“Pazzi” e in cella, l’incredibile storia di 56 carcerati in Italia di Chiara Daina Il Fatto Quotidiano, 11 febbraio 2018 “Mi ha detto più di una volta: ma che campo a fare?”. Alberto è sgomento. Suo fratello è rinchiuso nel carcere di Regina Coeli da luglio. Ma in galera lui, che è un paziente psichiatrico, non ci dovrebbe stare. Con la legge 81 del 2014, che ha portato al superamento degli Opg (gli ospedali psichiatrici giudiziari), la riabilitazione dei malati psichiatrici autori di reato deve avvenire all’interno di strutture sanitarie, come le Rems (residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza), e non più presso istituti penitenziari (quali erano gli Opg). Una grande conquista di civiltà del nostro Paese che però a distanza di quasi quattro anni è ancora disattesa. “Nella perizia dello psichiatra c’è scritto che potrebbe avere istinti suicidi eppure continua a rimanere lì dentro”, non si dà pace Alberto. Il giudice ha previsto per suo fratello il trasferimento in una Rems ma la lista di attesa è troppo lunga. “Non si sa quando uscirà, nessuno sa dircelo. Ha 41 anni, è incensurato, soffre di un disturbo delirante da quando era ragazzino ma non ha mai riconosciuto di stare male. I miei genitori lo hanno denunciato perché li ha aggrediti. Speravano che così qualcuno si prendesse cura di lui, loro sono anziani e non ce la fanno più. Mio fratello non ha mai lavorato, ma almeno fuori aveva una band. In cella, invece, è completamente in preda ai suoi deliri”. Alberto e la sua famiglia sono senza speranza: “Sembra di combattere contro i mulini a vento, la riforma è rimasta sulla carta”. Questo non è un caso isolato. Nelle carceri italiane, ci comunica il Dap, in questo momento ci sono 56 pazienti psichiatrici in attesa di essere spostati in una struttura sanitaria. Solo a Roma sono 14. Tredici in tutta la Campania e cinque in Lombardia. “È una situazione illegittima, lo so”, ammette Roberto Piscitello, direttore generale dei detenuti del Dap. Il cortocircuito che si sta creando è micidiale. “Troppi internati non realmente pericolosi affollano le Rems e alimentano le liste d’attesa, fino all’abuso del trattenimento senza titolo in carcere”, spiega Stefano Anastasia, garante dei detenuti del Lazio. Colpa dell’atteggiamento difensivo di certi giudici che per cautelarsi dispongono il ricovero nelle Rems, senza valutare percorsi di terapia alternativi con i servizi sanitari e sociali del territorio. Il Csm, con una delibera del 12 aprile 2017, ha evidenziato l’uso inappropriato delle Rems, ricordando che rappresentano delle soluzioni estreme, eccezionali, quando ogni misura diversa non è idonea ad assicurare cure adeguate. “Ci sono troppi casi di ricoveri ingiustificati. Si tratta di persone non pericolose per la società che potrebbero tornare in famiglia o andare in comunità”, dice Giuseppe Nese, psichiatra dell’Asl di Caserta, che coordina il tavolo Rems in Conferenza Stato-Regioni. Felice Nava, psichiatra nel carcere di Padova e membro degli Stati generali per l’esecuzione penale, chiarisce che la condizione di “pericolosità sociale” impiegata nel diritto - per cui il malato viene spedito in Rems - risale addirittura al codice Rocco del 1930: “La scienza, da allora, ha fatto moltissimi progressi e quella definizione, che appartiene all’ambito clinico, andrebbe aggiornata. Le Rems non possono diventare un pozzo senza fondo. Serve un cambiamento culturale da parte dei magistrati”. Attualmente in Italia sono attive 30 Rems, da circa 20 posti letto l’una, e sono tutte intasatissime. I malati vengono parcheggiati in cella per sette/otto mesi in media. Ma c’è a chi va peggio. Paolo, 34 anni, schizofrenico, dopo che il tribunale lo ha scagionato con una sentenza definitiva, è rimasto nel carcere di Salerno per altri dieci mesi. Il 23 novembre, con oltre un anno di detenzione alle spalle, finalmente è stato trasferito in una casa di cura. “Lo spirito della riforma non è stato incarnato bene, ci sono tutti gli elementi per fare ricorso ai magistrati”: la denuncia arriva proprio da uno di loro, Francesco Maisto, già presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna. Lo psichiatra Nese parla di “riforma applicata quasi al contrario” e sottolinea che “la priorità non deve essere la detenzione ma la tutela della salute”. “Dopo aver aperto i manicomi - continua - ora non possiamo tornare indietro, rinchiudendo i pazienti. Più lo spazio è