La vita dei ragazzi difficili: un’infinità di piccole scelte sbagliate Il Mattino di Padova, 12 febbraio 2018 “Padova, un gruppo di ragazzi compie vandalismi, beve alcolici e aggredisce verbalmente. I residenti: “Alcuni maltrattano anche gli animali”. Notizie di questo genere negli ultimi tempi sono molto frequenti, e purtroppo riguardano ragazzi in tutte le zone del nostro Paese. Nelle città del Sud poi sono situazioni anche più pesanti, come ha spiegato una educatrice di un Centro che accoglie tanti ragazzi difficili di Napoli: “Facciamo una gran fatica - a volte si perde, altre si vince. Ma ne varrebbe comunque la pena, fosse solo per recuperare anche un solo ragazzo. Qui da noi ci sono bambini che il padre non lo hanno mai visto perché quando sono nati era in già in galera, e altri che per la stessa ragione non sono stati neanche riconosciuti”. In carcere a Padova però c’è qualcosa di più: c’è la scelta di tante persone detenute di mettere la loro esperienza negativa al servizio dei giovani, di fare prevenzione “con la loro vita sbagliata”. Come quella di Giuliano, che raccontiamo oggi, che è entrato in carcere a poco più di vent’anni e spiega i tanti piccoli, distruttivi passaggi attraverso i quali si è rovinato la vita. E così i ragazzi capiscono che spesso il carcere arriva non perché uno fa la scelta di diventare un delinquente, ma perché, ai tanti bivi che la vita propone, decide sempre di prendere scorciatoie, di tagliare la strada ad altri, di non ascoltare nessuno. I detenuti che a Padova parlano con gli studenti non “salgono in cattedra”, né cercano giustificazioni, ma piuttosto si spogliano di qualsiasi orgoglio per restituire ai ragazzi quello che hanno “rubato” alla società. Fino alla maggiore età ero riuscito a farla sempre franca Inizio il mio racconto da esperienze di vita personali, non posso fare altro che rimettermi in discussione in prima persona sia per il disastro che ho causato a me stesso, che per il male che ho fatto a tante persone, basando il mio stile di vita su dei valori miei che fino a poco tempo fa ponevo davanti a tutto e tutti. Non rispettare la legge, le regole ed i consigli dei miei genitori erano tra i primi di tanti comportamenti che mi facevano sentire libero, libero di fare qualsiasi cosa senza dare peso a quelle che potevano essere le conseguenze delle mie azioni. Già da molto giovane intorno ai 10/11 anni, a volte per gioco, altre per sfida personale mi rendevo protagonista di piccoli furti o di altri reati di poco conto e quando riuscivo in queste “imprese” senza essere beccato era per me come una vittoria, una soddisfazione che giorno dopo giorno mi portava ad aumentare il rischio e la posta in gioco, cosi già all’età di 16/17 anni mi ero fatto una reputazione di tutto “rispetto” in quegli ambienti dove la legge conta poco e le regole sono le proprie. Forse per puro caso, ma sta di fatto che fino alla maggiore età ero riuscito a farla sempre franca, a parte le innumerevoli punizioni che i miei cercavano di darmi io non mi sono mai fermato in questa missione autodistruttiva che dopo qualche tempo mi ha portato in carcere, ero poco più che maggiorenne la prima volta, poi ne sono seguite altre di carcerazioni ma le ho vissute tutte con i miei “ideali” e con le mie regole, cercavo di giustificare questi miei comportamenti con frasi fatte, del tipo: “è colpa del luogo in cui sono nato”, “è stata la compagnia sbagliata che mi ha portato a tutto questo”, o peggio ancora mi autoconvincevo che questa era la mia unica strada, destinatami ancor prima che io nascessi. In realtà non è assolutamente colpa di tutto quello che ho appena accennato se ho 29 anni di cui poco meno di otto passati nei vari carceri italiani da nord a sud e una condanna all’ergastolo - che lascio immaginare quanto possa pesare sulla coscienza -, bensì la colpa di questa situazione oggi riesco a vederla per quello che in realtà è, cioè un’infinità di scelte sbagliate che io ho fatto arbitrariamente, privandomi innanzi tutto di quelle libertà che si hanno una sola volta nella vita come la giovinezza, la spensieratezza, la serenità della gioventù. La mia gioventù invece è stata oppressa da crimini violenti, che ho commesso “rimuovendo” a priori i consigli di genitori, professori e allenatori che mi vedevano crescere senza regole, prevedendo il mio futuro con molta facilità: morto o in carcere a vita. Da un lato mi ritengo fortunato perché ho almeno la possibilità di raccontare la mia vita, ma ci sono anche storie strazianti di ragazzi come me molto giovani che la vita l’hanno persa. Detto questo oggi capisco troppo tardi che la legalità deve essere condivisa e recepita da ogni individuo come un valore proprio, oltre ad essere un valore collettivo. Ma questo valore non è ancora ben compreso, soprattutto dai ragazzi più giovani che in balia di trasgressioni e divertimenti si ritrovano molto spesso sul filo dell’illegalità, se non oltre. Una prova evidente è il fenomeno dilagante del bullismo, sentiamo di vicende orrende in cui troviamo come protagonisti ragazzi molto giovani che senza scrupoli picchiano, umiliano e denigrano i loro stessi compagni di scuola senza curarsi di nulla e di nessuno, a tal riguardo il mio pensiero va al caso che qualche settimana fa ha coinvolto due ragazzi molto giovani di Verona che per uno scherzo hanno cagionato la morte di un senza tetto. Vedendo e sentendo di questi eventi così drammatici e tristi mi sento di dover fare qualcosa, nella consapevolezza che io in prima persona mi rendevo protagonista di comportamenti del genere, che mi facevano sentire libero di fare qualsiasi cosa, ma in realtà quella non è assolutamente libertà, anzi io sono la prova vivente che è proprio da lì che ho iniziato a perdere la mia libertà. Ed è proprio per questo che gli incontri tra scuole e carcere mi coinvolgono a 360°, perché se il mio vissuto e la mia storia possono servire a far riflettere anche un solo ragazzo di quelli che partecipano agli incontri, prima di farsi prendere la mano da comportamenti devianti, io so che gli ho risparmiato una vita di sofferenza, perché anche un solo giorno di carcere è tanto in considerazione di quanto è bella e preziosa la vita da persona libera. Io sono fortemente convinto che bisogna dare più spazio ad incontri tra chi ha già sbagliato nella vita e chi fa ancora in tempo a non farlo, mettendo davanti agli occhi dei ragazzi le conseguenze reali a cui vanno incontro con comportamenti sbagliati. Il progetto che facciamo noi fa riflettere i ragazzi e sensibilizza i loro animi, consentendogli una conoscenza ravvicinata del carcere, mettendo al centro dell’attenzione l’incontro tra chi sta vivendo l’esperienza del carcere e i tanti ragazzi che sono a rischio per comportamenti violenti o per trasgressioni che molto spesso vanno oltre la soglia della legalità. Il lavoro che viene svolto in questo progetto appaga i detenuti, che si sentono in dovere di restituire qualcosa alla società esterna, e previene i possibili atteggiamenti violenti dei ragazzi mostrandogli senza censure che un comportamento irresponsabile può provocare un disastro, e in casi estremi come il mio ti può portare a perdere la tua stessa vita. Spero che progetti come questi vengano sempre più apprezzati, perché per me ostacolarli significherebbe togliere la possibilità concreta che hanno i detenuti per mettersi in discussione dialogando con persone CREDIBILI e privare la società esterna di qualcosa che solo in un contesto del genere si può ottenere. Sono convinto che il modo per riconquistare la libertà, sia fisica che morale è quello di far risultare la detenzione, quando proprio non ci siano alternative, un vero strumento di re-inserimento sociale e non di afflizione