesco a parlare tanto bene”. Il giorno precedente, il 15 ottobre, il ragazzo era stato arrestato per droga e non presentava alcun trauma fisico. Già soltanto dopo un giorno di carcere Stefano, durante l’udienza, riporta difficoltà nel camminare e nel parlare, come lui stesso afferma in aula con voce sofferente, e ciò per le percosse subite. Dopo 8 giorni morì. Anche Ilaria Cucchi invita il governo ad approvare al più presto la riforma, ricordando che sia in carcere che nelle aule di tribunale, dovrebbe essere ricordato il valore umano di qualsiasi persona. “Pagare per riparare il danno, evitando il carcere”. È scontro frontale di Marzio Fatucchi Corriere Fiorentino, 13 febbraio 2018 Tecnicamente, è la “riforma dell’ordinamento penitenziario”. Per chi l’ha voluta - il governo a trazione Pd - uno strumento per velocizzare la giustizia, evitare il carcere inutile, risarcire subito le vittime. Per i detrattori - soprattutto la Lega, ma anche il M5S - uno “svuota carcere e salva ladri”. In realtà, è un tema complesso e variegato che risponde anche ad alcune “condanne” da parte della Corte di giustizia europea sulle condizioni delle nostre carceri. Ma perché lo scontro? Il motivo di questi giorni è perché un decreto attuativo della legge è passato dalle commissioni di Camera e Senato, che devono dare un parere. Le polemiche ruotano intorno soprattutto a due norme. La prima riguarda la “giustizia riparativa”. Cioè, per i reati che vanno valutati dal giudice monocratico, lo stesso può chiudere il processo se l’accusato ripara il “danno” fatto. Per i detrattori, un modo per rendere inutile il principio di coazione, la “paura della condanna” che limita i reati. Per i sostenitori, la pena in quanto tale distoglie solo il 10% dei possibili criminali, si alleggerirebbero i tribunali e i danneggiati vedrebbero subito “giustizia”, almeno monetaria. Il punto, forse, sono i reati: all’inizio c’erano anche le minacce semplici, uno stalker “leggero”, solo sms ad una donna, se l’è cavata con 1.500 euro. Per questo, lo stalking è stato tolto dai reati della giustizia riparativa. L’altro tema, generale, è quello dell’estensione dell’uso di misure alternative ai condannati: per aumentare l’uso di queste misure, è stata alzata l’asticella, si possono usarle per le condanne fino a quattro anni. Il tutto accompagnato con misure che aumentino le possibilità e gli strumenti di un reinserimento sociale di chi ha commesso quei reati. La norma è stata contestata da destra, soprattutto dalla Lega nord, ma anche dal M5S, assieme ad alcuni sindacati della polizia (Sappe per tutti). Il Pd invece, ma anche molte associazioni che si occupano di carcere, hanno difeso i provvedimenti. Davide Ermini (Pd): “Le critiche? Solo slogan. Norme utili e ce lo chiede l’Europa” David Ermini, Lega e M5S attaccano il Pd ed il vostro governo per alcuni provvedimenti presi sulla riforma carceraria, definendoli “Salvaladri”. “La Lega dovrebbe guardarsi in faccia: le pene per furti rapine e scippi le abbiamo aumentate noi. Loro le avevano lasciate così basse che nessuno andava in galera. E sempre la Lega ha pure voluto una legge sulla prescrizione per cui centinaia e centinaia di processi sono finiti lasciando impuniti un sacco di delinquenti”. La contestazione è: avete aumentato la possibilità per chi commettere reati di non andare in carcere. “Ci adeguiamo alle normative europee. Ricordo che l’Italia è stata condannata per i trattamenti disumani nelle carceri. Certo, questo non toglie che ci sia un problema sulla certezza della pena. L’obiettivo è che non si mettano insieme gli sconti di pena “secchi”, dati al momento del processo, con le misure alternative alla detenzione che vengono date alla fine della pena. Se ad una persona diamo uno sconto della pena di un terzo perché fa il processo abbreviato, e poi diamo misure alternative, di pena ne sconta poco. Ma a chi ha dato prova di volersi rieducare, dobbiamo dare pene alternative”. Quale, per voi, la ratio di questi provvedimenti? “Abbiamo quasi 100 mila persone che stanno scontando una pena in Italia: 54 mila in carcere, 45 mila in misure alternative. Dobbiamo distinguere i delinquenti incalliti, che devono restare in carcere, e chi ha sbagliato solo una volta. La gestione della giustizia sta in una parolina fondamentale: equilibrio. Solo così si tiene insieme la certezza della pena, la sicurezza dei cittadini e il rispetto della Costituzione, il reinserimento sociale di chi non vuole più delinquere”. Ma è giusto, per i reati minori, con il giudice che cancella il processo se si paga il “danno” del reato? “Riguarda appunto solo i reati minori: non il furto in casa o del portafoglio. Per chi invece ruba tre mele alla Coop, se paga il costo, non si fa il processo. La giustizia riparativa serve solo nei reati lievi per evitare alle parti offese di aspettare chissà quando per avere giustizia, vedendosi ripagati il danno. Basta slogan: M5S e Lega falsificano, fanno paura alla gente. Quando invece sulla sicurezza abbiamo fatto molte cose rispetto a loro”. Alfonso Bonafede (M5S): “Pene ancora più incerte. Aumenteranno i reati” Alfonso Bonafede, deputato M5S e vicepresidente della Commissione giustizia: cosa non vi convince nei provvedimenti della riforma dell’ordinamento penitenziario? “Viene ancora una volta inferto un colpo al principio per cui: chi sbaglia, paga. Cioè che, in Italia, chi delinque sa che non gli succede nulla. È per questo che, anche in Toscana, c’è un innalzamento importante dei reati commessi”. Contestate anche l’accesso alle misure alternative: non è un giustizialismo esagerato? “Prima poteva accedere a queste misure alternative chi era stato condannato a pene al massimo di tre anni. Con questa riforma, si è esteso l’accesso alle misure alternative anche a quelli fino a 4 anni”. Il senso però, sostiene il governo, è che solo chi ha commesso il “primo” reato, non i recidivi, potrà trovare misure alternative. “Non è così: in questo decreto, si aprono le maglie anche per chi-godendo di una misura alternativa- abbia violato le prescrizioni imposte. Se uno è per esempio in semidetenzione o libertà controllata, e non ha rispettato le regole ed è stato riportato in carcere, può accedere comunque agli stessi benefici, compreso l’affidamento in prova. Questo è incredibile”. Ma si parla, ripeto, di reati “leggeri”. Furto solo quello semplice, il taccheggio. “Questo lo contesto. Si tratta di reati con condanna alla detenzione fino a quattro anni. Cioè alzi il tetto della pena inflitta a quattro anni: si parla quindi anche di reati con pene più gravi, magari da tre a sei anni, ma per i quali il giudice ha inflitto una pena di quattro anni. Il “tetto” viene calcolato sulla pena inflitta, non sul massimo della pena possibile. E addirittura si prevede che anche chi ha commesso delitti gravi, come il sequestro di persona, possa accedere al lavoro esterno prima di aver scontato un terzo della pena”. Ma non è una cosa efficace invece la “giustizia riparatoria” per i reati minori? “No, non lo è. La proposta del M5S è che la giustizia riparatoria sia limitata ai reati contro il patrimonio: se hai rubato un’auto, ricompri almeno l’auto. Ma deve decidere chi ha subito il furto, non deve decidere il giudice da solo. Fino a che rimane l’incertezza della pena, il ministro Minniti può firmare tutti i patti che vuole: non serviranno a niente”. Il 41bis divide la sinistra di Simona Musco Il Dubbio, 13 febbraio 2018 “Non voglio i voti dei clan”, scrive Anna Falcone, candidata di Leu alle prossime elezioni. “Si vergogni e chieda scusa”, risponde Eleonora Forenza, europarlamentare di Rifondazione comunista e in lizza per Potere al Popolo. A dividere le due candidate è il 41bis: per la prima strumento fondamentale nella lotta contro le mafie, per la seconda una tortura. Un tema delicato, che “PaP” ha inserito nel proprio programma, negando la sua compatibilità con il principio costituzionale di umanità della pena e ritenendo necessaria la sua abolizione. Ed è con questa convinzione che Falcone polemizza, rivendicando la posizione opposta di LeU. “Sto con gli unici che si sono messi insieme per ripristinarli, quei diritti - scrive su Facebook l’avvocata -. Unendo le forze di tanti, non l’arroganza e la vanità di pochi”. Gli altri, quelli di Pap, “vogliono togliere, invece, il carcere duro a mafiosi, camorristi e delinquenti veri. Un punto che - e lo dico da avvocato non è solo incondivisibile per chiunque sappia cos’è la mafia e la criminalità organizzata, ma che io avrei evitato accuratamente di sventolare in campagna elettorale. Voglio essere votata da persone libere, non dai clan. E su questo non si transige”. L’equazione di Falcone è chiara: chiedere l’abolizione del 41bis equivale a mendicare voti tra i mafiosi. Un concetto che Forenza non è disposta ad accettare. “Credo che l’avvocato stavolta non possa esimersi dal chiedere scusa - ha replicato. L’avvocato può ignorare che esistono culture politiche che coniugano antimafia sociale e garantismo. Ma non può scrivere una cosa infamante come quella che ha scritto in questo post. Noi chiediamo l’abolizione del 41bis non certo perché cerchiamo o vogliamo i voti dei clan, ma perché non vogliamo la tortura nelle carceri italiane. E lo facciamo insieme a compagne e compagni che ogni giorno rischiano in prima persona, nell’antimafia sociale, nel contrasto alle mafie e alla criminalità organizzata”. Temi che non portano più voti ma, anzi, rischiano di ridurli. È stata la visita nelle sezioni di alta sicurezza e tra i suoi “orrori”, ha spiegato, a convincerla del percorso intrapreso. “E non smettiamo di denunciarli non certo per la ricerca di voti, ma perché pensiamo che la giustizia e il giustizialismo siano cose diverse. E non inseguiamo il secondo, anche se elettoralmente è più conveniente”. La merce contraffatta dei venditori di odio di Mariangela Mianiti Il Manifesto, 13 febbraio 2018 L’odio per i diversi parte dalla convinzione che l’odiatore è usurpato e perfetto, assediato e in pericolo, puro lui e bestie gli altri. Vendere odio è un commercio che rende. Investi pochissimo in studi, riflessioni e ricerca, metti sul mercato una merce contraffatta e avariata, la proponi con slogan che colpiscono la pancia e l’attenzione, urli e prometti miracoli per venderla facile. Non applicabile a oggetti o beni di consumo correnti, l’ odio, che è una materia volatile e fa leva su sensazioni, antipatie, ansie, rancori, frustrazioni e impressioni, si adatta perfettamente a persone, idea di razza, nazionalità, religione, provenienze, usi e costumi. L’odio per i diversi, infatti, parte dalla convinzione che l’odiatore è usurpato e perfetto, assediato e in pericolo, puro lui e bestie gli altri. Da qui a usare l’odio per farsi eleggere in parlamento, il passo è breve e può risultare molto redditizio. Se poi non mantieni le promesse, chi ti ha votato deve aspettare cinque anni prima di chiederti il conto. Sempre che se ne ricordi. A quel punto il venditore di odio avrà gioco facile a dire che se non sei soddisfatto non è colpa sua, ma di chi gli ha impedito di confezionare il pacchetto come si deve. In ogni caso, troverà un altro capro espiatorio per rinnovare il suo smercio di fuffa. Ogni riferimento alla campagna elettorale della Lega di Matteo Salvini è voluto. Il venditore di odio è abilissimo a piegare l’evidenza a suo uso e consumo. I numeri non gli danno ragione come vorrebbe? Pazienza, cambia il modo di interpretarli, prende solo il pezzetto che gli interessa e li spara con una frase a effetto che ha molta più presa di un ragionamento complesso. Le soluzioni dei problemi sono complicate e difficili? E chi se ne importa, il venditore di odio è bravissimo a fornire una ricetta facile senza spiegare, poi, se è praticabile e come. Ci sono circa 600mila immigrati senza permesso di soggiorno? Rispediamoli tutti a casa domattina, però non diciamo che sono solo quattro i Paesi che davvero se li riprendono e che per tutti gli altri bisognerebbe stipulare degli accordi bilaterali che, come si sa, si fanno in due e non da soli. È dimostrato che l’accoglienza funziona se si mandano nei paesi gruppi piccoli e non a decine? Non diciamolo, così come non diciamo che in Italia solo mille comuni su ottomila fanno accoglienza. Il venditore di odio non ama sottilizzare, distinguere, valutare, tutta robaccia per intellettualoidi dediti a masturbazioni mentali, mentre qui ci vuole un uomo forte che sa ottenere quello che serve con la voce grossa. Certo, per riuscire a smerciare tutto ciò bisogna essere in due perché da che mondo e mondo il mercato si basa su domanda e offerta. Venditore e compratore devono quindi avere una certa complicità e tendenza a non farsi troppe domande. È un po’ come quelli che, pur sapendo che certe merci sono prodotte sfruttando il lavoro di disperati senza altra alternativa, fanno spallucce e procedono con l’acquisto perché costa poco, così gli va, e “Se non lo faccio io lo fa qualcun altro, quindi tanto vale…”. Ma qui, attenzione, il pericolo che la farsa finisca in tragedia è concreto. Per questo consiglierei a Salvini e seguaci di leggere La storia di Elsa Morante là dove descrive il clownesco carro di Mussolini al seguito del mortifero carro di Hitler. Se il romanzo gli sembra troppo lungo, fornisco le pagine, 45 e 46, così fanno meno fatica. Scrive Morante: “Fra i due sventurati falsari, diversi per natura, c’erano pure delle somiglianze inevitabili. Ma di queste, la più interna e dolorosa era un punto di debolezza fondamentale: l’uno e l’altro, interiormente, erano dei falliti e dei servi, e malati di un sentimento vendicativo d’inferiorità”. Migranti e legittima difesa, è campagna sulla sicurezza di Manuela Perrone Il Sole 24 Ore, 13 febbraio 