stretto, più il malato si agita e aggrava il suo stato mentale. Gli spazi vanno aperti se vogliamo salvare queste persone”. Il rischio è che qualcuno ridotto in quelle condizioni si ammazzi. Il caso di Valerio Guerrieri, morto suicida a 21 anni nel carcere di Regina Coeli, non deve ripetersi. Valerio dieci giorni prima di impiccarsi era stato scarcerato dal tribunale per incapacità di intendere e di volere. E per un reato precedente il giudice aveva chiesto per lui sei mesi di Rems. Ma lo stesso giorno Valerio, da uomo libero, è tornato dietro le sbarre. Il Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura a novembre ha chiesto all’Italia spiegazioni sul caso Guerrieri. L’associazione Antigone, a metà gennaio, ha lanciato un appello per l’immediata scarcerazione di un altro ragazzo, recluso nella Casa di lavoro di Vasto, affetto da epilessia cronica e schizofrenia paranoide, che ha sviluppato tendenze suicide. Il provvedimento del magistrato di sorveglianza anche in questo caso dispone il ricovero in Rems, ma non può essere eseguito perché non ci sono posti liberi. Condannati per lo sciopero della fame di Luca Rocca Il Tempo, 11 febbraio 2018 La sentenza Secondo la Cassazione il digiuno è un “pericolo per le istituzioni”. Nel 2015 due detenuti al carcere duro per aver rifiutato il cibo per protesta. I mille crimini d’odio che avvelenano l’Italia. Il detenuto che in carcere mangia cibo non degno di questo nome, e che per lavarsi non ha a disposizione nemmeno l’acqua calda, farà bene a pensarci due volte prima di inscenare una pacifica protesta attraverso lo sciopero della fame. Da qualche giorno, infatti, per la Cassazione persino questa forma civile di lagnanza è passibile di sanzione, e anche molto dura. La storia che ha portato la Suprema Corte a stabilire che lo sciopero della fame può essere pericoloso, trae origine dalla rimostranza di due detenuti calabresi, che, insieme ad altri compagni, nella speranza di poter avere cibo decente e acqua non gelida, hanno pensato di rivolgersi alla direzione del carcere chiedendo il rispetto di diritti “basilari di una vita carceraria dignitosa”. Nulla di più. Di fronte a quella richiesta, la risposta è stata durissima: una sanzione disciplinare che prevedeva per i “sediziosi” ben nove giorni di carcere duro. Una decisione, quella della direzione del penitenziario calabrese, confermata dal Tribunale di Sorveglianza di Catanzaro nel 2015, ma di fronte alla quale i due galeotti, invece di arrendersi, si sono appellati alla Cassazione, motivando il ricorso con un’argomentazione ovvia, e cioè che il rifiuto del cibo non è affatto una “sommossa” e che “la pesante risposta sanzionatoria non era giustificata da una reale pericolosità” della protesta, e rappresentava, anzi, una netta “chiusura alla richiesta di ascolto invocata dai detenuti, di tal modo conculcati nell’esercizio del legittimo diritto all’autodeterminazione”. Secondo gli avvocati dei due detenuti, infatti, “nell’alveo dell’esercizio di tale diritto costituzionalmente e convenzionalmente garantito, doveva essere inquadrata la scelta del ricorso allo sciopero della fame, opzione che sovente rappresenta nell’ambito carcerario l’unico mezzo per manifestare una reale situazione di disagio, di malessere fisico e psichico”. Ecco perché i nove giorni di sanzione non potevano che considerarsi una risposta “ingiustificatamente severa”. Argomentazioni che, pochi giorni fa, la Cassazione ha rigettato, confermando quanto deciso dalla direzione del carcere prima e dai giudici di Sorveglianza poi, ma stabilendo, soprattutto, che il digiuno era “un’azione dimostrativa di scontro e di ostilità verso le istituzioni e, dunque, pericolosa e sediziosa, perché idonea, in concreto, a scuotere e porre in pericolo l’ordine interno all’istituto, a turbare il normale svolgimento della vita carceraria, con il pericolo concreto di degenerare anche in un ingestibile allarme sanitario per il numero delle persone coinvolte nello sciopero della fame”. Una decisione, quella degli Ermellini, che non è piaciuta nemmeno un po’ all’ex segretario dei Radicali Italiani Rita Bernardini, che sul suo profilo Facebook ha evidenziato che, se di fronte a uno “sciopero della fame sacrosanto di due detenuti” gli Ermellini arrivano a scrivere che quello sciopero rappresenta “un’azione dimostrativa di scontro e di ostilità verso le istituzioni”, l’inevitabile domanda da porsi è innanzitutto una: “Ma la sentenza Torreggiani l’hanno letta?”