come spesso capita quando nelle carceri si vive una condizione detentiva che annichilisce la persona. Si migliora solo quando si presentano le opportunità per mettersi in gioco, il principale obiettivo per me come detenuto è una vita migliore, improntata sulla non-violenza e sulla legalità e solo questo tipo di detenzione cosi com’è strutturata oggi mi fa riflettere, maturare e pensare a quelli che sono i veri valori come il bene comune, il senso civico, l’importanza del dialogo e del confronto che ti aiuta a crescere. Io in base alla mia personale esperienza vorrei invitare le istituzioni a valutare la possibilità di ampliare questi tipi di progetti che aiutano le giovani generazioni a dare valore al rispetto delle regole e ascolto alle persone adulte con cui interagiscono quotidianamente. Giuliano Napoli Delitto, castigo e terza età: in carcere quasi 800 anziani di Simonetta Caminiti Il Giornale, 12 febbraio 2018 Il dato del 2017: sono 776 gli over 70 detenuti in Italia. E nel giro di dieci anni il loro numero è raddoppiato. Serve più coraggio, da parte del legislatore e della magistratura, nella concessione di misure alternative al carcere per le persone anziane”. A parlare è Stefano Anastasia, Garante dei detenuti della regione Lazio. L’occasione è un episodio di pochi giorni fa: la festa di compleanno (l’ottantesimo) di un detenuto del carcere di Rebibbia, il benvoluto signor Gino, che, pur anziano e definito una persona “speciale” dai volontari della Caritas, vive ancora tra le mura di una cella. Il caso, in effetti, si presta a suscitare distonie, dibattiti, riflessioni. “Gino ha spiegato infatti Anastasia non ha ottenuto gli arresti domiciliari ed è dunque tra i 90 ultrasettantenni detenuti nel Lazio; nonostante la legge preveda che 70 anni sia il limite massimo per la privazione della libertà per motivi di giustizia”. E, soprattutto, “nel complesso degli istituti penitenziari italiani alla fine dello scorso anno erano presenti 776 detenuti con più di 70 anni di età, più del doppio di quanti ce ne fossero dieci anni prima, nel 2007”. Il tempo passa, muta i lineamenti delle cose e delle persone, accumula speranze e rassegnazioni, e invecchia, insomma, anche negli istituti penitenziari. Lì dove una sentenza ha impartito una pena severa, la verità processuale ha posto il sigillo, e le fila degli anziani che scontano gravi reati sono lunghe e nutrite. La popolazione carceraria risulta, in particolare, sempre più in là negli anni. Perché, se i giovani dietro le sbarre si avvalgono di leggi come quella del 2014 (che ha stabilito lo sconto di pena fino a 25 anni negli istituti di pena minorili, per chi era stato arrestato quando ancora non aveva compiuto 18 anni), i meno giovani scontano condanne estese, e sono un’alta percentuale dei reclusi italiani. Decennio 2007-2017: i detenuti under 40 vanno progressivamente a decrescere; quelli più anziani, al contrario, sono in sensibile aumento. Secondo Alessio Scandurra, responsabile dell’Osservatorio Carceri dell’associazione Antigone, “l’invecchiamento della popolazione carceraria è un fenomeno mondiale; ma quello italiano ha alcune peculiarità. A seguito della sentenza Torreggiani sul sovraffollamento delle carceri, gli ingressi sono calati. Una serie di interventi legislativi in questi anni ha tentato di svuotare le Case circondariali. Infine si è assistito a un inasprimento delle pene”. E non c’è dubbio che chi sconta una pena così lunga abbia commesso, in linea di massima, un reato proporzionato alla condanna. Ma il fenomeno pone interrogativi, fosse solo perché, in ogni storia fatta di grandi numeri, ci sono grandi numeri di storie tutte diverse. E domande su quali alternative siano possibili. Come l’istituzione di reti di accoglienza, anche alloggiative, per anziani altrimenti costretti a morire nelle carceri: fermo restando che la perdurante e dimostrata pericolosità sociale giustifica pene così lunghe anche quando l’età che avanza complica le condizioni di salute, e certamente ostruisce (probabilmente inabissa) una visione del futuro. Anche negli Stati Uniti, solo dal 2007 al 2010, il numero di detenuti over 65 è aumentato 94 volte più velocemente del resto della popolazione carceraria. Ci sono realtà italiane come quella di Bollate (notoriamente un “lusso”, quanto alla qualità della vita quotidiana e alle attività svolte dai reclusi), in cui assistere gli anziani è diventato un lavoro per i giovani. Spesso, giovani con una condanna a vita. Ma non è la prassi delle case di reclusione italiane. E se il fenomeno offre chiavi di lettura disparate, le soluzioni restano, certamente, tutte da scrivere. Scontro tra i partiti sulle città sicure di Alessandro Trocino Corriere della Sera, 12 febbraio 2018 Salvini: “Difendersi è un diritto”. Renzi: “No alla deriva pistolera”. I temi della sicurezza sono diventati il principale argomento di dibattito politico in vista delle elezioni del 4 marzo. La cronaca ha fatto irruzione nella politica e dopo l’omicidio di Pamela, il raid razzista di Macerata e le manifestazioni antirazzismo, fa discutere l’omicidio di un bandito da parte di un gioielliere. E torna in primo piano, insieme a quello dell’immigrazione, il tema della legittima difesa. Per provare ad abbassare i toni interviene il premier uscente Paolo Gentiloni: “Il bisogno di sicurezza non è un bisogno fittizio. Purtroppo c’è chi soffia su queste paure, ma è un atteggiamento meschino e irresponsabile”. I dati sul crimine sono in realtà rassicuranti, ma quel che conta spesso è la percezione dei cittadini e Gentiloni lo sa bene: “Al bisogno di sicurezza non si risponde con le statistiche, anche se dimostrano che i reati calano. Non è una cosa di destra o di sinistra, rassicurare chi è più debole è nel Dna del centrosinistra”. Eppure è proprio il Pd di Matteo Renzi ad essere finito sotto accusa per la mancata partecipazione al corteo di Macerata. E non basta l’annuncio dell’adesione al corteo romano dell’Anpi, indetto per il 24 febbraio. La sinistra attacca il Pd mentre il centrodestra si difende dall’accusa di tolleranza di atteggiamenti fascisti. Per il leghista Matteo Salvini la sinistra “inventa il pericolo del fascismo, del razzismo e pure degli alieni”. E se da Lucia Annunziata in tv condanna il raid razzista, ribadisce però che dà “totale solidarietà” al gioielliere e che “non esiste eccesso colposo di legittima difesa”. Anche Mara Carfagna, Forza Italia, chiede una riforma dell’istituto della legittima difesa. Silvio Berlusconi spiega che “il fascismo è morto e sepolto” e dice che “nei clandestini l’attitudine a commettere i reati è impareggiabile rispetto agli italiani. Non vorrei che succedesse da parte della gente qualcosa che ci potrebbe portare a soluzioni lontane dalla democrazia. Fin quando abbiamo questa quantità di clandestini, non un solo militare che deve restare in caserma”. Giorgia Meloni attacca il ministro Marco Minniti (“Le sue sono lacrime di coccodrillo”) e auspica “pene esemplari” per i tre nigeriani accusati dell’omicidio di Pamela. A mettere in guardia è però lo stesso procuratore Giovanni Giorgio, secondo il quale bisogna evitare di fare “giustizia sommaria”. Luigi Di Maio si schiera per la linea dura securitaria: “Basta amnistie, indulti, depenalizzazioni e depotenziamento delle norme penali”. Replica a tutti Matteo Renzi: “Se il ministro dell’Interno si chiamasse Matteo Salvini sarei preoccupato. Quando uno, a fronte di una pallottola che arriva sulla sede del Pd, non avverte la necessità di dare solidarietà al Pd, vi rendete conto che la deriva pistolera rischia di creare dei danni al Paese”. Emma Bonino è sbalordita: “Mai vista una campagna più fuori di testa, ma a Macerata ci dovevano essere tutti”. Ma