2018 “Noi ribadiamo con forza che siamo orgogliosamente antifascisti e che questo Paese è orgogliosamente antifascista”. A poche ore dalla manifestazione antifascista e antirazzista di Macerata, alla quale il Pd ha deciso di non partecipare per non esasperare un clima già rovente, Matteo Renzi ribadisce con forza la matrice “resistenziale” del suo Pd e ricorda che il partito sarà giovedì a Sant’Anna di Stazzema per la firma all’anagrafe antifascista. L’occasione è una manifestazione elettorale nella sua Firenze assieme al ministro degli Interni Marco Minniti, che in questi mesi al Viminale è divenuto quasi il simbolo di una politica che tenta di coniugare il dovere dell’accoglienza con la fermezza contro l’immigrazione clandestina. “Sulla sicurezza e l’immigrazione la linea Minniti è la più solida e seria”, è la benedizione di Renzi, che dice anche di non condividere le tesi più pro migranti dell’alleata Emma Bonino. Da parte sua Minniti ribadisce: “Bisogna separare le questioni di immigrazione: sicurezza ed emergenza. Emergenza vuol dire mettere una toppa, rincorrere un problema. Un grande partito non parla mai né alla pancia né alle parti basse di un paese, parla al cuore e all’intelligenza”. E in serata il leader Pd torna a respingere le accuse di troppa “tiepidezza” nel condannare la tentata strage con motivazioni razziste da parte di Luca Traini a Macerata (Minniti definisce l’accaduto “rappresaglia aggravata dall’odio razziale”): “Perfino su Macerata qualcuno ha avuto il coraggio di dire che il problema è il Pd, quando a Macerata al Pd hanno sparato... - dice Renzi in tv, a Otto e mezzo - Dov’era il Pd? Il Pd era a Macerata col sindaco Carancini, con il ministro Minniti, con i suoi uomini, con Orlando che è andato a trovare i feriti. Ma il Pd era anche in quella sede presa di mira da una pallottola: perché il fascista (Traini, ndr) ha sparato a sei ragazzi di colore ma anche alla sede del Pd”. Insomma, Renzi non ci sta a finire sotto il fuoco incrociato delle accuse di scarso antifascismo da sinistra e di lassismo nella lotta ai clandestini da destra. Ma certo il tema migranti è percepito come scivolosissimo per il maggior partito di governo. Pericolosissimo e anti popolare, anche se i sondaggisti non sembrano avere registrato in queste ore impennate della Lega. Matteo Salvini, ad ogni modo, continua a battere il ferro caldo e rilancia a tutto tondo sulla sicurezza: alla manifestazione contro il fascismo di Roma del 24 febbraio (stavolta il Pd ci sarà, assieme a Cgil e Anpi) il leader leghista ha già contrapposto una contro-manifestazione a Milano. E, saltando sull’ultimo caso di cronaca (quello del gioielliere napoletano che ha ucciso un ladro ed è indagato per omicidio colposo, ossia una sorta di eccesso di legittima difesa), ravviva anche l’annosa polemica sulla legittima difesa: “Se un ladro mi entra in casa alle tre di mattina uso il mattarello, soprattutto se ci sono i miei figli”. La sicurezza è un tema con il vento in poppa, evidentemente, se anche Silvio Berlusconi lo segue rispolverando una vecchia idea di Forza Italia. “Tutti i militari devono essere per le strade, ad aiutare il preziosissimo lavoro delle forze dell’ordine, nessuno deve rimanere nelle caserme - promette il leader azzurro. Garantiremo la sicurezza rimettendo le persone delle forze dell’ordine anche nelle zone più difficili. Mettendo tutti i militari nelle strade”. Insomma, il centrodestra - diviso su molti aspetti, dalla collocazione dell’Italia in Europa al destino della legge Fornero sulle pensioni - in queste ore trova non a caso la sua unità proprio sul tema della sicurezza. Quanto ai fatti di Macerata, ieri nell’inchiesta sulla morte di Pamela Mastropietro è emerso un quarto indagato: si tratta di un nigeriano. Il vizio di destra e sinistra: etichettare morti e feriti di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 13 febbraio 2018 Una campagna elettorale faziosa ha avviluppato le storie di Pamela e dei sei migranti imprimendo loro un segno assurdamente di parte. Di che partito è il sangue? Dalla faglia nella coscienza nazionale aperta a Macerata torna a manifestarsi una cattiva abitudine che si sperava in via di guarigione: etichettare politicamente le vittime, brandirle come vessilli. Esistono morti di destra e morti di sinistra? Alcuni feriti vanno arruolati nel campo progressista e altri in quello conservatore? Tutti, nel carosello di leader e gregari ingaggiati nel dibattito pubblico, vi risponderanno di no, certo, taluni persino con sdegno. Molti, tuttavia, comportandosi poi assai diversamente, quasi per un riflesso antico. Le scorie di una campagna elettorale delegittimante e faziosa hanno avviluppato dunque volti e storie di ragazzi che abbiamo conosciuto in questi giorni: Pamela, la diciottenne massacrata in casa dello spacciatore nigeriano Innocent Oseghale, e i sei migranti colpiti dalla pistola di Luca Traini (Jennifer, Mahamadou, Gideon, Wilson, Omar e Festus). Imprimendo loro un segno, una tonalità assurdamente di parte. Nel corteo antifascista sfilato sabato a Macerata in solidarietà con le vittime di Traini (e sporcato da alcune pessime parole d’ordine), Pamela era quasi del tutto assente: niente slogan né striscioni. Mancanza difficile da spiegare per un popolo di sinistra attento al tema del femminicidio, se non ipotizzando motivazioni forse inconsapevoli ma certo meno nobili: la ragazza romana che tentava di disintossicarsi in una comunità maceratese è forse da considerarsi “vittima di destra” in quanto ammazzata da migranti che richiedono asilo ma trafficano eroina? La sua morte porta con sé l’imbarazzante sotto-testo che l’immigrazione, a certe condizioni, può essere pure un grande male e solo per questo va rimossa dalla narrazione progressista? Del resto Pamela è stata usata dialetticamente proprio dalla destra sovranista come argomento a confutazione di un’analisi priva di indulgenze sul profilo terrorista di Traini. “Quello è un pazzo, pensate piuttosto a Pamela!” è stato in molti talk televisivi il mantra contrapposto all’allarme per un raid da Ku Klux Klan senza precedenti in Italia; con allegato un altro inquietante sotto-testo: l’indignazione collettiva contro gli spacciatori nigeriani che infestano Macerata rende forse in qualche modo “collettivo” e meno infame anche sparare per strada con una Glock? E i sei migranti (del tutto innocenti ed estranei allo spaccio), finiti nel mirino di un leghista virato poi verso il puro fascismo armato, sono da considerarsi perciò “vittime di sinistra” e sol per questo da esorcizzare nel dibattito della destra? Di certo, se gli antifascisti convenuti a Macerata hanno perso una grande occasione per commemorare anche una ragazzina annientata dalla violenza di maschi feroci (neri o bianchi, davvero cambia?), Matteo Salvini, che aveva candidato Traini alle Comunali del 2017, ne ha persa una altrettanto preziosa non andando in ospedale al capezzale dei sei migranti feriti. Abbiamo bisogno più che mai di ritrovare gesti di riconciliazione: se questa è oggi la politica, non sorprende che la gente comune non vada più in piazza. L’Italia è del resto un terreno accidentato in certi incroci della storia. La nostra vicenda repubblicana è segnata da divisioni profonde, da una guerra civile chiusa in apparenza ma rimasta latente per due o tre decenni dopo la Liberazione. Dal conseguente orrore degli Anni di piombo, nei quali ciascuna fazione onorava i propri morti e vituperava quelli altrui, spesso alterando ricostruzioni e responsabilità (si pensi alle mistificazioni e ai depistaggi sui fratelli Mattei o su Valerio Verbano). La Seconda repubblica aveva fatto passi importanti per superare l’appartenenza del sangue. Grazie a un grande presidente come Carlo Azeglio Ciampi e allo sforzo di costruire una memoria condivisa attorno a un simbolo comune: il tricolore. Ma, forse, anche grazie a una logica maggioritaria che, tenendo unite più o meno a forza le coalizioni, smussava le punte estreme alla ricerca di un bipolarismo più maturo anche nei simboli e nelle parole d’ordine. Questa Terza repubblica, scaturita nel caos da un cambio di sistema elettorale che torna a enfatizzare le piccole identità, pare sospingerci indietro di decenni anche sul terreno del riconoscimento reciproco. Ma almeno questo è un prezzo che non possiamo pagare. Le vittime non hanno colore, nemmeno colore politico: sono tutte vittime italiane (anche chi non ha il nostro passaporto). Le storie di Pamela e dei sei migranti feriti a Macerata ci interpellano e ci impegnano in egual misura. Solo quando sapremo dirlo con chiarezza potremo riportare in una piazza repubblicana i cittadini che adesso non ci credono più. Più sicurezza e meno slogan di Carlo Nordio Il Messaggero, 13 febbraio 2018 Secondo i dati pubblicati ieri da “Il Messaggero”, due italiani su tre si sentono insicuri. È una percentuale in continuo aumento, e i politici sanno che su questo terreno si giocheranno - in buona parte - le elezioni. Nondimeno, le reazioni sono state diverse. Anche se tutti sono d’accordo nel potenziare le forze dell’ordine, le proposte variano a seconda delle analisi, condizionate a loro volta dalle ideologie. Da un lato, si chiedono pene più aspre, e un’ estensione estrema della legittima difesa. Dall’altro, si invita a non confondere la situazione reale con quella percepita: qualcuno addirittura insinua che questa percezione sia ingannevole e maliziosamente indotta dalle forze reazionarie, per sviare l’attenzione dai reati più gravi, come la corruzione e l’evasione fiscale. In una materia così complessa sarebbe bene abbandonare i pregiudizi e gli slogan elettorali. Per conto mio mi limito a due modeste considerazioni. La prima riguarda la differenza tra i reati cosiddetti di microcriminalità - furti, violazioni di domicilio ecc. - che impauriscono i cittadini, e quelli dei cosiddetti colletti bianchi, che ne suscitano la rabbia e l’indignazione. Qui l’equivoco nasce dalla confusione tra l’allarme sociale, provocato dai primi, e il danno sociale cagionato dai secondi. Mi spiego. La corruzione e l’evasione tributaria producono conseguenze note a tutti: l’aumento dei costi, l’alterazione della libera concorrenza, il depauperamento delle risorse collettive e, di riflesso, un aumento dell’imposizione fiscale. In questo senso provocano un “danno sociale” elevatissimo, certamente più alto dei reati contro il patrimonio. Tuttavia questi ultimi, proprio perché incidono direttamente sulla pelle dei singoli, e ne distruggono l’esistenza, provocano un “allarme sociale” molto più grande dei primi. Potete verificarlo da voi: avete mai perso il sonno e l’appetito ascoltando alla tv le malefatte dei corrotti e degli evasori? Non credo. Ma se un ladro (non dico un rapinatore) è entrato in casa vostra, non dormite per settimane. E poiché il numeri dei furti, degli scippi ecc. è assai alto, questo insieme di ferite si converte in malattia mortale, perché non è più una somma di eventi ma una sintesi di sfiducia verso lo Stato. Ecco perché i cittadini sono più sensibili alle leggi sulla sicurezza che a quelle contro la corruzione. La seconda, connessa alla precedente, riguarda la legittima difesa. Abbiamo qui ripetuto più volte che il sistema va cambiato, perché oggi chi si difenda in casa propria contro l’aggressore deve poi difendersi anche in tribunale da un’accusa spesso ingiustificata. Questo dipende da un codice penale di origine fascista - firmato nel 1930 da Mussolini - che, malgrado alcuni ritocchi, continua a considerare la persona come un suddito, e non come un cittadino, dimenticando che se quest’ultimo viene aggredito, il primo inadempiente è proprio lo Stato che non ha saputo proteggerlo. Tuttavia questo non significa che si possa scivolare nell’estremo opposto di giustificare, senza se e senza ma, ogni forma di reazione quando vi è un intruso in casa propria. I requisiti dell’attualità del pericolo e della proporzione tra offesa e difesa costituiscono in tutto il mondo, compresi gli Stati Uniti, un elementare principio di civiltà. Che fare allora? Una cosa prima di tutto: guardare la realtà com’è, e non come vorremmo che fosse. Se i cittadini hanno paura, è ozioso distinguere tra quella vera e quella reale. Esser convinti di avere una malattia incurabile è talvolta peggio di averla sul serio, e questi stati d’animo non si fronteggiano con le omelie paternalistiche o peggio con l’ironia. In questa prospettiva, è il nostro intero sistema penale a dover essere cambiato. Per esempio rendendo le pene non più gravi ma più certe, perché nulla scredita le istituzioni quanto il vano gridare a vuoto. E, per restare in tema, riconoscendo sì il diritto di autotutela, ma sempre nei limiti dell’incolumità pubblica e del buon senso: potersi difendersi in casa senza rischiare un processo, evitando però le sparatorie in pubblico improvvisandosi giustizieri. Queste, e tante altre riforme, non saranno un programma facile, ma sono un programma fattibile. Anche se temo che la baraonda continuerà fino alle elezioni, e probabilmente anche dopo. Se il “buco nero” di Macerata ingoia politica, toghe e polizia di Carlo Fusi Il Dubbio, 13 febbraio 2018 Chiunque vinca la lotteria del 4 marzo poi dovrà fare i conti con un tessuto sociale che in tanti sembrano voler fare a gara per strappare. Il tempo della ricucitura sembra avvolto nelle nebbie. Dove sta andando l’Italia ce lo spiegheranno - non appena possibile e sempre che ci riescano - storici e analisti. In ogni caso, la vicenda di Macerata occuperà un bel po’ di pagine perché è il buco nero che minaccia di inghiottire nelle sue viscere sia il senso di appartenenza che i valori che fanno da collante ad una qualsiasi comunità. Il volto della città