. Il riferimento dell’esponente radicale è alla pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo dell’8 gennaio del 2013, con la quale il Tribunale di Strasburgo, decidendo su un ricorso presentato da 7 detenuti, fra cui, appunto, Torreggiani, non ha solo condannato l’Italia per il sovraffollamento carcerario, definendolo “strutturale”; non ha solo messo sotto accusa il nostro Paese per la mancanza di spazio nelle celle; e non ha solo chiesto di prevedere pene alternative al carcere; ma ha anche richiamato le autorità italiane alla necessità di dotarsi di un sistema di ricorso interno che dia modo ai detenuti di rivolgersi ai tribunali italiani per denunciare le proprie condizioni di vita nelle prigioni e tentare di avere, così, un risarcimento per la violazione dei loro diritti. A quanto pare, però, fare lo sciopero della fame per vederseli garantiti è visto, ormai, come un’azione quasi criminale. I mille crimini d’odio che avvelenano l’Italia di Paolo Berizzi La Repubblica, 11 febbraio 2018 L’olio nero del nostalgismo, della xenofobia, dell’odio razziale. L’Italia come un pentolone dove ribollono istinti che sfociano nell’intimidazione e nella violenza discriminatoria di matrice nazifascista. Lazio al primo posto. Seguono Lombardia ed Emilia Romagna. E poi Toscana, Veneto, Friuli Venezia Giulia. Sono le regioni che negli ultimi anni hanno fatto da teatro al maggior numero di episodi di reati d’odio. Una deriva geograficamente trasversale. Ma con una differente incidenza nelle varie aree del Paese. Complessivamente: 853 casi in tre anni: dal 2015 a tutto il 2017. Più di 284 all’anno. Quasi uno ogni due giorni. La mappa nera emerge da una ricognizione voluta dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando, presso le corti d’appello italiane: un monitoraggio che Repubblica è in grado di anticipare e che adesso, dopo il razzismo terrorista di Macerata, rivela quanto sia alto nel nostro Paese il rischio, almeno potenziale, che altre situazioni è intuibile che, a fronte di un quadro giudiziario “numericamente significativo” - come lo definisce il Guardasigilli - siano ancora e chissà quanto più numerosi i casi che accadono ma che non lasciano traccia perché non vengono denunciati: per paura o per omertà. E dunque non arrivano in tribunale. Che sul tema dei reati d’odio avrebbe avviato un “censimento” presso gli uffici giudiziari, Orlando l’aveva promesso a dicembre, nel mezzo del dibattito politico seguito al blitz squadrista dei militanti del Veneto Fronte Skinhead nella sede dell’associazione pro-migranti Como Senza Frontiere. Adesso con le informazioni raccolte dalle 26 Corti d’appello italiane (alcune sezioni distaccate hanno fornito i dati con comunicazioni separate), il quadro si compone. La classifica dei distretti giudiziari - stando al numero dei procedimenti iscritti nell’ultimo triennio - è guidata da Roma (circoscrizione del Lazio) con 202 processi. Subito dietro c’è Milano con 134. Poi viene l’Emilia Romagna: i giudici bolognesi hanno preso in esame 157 procedimenti. Novantanove in più di Firenze (57) che sta sopra Venezia (34). Poi ci sono Torino (31 casi), Palermo (21), Catania (14) e Caltanissetta (4); e la Campania con 27 procedimenti (14 Napoli, 13 Salerno). In alcune regioni del Sud il fenomeno sembrerebbe più circoscritto: sono solo 7 i processi istruiti nelle due corti d’appello pugliesi (Bari e Lecce, quest’ultima comprende la sezione distaccata Taranto). Undici quelli calabresi (8 Reggio Calabria, 3 Catanzaro). Altri dati che emergono: i 25 procedimenti di Genova, i 18 della Sardegna (13 a Cagliari, 5 a Sassari), gli 11 dell’Aquila e i 6 di Perugia. A Bolzano - che comprende la sezione distaccata di Trento - sono stati 26. Qui va sottolineata una situazione: i contatti tra locali realtà skinhead germanofone e analoghe formazioni tedesche con posizioni neonaziste e razziste. Contatti che spesso sono sfociati in comuni iniziative xenofobe. Guardando più in generale all’Italia, negli ultimi tre anni le cronache hanno registrato un’escalation di casi di intimidazione, violenza e razzismo, con anche matrice nazifascista. Ricordiamo i più recenti. Del blitz delle teste rasate a Como (novembre 2017) si è detto. A fine settembre al Trullo, periferia romana, gli scontri provocati da militanti di Forza Nuova per impedire lo sgombero di un appartamento popolare occupato abusivamente