c’è un altro caso che fa discutere, a Piacenza. Qui durante una manifestazione contro l’apertura di una sede di Casa Pound, ci sono stati violenti scontri. Un carabiniere, caduto, è stato accerchiato e colpito ripetutamente dai manifestanti. Alle forze dell’ordine è andata la solidarietà della destra ma anche di Matteo Renzi (Pd) e di Laura Boldrini (LeU). Che però attacca il leader pd perché trova “sconsiderato chiedere di abbassare i toni quando c’è un atto razzista come quello di Macerata”. E perché “occhieggiare a destra favorisce la Lega”. Anche il sindaco dem Beppe Sala sostiene che “in questi casi è sempre meglio esserci”. Oggi il ministro Minniti si recherà in visita al carabiniere ferito. La Carta contro le mafie. Tra i passi da fare, una legge sulle lobby di Marzia Paolucci Italia Oggi, 12 febbraio 2018 Gli Stati generali organizzati dal Mingiustizia chiusi con 10 tesi. Mafie globalizzate ma infiltrate sul territorio nella politica locale e nell’imprenditoria legale: dalla sanità allo smaltimento dei rifiuti e all’assistenza e gestione dell’immigrazione. Mafie nell’agroalimentare, nel mondo del calcio, del doping e del gioco d’azzardo. Si sono aperti con la consapevolezza di un quadro criminale profondamente mutato negli anni, gli Stati generali della lotta alla mafia apertisi il 24 novembre scorso a Milano di cui il 31 maggio scorso, è stato presentato a Roma dal Guardasigilli il documento conclusivo. È la Carta di Milano, diventata realtà e presentata per la prima volta dal Guardasigilli con il titolo “Dieci tesi per la lotta alle mafie del XXI secolo”. Alla presentazione hanno partecipato la Presidente della Commissione Antimafia Rosy Bindi e il Coordinatore del Comitato scientifico degli Stati generali Gaetano Silvestri. Un percorso lungo, durato oltre un anno e partito da ottobre del 2016 con l’insediamento presso il Ministero della Giustizia di un Comitato scientifico di oltre 30 membri con un coordinamento che ne ha seguito i lavori. A fine 2016 hanno iniziato i lavori 16 tavoli tematici, secondo le modalità stabilite dai coordinatori e sfruttando al massimo gli strumenti telematici, che hanno visto il coinvolgimento complessivo di oltre 220 esperti e studiosi di varie discipline, esponenti del mondo dell’associazionismo, dell’avvocatura, della magistratura, del giornalismo e alcune importanti figure istituzionali. Nel mese di maggio 2017, i coordinatori dei Tavoli tematici hanno depositato gli elaborati conclusivi sui diversi ambiti tematici, sottoposti poi alla discussione del Comitato scientifico. Le relazioni finali, richiamate nella presente sintesi dei lavori, sono il frutto di un lavoro più ampio: interviste, audizioni, raccolte documentali, report intermedi e materiali depositati in una piattaforma informatica. È poi arrivato il momento della discussione pubblica il 23 e 24 novembre a Milano che ha costituito una parte integrante del percorso sfociato nella Carta di Milano e nelle sue dieci linee direttrici di fondo. “La lotta alle mafie del XXI secolo non può che passare per un processo di “rigenerazione” istituzionale, politico e democratico”. Così stabilisce la Carta di Milano. “La rigenerazione della democrazia è la miglior azione di contrasto di sistema alle mafie - vi si legge in calce - “una legislazione sui partiti in attuazione della Costituzione, una legge sulle lobby e sul dibattito pubblico, una disciplina più articolata per contrastare le infiltrazioni nelle amministrazioni locali, sono elementi concreti per investire sulla vitalità democratica”. Al primo punto delle dieci “tesi” messe nero su bianco dal documento c’è l’evidenza di “una mafia trasformata, che non ha vinto ma nemmeno perso” e che in quanto tale cerca di scalfi re la vulnerabilità di un sistema, di una mafia globale che in quanto tale, sfida lo Stato viaggiando su ampia scala pur non essendosi mai deterritorializzate. Le nuove mafie preferiscono zone grigie e per questo si avvalgono di fi gure come quelle del “facilitatore” professionale nel campo della finanza e dei servizi avanzati e del “prototipatore”: funzionario pubblico a libro paga di potentati economici e mafiosi. Occorre, chiarisce il documento, “allargare e rafforzare gli strumenti amministrativi contro il fenomeno, investendo nell’Agenzia dei beni confiscati, ma anche nelle carenti e poco specializzate risorse umane degli enti locali che dovrebbero svolgere la prima azione di contrasto, specie nei territori a più alta densità mafiosa. Le mafie - spiega - si battono non costruendo uno Stato penale, ma ricostruendo uno Stato sociale: un settore pubblico più forte ed efficiente non è solo necessario allo sviluppo ma è anche la prima garanzia di legalità, per sbarrare le porte alle mafie proprio in quelle attività nei servizi verso cui stanno orientando i loro illeciti arricchimenti: nel campo della sanità, della gestione dei rifiuti, dell’assistenza e della gestione dell’immigrazione”. Troppe norme, spesso inutili: 200mila leggi dal 1861 in poi di Sabino Cassese Corriere della Sera, 12 febbraio 2018 Il Poligrafico dello Stato ha appena terminato la digitalizzazione di tutti gli atti normativi e questo ha consentito di calcolare il numero di norme adottate in Italia. La legge di Bilancio per il 2018 contiene più di 150 mila parole, equivalenti a due terzi dei vocaboli usati da Alessandro Manzoni per scrivere “I promessi sposi”. Il Poligrafico dello Stato ha terminato nei giorni scorsi la digitalizzazione di tutti gli atti normativi, dal 1861 in poi. Questo ha consentito finalmente di calcolare con sufficiente precisione il numero di norme adottate (sono poco più di 200 mila, il maggior numero risalenti ai due lunghi dopoguerra) e di quelle in vigore (sono poco più di 110 mila). I programmi dei partiti promettono nuove leggi. Nonostante tanta abbondanza di norme (alle quali bisogna aggiungere dal 1970 leggi e regolamenti delle venti Regioni), la loro efficacia è ridotta. Una volta pubblicata la legge, bisogna attendere le circolari; emanate le circolari, aspettare i giornali e le riviste specializzate, per chiarire arcani e contraddizioni. Il presidente del Consiglio di Stato, nei giorni scorsi, ha segnalato che più leggi regolano spesso la stessa materia; vi sono deroghe che rendono incerta l’applicazione di disposizioni generali; norme successive si sovrappongono a quelle precedenti senza abrogarle espressamente. Tutto questo produce incertezza del diritto. Perché tante norme, e tanto poco chiare e rispettate? Quali gli effetti di questa situazione di confusione normativa? La prima causa sta nel Parlamento, che, per diffidenza nei confronti dell’esecutivo, ha la pretesa di approvare leggi auto-applicative, rubando così il mestiere a governo e amministrazione pubblica, e trasformandosi esso stesso in amministratore, oppure riducendo ai minimi termini lo spazio del potere esecutivo, che viene vincolato da automatismi. Così, gli organi legislativi divengono anche negoziatori delle norme, médiano interessi, entrando nei più minuti dettagli, colloquiano con le “lobbies”, guadagnando potere, ma spesso rimanendone succubi o venendo catturati da gruppi di interesse, che conoscono situazioni e fatti sempre meglio dei parlamentari. Una terza causa dell’inflazione legislativa è la legislazione stessa: più si legifera, più si è costretti a legiferare, in un circolo vizioso che potrebbe non avere mai fine. Lo spostamento sul Parlamento di tante decisioni produce effetti negativi. Fa diventare politiche anche questioni puramente tecniche, e che potrebbero essere meglio risolte a livello amministrativo o governativo. È lì che ci sono gli esperti, mentre i legislatori sono “amateurs”, non hanno a loro disposizione strutture di ausilio, possono