marchigiana, infatti, rappresenta la perfetta metafora di come un Paese possa perdere la bussola e un pezzo della propria identità. Le sabbie mobili dove annegano, tutte insieme e tutte abbracciate, le istituzioni che reggono uno Stato e ne sono le architravi: la politica, la magistratura, le forze dell’ordine. Vediamo. In attesa di novità sempre possibili, le ultime notizie in ordine di tempo sono: la rimozione del Questore Vincenzo Vuono ad appena tre mesi dal suo insediamento; la netta scudisciata di Matteo Renzi secondo cui “il Pd è un partito orgogliosamente antifascista”. Nel primo caso si tratta di un normale avvicendamento, spiegano al Dipartimento di Pubblica Sicurezza. Normalità che nel secondo caso scolorisce fino a diventare banalità: l’antifascismo non dovrebbe forse risiedere nel Dna di ogni partito di sinistra, a partire dal più grande? Ma proprio qui scatta la trappola. Infatti in quello che è successo nella città marchigiana - dall’orribile assassinio di Pamela e inumano accanimento sul suo cadavere al gesto tragico e lancinante di chi si sente vindice e spara su persone innocenti, inermi e indifese - di normale non c’è nulla. C’è al contrario il senso di grande straniamento che prende ogni persona di buon senso dinanzi allo slabbramento che giorno dopo giorno contagia chi dovrebbe per ruolo e autorevolezza spargere certezze e invece semina dubbi, perplessità, contraddizioni. Per intenderci. Su Macerata la politica avrebbe dovuto trovare un sussulto unitario di fronte al corpo straziato di una giovane e sfortunata ragazza e alla follia di chi, a suon di pallottole, mischia e confonde la richiesta di giustizia con i propri fantasmi interni. Nell’incendio di furore che sta bruciando perfino il minimo sindacale di civiltà sull’altare del tornaconto elettorale, la sinistra si divide sull’autoreferenziale tasso di antifascismo confondendo Macerata con Sagunto e ottenendo i medesimi risultati; la destra soffia in maniera avventurista e perfino incosciente sulle pulsioni più primitive dell’opinione pubblica, e i rinnovatori a cinque stelle, alla stregua di spettatori di una partita di tennis, dondolano la testa da un parte all’altra attenti soprattutto a rimanere a bordo campo, senza farsi coinvolgere. La Procura parte a razzo incriminando un ragazzo nigeriano, poi un altro e poi un altro ancora, in un crescendo che, almeno in parte, risponde al pressing spasmodico di cittadini e media che puntano l’indice e reclamano che nessuno “la faccia franca”. Fino a stabilire che l’inchiesta è chiusa e i colpevoli individuati. Poi però, fortunatamente è il caso di dire, scatta qualcosa. Scatta la consapevolezza che mille e più mille anni di civiltà giuridica sanciti dall’habeas corpus non possono essere gettati alle ortiche come roba vecchia inseguendo il demone della colpevolizzazione a tutti i costi. Che lo Stato di diritto si fonda su regole precise e definite, la principale delle quali è che nessuno può essere accusato e peggio ancora condannato senza prove e senza un regolare processo. Che la giustizia sommaria dei tribunali del popolo e dei demagoghi in servizio permanente effettivo non può essere accettata. Così in ventiquattr’ore la Procura cambia versione: niente di ancora definito, le indagini proseguono, c’è addirittura un nuovo indagato. Infine la Polizia. Il balletto su cortei da autorizzare e poi vietare, su sindaci che giudicano le manifestazioni inutili e poi le accettano, su ministri che chiedono lumi e non ne ricevono o non li discernono, alla fine determina “il normale avvicendamento”. Chissà se sarà anche quello definitivo. Volutamente - di materiale su cui riflettere ce n’è già abbastanza, no? - è stato omesso ogni riferimento alla tragedia dell’immigrazione clandestina, dei guasti sociali che la gestione approssimativa e contraddittoria dei richiedenti asilo produce, della Babele di norme italiane e europee, della strumentalizzazione degli scafisti e delle loro vittime a ridosso del voto. Il punto è che chiunque vinca la lotteria del 4 marzo poi dovrà fare i conti con un tessuto sociale che in tanti, scriteriatamente, sembrano voler fare a gara per strappare. Il tempo della ricucitura, in un Paese fin troppo lacerato che invece ne avrebbe drammatico bisogno, sembra avvolto nelle nebbie. Purtroppo il sonno della ragione genera mostri. Strano che in tanti sembrino volutamente dimenticarlo. Intercettazioni. No al ricorso se manca il “testo” integrale della telefonata di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 13 febbraio 2018 Corte di cassazione - Sentenza 6722/2018. L’imputato che contesta la condanna perché basata su un contenuto travisato dell’intercettazione, deve fornire il “testo” integrale della telefonata. La Cassazione, con la sentenza 6722 depositata ieri, considera, sul punto, inammissibile il ricorso contro la condanna per traffico di stupefacenti inflitta dalla Corte d’appello. Una responsabilità, provata, ad avviso dei giudici, da una serie di conversazioni tra pusher ed acquirenti. Colloqui che secondo il ricorrente erano stati travisati, dal momento che si poteva e doveva dare una lettura diversa degli scambi verbali “captati”. I giudici della terza sezione penale, chiariscono che per le intercettazioni vale la stessa regola utilizzata in caso di dichiarazioni testimoniali. Chi ricorre in Cassazione, per un difetto di motivazione riguardo alla valutazione di quanto affermato da un teste, deve produrre integralmente i relativi verbali. Il giudice deve, infatti, essere messo nelle condizioni di verificare la corrispondenza tra il senso probatorio dedotto dalla difesa e il contenuto complessivo della dichiarazione. Per quanto riguarda le intercettazioni, in sede di legittimità è possibile prospettare un’interpretazione del significato diversa da quella proposta dal giudice di merito solo se la prova viene travisata, o il contenuto viene indicato in modo difforme da quello reale e la “differenza” risulti decisiva e incontestabile. Un raffronto possibile solo a patto che il ricorso sia accompagnato dall’ integrale produzione del contenuto della telefonata, o dall’intera trascrizione, per consentire la verifica della tesi difensiva. Non passa neppure la richiesta del riconoscimento della lieve entità (articolo 73, del Dpr 309/1990). Uno “sconto” legittimo solo quando la singola cessione della quantità modica, o non accertata, è episodico o occasionale. Riciclaggio. La 231 innesca la doppia responsabilità di Luigi Ferrajoli Il Sole 24 Ore, 13 febbraio 2018 Doppia responsabilità delle imprese per le violazioni antiriciclaggio. Infatti, per la medesima infrazione organizzativa, le persone giuridiche rischiano di essere sanzionate su due fronti: a titolo di “responsabilità da organizzazione” che scatta, in base all’articolo 25-octies del decreto legislativo 231/2001, quando un rappresentante dell’impresa o un suo sottoposto commette nell’interesse dell’impresa i reati presupposto di ricettazione, riciclaggio, impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita o auto-riciclaggio; a titolo di responsabilità solidale con chi ha commesso l’illecito, nell’ambito del quadro sanzionatorio previsto dagli articoli 56 e seguenti del decreto legislativo 231/2007. È questo il quadro che emerge a seguito dell’ultima riforma delle norme antiriciclaggio (decreto legislativo 90/2017, che ha recepito la IV direttiva Ue, 2015/849), che non ha riordinato i profili di responsabilità delle imprese. Eppure, la IV direttiva Ue aveva invitato gli Stati membri a introdurre una responsabilità punitiva delle persone giuridiche, collegata alle violazioni amministrative commesse a loro vantaggio, secondo lo schema di imputazione tipico della responsabilità da reato degli enti (prevista appunto dal decreto legislativo 231/2001). Ma l’indicazione - nonostante il precedente dell’articolo 187-quinquies del Testo unico in materia di intermediazione finanziaria (Tuf, decreto legislativo 58/1998) in materia di market abuse - non è stata recepita dalla riforma, che - confermando il difetto di compenetrazione tra la normativa 231 e gli altri ambiti del diritto interno - ha invece previsto sanzioni amministrative applicate alla persona giuridica in maniera diretta o a titolo di responsabilità solidale (in base all’articolo 6, comma 3, legge 689/1981). Ad esempio, per quanto riguarda l’omessa segnalazione di operazioni sospette, le commissioni di Camera e Senato, nelle proposte di modifica allo schema di decreto legislativo, avevano suggerito l’applicazione delle sanzioni pecuniarie solo alle persone giuridiche, ritenendo tale impostazione la più coerente con il generale impianto proporzionato e dissuasivo del sistema sanzionatorio post-riforma. Il nuovo articolo 58, comma 3, del decreto legislativo 231/2007 - ulteriormente allontanandosi dai principi dell’impianto sanzionatorio previsto dal decreto legislativo 231/2001 - ha invece statuito che le sanzioni si applichino al “personale (…) tenuto alla comunicazione o alla segnalazione (…) e responsabile in via esclusiva o concorrente con l’ente presso cui opera”. La questione non è di poco conto, perché sono profonde le differenze tra il sistema di imputazione della responsabilità previsto dal decreto legislativo 231/2001 e la responsabilità solidale disciplinata dall’articolo 6, comma 3, della legge 689/81. Infatti, per far scattare la “responsabilità da organizzazione” è necessario che gli illeciti commessi siano stati realizzati nell’interesse o a vantaggio dell’ente; invece, la responsabilità solidale va intesa come strumento di deterrenza generale (si veda la sentenza 22082/2017 della Cassazione) ed è attribuibile a quanti, persone fisiche o enti, abbiano interagito con il trasgressore, rendendo possibile la violazione. I profili di sovrapposizione e conflitto dei due sistemi sanzionatori (uno di prevenzione e l’altro volto alla repressione del riciclaggio), a più riprese affrontati anche dalla Cassazione, non sono, nella pratica, sempre risolvibili attraverso il semplice ricorso alla prassi legislativa. È il caso delle sanzioni per le violazioni delle norme sulle segnalazioni di operazioni sospette, per le quali, proprio per evitare fenomeni di “bis in idem”, è stata inserita la clausola di riserva “salvo che il fatto costituisca reato” (articolo 58, comma 1, decreto legislativo 231/2007); in concreto, tuttavia, non è agevole capire quando la mancata segnalazione integri un’autonoma fattispecie di illecito amministrativo e quando invece costituisca un mero indice di anomalia comportamentale, utile a definire l’elemento soggettivo dell’autore del reato di riciclaggio. La duplice responsabilità amministrativa (intesa in senso stretto o di natura para-penale) a cui sono esposte rende molto difficile per le imprese predisporre e attuare piani di governance aziendale in grado di prevenire i comportamenti del personale che violano le norme antiriciclaggio. Prima gli stipendi, poi le tasse. Non c’è dolo se l’imprenditore privilegia i dipendenti di Debora Alberici Italia Oggi, 13 febbraio 2018 La Suprema corte prende coscienza della crisi finanziaria delle aziende italiane. Può essere assolto per il mancato pagamento di ritenute o di imposte l’imprenditore che, senza liquidità, sceglie di pagare i dipendenti ai fini del loro sostentamento e di quello delle loro famiglie. Cade in questi casi il dolo, l’elemento soggettivo del reato che dev’essere sempre ben accertato ai fi ni della condanna. È quanto affermato dalla Corte di cassazione che, con la sentenza numero 6737 del 12 febbraio 2018, ha accolto il ricorso di una imprenditrice la quale, subito dopo aver assunto l’incarico, si era trovata a scegliere se pagare 200 famiglie o le ritenute. La vicenda riguarda un’azienda di Brescia caduta gravemente in crisi fra il 2009 e il 2010. Il vecchio amministratore aveva passato le consegne a una nuova manager che, a un certo punto, si era trovata a scegliere fra stipendi dei dipendenti e ritenute. La difesa aveva provato anche di fronte alla Corte d’appello a smontare l’impianto accusatorio puntando sull’assenza di dolo. In sede di merito la tesi non era stata vincente e i giudici avevano negato escludendo lo stato di necessità come scriminante del reato fiscale, usando come grimaldello le numerosissime pronunce rese in sede di legittimità. La terza sezione penale ha però fatto un vero e proprio dietrofront rispetto a posizioni passate e guardando il “rebus” giuridico da un’altra angolazione. Il dolo c’è? Questo si sono chiesti gli Ermellini e hanno accolto il ricorso della donna annullando la condanna e rinviando gli atti a Brescia per un nuovo esame. In sentenza sul punto si legge che quel che rileva infatti, indubbiamente, l’elemento soggettivo, poiché, come si è visto, il ricorso raggiunge l’acme delle sue argomentazioni nell’affermare che il dolo non può sussistere in quanto, altrimenti, “non potrebbe che configurarsi un contrasto con la Carta costituzionale laddove dovesse ritenersi la punibilità del soggetto imprenditore che omette il versamento delle ritenute fi scali, a causa di una crisi finanziaria e per far fronte ad improcrastinabili adempimenti verso altri creditori, quali i lavoratori dipendenti, pure tutelati dalla Costituzione, con particolare riferimento al diritto al lavora e alla conseguente retribuzione”. Ma non è tutto. La Cassazione non ignora che a integrare il reato sia sufficiente il dolo generico. Quest’ultimo, tuttavia, proprio in quanto dolo non può essere scisso dalla consapevolezza della illiceità della condotta che viene investita dalla volontà. La Corte d’appello, in sostanza, avrebbe dovuto accertare in modo completo la fattispecie criminosa anche in relazione all’elemento soggettivo, non potendo a priori