al massimo svolgere audizioni di competenti o convocarli dinanzi a commissioni di inchiesta conoscitiva. Portare a livello legislativo tante decisioni produce un secondo effetto negativo, quello di irrigidire i processi di decisione, perché ogni modifica richiede un altro intervento del Parlamento, che - specialmente in un sistema bicamerale - esige tempo. Contemporaneamente, un Parlamento così impegnato non riesce ad affrontare i grandi problemi sociali che richiedono l’intervento dei rappresentati della nazione, problemi che finiscono per approdare nelle aule dei tribunali. Questi ultimi svolgono così una supplenza per la quale si attirano molte critiche. L’ultima conseguenza paradossale della situazione è che tale groviglio di cause ed effetti viene imputato alla burocrazia, considerata un Moloch immobile. L’accusa alla burocrazia ha una spiegazione perché è essa che deve alla fine erogare i servizi ai cittadini, anche quando non è la principale responsabile dei ritardi o dei blocchi. Questo però non assolve completamente un personale amministrativo spesso scelto male o non selezionato, poco motivato, impaurito dalle troppe responsabilità, per lo più capace di fronteggiare le emergenze ma non di reggere la gestione ordinaria, né di riuscire a progettare un migliore funzionamento della macchina burocratica. Per uscire da questo circuito infernale, bisognerebbe almeno cominciare con un tentativo di razionalizzazione. I francesi ci sono riusciti: una buona parte della loro normazione è ora raccolta in 75 codici (codificazione a diritto costante). Per prepararli hanno impiegato poco più di un quarto di secolo. Poi, come per il debito, bisogna che aumenti l’avanzo primario: in 157 anni dall’unificazione, le norme prodotte superano quelle abrogate; bisognerebbe ora invertire il rapporto. Il Parlamento che ci accingiamo a eleggere assumerà questo compito? Legge Lorenzin: per l’esercizio abusivo della professione più carcere e multe salate di Carmelo Minnella Il Sole 24 Ore, 12 febbraio 2018 La legge Lorenzin ha inasprito il trattamento sanzionatorio dei reati commessi nell’esercizio abusivo delle professioni sanitarie, allargando il ventaglio delle pene accessorie; sono state introdotte alcune ipotesi qualificate di concorso di persone nel delitto, ampliando in certi casi l’area del penalmente rilevante con l’estensione dei soggetti attivi. L’inasprimento del trattamento sanzionatorio della legge 11 gennaio 2018 n. 3 si è mosso lungo molteplici direttrici: - in alcuni casi si sono elevati i limiti minimi e massimi della forbice edittale (come è avvenuto, in generale, per il delitto di esercizio arbitrario della professione e, in particolare, per i delitti di omicidio e lesioni colpose dove l’aggravamento, rispetto alle ipotesi base di reato, ha riguardato i fatti commessi nell’esercizio abusivo di una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato o di un’arte sanitaria); - in altri casi si è ampliato il ventaglio delle sanzioni accessorie (ciò è avvenuto per il reato di esercizio abusivo della professione, soprattutto con riferimento alla confisca obbligatoria dei beni utilizzati per commetterlo); - in altri ancora si è intervenuto sugli accidentalia delicti inserendo una nuova circostanza aggravante comune (con l’aggiunta del comma 11-sexies all’articolo 61 del Cp) dell’avere, nei delitti non colposi, commesso il fatto in danni di persone ricoverate presso strutture sanitarie o sociosanitarie residenziali o semiresidenziali, pubbliche o private, o presso strutture socio-educative. Esercizio abusivo di una professione: struttura inalterata - Le modifiche più consistenti della legge Lorenzin hanno riguardato il delitto di esercizio abusivo della professione. È tuttavia rimasta intatta la struttura del reato nei suoi elementi costitutivi, quindi l’articolo 348 del Cprimane una norma penale in bianco, in quanto la configurazione del reato necessita, a fini integrativi, del ricorso a disposizioni extra penali che stabiliscono i requisiti oggettivi e soggettivi per l’esercizio di determinate professioni, restando esclusa alcuna violazione dei principi di determinatezza e tassatività della fattispecie (Corte costituzionale, n. 199 del 1999 e, da ultimo, Cassazione penale, sezione seconda, n. 16566 del 2017). Nell’esercizio abusivo della professione - reato solo eventualmente abituale, ma che può essere compiuto anche con un singolo atto - la reiterazione degli atti tipici dà luogo a un unico reato se lo scopo perseguito dall’agente è quello dell’esercizio di una determinata professione, il cui momento consumativo coincide con l’ultimo di essi, vale a dire con la cessazione della condotta (sezione Sesta, n. 20099 del 2016); si deve invece ravvisare una pluralità di reati in presenza di molteplici professioni esercitate (sezione Terza, n. 37166 del 2016). Invero, il reato non è stato ritenuto compatibile con l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto ex articolo 131-bis del Cpin quanto tale delitto presuppone una condotta che, in quanto connotata da ripetitività, continuità o, comunque, dalla pluralità degli atti tipici, è di per sé ostativa al riconoscimento della causa di non punibilità (sezione Sesta, nn. 13379 e 6664 del 2017). Mancata occasione di recuperare tassatività - Il legislatore ha invero perso l’occasione di intervenire cercando di ridare margini di determinatezza alla disposizione incriminatriceex articolo 348 del Cp. Se è fuori discussione che il reato è realizzato dallo svolgimento da parte di un soggetto non abilitato di attività che rientrano tra quelle tipiche o riservate di una specifica professione per il cui esercizio occorra essere muniti di un titolo abilitante (così, la prestazione di consulenze psicologiche da parte di soggetto privo di titolo abilitativo: sezione Seconda n. 16566 del 2017) è non meno indubbio che, ai fini della affermazione di responsabilità dell’agente, si renda sempre necessario verificare, in termini di pregiudizialità, la sussistenza e la commissione reali dell’atto professionale “tipico” e soprattutto delle specifiche ed effettive modalità con cui lo stesso è stato posto in essere (sezione Sesta, n. 22534 del 2015). Pene più elevate e pubblicazione della sentenza di condanna - Se la struttura del reato di esercizio abusivo di una professione è rimasta inalterata, l’articolo 12 della legge n. 3 del 2018 ha elevato la sanzione penale, sia detentiva che pecuniaria. Mentre in precedenza il delitto era punito con la reclusione fino a sei mesi e con la multa da 103 a 516 euro, adesso la forbice edittale prevista è da sei mesi a tre anni e la multa da 10.000 a 50.000 euro. Sul versante delle sanzioni accessorie, la legge Lorenzin ha previsto che alla condanna segua la pubblicazione della sentenza, ai sensi dell’articolo 36, ultimo comma, del Cp(a norma del quale “la legge determina gli altri casi nei quali la sentenza di condanna deve essere pubblicata”). Si tratta di una ulteriore ipotesi extra codicem di pubblicazione della sentenza di condanna mediante affissione nel Comune ove è stata pronunciata, in quello ove il delitto fu commesso, e in quello ove il condannato aveva l’ultima residenza. La pronuncia di condanna è inoltre pubblicata nel sito internet del ministero della Giustizia. La durata della pubblicazione nel sito è stabilita dal giudice in misura non superiore a trenta giorni (in mancanza, la durata è di quindici giorni). La pena accessoria si applicherà solo ai fatti di esercizio abusivo della professione commessi dopo l’entrata in vigore della legge n. 3 del 2018. Ciò alla stessa stregua di quanto già affermato in relazione alle modifiche apportate all’articolo 36 del Cp(dall’articolo 37, comma 18, decreto legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito nella legge 15 luglio 2011, n. 111), che non hanno introdotto nel sistema penale una nuova sanzione accessoria, ma hanno diversamente modulato il contenuto della pena accessoria già prevista, sostituendo alla tradizionale forma di pubblicazione sulla stampa quella via internet, che ha rafforzato il carattere afflittivo di detta pena, sicché, ai sensi dell’articolo 2, comma 4, del Cp, la nuova disciplina non è applicabile ai fatti pregressi (sezione Seconda, n. 14768 del 2017). La sanzione accessoria della pubblicazione della sentenza di condanna influenzerà in termini negativi la concessione del beneficio della non menzione della condanna nel casellario giudiziale, in caso di prima condanna contenuta nei due anni di reclusione. Anche se l’articolo 7 della legge 7 febbraio 1990 n. 19 ha abrogato l’ultimo comma dell’articolo 175 del Cp- “le disposizioni che precedono non si applicano quando alla condanna conseguono pene accessorie”, per cui è stata eliminata l’automatica preclusione della non menzione nel certificato del casellario giudiziale nel caso siano state comminate pene accessorie - è evidente che il beneficio, perseguendo lo scopo di favorire il ravvedimento del condannato mediante l’eliminazione della pubblicità quale particolare conseguenza negativa del reato (sezione Terza, n. 18396 del 2017), si pone comunque in direzione opposta (per lo meno nei casi più gravi di esercizio abusivo della professione) a quello della prevista pubblicazione della sentenza. Riciclaggio, per l’impresa la responsabilità è doppia di Luigi Ferrajoli Il Sole 24 Ore, 12 febbraio 2018 Doppia responsabilità delle imprese per le violazioni antiriciclaggio. Infatti, per la medesima infrazione organizzativa, le persone giuridiche rischiano di essere sanzionate su due fronti: • a titolo di “responsabilità da organizzazione” che scatta, in base all’articolo 25-octies del decreto legislativo 231/2001, quando un rappresentante dell’impresa o un suo sottoposto commette nell’interesse dell’impresa i reati presupposto di ricettazione, riciclaggio, impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita o auto-riciclaggio; • a titolo di responsabilità solidale con chi ha commesso l’illecito, nell’ambito del quadro sanzionatorio previsto dagli articoli 56 e seguenti del decreto legislativo 231/2007. Il nuovo quadro - È questo il quadro che emerge a seguito dell’ultima riforma delle norme antiriciclaggio (decreto legislativo 90/2017, che ha recepito la IV direttiva Ue, 2015/849), che non ha riordinato i profili di responsabilità delle imprese. Eppure, la IV direttiva Ue aveva invitato gli Stati membri a introdurre una responsabilità punitiva delle persone giuridiche, collegata alle violazioni amministrative commesse a loro vantaggio, secondo lo schema di imputazione tipico della responsabilità da reato degli enti (prevista appunto dal decreto legislativo 231/2001). Ma l’indicazione - nonostante il precedente dell’articolo 187-quinquies del Testo unico in materia di intermediazione finanziaria (Tuf, decreto legislativo 58/1998) in materia di market abuse - non è stata recepita dalla riforma, che - confermando il difetto di compenetrazione tra la normativa 231 e gli altri ambiti del diritto interno - ha invece previsto sanzioni amministrative applicate alla persona giuridica in maniera diretta o a titolo di responsabilità solidale (in base all’articolo 6, comma 3, legge 689/1981). Ad esempio, per quanto riguarda l’omessa segnalazione di operazioni sospette, le commissioni di Camera e Senato, nelle proposte di modifica allo schema di decreto legislativo, avevano suggerito l’applicazione delle sanzioni pecuniarie solo alle persone giuridiche, ritenendo tale impostazione la più coerente con il generale impianto proporzionato e dissuasivo del sistema sanzionatorio post-riforma. Il nuovo articolo 58, comma 3, del decreto legislativo 231/2007 - ulteriormente allontanandosi dai principi dell’impianto sanzionatorio previsto dal decreto legislativo 231/2001 - ha invece statuito che le sanzioni si applichino al “personale (...) tenuto alla comunicazione o alla segnalazione (...) e responsabile in via esclusiva o concorrente con l’ente presso cui opera”. Le responsabilità - La questione non è di poco conto, perché sono profonde le differenze tra il sistema di imputazione della responsabilità previsto dal decreto legislativo 231/2001 e la responsabilità solidale disciplinata dall’articolo 6, comma 3, della legge 689/81. Infatti, per far scattare la “responsabilità da organizzazione” è necessario che gli illeciti commessi siano stati realizzati nell’interesse o a vantaggio dell’ente; invece, la responsabilità solidale va intesa come strumento di deterrenza generale (si veda la sentenza 22082/2017 della Cassazione) ed è attribuibile a quanti, persone fisiche o enti, abbiano interagito con il trasgressore, rendendo possibile la violazione. I profili di sovrapposizione e conflitto dei due sistemi sanzionatori (uno di prevenzione e l’altro volto alla repressione del riciclaggio), a più riprese affrontati anche dalla Cassazione, non sono, nella pratica, sempre risolvibili attraverso il semplice ricorso alla prassi legislativa. È il caso delle sanzioni per le violazioni delle norme sulle segnalazioni di operazioni sospette, per le quali, proprio per evitare fenomeni di “bis in idem”, è stata inserita la clausola di riserva “salvo che il fatto costituisca reato” (articolo 58, comma 1, decreto legislativo 231/2007); in concreto, tuttavia, non è agevole capire quando la mancata segnalazione integri un’autonoma fattispecie di illecito amministrativo e quando invece costituisca un mero indice di anomalia comportamentale, utile a definire l’elemento soggettivo dell’autore del reato di riciclaggio. La duplice responsabilità amministrativa (intesa in senso stretto o di natura para-penale) a cui sono esposte rende molto difficile per le imprese predisporre e attuare piani di governance aziendale in grado di prevenire i comportamenti del personale che violano le norme antiriciclaggio. La Cassazione ribadisce: il furto è compiuto se si superano le casse di Silvia Marzialetti Il Sole 24 Ore, 12 febbraio 2018 Anche la momentanea disponibilità del bene configura il reato di furto consumato. Ancora una volta la Cassazione - sentenza 6501 del 9 febbraio 2018 - torna sul tema, prendendo in esame un caso avvenuto a Orio al Serio, dove un trentenne ha ceduto all’irresistibile richiamo di un drone esposto sugli scaffali di un grande centro commerciale. Circa 500 euro il valore della merce, che l’uomo è riuscito con lestezza a portare fuori dal negozio, eludendo i controlli. Ma il momento di gloria è durato pochi minuti, il tempo - per i vigilantes - di intervenire. Eppure, nonostante non sia riuscito a provare neanche l’ebbrezza di un breve volo, i giudici hanno considerato compiuto - e non tentato - il furto. Il cuore della decisione è racchiuso in una massima che da anni fa scuola: “Costituisce furto consumato e non tentato quello che si commette all’atto del superamento della barriera delle casse di un supermercato con merce prelevata dai banchi e sottratta al pagamento, non assumendo rilievo che il fatto sia avvenuto sotto il costante controllo del personale di sorveglianza”. A spezzare questa linea è stata una sentenza depositata nel 2014 (la 52117). Prendendo in esame un caso di furto avvenuto sotto l’occhio vigile delle telecamere e stoppato soltanto all’uscita delle casse, le Sezioni Unite penali decretarono il furto tentato e non consumato. In quel caso il sottile confine oltre il quale muta la configurazione del reato (le casse preposte ai pagamenti) ha perso qualsiasi valore