escludere che la convinzione che i dipendenti necessitassero l’immediata corresponsione di somme di sostentamento. La decisione è destinata a far discutere. Già ha creato una disparità di opinioni all’interno del Palazzaccio: la Procura generale aveva chiesto la conferma della condanna e di respingere il ricorso della difesa. Allontanamento di minori, la Cassazione spiega la condotta pregiudizievole di Silvia Marzialetti Il Sole 24 Ore, 13 febbraio 2018 Si gioca tutta sul filo interpretativo della condotta pregiudizievole la partita che decide l’allontanamento - o meno - di un minore dalla casa familiare. Ancora una volta la Cassazione si sofferma sull’ermeneutica giuridica di quest’espressione, prendendo in esame un caso avvenuto nelle Marche, dove una donna si è opposta al decreto con cui il Tribunale per i minorenni le ha negato l’affidamento della figlia. Nessuna apertura da parte dei giudici della Suprema Corte che, con l’ordinanza 3262 del 9 febbraio, hanno definito pregiudizievole - nonostante i numerosi tentativi da parte della donna di smarcarsi - la condotta della madre. Condotta che - a detta dei giudici - è delineata in una serie di elementi inequivocabili quali il disturbo paranoide di personalità da cui è affetta - con scivolamenti in un pensiero psicotico e di marcato autoriferimento - e una serie di condotte ostative ed omissive, quali l’incapacità di seguire le indicazioni degli operatori del Servizio sociale e la indisponibilità a sottoporsi a trattamenti finalizzati a migliorare il suo afflato materno. Inadeguata capacità genitoriale - questa la diagnosi - un deficit incompatibile con qualsiasi volontà di contribuire a un equilibrato sviluppo psico-fisico della figlia. Nell’unico motivo di ricorso presentato dalla difesa, la donna aveva negato la presenza di gravi motivi e contestato lo stato di abbandono che le era stato imputato. Dichiarava, inoltre, di aver trovato una casa e un lavoro. Ma non basta, i giudici sono tranchant: “Quand’anche lo svolgimento di una attività lavorativa e la disponibilità di una abitazione dovessero risultare effettive, va osservato che non ne viene in alcun modo illustrata l’idoneità a riverberarsi positivamente sulla sua capacità genitoriale”. Accesso abusivo a un sistema informatico o telematico. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 13 febbraio 2018 Delitti contro l’inviolabilità del domicilio - Accesso abusivo a sistema informatico o telematico - Nozione - Atto commesso da pubblico ufficiale o incaricato di un pubblico servizio - Aggravante - Fattispecie. Integra il delitto previsto dall’articolo 615-ter c.p., comma 2, n. 1, la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio che, pur essendo abilitato e pur non violando le prescrizioni formali impartite dal titolare di un sistema informatico o telematico protetto per delimitarne l’accesso, acceda o si mantenga nel sistema per ragioni ontologicamente estranee rispetto a quelle per le quali la facoltà di accesso gli è attribuita. (Fattispecie riguardante carabiniere entrato nel sistema informatico protetto per ricerche non riconducibili ad esigenze investigative ma di natura privata collegate ad una relazione sentimentale). - Corte di cassazione, sezione 5 penale, sentenza 12 gennaio 2018 n. 1021. Reato - Principio di specialità ex articolo 15 c.p. - Reato di accesso abusivo in un sistema informatico - Reato di illecito trattamento dei dati personali - Rapporto di specialità - Esclusione - Ragioni. Non sussiste alcun rapporto riconducibile all’ambito di operatività dell’art. 15 cod. pen. tra il reato di cui all’articolo 615 ter cod. pen., che sanziona l’accesso abusivo ad un sistema informatico, e quello di cui all’art. 167, D.Lgs. n. 167 del 2003, concernente l’illecito trattamento di dati personali, in quanto costituiscono fattispecie differenti per condotte finalistiche e attività materiali che escludono la sussistenza di una relazione di omogeneità idonea a ricondurle “ad unum” nella figura del reato speciale, ex art. 15 cod. pen. - Corte di cassazione, sezione 5 penale, sentenza 13 marzo 2017 n. 11994. Accesso abusivo a sistema informatico - Articolo 615 ter, co. 1 e 2, c.p.- Contenuto dei sistemi informatici o telematici protetti da misure di sicurezza - Oggetto di tutela penale - Violazione delle prescrizioni impartite dal “dominus loci” - Dolo generico - Rigetto. Ai fini della configurabilità del reato di cui all’articolo 615-ter cod. pen., l’accesso abusivo ad un sistema informatico consiste nella obiettiva violazione delle condizioni e dei limiti risultanti dalle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne l’accesso, compiuta nella consapevolezza di porre in essere una volontaria intromissione nel sistema in violazione delle regole imposte dal “dominus loci”, a nulla rilevando gli scopi e le finalità che abbiano soggettivamente motivato tale accesso. (Nella fattispecie la S.C. ha ritenuto immune da censure la condanna del cancelliere di un tribunale che si era introdotto nel sistema del casellario giudiziale ed aveva preso visione dei precedenti di un soggetto ricorrendo all’artificio consistente nell’indicazione di un procedimento inesistente ovvero relativo a soggetto diverso). - Corte di cassazione, sezione 5 penale, sentenza 29 luglio 2016 n. 33311. Delitti contro l’inviolabilità del domicilio - Accesso abusivo a sistema informatico o telematico - Configurabilità - Accesso autorizzato ma per scopi estranei e diversi - Sussiste. Integra il delitto di accesso abusivo a un sistema informatico e telematico non soltanto la condotta di accesso a un sistema informatico senza autorizzazione, ma anche quella di accesso o mantenimento nel sistema posta in essere da un soggetto abilitato ma per scopi o finalità estranei a quelli per i quali la facoltà di accesso gli è stata attribuita. In questi casi, infatti, il soggetto agente è stato ammesso dal dominus del sistema solo a determinate condizioni, in assenza o in violazione delle quali le condotte di accesso o mantenimento nel sistema non possono considerarsi assentite dall’autorizzazione ricevuta. (In motivazione la Suprema Corte ha precisato che, ai fini dell’integrazione del reato, rileva l’oggettiva violazione delle prescrizioni e dei limiti posti dall’avente diritto a condizione dell’accesso e non anche lo scopo - lecito o illecito esso sia - che ha motivato l’ingresso a sistema). - Corte di cassazione, S.U. penali, sentenza 27 ottobre 2011 n. 4694. Accesso abusivo ad un sistema informatico - Reato di mera condotta - Perfezione del reato - Introduzione in un sistema informatico - Sufficienza - Violazione della riservatezza dei legittimi utenti - Finalità di insidiare detta riservatezza - Necessità - Esclusione. Il delitto previsto dall’articolo 615 ter c.p. è di mera condotta (ad eccezione per le ipotesi aggravate del comma secondo, nn. 2 e 3) e si perfeziona con la violazione del domicilio informatico - e, quindi, con la introduzione nel relativo sistema - senza la necessità che si verifichi una effettiva lesione del diritto alla riservatezza dei dati. (Fattispecie in cui il reato è stato ravvisato nella condotta degli imputati, che si erano introdotti in una centrale Telecom ed avevano utilizzato apparecchi telefonici, opportunamente modificati, per allacciarsi a numerose linee di utenti, stabilendo, all’insaputa di costoro, contatti con utenze caratterizzate dal codice 899). - Corte di cassazione, sezione 5 penale, sentenza 20 marzo 2007 n. 11689. Barcellona Pozzo di Gotto (Ms): secondo suicidio del 2018 nell’ex Opg diventato carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 febbraio 2018 Aveva 25 anni ed è stato ritrovato impiccato sabato pomeriggio in cella di isolamento. Parliamo di un giovane detenuto rinchiuso nel carcere siciliano di Barcellona Pozzo di Gotto, appellante con una pena che sarebbe dovuta finire di scontare nel 2023. Soffriva di problemi psichiatrici, era detenuto per stalking dopo un passato influenzato dall’utilizzo di sostante stupefacenti. Un nuovo suicidio, il settimo dall’inizio dell’anno. Il secondo, sempre di questo 2018, nello stesso carcere. Da quanto l’istituto penitenziario da Opg è diventato carcere a tutti gli effetti, i suicidi sono aumentati. Il suicidio del giovane accende di nuovo i riflettori sulla necessità di garantire adeguate cure ai pazienti rinchiusi nelle articolazioni psichiatriche delle carceri. Come il caso, appunto, dell’ex Opg siciliano convertito in Casa circondariale, dove nell’ottavo reparto psichiatrico è carente l’aspetto risocializzante ed educativo. Sì, perché secondo i dati risalenti nell’ottobre scorso risultano ristrette 60 persone detenute di cui 45 minorati psichici e 15 ex art. C. P. 148 con sopravvenuta malattia mentale. A questi si aggiungono due persone con misura di sicurezza definitiva e una persona con misura di sicurezza provvisoria in attesa di posto nelle Rems, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Non parliamo di casi isolati, visto che, sparsi per le carceri italiane, ci sono 56 pazienti psichiatrici in attesa di essere spostati in una struttura sanitaria. Le difficoltà maggiori, in realtà, sono fuori. Non si riescono a gestire tutte le complesse domande di assistenza psichiatrica e le Rems non possono ovviamente far fronte a questo problema. Quest’ultime sono in overbooking. Per fare un esempio, solo nella regione Lazio ci sono 91 ospiti nelle Rems, mentre in lista d’attesa ci sono 40 persone. Qui nasce un problema. Una parte sono in libertà, un’altra - come già detto - è in carcere. Non parliamo di persone raggiunte da un’ordinanza di custodia cautelare in carcere, ma di custodia presso le residenze sanitarie. Casi che poi possono sfociare in tragedia. Come il caso di Valerio Guerrieri. Un ragazzo di 22 anni che si è ammazzato durante la permanenza al carcere di Regina Coeli. Al di là di ogni valutazione circa sul grave discorso dei suicidi che avvengono in carcere, lui lì non doveva starci. Poi ci sono le articolazioni psichiatriche dove non mancano casi di inefficienza. Conducono una vita in reparti completamente chiusi e soli, dove regna abbandono, solitudine, ozio, noia, aggressioni, autolesioni, tentati suicidi e, come in questo caso, suicidio. Quasi tutti rifiutano l’ora di passeggio. Pochi frequentano corsi professionali o scuole. Di chi è la responsabilità di tale inefficienza? Il garante regionale dei detenuti Stefano Anastasia lo spiegò a Il Dubbio: “All’interno del carcere, il dipartimento di salute mentale deve cambiare modalità di azione rispetto al passato. Un tempo interveniva per trasferire i detenuti con patologie psichiatriche negli Opg, oggi, invece, deve prendere in carico i detenuti psichiatrici prescrivendo dei piani terapeutici e di sostegno. Come del resto fa il servizio per le dipendenze. Un modello, quest’ultimo, che dovrebbe essere esteso anche nei confronti della salute mentale in carcere”. Un aiuto in tale senso, potrebbe arrivare - se mai venisse approvata - dalla riforma dell’ordinamento penitenziario. Il decreto attuativo della riforma che parla di assistenza sanitaria, prevede infatti la possibilità di estendere il “rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena” alla infermità psichica oltre che a quella fisica, la previsione di estendere ai pazienti con turbe psichiche l’affidamento in prova e la detenzione domiciliare, la sottolineatura dell’importanza del Servizio Sanitario all’interno dei penitenziari, che assume sempre più autonomi compiti di garanzia nel momento in cui assume quelli di cura, e la ribadita necessità di predisporre, all’interno degli Istituti Ordinari di pena delle “Sezioni per detenuti con infermità psichica”. Salerno: notte tragica in carcere, detenuta napoletana muore nel sonno di Petronilla Carillo Il Mattino, 13 febbraio 2018 Notte tragica alla Casa Circondariale di Salerno: un detenuta muore nel sonno. Verso le ore 2 nella sezione femminile della Casa Circondariale è stata rinvenuta cadavere nel proprio letto una detenuta sessantacinquenne di origine napoletana A.C. con posizione giuridica definitiva e fine pena nel 2019. Durante un giro di controllo il personale di servizio si è accorto del decesso della donna passata dal sonno alla morte tanto che le compagne di stanza altre due detenute non si sono accorte del trapasso. A nulla sono valsi i tentativi di rianimazione del sanitario di turno che ha riscontrato l’arresto cardiocircolatorio. Nella nottata è intervenuto anche il medico legale su disposizione dell’A.G. competente avvisata dalla Direzione del Penitenziario. “La morte in carcere è sempre un evento drammatico che lascia un profondo senso di disagio e inquietudine in tutti. E ogni volta si apre il dibattito sulla necessità e reale opportunità di tenere una persona in carcere forse come in questo caso. L’universo penitenziario gira attorno all’essere umano sia esso detenuto che operatore quale il poliziotto penitenziario per cui la morte è una sconfitta per tutti” scrive Emilio Fattorello della Segreteria Nazionale Sappe. Benevento: malore in carcere, morì al Rummo, il caso di un 59enne ottopagine.it, 13 febbraio 2018 Il decesso di Agostino Taddeo, di Benevento, risale all’ottobre 2016. Si sarebbe potuto salvare? Impossibile dirlo, ma tutto ciò non esclude che avrebbe dovuto ricevere una migliore assistenza sanitaria in carcere. Sarebbero queste, in soldoni, le conclusioni alle quali è giunta la dottoressa Monica Fonzo nella relazione, ora messa a disposizione delle parti, dell’autopsia di Agostino Taddeo, 59 anni, di Benevento, già noto alle forze dell’ordine, morto nella notte tra il 12 ed il 13 ottobre del 2016 al Rummo, dove si trovava da qualche giorno. Quando era stato trasferito in ospedale dopo aver