interpretativo e la scelta ermeneutica si è giocata tutta sul combinato disposto di due elementi: la sfera di controllo del bene da parte del proprietario (che non è venuta mai meno) e la scelta consapevole e ponderata da parte dei vigilantes di intervenire tardivamente, per avere contezza delle cattive intenzioni del ladro. Danni, alla Consulta l’appello penale di Giovanbattista Tona Il Sole 24 Ore, 12 febbraio 2018 Corte d’appello di Venezia, ordinanza del 9 gennaio 2018. Non è ragionevole che la parte civile di un processo penale impugni la sentenza di assoluzione dell’imputato di fronte alla sezione penale della Corte d’appello visto che potrà ottenere solo il riconoscimento del suo diritto al riconoscimento del danno. Ne è convinta la Corte d’appello di Venezia che con ordinanza del 9 gennaio scorso(presidente e relatore Citterio) ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 576 del Codice di procedura penale, laddove prevede che l’appello della parte civile sia proposta al giudice penale e non a quello civile. Secondo i giudici, oggi questa norma contrasterebbe con gli articoli 3 e 111 della Costituzione, cioè con i principi di ragionevolezza, di giusto processo, di efficienza e di efficacia della giurisdizione. Il caso - La questione nasce da un processo penale dove l’imputato di introduzione abusiva nei sistemi informatici era stato assolto in primo grado per insussistenza del fatto. La società titolare dei sistemi informatici si era costituita parte civile, chiedendo il risarcimento del danno. La sentenza di assoluzione con la formula “perché il fatto non sussiste” negava alla radice la sussistenza di una condotta causativa di un danno, oltre che la responsabilità penale dell’imputato. Il Pm non aveva ritenuto di fare appello alla sentenza. Il suo passaggio in giudicato avrebbe precluso alla parte civile, in base all’articolo 652 del Codice di procedura penale, la possibilità di rivolgersi al giudice civile per chiedere il risarcimento. Per queste ragioni la parte civile ha impugnato la sentenza di fronte alla Corte d’appello penale. Anche se il suo appello, in mancanza di quello del Pm, poteva avere effetto solo sulle questioni civili. L’appello - I giudici di secondo grado evidenziano che la regola della continuità nel processo penale della trattazione delle doglianze pur della sola parte civile fu posta nel 1987, quando il quadro era diverso da quello attuale: vi era l’aspettativa che la maggior parte dei processi si definissero con riti alternativi e che il giudizio dibattimentale fosse residuale; una larga fetta di giudizi era riservata alla competenza del pretore; e non era prevista come obbligatoria la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in appello per ribaltare un’assoluzione in condanna anche solo ai fini civili. Ora il contesto è mutato e i giudici della Corte d’appello di Venezia si dicono convinti che “l’attribuzione discrezionale alla corte penale anche della competenza per l’impugnazione ai soli effetti civili, rispetto all’alternativa possibile dell’attribuzione al giudice civile, supera gli ambiti della fisiologia tecnico/politica propria delle scelte del legislatore” e costituisce una palese e grave irrazionalità, oltretutto priva di giustificazione, perché determina direttamente ulteriori contesti di denegata tempestiva giustizia. Sottrae infatti risorse, tempo e attenzione dei giudici penali ai procedimenti che riguardano l’affermazione della responsabilità penale degli imputati. D’altronde, già attualmente è previsto come fisiologico il passaggio dal giudizio penale a quello civile in base all’articolo 622 del Codice di procedura penale, quando la Cassazione accoglie il ricorso della parte civile contro la sentenza di proscioglimento dell’imputato; in questo caso infatti l’eventuale giudizio di rinvio si svolge di fronte al giudice civile competente in grado di appello e si possono utilizzare tutti gli aggi formati nei precedenti gradi dinanzi al giudice penale. Così, se la Corte costituzionale condividesse la censura di legittimità costituzionale proposta, i giudici di appello si potrebbero limitare a rimettere le parti al giudice civile competente per l’appello. La parola passa ora alla Consulta. Il Gip non può restituire gli atti al Pm per la possibile applicazione della “tenuità del fatto” di Giuseppe Amato Il Sole 24 ore, 12 febbraio 2018 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 29 gennaio 2018 n. 4147. È abnorme, perché non consentita dall’ordinamento processuale, la restituzione degli atti al pubblico ministero da parte del Gip investito da una richiesta di emissione del decreto penale di condanna motivata dal giudice sulla base della ipotetica valutazione di applicabilità della causa di non punibilità di cui all’articolo 131-bis del Cp. Lo stabilisce la Cassazione, sezione terza penale, con la sentenza n. 4147 del 29 gennaio 2018. I giudici chiariscono che se è vero, infatti, che il Gip investito dalla richiesta di emissione del decreto penale di condanna è titolare del potere di emettere la sentenza di proscioglimento di cui all’articolo 129 del Cpp,tale possibilità è da escludersi nell’ipotesi di ritenuta sussistenza - da parte del giudice - della speciale causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’articolo 131-bis del Cp, in ragione della peculiare natura di tale istituto, che implica l’instaurazione del contraddittorio e che comporta l’emissione di un provvedimento non pienamente liberatorio, data la ricorrenza di effetti pregiudizievoli, tra cui l’iscrizione nel casellario giudiziale del provvedimento dichiarativo. Per cui l’applicazione di tale istituto può venire in rilievo esclusivamente in sede di formulazione dell’opposizione al decreto penale già emesso, e dunque dopo l’instaurazione del contraddittorio, nell’ambito delle opzioni processuali spettanti all’opponente. Ricorso per cassazione: fa riferimento l’emissione del provvedimento e non la proposizione di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 12 febbraio 2018 Corte di cassazione - Sezione V - Sentenza 9 novembre 2017 n. 51106. Dopo la legge 103/2017 che ha cancellato la possibilità per l’imputato di sottoscrivere personalmente il ricorso per cassazione, in mancanza di una disciplina transitoria, per individuare il regime applicabile si deve far riferimento al momento di emissione del provvedimento impugnato e non a quello della proposizione. Lo ha chiarito la Cassazione con la sentenza 51106/2017. Con i commi 54 e 63 dell’articolo 1 della legge 23 giugno 2017 n. 103, entrata in vigore il 3 agosto 2017, è stata eliminata la possibilità per l’imputato di sottoscrivere personalmente il ricorso per cassazione, con la conseguente inammissibilità del ricorso in caso di presentazione personale da parte dell’imputato. Tuttavia, in assenza di specifiche disposizioni transitorie circa il regime normativo da applicare ai ricorsi per cassazione, presentati personalmente dall’imputato ai sensi del previgente dettato di cui agli articoli 571, comma 1,e 613, comma 1, del Cpp, ma trattati dalla Corte di cassazione dopo l’entrata in vigore delle norme di cui ai citati commi 54 e 63 della legge n. 103 del 2017, vertendosi in tema di successione di norme processuali relative alle impugnazioni, deve farsi applicazione del principio (già affermato dalle sezioni Unite, 29 marzo 2007, Lista), in forza del quale, ai fini dell’individuazione del regime applicabile in materia di impugnazioni, allorché si succedano nel tempo diverse discipline e non sia espressamente regolato, con disposizioni transitorie, il passaggio dall’una all’altra, l’applicazione del principio tempus regit actum impone di far riferimento al momento di emissione del