accusato un malore all’interno della casa circondariale di contrada Capodimonte, della quale era ospite. Affetto da problemi di natura cardiovascolare, Taddeo stava infatti scontando una condanna a tre anni, diventata definitiva, che gli era stata inflitta per reati legati allo spaccio di sostanze stupefacenti. Si era sentito male, per questo era stato soccorso e, viste le sue condizioni, immediatamente trasportato al Rummo. Qui, era stato sottoposto ad un intervento chirurgico, poi era stato ricoverato nel reparto di rianimazione, dove il suo cuore aveva cessato di battere per sempre. La salma era stata sequestrata su ordine del sostituto procuratore Iolanda Gaudino, ora non più in servizio nel capoluogo sannita, che nei giorni successivi aveva affidato l’incarico dell’esame autoptico al medico legale Fonzo, avvisando, per consentire loro l’eventuale nomina di un consulente, i familiari di Taddeo, uno dei quali rappresentato dall’avvocato Vincenzo Sguera. Un lavoro, quello curato dal consulente della Procura, che non avrebbe ravvisato profili di responsabilità a carico dei medici del Rummo, ed avrebbe messo nel mirino, come detto, il livello di assistenza assicurato al 59enne nella struttura detentiva. Circostanze che ora riempiono un’inchiesta, all’epoca avviata contro ignoti, attualmente diretta dal pm Miriam Lapalorcia. Livorno: al carcere delle “Sughere” una situazione invivibile di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 febbraio 2018 La denuncia del Garante Franco Corleone e del Consigliere comunale Andrea Raspanti. Il carcere “Le Sughere” di Livorno si trova in una situazione altamente critica. A denunciarlo è il Garante dei detenuti della regione Toscana, Franco Corleone, dopo la sua ultima visita effettuata mercoledì scorso. È dal 2011 che, con la chiusura dei due padiglioni principali, la casa circondariale di Livorno non riesce a trovare pace tra sezioni chiuse, ristrutturazioni in corso e la difficoltà di conciliare restrizioni ed esigenze di alta sicurezza e media sicurezza. Criticità mai risolte, ma solo in via di peggioramento. Numerosi, secondo Corleone, sono i problemi del carcere, e tali da impedire una condizione di vita accettabile. Innanzitutto, per quanto riguarda l’alta sicurezza, l’accordo con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria prevede che ogni cella ospiti due detenuti, mentre attualmente le persone per cella sono tre, con grossi problemi di convivenza vista la lunga durata delle pene e il fatto che molti degli ospiti studiano. Secondo problema, le cucine, costruite due anni fa e mai collaudate né messe in funzione perché è stato commesso un errore di costruzione, per rimediare il quale non è stata individuata alcuna soluzione. Anche le docce nel reparto giallo sono state chiuse e transennate da alcuni mesi per problemi strutturali e i detenuti devono andare a fare la doccia in un altro reparto. Ancora, gli alloggi di servizio per la polizia penitenziaria sono vuoti e inutilizzabili perché pericolanti. Per il Garante si tratta di ferite aperte in una struttura afflitta da gravi problemi che turbano profondamente la vita quotidiana di chi vi è ospitato. A queste criticità, infine, si aggiunge il fatto che sotto la direzione livornese c’è anche Gorgona, carcere fino a qualche anno fa considerato modello, che ospita quasi 100 detenuti e che non ha ad oggi un progetto, per cui nessun detenuto lavora. In prima fila, a denunciare la situazione del carcere di Livorno, è il consigliere comunale Andrea Raspanti appartenente a una lista civica di opposizione. “Nell’occasione dell’ultima visita di Corleone non c’ero- spiega Raspanti a Il Dubbio, ma sono andato l’ultima volta a Natale, la Vigilia per l’esattezza, facendo poi una conferenza stampa fuori dai cancelli per denunciare quello che con Corleone abbiamo denunciato anche mercoledì”. Raspanti racconta che ha visitato il carcere una decina di volte negli ultimi tre anni. “Ogni volta - spiega il consigliere - ho prodotto delle mozioni in Consiglio comunale che, una volta approvate, sono state inviate alla direzione del carcere, al provveditorato, al Dipartimento di amministrazione penitenziaria e al ministero della Giustizia”. Nonostante le continue mozioni, i problemi denunciati sono ancora tutti irrisolti. “Chi è detenuto all’interno delle Sughere - sottolinea Raspanti a Il Dubbio -, di fatto, sconta una pena illegale, non rispettosa del dettato costituzionale e incurante della sentenza della Corte Europa dei Diritti”. Il consigliere spiega che sono nate sinergie importanti con Arci e la Camera Penale, oltre che con i parenti di alcune persone ristrette. “Abbiamo rotto un silenzio - racconta Raspanti -, ottenendo in diverse occasioni l’attenzione dei media locali e introducendo una voce diversa nel dibattito pubblico sulla sicurezza in città, ormai dominato dal pensiero unico giustizialista”. Andrea Raspanti assicura: “Corleone ha lanciato una serie di proposte di mobilitazione che non intendiamo lasciar cadere. Chiederemo al Sindaco e al Consiglio comunale un impegno ancora maggiore”. Roma: “RecuperAle”, la bio-birra spillata dai carcerati di Erica Battaglia Vita, 13 febbraio 2018 Una produzione artigianale nata dalla trasformazione di pane recuperato dai grandi eventi e “firmata” da due detenuti di Rebibbia. Che hanno conquistato anche Eataly. Li chiameremo Daniel e Marco: sono loro ad aver beneficiato dei permessi per uscire dalla casa circondariale di Rebibbia o dagli arresti domiciliari e recuperare un ruolo nella società come produttori e venditori di birra artigianale. Lo hanno fatto lo scorso Lunedi, 5 febbraio, da Eataly in occasione della V Giornata nazionale di Prevenzione dello Spreco alimentare 2018. Vendevano la “RecuperAle”, una birra particolare. Non solo perché prodotta dalle loro mani e dal loro quotidiano lavoro fuori dal carcere, ma anche perché nata dalla trasformazione di pane recuperato dai grandi eventi. Vederli lavorare e dare consigli d’acquisto al dorato pubblico che ogni giorno affolla gli scaffali di Eataly a Roma è stato un privilegio, ma anche la concretizzazione di un percorso progettuale che ha messo insieme due realtà associative da tempo impegnate sul tema del recupero, alimentare e umano. La birra artigianale “RecuperAle” infatti nasce dalla collaborazione di due Onlus: “Equoevento”, che si occupa di recuperare le eccedenze alimentari di qualità per destinarle a chi ha bisogno, e “Semi di Libertà” che si occupa di inserimento lavorativo di persone detenute nel carcere di Rebibbia a Roma nella filiera della birra artigianale con il progetto “Vale la Pena”. A ben vedere si tratta di due realtà che tentano, con successo, di restituire dignità a quello che troppo spesso viene solo giudicato come non più utile: parliamo di tutto il cibo che avanza nel corso di grandi eventi, ma anche di tutte quelle persone che in stato di detenzione scontano isolamento e stigma. La cornice offerta da Eataly, il cui pane viene appunto recuperato da Equoevento Onlus, e la Giornata nazionale di Prevenzione delle Spreco alimentare 2018 hanno permesso a Daniel e Marco di vedere nel concreto cosa succede alla birra artigianale prodotta con le loro mani quando esce dal birrificio che ha dato loro la possibilità di ricrearsi, o addirittura crearsi, un’alternativa di vita. Il contatto con i clienti, il sorriso degli stessi dopo la degustazione, il denaro incassato e la palese soddisfazione che si avverte in ognuno di noi quando finisce una giornata lavorativa fruttuosa ed entusiasmante sono probabilmente il risultato più concreto di un progetto e di un prodotto che ha saputo mettere insieme due esperienze di “recupero”. Il pane recuperato nell’ambito di grandi eventi da Equoevento Onlus è infatti l’elemento in più che permette alla birra artigianale prodotta da Daniel e Marco di essere qualcosa di diverso rispetto alle tradizionali birre di settore: è con la trasformazione del pane recuperato infatti che “RecuperAle” diventa tale. Un messaggio importante che ben si coniuga con il grande tema dello spreco alimentare che, solo nel nostro Paese, ha un costo complessivo di 16 miliardi all’anno, ovvero l’1% del Prodotto interno lordo. Lo spreco domestico poi, per entrare un po’ più nel dettaglio, rappresenta il 70% di questo numero enorme di miliardi buttati nella spazzatura. “Niente di sprecato, niente di intentato”, è il commento di Paolo Strano, presidente di Semi di Libertà e ideatore del progetto Vale la Pena. “Quando abbiamo iniziato, non senza difficoltà, non immaginavamo di dare una prospettiva innovativa di inserimento lavorativo. Dobbiamo ricrederci perché negli anni il progetto si è consolidato e oggi abbiamo all’attivo la produzione di diverse birre artigianali. Diciamo che RecuperAle è un passo avanti nell’idea che già avevamo del recupero: aver coniugato il nostro lavoro di inserimento lavorativo con le persone detenute a quello di una Onlus che ci invita a riflettere su quanto cibo venga sprecato sulle nostre tavole e nei grandi eventi è stato un arricchimento reciproco”. Larino (Cb): diocesi e carcere insieme per insegnare un lavoro ai detenuti primonumero.it, 13 febbraio 2018 Sono già stati raccolti 10mila euro che garantiscono tre tirocini di formazione per reclusi in condizioni di grande povertà. Obiettivo del Vescovo e della direttrice La Ginestra è arrivare almeno a 5 tirocini. E così nella quinta domenica di Quaresima il denaro raccolto nelle parrocchie sarà devoluto all’iniziativa, come già accaduto nelle settimane prima di Natale. Sono già stati raccolti 10mila euro, una somma destinata a coprire i costi di tre tirocini formativi per altrettanti detenuti che vivono una situazione di estrema povertà. Ma il progetto della diocesi di Termoli-Larino non si ferma, con l’obiettivo di arrivare almeno a 5 tirocini. Che significano, per altrettanti reclusi, la possibilità di imparare un lavoro e quindi di reintegrarsi nella società in maniera “onesta”. Chi esce dal carcere, spesso torna a delinquere perché non ha possibilità di lavorare, di guadagnarsi il pane e mantenere la famiglia senza ricorrere a espedienti criminali. L’iniziativa della diocesi va nella direzione prevista anche dal nostro codice, cioè garantire una chance per la riabilitazione sociale. E quindi, come già avvenuto nel periodo di Avvento, anche ora durante la Quaresima prosegue la raccolta per un fondo di sostegno a favore dei detenuti del carcere di Larino in collaborazione con il direttore della casa circondariale, Rosa La Ginestra. La quinta domenica di Quaresima, 18 marzo, tutte le comunità parrocchiali, movimenti, gruppi e associazioni ecclesiali sono invitate a destinare il raccolto nelle celebrazioni liturgiche al progetto. Progetto che le comunità religiose del territorio hanno già dimostrato di voler sposare, mettendo insieme nelle settimane prima di Natale circa diecimila euro, somma che consente di attivare tre tirocini formativi destinati a coloro che scontano la loro pena nella struttura di Larino e vivono situazioni di povertà estrema. L’obiettivo è quello di raggiungere un importo tale da consentire di arrivare almeno a cinque opportunità di formazione-lavoro. Un invito, dice il vescovo della Diocesi di Termoli - Larino, Gianfranco De Luca, “rivolto a tutti, alla società intera, perché ci si apra alla condivisione con quanti vivono una particolare condizione di povertà, e inoltre sentono la responsabilità per le loro famiglie non raramente in condizioni di estremo bisogno”. Molte parrocchie della comunità diocesana hanno contribuito anche donando beni di prima necessità fatti pervenire direttamente attraverso il cappellano del carcere, don Marco Colonna. E anche questa iniziativa va avanti: oltre alla raccolta-fondi le parrocchie potranno reperire anche beni di prima necessità, come prodotti igienici e abbigliamento, che verranno gestiti dal cappellano e dal gruppo dei volontari della Pastorale carceraria. Ferrara: operatori del carcere, un progetto per il loro benessere cronacacomune.it, 13 febbraio 2018 Un progetto che punta al “Benessere sul luogo di lavoro per il personale operante nella Casa circondariale di Ferrara”. È stato illustrato lunedì 12 febbraio 2018 nella sala degli Arazzi del Comune di Ferrara il progetto “Benessere sul luogo di lavoro per il personale operante nella Casa circondariale di Ferrara”, iniziativa che ha l’obiettivo di migliorare la qualità della vita lavorativa degli operatori della struttura penitenziaria ferrarese che prenderà il via a metà febbraio e si svilupperà fino al prossimo luglio. All’incontro con i giornalisti sono intervenuti Stefania Carnevale, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Ferrara e responsabile del progetto, Chiara Sapigni, Assessore a Sanità, Servizi alla Persona, Politiche Familiari, Marcello Marighelli, Garante delle persone private della libertà personale della Regione Emilia-Romagna, Annalisa Gadaleta, Comandante del reparto di Polizia penitenziaria della Casa Circondariale di Ferrara, e Claudia Tinti, psicologa e psicoterapeuta, responsabile Jonas Onlus di Firenze e coordinatrice del progetto. Grande apprezzamento è stato espresso da parte degli intervenuti a un progetto molto sentito che prende corpo a Ferrara e coinvolge in sinergia enti e istituzioni del territorio con modalità e caratteristiche attualmente uniche in Italia. Per la garante Carnevale si è trattato di “concretizzare esigenze più volte espresse dal personale interno alla struttura durante le numerose visite alla struttura. L’idea è stata quindi raccolta con grande convinzione dai vertici operativi del penitenziario e dall’Amministrazione comunale che ha subito sostenuto l’operazione”. Il progetto, che prenderà il via il 13 febbraio e si svilupperà fino a luglio di quest’anno, è volto a migliorare la qualità della vita lavorativa degli operatori della Casa circondariale di Ferrara, fornendo opportunità di confronto guidato e ascolto su temi e problematiche inerenti lo svolgimento della professione in carcere. Chi lavora negli istituti detentivi deve continuamente fronteggiare situazioni di elevata complessità e delicatezza, che possono risultare stressanti o logoranti anche per chi abbia una lunga esperienza nel campo. Il personale è costantemente esposto all’alto tasso di sofferenza e conflittualità proprio della vita detentiva, deve affrontare rischi concreti o misurarsi con eventi critici, non di rado traumatici, in un contesto contrassegnato da insufficienze di organico e ambienti di lavoro che, per la loro peculiare destinazione, non facilitano il benessere di chi vi passa lungo tempo. Si tratta di un progetto-pilota (per articolazione degli interventi e quantità e provenienza delle figure coinvolte) che punta a creare occasioni di dialogo, riflessione e condivisione sui problemi e le difficoltà legate al lavoro in una struttura carceraria e sulle opportunità di miglioramento che possono essere coltivate per incrementare il benessere del personale. Non di rado i lavoratori impiegati negli istituti penitenziari lamentano (e legittimamente) assenza di attenzione e di presa in carico delle loro specifiche esigenze. A questa richiesta di ascolto hanno voluto prestare la massima attenzione le istituzioni territoriali (Garante dei detenuti, promotrice; Comune di Ferrara e Regione Emilia-Romagna, enti finanziatori) che si sono rivolte ad una associazione molto nota sul piano nazionale e internazionale (Jonas onlus, fondata dal celebre psicoanalista Massimo Recalcati) per strutturare un progetto dedicato esclusivamente alla trattazione condivisa dei problemi del personale. Gli esperti di Jonas verranno a Ferrara per molti mesi da tutto il territorio nazionale: in una prima fase per tenere degli incontri a tema sulle maggiori problematiche relative al lavoro in una istituzione totale; in una seconda fase per guidare dei gruppi di discussione su questioni più specifiche. L’associazione Jonas sosterrà autonomamente parte delle spese del progetto, contribuendo anche sul piano economico alla sua riuscita. L’iniziativa si rivolge a tutte le diverse professionalità operanti presso la Casa circondariale di Ferrara: agli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria, che rappresentano la percentuale di gran lunga maggioritaria dei soggetti impiegati in istituto; ai funzionari dell’Area giuridico-pedagogica; ai medici e infermieri che svolgono la loro attività nella Casa della Salute “Arginone” (presidio della Asl locale). I momenti di incontro e ascolto puntano a creare spazi di confronto e dialogo interprofessionali, in grado di migliorare le condizioni lavorative anche mediante lo scambio di opinioni e la condivisione di problematiche comuni. Agrigento: “Le brutte anatroccole”, le donne del carcere “Petrusa” diventano attrici agrigentonotizie.it, 13 febbraio 2018 È entrato nel vivo il laboratorio teatrale “Le brutte anatroccole”, rivolto alle donne che si trovano nel carcere Petrusa di Agrigento. Il progetto - fa sapere il Centro provinciale per l’istruzione degli adulti di Agrigento - sta vedendo la partecipazione di quasi il 50 per cento delle donne del Petrusa, che hanno aderito a laboratori di dizione, coro, sartoria e estetica. Ente promotore è il Cpia di Agrigento, insieme alla Caritas Diocesana, che organizza anche corsi scolastici di alfabetizzazione di lingua italiana per stranieri e corsi di primo livello per il conseguimento della licenza media. Il laboratorio “Le brutte anatroccole”, - fa sapere il Cpia - si concluderà con una rappresentazione l’8 marzo alle 10, alla presenza del cardinale Francesco Montenegro, delle autorità regionali e locali, del corpo docente, dei familiari delle donne partecipanti e di una delegazione del Soroptimist e della Caritas. A chi sono utili le “inutili guerre” di Manlio Dinucci Il Manifesto, 13 febbraio 2018 La canzone meritoriamente vincitrice del Festival di Sanremo è accompagnata da un videoclip che mostra drammatiche scene di guerra e attentati in un mondo in cui la vita, nonostante ciò, deve andare avanti “perché tutto va oltre le vostre inutili guerre”. Proviamo a sostituire al videoclip un docu-film degli ultimi fatti. In Europa la Nato sta schierando crescenti forze (comprese quelle italiane) sul fronte orientale contro la Russia, presentata quale minacciosa potenza aggressiva. Nel quadro di un riarmo nucleare del costo di 1.200 miliardi di dollari, gli Stati uniti si preparano a schierare dal 2020 in Italia, Germania, Belgio e Olanda, e probabilmente anche in Polonia e altri paesi dell’Est, le nuove bombe nucleari B61-12, di cui saranno armati i caccia F-35. Alle esercitazioni di guerra nucleare partecipa l’Aeronautica italiana, che lo scorso settembre ha inviato un suo team presso il Comando strategico degli Stati uniti. Gli Usa accusano inoltre la Russia di schierare sul proprio territorio missili a raggio intermedio con base a terra, in violazione del Trattato Inf del 1987, e si preparano a schierare in Europa missili analoghi ai Pershing 2 e ai Cruise degli anni Ottanta. Si crea in tal modo un confronto militare analogo a quello della guerra fredda, che accresce l’influenza Usa in Europa e ricompatta gli alleati nella comune strategia mirante a mantenere la supremazia in un mondo che cambia. Ciò comporta una crescente spesa militare: l’Italia la porterà da 70 a 100 milioni di euro al giorno; la Spagna a 50 milioni con un aumento del 73% entro il 2024; la Francia la accrescerà del 40% superando i 135 milioni al giorno. Per potenziare il proprio arsenale nucleare, inoltre, la Francia spenderà 37 miliardi di euro entro il 2025. Affari d’oro per le industrie belliche: il rendimento azionario della maggiore del mondo, la statunitense Lockheed Martin, è aumentato dell’84% in tre anni. Funzionali ai potenti interessi che alimentano l’escalation Usa/Nato sono le formazioni neonaziste ucraine, addestrate da istruttori Usa trasferiti da Vicenza. L’Ucraina di Kiev, dove convergono militanti da altri paesi, è divenuta il “vivaio” del rinascente nazismo nel cuore dell’Europa (ma di questo in Italia praticamente non si parla). In Medioriente, fallito in seguito all’intervento russo a sostegno di Damasco il piano Usa/Nato di demolire lo Stato siriano come già fatto con quello libico, è in corso il tentativo, coordinato con Israele, di balcanizzare il paese strappandogli pezzi del territorio nazionale. In una audizione al Congresso Usa il 6 febbraio scorso, l’ambasciatore (a riposo) Robert Ford ha dichiarato che, per le operazioni militari e “civili” in Siria, nella cui parte orientale operano oggi circa 2.000 militari Usa, gli Stati uniti hanno speso dal 2014 12 miliardi di dollari (in gran parte per armare e sostenere movimenti jihadisti allo scopo di scardinare lo Stato dall’interno). In Asia orientale - sottolinea la “National Defense Strategy 2018” del Pentagono - gli Stati uniti hanno di fronte “la Cina, un competitore strategico che usa una economia predatoria per intimidire i suoi vicini, mentre militarizza sotto diversi aspetti il Mar Cinese Meridionale”. Il Pentagono sta esaminando un piano per inviare in Asia Orientale una forza di reazione rapida dei Marines, pesantemente armata. Perdendo terreno sul piano economico rispetto alla Cina, gli Stati uniti mettono in campo la loro forza militare. Creano così nuove tensioni nella regione, non a caso nel momento in cui vi sono segnali distensivi tra le due Coree. Lo sbocco può essere un’altra guerra, non “inutile” ma utilissima alla strategia dell’impero. Migranti. La politica del “non fare” di Milena Gabanelli Corriere della Sera, 13 febbraio 2018 L’Italia è un paese geograficamente esposto e non riuscirà mai bloccare le migrazioni. Può rallentarle, e lo stiamo facendo, ma è una partita che si gioca in Europa e su più tavoli. Come gestire l’accoglienza di chi è già qui e di coloro che continueranno, a ondate, a sbarcare, dipende invece solo da noi. I migranti oggi sono puro business - Abbiamo 7500 centri di accoglienza temporanea (Cas), 15 centri governativi (ex Cara), 652 centri Sprar, 4 hot spot. Oggi ospitano complessivamente 183.000 migranti. Quando non bastano si invoca l’aiuto delle parrocchie, e si allestiscono tende. Sta di fatto che sempre più spesso li vedi dormire nei sottopassi, sotto i portici, nelle stazioni. La gestione è affidata dai prefetti a consorzi, cooperative, associazioni. Sono pagati per fare corsi di lingua, ma li fanno in tre; corsi di formazione che sono perlopiù sulla carta; di educazione alle regole europee invece se ne parla solo. Cosa “integri” se non capisci la lingua? Salvo rarissime eccezioni, gli immigrati sono puro business privato. Il risultato è che finiscono nel giro di caporalato, nei parcheggi o per strada a vendere calzini, o, peggio, nel giro dello spaccio. È un fenomeno ormai strutturale che non è gestito, e per farlo lo Stato deve prendersi in mano l’intera filiera dell’accoglienza, e utilizzare le associazioni solo per un lavoro di supporto. Lo spreco degli affitti - Invece di pagare 1 miliardo e 100 l’anno in affitti di alberghi e strutture varie, utilizziamo tutti gli spazi pubblici dismessi: dagli ex ospedali, ai resort sequestrati alle mafie e soprattutto le ex caserme: ne abbiamo centinaia, dalla Sicilia al Friuli, alcune sono agibili da subito e altre le sistemi con procedure d’urgenza. Sono spazi enormi, dove ci puoi fare tutto, dall’alloggio agli asili per i bambini, le aule per corsi di lingua e formazione per 8 ore al giorno, con obbligo di frequenza. In questi luoghi la permanenza deve essere di 6 mesi, dove esci identificato, con uno status e un curriculum in mano: dal titolo di studio a quale mestiere sai fare. E solo a quel punto i migranti che hanno diritto all’asilo vengono rilocati in piccoli gruppi nei comuni sparsi sul territorio: i famosi Sprar. Un modello d’accoglienza che crea lavoro - Per fare tutto questo occorre assumere a tempo pieno 22.000 professionisti, fra insegnanti, formatori, psicologi, medici, personale dedicato all’identificazione. Un modello che oltre a mettere le basi per una vera integrazione, crea lavoro anche per noi; e la popolazione avrà la percezione di un maggiore controllo perché vede che c’è un progetto. Quanto costa un progetto serio? - I costi sono anche stati stimati e sottoposti dalla sottoscritta, insieme all’idea complessiva, al Commissario europeo per le migrazioni Dimitris Avramopoulos. Alla domanda: “L’Europa potrebbe finanziare un progetto di questa portata?”. La risposta del Commissario è stata: “Se l’Italia mettesse in piedi un piano nazionale complessivo, e il governo lo facesse suo presentandolo agli organi europei competenti, sarebbe senz’altro recepito positivamente. I soldi ci sono”. Tutto questo è stato trasmesso due anni fa all’interno di una puntata di Report. Peccato che nessun esponente politico, di nessun partito, lo abbia mai preso sul serio. Il tema spinoso sono i migranti economici - Il tema più complicato riguarda quel 60% di migranti che non rientra nella categoria dei richiedenti asilo. Oggi ci vogliono due anni per identificarli, nel frattempo i migranti spariscono, insieme ad un numero altissimo di minori non accompagnati (abbiamo la migliore legge del mondo per tutelarli, ma non ha copertura e, così, succede che negli ultimi 3 anni ne sono sbarcati 64.000, ma presenti sul territorio a luglio scorso erano solo 17.864: che fine hanno fatto?). Se ci fosse personale qualificato dedicato all’identificazione, si potrebbe stabilire in 6 mesi chi deve restare e chi no. La partita dei rimpatri si contratta attraverso accordi con i paesi d’origine, ma sono difficili e molto onerosi. Potremmo affrontare la questione inserendo le quote, anche temporanee, in modo da trasformare una “calamità” in una “opportunità” più regolata, sicura, e civile. Abbiamo bisogno di badanti, muratori, di chi va a raccogliere pomodori, uva, mele. È meglio che siano clandestini sottopagati, o lavoratori regolari? Un Paese civile si comporterebbe diversamente - I timori dei cittadini, che vedono aumentare il degrado in molti quartieri periferici dove vivono, non vanno ignorati: bisogna mettersi nei loro panni e rassicurarli, governando il fenomeno con una visione pragmatica e realistica. La politica di un Paese civile si compatta su questo, senza dividersi fra quelli che si mettono la mano sul cuore e quelli che la mettono alla fondina. Perché alla fine l’unico risultato che rischiano di produrre è l’instabilità sociale. Migranti. Il Viminale chiude la porta ai tunisini, no all’asilo di Marco Ludovico Il Sole 24 Ore, 13 febbraio 2018 In meno di un mese sono state presentate ed esaminate oltre 80 domande di protezione, diventate poi 120. Nazionalità: Tunisia. Il seguito, a sorpresa, di un flusso di sbarchi placatosi per ora solo qualche giorno fa. Il più intenso tuttavia di quest’anno, molto di più della Libia, ma già diventato cospicuo - oltre 6mila migranti - nel 2017: cinque volte più dell’anno prima. Scatenatosi fin da ottobre scorso. Dall’inizio dell’anno fino a ieri sono arrivati sulle nostre coste 763 tunisini, al secondo posto dopo 1.312 eritrei. Certo, l’andamento complessivo degli sbarchi è più che positivo: 4.731 contro i 9.448 nello stesso periodo dell’anno scorso, il calo è del 49,9%. Ma le partenze dalle coste tunisine restano una criticità. Tanto che oggi il ministro dell’Interno, Marco Minniti, riceve a Roma il suo collega di Tunisi, Lotfi Brahem. Lo scenario drammatico delle proteste sociali a Tunisi è noto