provvedimento impugnato e non già a quello della proposizione dell’impugnazione. Infatti, poiché l’atto d’impugnazione è la risultante di un’attività preparatoria avviata con il sorgere del diritto d’impugnare, che è strettamente collegato alla pronuncia della sentenza, il quadro normativo cui occorre fare riferimento per regolare le ipotesi di modificazioni delle impugnazioni, quali quelle riguardanti le relative modalità, è quello del tempo in cui tale diritto è venuto a esistenza: vale a dire, il momento di adozione del provvedimento impugnabile. Barcellona Pozzo di Gotto (Ms): detenuto di 25 anni si toglie la vita in carcere ildiariometropolitano.it, 12 febbraio 2018 Un nuovo suicidio, il secondo di questo 2018, all’interno del carcere di Barcellona Pozzo di Gotto. Tragedia ieri pomeriggio nel terzo reparto del carcere Madia. Un giovane detenuto di 25 anni, di Sant’Agata di Militello si è impiccato in circostanze in corso di ricostruzione. Il venticinquenne (A.C. le sue iniziali) si trovava in isolamento. Secondo una prima ricostruzione si tratterebbe di un giovane che già una volta, nel 2016, aveva inscenato una clamorosa protesta. Rapido ma inutile l’intervento degli agenti di polizia penitenziaria di servizio ieri pomeriggio. Da quanto l’istituto penitenziario da Opg è diventato carcere a tutti gli effetti, i suicidi sono aumentati. Il suicidio del giovane di Sant’Agata Militello accende i fari sulla necessità di garantire adeguate cure ai pazienti con problemi psichiatrici. Brescia: dal carcere il riscatto passa (anche) dalla fabbrica di Beatrice Raspa Il Giorno, 12 febbraio 2018 La Givi di Flero si aggiunge alle aziende che assumono detenuti o ex detenuti. Dal carcere all’azienda, assunti a tempo indeterminato. Si allunga l’elenco delle realtà imprenditoriali che accettano la scommessa di fare lavorare detenuti o ex detenuti. Dopo Magazzini del Caffè spa, Pintossi Più C e Acquolina in bocca, da un mese e mezzo della lista fa parte anche Givi, storica azienda di Flero specializzata in caschi e accessori per moto. In due (uno è in semilibertà, l’altro ha saldato il conto con la giustizia) hanno firmato un contratto per confezionare bauletti. “Uno è già stato stabilizzato, l’altro sta concludendo il tirocinio - spiega Sandro Dal Maschio, direttore di Nitor, la cooperativa che fa da tramite e garante. È un progetto in via sperimentale. Però abbiamo già prodotto due lotti di bauletti e stiamo per produrre il terzo”. Nitor e la direzione di Verziano da anni si danno da fare per fornire ai reclusi la possibilità di reinserirsi dal punto di vista sociale e lavorativo. E hanno avviato dentro la casa di reclusione una sorta di ufficio di collocamento e di centro di formazione permanente: “L’obiettivo è dare lavoro all’esterno. Può capitare però che qualcuno fatichi a lavorare in gruppo dopo l’esperienza della reclusione. Quindi abbiamo pensato di avviare produzioni interne, così da seguire meglio i detenuti e offrire a più persone possibili l’occasione di misurarsi con il lavoro”. Attualmente sette persone lavorano all’esterno: due da Givi, le altre tra le realtà che gravitano attorno a Nitor (pulizie industriali, logistica e assemblaggi) e Pintossi Più C. “Tutti hanno un contratto regolare. Inizialmente li assumiamo noi. Ma chi è bravo e affidabile capita poi sia assunto dalle aziende”. Molte altre commesse sono in trattativa e potrebbero arrivare a Verziano ma c’è un limite: “Lo spazio, il carcere è piccolo. È assurdo, l’ordinamento penitenziario recita che il lavoro è fondamentale per il detenuto e poi non si riescono a fare girare i camion. Gli imprenditori chiedono qualità e continuità. Con un po’ di impegno i risultati ci sono”. Parma: Raffaele Cutolo sta morendo dietro le sbarre? internapoli.it, 12 febbraio 2018 Le condizioni di salute di Raffaele Cutolo restano un vero e proprio mistero. Nei giorni scorsi si sono diffuse diverse notizie sullo stato fisico dell’ex capo della Nuova Camorra Organizzata, detenuto in regime di 41 bis presso il penitenziario di Parma. Affetto da prostatite, diabete e artrite, il sanguinario “professore” starebbe lentamente morendo dietro le sbarre senza un sostegno e senza ricevere la visita dei familiari da oltre sei mesi. Secondo quanto raccontato qualche settimana fa dalla moglie di Cutolo, le ristrettezze economiche della consorte non le permetterebbero di recarsi in Emilia Romagna. Alle patologie del professore si aggiungerebbero inoltre il distacco del corpo vitreo dell’occhio che lo starebbe rendendo praticamente cieco e il rigetto della protesi dentaria. Una situazione che nei giorni scorsi il partito radicale ha provato a verificare di persona, facendo richiesta di fare visita a Cutolo. Una delegazione del gruppo politico è entrato nel penitenziario parmense senza però poter oltrepassare i cancelli del reparto destinato al 41bis. Presente nella delegazione anche Rita Bernardini, del partito radicale, che ha rifiutato un permesso straordinario che le avrebbe concesso di entrare nel reparto senza però poter interloquire con i detenuti. Si tinge dunque ancora più di giallo la vicenda e soprattutto resta sempre più avvolta nel mistero la situazione di salute dell’ex capo della N.c.o. Migranti. La chiusura si è rivelata un’illusione di Giovanni Palombarini Il Mattino di Padova, 12 febbraio 2018 D’improvviso, alla fine di gennaio, i media italiani si sono accorti che la politica dell’immigrazione inaugurata dal ministro degli interni Marco Minniti l’estate scorsa non funziona. Lo scopo era esplicitamente quello di fermare gli sbarchi, e in effetti nel secondo semestre del 2017 il numero degli arrivi si era drasticamente ridotto rispetto all’anno precedente. Legittimazione e sostegno alla guardia costiera di Tripoli, tentativi di favorire il dialogo fra le varie fazioni libiche, approvazione dell’invio di un contingente militare in Niger per frenare gli ingressi in Libia dagli altri paesi africani, poderosa delegittimazione delle ong e alle loro navi protagoniste di tanti salvataggi in mare, tutto questo è stato messo insieme per realizzare uno degli obiettivi essenziali della politica estera italiana, e di altri paesi europei, quello di tenere i migranti lontani dalle proprie coste (l’altro è quello dimettere le mani sul petrolio libico). Anche accettando che nelle carceri libiche continuasse il massacro di umanità in atto da tempo. Era sembrato che la cosa funzionasse. Invece con il 2018 tutto è di nuovo in discussione. I flussi sono ripresi, i numeri degli sbarchi del primo mese dell’anno sono di poco inferiori a quelli dei mesi di gennaio del 2016 e del 2017; e altissimo è il numero dei morti (“stragi di migranti”, hanno titolato molti quotidiani). Fino al 7 febbraio, secondo i dati del Ministero dell’interno, sono arrivate 4.723 persone, di cui 1.312 eritrei e 253 libici, dato, quest’ultimo, che evidenzia come anche dalla Libia si debba fuggire per evitare di essere coinvolti nelle feroci battaglie fra i signori della guerra. Gli accordi dei mesi scorsi con l’esecutivo Serraj, ha scritto qualcuno, sono stati sepolti dal vento del deserto. E la sopravvivenza di tante persone è stata affidata alla sorte. Alcuni giornali hanno pubblicato in questi giorni la fotografia di una madre in mare, che tiene in alto con un braccio il figlioletto nel tentativo di non farlo affogare: emblema di cosa sia oggi la tanto proclamata accoglienza. Dunque, ancora una volta, la politica della chiusura, alla quale i paesi europei sono disperatamente attaccati, si sta dimostrando un’illusione. Ciò nonostante nel dibattito politico italiano si discute, sulla base della inaccettabile distinzione fra profughi e migranti economici, del numero degli immigrati - 500.000? 