e consolidato, i viaggi in mare per l’Italia una conseguenza scontata. Ora anche con imbarcazioni in legno dalle capienze consistenti, oltre un centinaio di persone a bordo. Il confronto tra Roma e Tunisi - una dialettica trascinatasi da anni - è diventato più serrato già alla fine dell’anno scorso. Anche per qualche timore, finora più teorico che pratico, di un’infiltrazione di miliziani Isis. Vigila la direzione centrale Polizia di prevenzione - “siamo sempre con l’allerta al massimo” ricordano - e i servizi di informazione e sicurezza. La questione concreta da definire adesso è quanto l’Italia possa negoziare con Tunisi per avere garanzie di un maggior controllo sulle partenze. Le autorità locali, come in ogni trattativa di questo genere, chiedono soldi e mezzi, non pochi. Oggi dovrebbero avere una nuova configurazione dopo il vertice tra i due ministri, ci saranno anche i vertici del dipartimento di Pubblica sicurezza. Ma alcune settimane fa una variabile imprevista ha spiazzato le previsioni del Viminale su questo fronte. In un colpo, circa ottanta tunisini hanno presentato un’istanza umanitaria alle commissioni d’asilo. Poi se ne sono aggiunte altre 40. Con il fiume in piena degli sbarchi proprio da quel versante, era una sorpresa dalle potenziali molteplici conseguenze. Non che in passato non ci fossero state domande di migranti dalla Tunisia, ma in blocco così non era ancora capitato. Molte delle istanze umanitarie erano sostenute dall’avvocato Alessandra Ballerini, legale della famiglia di Giulio Regeni. Se le istanze fossero state accolte in grandi numeri, sarebbe stato - o quantomeno apparso - come spalancare la strada ai viaggi dei tunisini per l’Italia. Un caso drammatico. Al dicastero dell’Interno, però, la risposta a questa potenziale emergenza è arrivata subito. A Lampedusa, dove alloggiavano i migranti sbarcati, sono state inviate due commissioni giudicanti. In circa 15 giorni, le prime ottanta istanze sono state tutte definite e risolte. Non si poteva attendere. Ma le domande, sostengono fonti qualificate del ministero dell’Interno, “sono state trattate con lo stesso scrupolo di qualunque altra nazionalità”. La diversità, se così la si vuole definire, è stata una sola: i tempi celeri, visto lo scenario in atto. Il risultato finale parla di quasi il 90% di esiti negativi per i richiedenti, tra “manifesta infondatezza” e “diniego”. Lo status di rifugiato è stato riconosciuto a un tunisino, per un altro gruppo (meno di una decina) l’iter è sospeso o è stato concesso un permesso provvisorio per cure mediche. La Tunisia è considerata stato democratico e la gran parte dei richiedenti erano migranti economici. Con le decisioni delle commissioni è molto improbabile, a questo punto, un altro blocco in massa di domande umanitarie di quella nazionalità. Anzi non si può escludere un implicito parziale disincentivo agli sbarchi. Amnesty International e Manconi: “difendiamo i diritti umani dei detenuti italiani all’estero” di Tania Careddu Left, 13 febbraio 2018 “La vicenda di Cavatassi non deve rimanere in quella folla anonima di oltre tremila italiani detenuti nelle prigioni di tanti Paesi del mondo”, dichiara a Left, il presidente della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani e direttore dell’Unar, Luigi Manconi, sulla vicenda di Denis Cavatassi, detenuto in Tailandia con l’accusa di essere il mandante dell’uccisione del suo socio in affari. Troppo facilmente giustiziati e con processi penali iniqui, sono almeno tremila i cittadini italiani che, come Cavatassi, vivono il dramma della detenzione all’estero in luoghi orribili di privazione della libertà. “Detenuti spesso senza un avvocato, senza collegamenti con l’Italia, senza rapporti con le nostre rappresentanze all’estero. È una situazione drammatica e, nella gran parte dei casi, non risolvibile”, continua Manconi. Nonostante la diversità dei casi, ad accomunare i detenuti italiani all’estero è la grave violazione dei diritti umani. Per esempio “Denis Cavatassi è vittima di almeno tre violazioni dei diritti umani: ha subìto un processo non in linea con gli standard internazionali sull’equità dei procedimenti giudiziari; è detenuto in condizioni che possono equivalere a trattamento crudele, inumano e degradante; infine, ha sulle spalle una condanna a morte emessa in primo grado e confermata in appello”, precisa il portavoce di Amnesty International, Riccardo Noury. Violazioni sistematiche dei diritti processuali che, secondo l’associazione Prigionieri del Silenzio, fanno della detenzione degli italiani nelle carceri dei paesi esteri, un grave “problema sociale”. Sottoposti a umiliazioni e condizioni di vita incompatibili con un concetto di riabilitazione, questi detenuti sono prigionieri di insormontabili difficoltà. Per esempio, di comunicazione: nonostante la presenza di uffici consolari, questi sono, spesso, collocati a grande distanza dai luoghi di detenzione e la comunicazione con i propri legali o le famiglie diventa quasi impossibile. A ciò si aggiungono criticità linguistiche, se si considera che la documentazione riguardante arresto, accuse, eventuali confessioni è redatta esclusivamente nella lingua locale. Un’incomprensione che li penalizza, anche, all’interno della realtà carceraria nei rapporti con il personale di controllo e con gli altri detenuti. Tutti in una condizione di sovrappopolamento con conseguenti situazioni di promiscuità sessuale, scarse condizioni igienico-sanitarie e alto tasso di violenza tra i reclusi. Oltre alla pressoché nulla assistenza sanitaria. E c’è un problema, spesso trascurato, che è la discriminazione di cui sono vittime i detenuti italiani nelle carceri straniere: soffrono, a seconda del Paese in cui vengono arrestati, degli stereotipi che, negli anni, si sono radicati nella mentalità di quello Stato, influenzandone notevolmente lo stato di detenzione nonché la loro sopravvivenza carceraria. Ed è un problema sociale anche perché la maggior parte di loro non può contare sul sostegno economico delle famiglie che dovrebbero far fronte a spese legali corrispondenti a un ordine di grandezza superiore rispetto alle proprie realtà economiche. È in gioco la sovranità dell’Itlaia che, secondo l’associazione Prigionieri del Silenzio, non solo “dovrebbe mettere a punto un piano preciso per la salvaguardia economica degli italiani in stato di fermo o detenzione in paesi europei o extraeuropei” ma anche intervenire in tutti i modi possibili, soprattutto sotto il profilo politico, per garantire l’incolumità dei suoi cittadini. “Quando uno spiraglio si apre - conclude Manconi - lì bisogna intervenire con la massima energia perché non si richiuda e, al contrario, si possa aprire un varco. È il caso di Denis Cavatassi, condannato a morte in Tailandia, del quale la Corte suprema deciderà la sorte nei prossimi mesi. La mobilitazione finalmente attivata in Italia e un rinnovato interessamento del ministero degli Esteri, alimentano una qualche, se pur esile, speranza”. È necessario perciò che “la Farnesina segua con alta priorità questa vicenda e utilizzi tutti i mezzi diplomatici a sua disposizione per favorire l’annullamento della condanna a morte”, aggiunge Amnesty International. Perché non si può morire per una condanna. E nemmeno rimanere prigionieri dell’indifferenza. Prezzi impazziti e negozi vuoti: così si sopravvive in Venezuela di Nadia Ferrigo La Stampa, 13 febbraio 2018 L’economia è al collasso: nell’ex Svizzera dell’America Latina il sogno di tutti è riuscire a fuggire. La giornata di Maria Grazia Tumino e delle sue figlie inizia la mattina presto, con una preghiera. Appena salite in macchina, prima di uscire dal garage del loro appartamento a Concresa, in quel che fino a qualche tempo fa era un quartiere della classe media come tanti altri, si prega insieme perché non scoppi una gomma, che poi sarebbe impossibile cambiarla. Che nessuno si ammali, che le medicine non ci sono. Che le ragazze riescano finalmente a ritirare il passaporto, prima che fare i documenti costi ancora di più, che al tramonto si possano ritrovare tutte e quattro a casa, sane e salve. Fuor di metafora. “Noi non viviamo, noi sopravviviamo - sospira Maria Grazia dopo aver schivato, inorridita, un cumulo di immondizia dove banchettano centinaia di uccelli -. Eravamo una famiglia normale, non ricca ma benestante, come tante. Tutti gli anni andavamo in vacanza, in Europa e negli Stati Uniti. Adesso anche fare la spesa è un’avventura. Capisco che le ragazze vogliano andarsene, è una storia che si ripete. I miei genitori sono arrivati dalla Sicilia in Venezuela in cerca di fortuna, ora tocca a loro”. Valentina è una grafica, presto si sposerà con il suo fidanzato: appena riusciranno ad avere tutti i documenti e mettere insieme i soldi per il viaggio, inizieranno una nuova vita in Argentina. Fabiola è una psicologa, lavora con i bambini autistici e vuole restare a Caracas per continuare ad aiutare anche chi non ha nulla e non può permettersi un aiuto per i figli. Letizia è la più piccola, ecco perché non ha fatto in tempo a laurearsi ed è stata costretta a lasciare l’università. Lavora in un call center e sta cercando un impiego da ragazza alla pari in Europa. Non è troppo importante dove. Mercato nero e ore in coda, il risultato della rivoluzione socialista - Anche se non ci sono dati ufficiali, si parla di milioni di cittadini venezuelani in fuga da un Paese sull’orlo della catastrofe e da un’economia irrimediabilmente distrutta: nel 2017 l’inflazione ha raggiunto il 3mila per cento, la più alta del mondo. Per chi vive in Venezuela il cambio è garantito: 500mila bolivares valgono più o meno 5 dollari. Se si applicasse il cambio ufficiale, i prezzi schizzerebbero a cifre folli. Lo stipendio medio sta sugli 800mila bolivares, quello minimo a 250mila. Un chilo di zucchero ne costa 125mila, quando e se si trova. Secondo il quotidiano venezuelano El Nacional a una famiglia di quattro persone servono oltre 13 milioni di bolivares al mese. Nel 2005 le aziende private di telecomunicazioni, cemento, acciaio ed energia sono state espropriate. Poi è toccato ai produttori di carta, riso, carne, caffè, tessuti, zuccherifici e centri commerciali. Nei quattordici anni del governo di Hugo Chavez quasi quattro milioni di ettari di terreno sono stati espropriati, almeno sulla carta, per incentivare la produzione agricola. La rivoluzione socialista ha però ottenuto un risultato assolutamente opposto: in Venezuela non si produce più nulla, l’unica azienda che in parte resiste con una produzione nazionale è la Polar, il birrificio della famiglia Mendoza nata nel 1941. Nel centro commerciale di La California, dove Maria Grazia lavora nell’amministrazione di una fondazione carismatica, i negozi non vendono nulla, ma restano aperti lo stesso: i commercianti non sanno che altro fare se non esporre sugli scaffali tutto quel che è rimasto in magazzino. Nelle farmacie non ci sono più medicine, chi ha bisogno di una cura si deve arrangiare al mercato nero o ingegnarsi per farle arrivare dall’estero, magari nascoste nella posta. Negli ospedali manca il sangue per le trasfusioni, l’elettricità va a singhiozzo. Lo stesso vale per i ricambi delle auto: niente più gomme, batterie e anche cambiare l’olio è un problema. I venezuelani sono un popolo in coda. Bisogna aspettare ore per trovare posto in uno degli autobus che viaggiano tra le città venezuelane, sempre più rari e costosi. Per le banche, dove non si può ritirare più di 20, 30 mila bolivares per volta, per comprare il pane. “Per andare al supermercato ognuno di noi ha dei giorni assegnati in base agli ultimi numeri della carta d’identità. Non si sa che cosa arriva, ma si va lì sperando di trovare riso, sale, farina di mais e pasta. Se sei fortunato, ti tocca il turno del lunedì, quando arrivano i rifornimenti - spiega Maria Grazia -. E bisogna stare attenti ai bachaquero. Arrivano mentre sei in coda, ti minacciano con un coltello o una pistola. Prendono il tuo posto, rivendono al prezzo più alto al mercato nero. Che cosa si può fare? Spesso si torna a casa a mani vuote”. Se la colpa è dei portoghesi e la soluzione il Petro - Lo scorso Natale Nicolas Maduro ha promesso un maiale per ogni famiglia venezuelana, ma non è arrivato nulla, così il governo ha spiegato che la colpa è dei portoghesi, che hanno dirottato il bastimento carico di animali. La retorica della rivoluzione socialista rimbomba a reti unificate nelle trasmissioni radio e nelle tv di Stato. Per il governo la colpa degli scaffali vuoti è dei proprietari dei supermercati, per lo più portoghesi, che vorrebbero guadagnare sempre di più. I prezzi sono impazziti per colpa della g uerra economica degli Stati Uniti, il crollo del petrolio è una cospirazione internazionale. Ma lo scorso ottobre la Pdvsa, la compagnia petrolifera Petroleos de Venezuela, ha estratto appena 1,86 milioni di barili, il minimo degli ultimi trent’anni. La qualità del greggio peggiora, non c’è manutenzione degli stabilimenti e la compagnia è insolvente. Il numero di trivelle si è ridotto a trentanove, nel 2016 erano più di cento. Il petrolio è la benzina degli ambiziosi programmi sociali del governo chavista: il blocco della produzione segnerebbe il tracollo dell’economia venezuelana, considerato che rappresenta oltre il 90% delle entrate del governo. Con il programma Gran Mision Vivienda il governo dal 2011 a oggi ha costruito quasi due milioni di appartamenti tra i palazzoni governativi di Fuerte Tiuna, Ciudad Caribe, Barrio Nuevo e Barrio Tricolor e gli altri alloggi popolari, decorati dalla firma oppure dagli occhi di Hugo Chavez. Le parole e il volto di Chavez sono ovunque, tanto che i venezuelani ne parlano al presente come se non fosse mai