600.000? - che dovrebbero essere trasferiti nei paesi di origine. Solo Pietro Grasso, interrogato in proposito, ha pacatamente risposto che tutti devono rimanere e che il problema, molto complesso, è quello del come organizzare la loro accoglienza. Evidentemente l’ex magistrato è consapevole che le migrazioni di grandi dimensioni sono fatti strutturali, come tali inevitabili. Da qualche anno è in atto verso l’Italia e l’Europa un vero e proprio esodo, che si sviluppa anche a costo di grandi sacrifici delle persone, di “stragi che sono un’offesa all’umanità”, secondo le parole del Pontefice (si calcola che nelle prime settimane del 2018 un migrante su venti abbia perso la vita). Però manca, nel dibattito italiano, la consapevolezza di questo aspetto drammatico di un fenomeno inevitabile. L’emergenza non è più solo umanitaria, ma ben più complessiva. La cosa inquieta o spaventa molti. E però è inevitabile misurarsi con una immigrazione destinata a mutare la stessa composizione delle popolazioni europee e in prospettiva la loro stessa cultura. Le vecchie soluzioni non sono più sufficienti, e salvare chi sta per affogare è un dovere minimo che lascia aperto il problema. A questo punto ci si deve adattare all’idea che è necessaria una politica nuova che abbia come prospettiva non solo quella di salvare ma anche di accogliere, senza troppe distinzioni, tutti coloro che vogliono arrivare. E che comunque arriveranno. L’unica soluzione non ideologica ma realista è questa. Si tratta di individuare, in Italia e in Europa, le modalità di governo di un fenomeno in relazione al quale non solo non si può dare per scontato che tante persone debbano morire, ma che impone schemi politici nuovi e una nuova definizione dei concetti di civiltà. La domanda ancora una volta è: chi, oggi, in Europa, singoli o forze politiche, ha la statura intellettuale ed etica per aprire una simile prospettiva? Migranti. Gli sbarchi bloccati non fermano l’odio xenofobo di Emma Bonino La Repubblica, 12 febbraio 2018 “Fermare” gli sbarchi non ha fermato Traini. L’Italia, anche grazie all’efficienza dei suoi apparati di sicurezza, ha fino ad oggi evitato attentati di cani sciolti jihadisti, ma ha registrato un primo atto terroristico xenofobo che non ha prodotto una carneficina solo per errore di “mira” da parte dello sparatore. Il terrorista non è venuto fuori da un centro islamico, ma da una sezione di un partito rappresentato in Parlamento. Io respingo l’idea che la xenofobia sia un prodotto dell’immigrazione. Continuare a perseverare in questo errore di analisi significa scivolare verso la giustificazione del pregiudizio. “Ci sono troppi stranieri, la gente è stanca…”, afferma qualcuno. È come sostenere che l’antisemitismo sia un prodotto dell’ebraismo. Che la rabbia dei carnefici sia colpa delle vittime. È storicamente vero il contrario. L’ebreo, come lo straniero, sono proiezioni di un odio che è culturale e ideologico, non meramente psicologico. La xenofobia è un prodotto del nazionalismo, non dell’immigrazione e offre dei capri espiatori alla rabbia popolare. L’etno-nazionalismo di Salvini, antieuropeo e xenofobo, è una ideologia potente, non nuova nell’Europa di ieri e di oggi, che fomenta e cavalca l’inquietudine; non è un prodotto dell’inquietudine. È empiricamente dimostrato. La xenofobia è più forte nelle aree del Paese in cui ci sono meno stranieri, non di più. Questo non vale solo in Italia. Pensiamo alla Germania nella quale Afd spopola nelle aree dell’Est, più povere ma anche culturalmente desertificate da decenni di dominazione sovietica, non a Berlino o nelle metropoli multietniche dell’ex Germania federale. Dove ci sono più stranieri c’è meno xenofobia! Vale per l’Italia, per tutti i Paesi europei, e pure per gli Stati Uniti. Nella Parigi devastata dal terrorismo islamista e piena di stranieri da tutto il mondo, italiani compresi, Marine Le Pen ha raccolto le briciole e ha stravinto Emmanuel Macron. Ancora, guardiamo a cosa sta avvenendo a Est, per esempio ai rigurgiti antisemiti oggi in Ungheria e Polonia, in quest’ultimo caso coincidenti anche con una vera e propria rimozione delle responsabilità polacche nella persecuzione degli ebrei. Da dove arriva questo antisemitismo? C’è un’invasione di ebrei a Varsavia o Cracovia? No, di tutta evidenza! La percezione dell’insicurezza dipende anche dal modo in cui le classi dirigenti trattano questa percezione, come la fronteggiano, come se ne fanno carico. Io vorrei che sull’immigrazione si facesse come sui vaccini. Quando la “percezione” dell’opinione pubblica è diventata irrazionale, la reazione è stata spiegare, in maniera martellante, gli errori che c’erano dietro a questa percezione. Se si lascia l’opinione pubblica in preda al delirio tutto viene travolto. Perché non si fa lo stesso sull’immigrazione? Nel 2016 in Italia c’è stato il massimo degli sbarchi e il minimo degli omicidi dal 1992, femminicidi compresi. Questo dovrebbe dire il Ministro dell’interno a Macerata a quanti legano sbarchi e sicurezza, in primo luogo. Questa verità. Come il governo dice la verità sui vaccini e sostiene che quanti li accusavano di causare l’autismo sono degli impostori. L’immigrazione ha una motivazione demografica e economica, non “politica”. Non esiste un Grande Vecchio che manovra per realizzare quello che gli xenofobi chiamano “sostituzione dei popoli”. Nel 1950 l’Africa aveva meno della metà degli abitanti dell’Europa. Nel 2050 ne avrà il triplo. Sappiamo perfettamente che la demografia europea è destinata a cambiare e che milioni di europei nei prossimi anni saranno di origine africana. Restituiamo al mittente la grottesca caricatura del “vogliono fare entrare tutti” e rispondiamo con progetti pragmatici che integrino in un’unica politica sicurezza, mobilità umana e integrazione. La scommessa è riuscire a assicurare la continuità del nostro modello civile, politico e economico: ma è una scommessa che, per quanto difficile, non si può vincere “contro” gli stranieri che abitano e abiteranno sul nostro territorio, ma solo “con” loro. Polonia. La “legge sull’Olocausto” va contro la libertà d’espressione di Riccardo Noury Corriere della Sera, 12 febbraio 2018 “Chiunque affermi pubblicamente e in contrasto coi fatti, che la nazione polacca o la Repubblica di Polonia è responsabile o corresponsabile dei crimini nazisti commessi dal Terzo Reich (…) sarà sottoposto a una multa o a una pena detentiva fino a tre anni”. Eccolo, il testo dell’emendamento alla Legge sull’attività dell’Istituto della memoria nazionale (meglio noto come “legge sull’Olocausto”) che il presidente della Polonia, Andrzej Duda, ha firmato il 6 febbraio, dopo il voto favorevole del Senato che, come la Camera, è controllato dal partito di destra al governo Diritto e giustizia. Un emendamento che ha creato molte polemiche. L’ha firmato, il presidente, ma contemporaneamente lo ha trasmesso alla Corte costituzionale perché ne stabilisca la compatibilità con l’art. 54 della Costituzione che garantisce “la libertà di esprimere opinioni”. Amnesty International non ha dubbi: quella compatibilità non c’è e, così com’è scritta, la nuova norma viola il diritto alla libertà d’espressione previsto da trattati internazionali che la Polonia si è impegnata a rispettare. Il diritto internazionale non tutela l’adozione di leggi che proteggano l’onore di uno stato o che penalizzino l’espressione di opinioni su fatto storici. L’emendamento alla Legge sull’attività dell’Istituto della memoria nazionale, inoltre, potrebbe avere un effetto raggelante sul dibattito pubblico su questioni d’interesse nazionale e potrebbe anche essere utilizzato per ridurre al silenzio espressioni di critica nei confronti delle istituzioni polacche.