morto. Continuano le distribuzioni mensili di alimenti, la cosiddetta clap, e i bonus economici per chi si registra con il Carnet de la Patria. La propaganda del governo parla di 8 milioni di tesserati. “Con la più alta tecnologia del mondo creeremo il Petro, la prima criptomoneta con il valore legato alle riserve nazionali di petrolio e di minerali preziosi - salmodia in tv e alla radio Nicolas Maduro. Con la nostra criptomeoneta il Venezuela potrà realizzare operazioni finanziarie dentro e fuori il Paese, senza il controllo di Washington”. L’idea è sostituire il contante, anche nelle transizioni di tutti i giorni. È stato anche nominato un sovrintendente nazionale per la criptomoneta, Carlo Vargas. Il messaggio è: la ricchezza che abbiamo noi venezuelani deve restare in Venezuela. A contribuire alla follia dei prezzi è anche lo Stato. Gli stipendi di chi lavora per il governo vengono ritoccati nel vano tentativo di stare dietro all’inflazione, quelli dei privati invece no. Un viaggio in metropolitana costa 16 bolivares, con una delle - rare - navette statali sono 700, con i bus privati, che sono ancora la stragrande maggioranza, si deve moltiplicare almeno per cinque. Lo stesso accade con i giornali, 200 bolivares per il Correo de Orinoco, l’artilleria del pensamiento della rivoluzione, 8mila per El Nacional, l’unico dell’opposizione. Anche il turismo è distrutto. La gran parte delle compagnie internazionali non volano più su Caracas, i viaggi nelle meravigliose spiagge di Los Roques sono spazzati via dall’insicurezza e dall’economia folle. Se infatti l’incauto turista paga con carta di credito, il cambio non è quello del mercato parallelo, ma quello ufficiale: con i prezzi gonfiati a dismisura dall’inflazione, diventano una meta follemente cara. Anche le spiagge e gli yacht club de La Guaira, meta amata dai benestanti, sono ormai deserte. La comunità italiana, dal “Dame Dos” alla quotidianità da reclusi - Nel 1956 Romilda Paturzo lasciò Genova per raggiungere il marito, innamorato del clima benedetto e della ricchezza di Caracas. Quando la nave attraccò al porto di La Guardia lei stava a prua, accanto al capitano. Aveva 24 anni e una bimba di otto mesi, la prima cosa che vide fu un’immensa distesa di baracche arrampicate sulla collina. “Non si preoccupi signora, non è nulla”, minimizzò lui. “Io non scendo”, ribattè lei. Più di cinquant’anni dopo, la signora Romilda non ha perso il suo accento genovese e ancora si chiede perché mai ha dovuto lasciare l’Italia. Vive da sempre a Trinidad, uno dei quartieri più ricchi della capitale del Venezuela. Per ricordare i viaggi negli Stati Uniti con il bolivares più forte del dollaro, Romilda ricorda una vecchia battuta: “Barato. Dame dos”, “Costa poco, dammene due”. La Svizzera dell’America del Sud si è trasformata in una metropoli che si svuota al tramonto. Per strada restano solo i mucchi di immondizia, coi disperati che cercano qualche cosa per mangiare e bere. Tutti gli altri, chiusi in casa. “La sera è impossibile uscire - sospira la signora Romilda -, quest’anno abbiamo festeggiato la notte di Capodanno a mezzogiorno”. Nel suo quartiere hanno rubato tutto, anche le lampadine dei lampioni sul sagrato della chiesa. La scuola cattolica sta chiudendo, perché le rette sono troppo alte e pochi se le possono permettere. “Io ho la pensione di reversibilità di mio marito - conclude -. Tantissimi campano grazie ai parenti che vivono all’estero e guadagnano in dollari o euro”. “Mai andare in giro con dei gioielli, mai tirare fuori lo smartphone” aggiunge Vanessa P., giovane odontotecnica. Suo fratello vive in Spagna, lei vorrebbe restare con i suoi genitori, ma se nulla cambia sarà costretta ad andarsene. “Chi se lo può permettere esce, ma con la scorta. Nelle scorse settimane hanno rubato nove macchine, parcheggiate fuori da un ristorante. Per sapere che succede, dobbiamo seguire account anonimi su Twitter e Instagram, perché il governo su questo non dice nulla”. Anche Las Mercedes, quartiere chic dei ristoranti e dei locali, è mezzo vuoto. “Cambio il menu tutti i giorni, per adeguarmi i prezzi di quel che devo comprare fuori dal paese - racconta Raphael, ristoratore spagnolo proprietario dell’Hereford Grill, in Venezuela da 45 anni -. I turisti non ci sono più, le persone che si possono permettere un pranzo fuori sono sempre meno. Solo chi guadagna in dollari o euro”. Chi può, scappa. Chi resta, sopravvive - Anche se il governo pare disinteressarsi del grande esodo del popolo venezuelano, i giornali dell’opposizione parlano di circa quattro milioni di persone fuggite all’estero negli ultimi anni. Lasciare il Paese non è un’impresa facile. Le compagnie aeree internazionali non volano più su Caracas, le tratte rimaste hanno costi proibitive e sono vuote, proprio come l’aeroporto. Così in tanti attraversano a piedi il confine con la Colombia, accanto a chi fa il viaggio in giornata, solo per andare a comperare qualcosa da mangiare. Chi decide di trasferirsi, come la famiglia di Luana Tassoni, prova a vendere tutto, appartamento compreso. Anche se trovare qualcuno disposto a comprare è quasi impossibile. “A inizio marzo con mia figlia Erika e suo marito Carl raggiungeremo i nostri parenti a Milano - racconta, circondata da pile di documenti e scatoloni destinati ai mercatini -. I ragazzi sono abbastanza giovani per costruirsi una nuova vita. Io sono una segretaria, ma posso fare qualunque altra cosa. Dobbiamo scappare, perché questo è un Paese senza futuro”. Resta chi non ha nessun posto dove andare, resta chi continua ad aiutare gli ultimi - Padre Armando Janssens, 79 anni, belga e padre Vincente Mancini, 81 anni, italiano, vivono in Venezuela da più di quarant’anni. Il primo è a capo del Cesap, organizzazione di ispirazione cristiana nata nel 1994 che si occupa di sviluppo sociale, il secondo della Fundacion El Buen Samaritano, che accoglie bimbi orfani, malati di Aids e senzatetto. Tutte e due le associazioni si occupano di distribuire pasti nei barrios più poveri, come Petare, e concordano: “Non ci possiamo più permettere la zuppa con la carne. Solo verdure, se va bene un uovo. Non è una soluzione, ma un gesto di presenza, di amore cristiano, poco efficace per cambiare le cose”. La Cesap, oltre a programmi di micro-credito e sostegno per imprenditori e agricoltori, ha inaugurato da poco un servizio di “sostegno per il dolore” e assistenza psicologica, pensato per sostenere le tante persone che hanno perso una persona cara o che soffrono per la situazione di incertezza e difficoltà che il Paese sta attraversando. “Le persone hanno bisogno di sfogarsi, di speranza, di qualcuno che le possa ascoltare - conclude padre Vincente -. Non c’è bisogno solo di sostegno economico, ma di dialogo”. “C’è un programma che mi sta molto a cuore, si chiama “Gente Propone” - spiega padre Janssens. Sono gruppi “di quartiere” dove cerchiamo di tenere insieme persone dell’opposizione e del governo. Non si parla di politica, ma dei problemi che hanno nella loro comunità. Il nostro ruolo è far si che tra loro ci sia una conversazione, non una discussione. Bisogna impedire che il tessuto sociale del nostro Paese, così tanto danneggiato, si sfasci del tutto”. Il governo di Maduro ha indetto le prossime elezioni presidenziali per il 22 aprile. Lo sfidante sarà Rafael Ramirez, chavista ed ex capo del colosso del petrolio Pdvsa. Per tutti, le elezioni saranno poco più che una farsa. “A cosa serve andare a votare? La corruzione sta da tutte e due le parti, Ramirez è da sempre colluso con il governo”. Scuote la testa desolato Alejandro, studente al secondo anno della facoltà di scienze politiche. La Città universitaria di Caracas è stata dichiarata Patrimonio dell’Umanità nel 2000, ma ora i prati sono pieni di erbacce, le aule mezze vuote. Gli studenti di farmacia e medicina non possono più andare in laboratorio, perché mancano i reagenti chimici. Anche se la tassa di iscrizione è molto bassa - circa 600 bolivares l’anno - i costi, gonfiati dall’inflazione, sono proibitivi. Per fotocopiare una pagina, servono 1000 bolivares. Per un libro intero, ci vuole uno stipendio, così ci si arrangia studiando sui Pdf. Lo scorso anno centinaia di studenti sono scesi in piazza a protestare, ma la repressione della polizia è stata feroce, con morti, feriti e arresti. “Tradizionalmente l’università è la roccaforte del pensiero rivoluzionario. Ma il pensiero di Chavez è stato tradito. Metà degli studenti ha lasciato i corsi, scappano anche i professori. Ho dei compagni di classe che saltano i pasti per far mangiare i fratelli più piccoli. I leader delle proteste dello scorso anno sono scappati, noi siamo rimasti. Per cosa dovremmo protestare? Per farci ammazzare?”. “Votare vuol dire legittimare questo governo - ribatte Ana, studentessa al terzo anno di diritto -. Ma senza un processo elettorale trasparente e dei veri candidati, non si può parlare di democrazia. Questa è una dittatura”. Iran. Il giallo del suicidio in cella dell’ambientalista Kavous Seyed Emani di Giordano Stabile La Stampa, 13 febbraio 2018 L’attivista Emami era in carcere con l’accusa di spionaggio. Aveva passaporto canadese. La famiglia: autopsia oscura. Un “patriota” che aveva combattuto volontario nella guerra Iran-Iraq, era stato ferito, per diventare poi il più appassionato difensore dell’ambiente nel suo Paese. E che improvvisamente si sarebbe trasformato in una spia, al soldo di potenze straniere, per finire suicida in carcere, sotto il peso delle accuse e della vergogna. A questa storia i familiari di Kavous Seyed Emani, accademico, ambientalista, sociologo, una delle maggiori figure intellettuali in Iran, con cittadinanza anche canadese, non vogliono credere. E si stanno battendo per ottenere la verità dalle autorità giudiziarie, che venerdì 9 febbraio hanno annunciato la morte di Emani, dopo averlo arrestato il 24 gennaio. I giudici hanno informato la famiglia che il corpo sarà restituito questa mattina, a patto che sia sepolto “immediatamente e senza clamore” ma i familiari hanno ribattuto che le autorità devono “autorizzare una autopsia indipendente e trasparente, in modo che i suoi cari e l’opinione pubblica possano conoscere la causa della morte”. Per le autorità l’autopsia è “già stata eseguita”, anche se non sono stati resi noti i risultati. Una conclusione inaccettabile dalla famiglia, perché “non puoi essere allo stesso tempo l’accusato e colui che conduce le indagini”. Il funerale è previsto oggi nel villaggio natale dell’accademico, Amameh, sulle montagne a Nord di Teheran Emani, docente all’università Imam Sadigh e direttore del Persian Wildlife Eritage, era finito in una retata che aveva coinvolto numerosi ecologisti. L’accusa era quella di aver usato le perlustrazioni dei siti minacciati, a scopo scientifico, come copertura “per attività di spionaggio”. Gli arresti sono arrivati nel clima di repressione che è seguito alle proteste di Capodanno, quando migliaia di persone erano scese in strada a protestare contro le riforme economiche, gli aumenti dei prezzi, la disoccupazione e la corruzione. La battaglia ecologista di Emani aveva i suoi risvolti politici, soprattutto per le critiche allo sfruttamento dissennato delle risorse idriche, che ha aggravato la siccità cronica in vaste aree del Paese. Il docente non era però “un attivista politico” insiste la famiglia. Al suicidio non crede per primo il figlio Ramin, un musicista apprezzato: “È semplicemente impossibile”, ha scritto sul suo profilo Instagram. Un gruppo di colleghi e accademici iraniani ha scritto al presidente Hassan Rohani per chiedere risposte convincenti: “Ci aspettiamo come minimo - hanno ribadito - che venga avviata subito un’indagine seria e che le istituzioni coinvolte debbano rispondere”. I giudici sono rimasti sulle loro posizioni. Un portavoce, Gholamhossein Mohseni ha ribattuto che la morte di Emani è “sottoposta a investigazioni”. Ma per il Center for Human Rights in Iran “il sistema giudiziario è fuori controllo, e sta massicciamente collaborando a coprire la verità”. Altri due attivisti sono morti in carcere negli ultimi mesi, si sospetta per torture. L’Onu, ha fatto sapere il portavoce di Antonio Guterres, Stéphane Dujarric, segue “gli sviluppi” con “grave preoccupazione”. Il Canada, che segue il caso del suo cittadino, ha rotto le relazioni con la Repubblica islamica nel 2012. È l’Italia a curarne gli interessi. Iraq. Ministro Interno: abbiamo oltre 1.000 detenuti dell’Is “non arabi” Nova, 13 febbraio 2018 Sono oltre 1.000 i terroristi stranieri dello Stato islamico (Is) non arabi detenuti dalle forze di sicurezza irachene. Lo ha detto il ministro dell’Interno iracheno, Qassim al Araji, in un’intervista al quotidiano panarabo “Al Hayaht”. Si tratta per la precisione di 1.049 persone per la maggior parte provenienti dall’Asia centrale e dalla Turchia, tra cui 399 turchi, molte donne e minori di 18 anni. “Non facciamo alcuna operazione al di fuori dei confini dell’Iraq, ma a volte forniamo le informazioni necessarie affinché gli aerei della Coalizione internazionale possano colpire l’organizzazione terroristica”, ha affermato Al Araji. “La nostra battaglia contro l’Is ha posto fine alla fase militare, ma continua sul piano dell’intelligence. Le mogli dei terroristi ci hanno fornito informazioni importanti e accurate sui piani dell’organizzazione”, ha aggiunto il titolare del dicastero dell’Interno. “L’attivazione dell’intelligence nei governatorati liberati ha dato grandi risultati e anche le donne hanno avuto un ruolo importante. La maggior parte delle informazioni sui terroristi e i loro movimenti ci sono state fornite dalle donne del Daesh (acronimo arabo di Stato islamico dell’Iraq e della Siria”, ha aggiunto Al Araji.