da una famiglia italiana, e che doveva poi essere assegnato a un cittadino eritreo. A ottobre il caso degli adesivi antisemiti di Anna Frank attaccati dagli ultrà laziali in curva Sud allo stadio Olimpico. Ed era un’ultrà laziale la militante di Forza Nuova protagonista assieme ad altri 11 del blitz intimidatorio sotto la sede di Repubblica a dicembre. I dati raccolti negli uffici giudiziari sono stati trasmessi da Orlando al procuratore generale presso la Corte di Cassazione, Riccardo Fuzio. “I gravi fatti degli ultimi giorni confermano l’opportunità di mantenere alto il livello di attenzione rispetto all’emersione di condotte di intolleranza e discriminazione”, ha sottolineato il Guardasigilli. Sul tema del contrasto ai rigurgiti neofascisti a fine anno da via Arenula era partito un doppio input: una proposta al consiglio dei ministri per rendere più fluida la normativa per lo scioglimento dei gruppi neri; e uno alla Scuola superiore della magistratura per l’istituzione di un corso ad hoc sui reati d’odio. Si terrà a ottobre. Il no al razzismo conquista le piazze di Francesco Grignetti La Stampa, 11 febbraio 2018 Ventimila a Macerata. Cortei a Milano e in altre città. Più di ventimila persone hanno partecipato a Macerata al corteo contro il razzismo. Misure di sicurezza imponenti, ma non ci sono state violenze. Polemiche per alcuni slogan degli antagonisti sulle foibe. Manifestazioni anche in altre città. Scontri a Torino e Piacenza. Benvenuti a Macerata, epicentro della campagna elettorale. La manifestazione antifascista e antirazzista che non si doveva fare e poi s’è fatta, è stato un successo con almeno 20 mila persone a sfilare, manco una cartaccia in terra, nessun accenno di violenza. La città, che si era barricata temendo un’invasione di barbari, tira un sospiro di sollievo. I pannelli di legno a protezione delle vetrine non sono serviti. S’è creato un solco difficilmente rimarginabile a sinistra, però, tra chi c’era e chi no. In piazza, comunque, nessun accenno a Pamela, o cartello o striscione Il compagno Alvaro, 74 anni, fazzoletto dell’associazione partigiani al collo, appena arrivato da Roma, è lì orgoglioso sotto lo stendardo della sezione Anpi di Castro Pretorio che grida: “Partigiani sempre. Per la messa fuorilegge delle organizzazioni fasciste”. Alvaro si accalora: “Io non lo capisco, Minniti. Ma come, permetti ai fascisti di sfilare e a noi no? Dire che sono amareggiato è poco”. Che le cose non siano affatto così, e che anzi quelli di Forza Nuova sono stati manganellati e denunciati, non lo sfiora. Più in là ci sono quelli della Fiom, felpe orgogliosamente ostentate. I compagni Domenico e Palmiro, 55 e 54 anni, sono scesi a Macerata da Brescia. Della Cgil che è rimasta fuori, non vogliono granché parlare. E del governo? “Oh, qualcuno mi deve spiegare come è possibile che questi fascisti ancora non sono fuorilegge. Ma la Costituzione che dice? E invece Minniti gli permette di partecipare alle elezioni”. Giri lo sguardo e c’è Gino Strada, il fondatore di Emergency: “Chi ha cercato di stoppare questa manifestazione è ideologicamente corrotto e colluso”. Benvenuti a Macerata, dunque, per un giorno capitale dell’anti-fascismo, ma soprattutto dell’anti-minnitismo. Di Matteo Salvini infatti te lo aspetti. Quel Salvini che dice “da italiano mi vergogno di quella manifestazione. Il pericolo sono gli antifascisti”. Ma a sorpresa è il ministro dell’Interno a raccogliere la maggiore ostilità. Passa un cartello: “Minniti uomo nero”. Poi un altro: “Minniti = Kossiga”. Un terzo: “Ministro Minniti, fascisti garantiti”. La gente applaude. E alla fine arriva persino lo striscione con le facce contrapposte di Salvini e Minniti, e lo slogan “contro i fascisti e chi li ha sdoganati”. Se si ascoltano le voci che si alternano al megafono, sul Pd renziano è un continuo tiro al piccione. Loro quelli che hanno cercato di vietare la manifestazione. Loro che invitano al silenzio quando ci sarebbe solo da manifestare. Loro che spalleggiano il sindaco Romano Carancini che aveva chiesto di soprassedere. Fino all’acuto finale, dell’anarchico milanese Lello Valitutti, una star del mondo antagonista, protagonista di ogni corteo da 50 anni anche se ora è costretto a una sedia a rotelle: “Quel miserabile (Luca Traini, ndr) ha ferito sei persone. Ma Minniti ne uccide a migliaia bloccandoli in Libia”. Eppure all’appello ad esserci contro il fascismo e il razzismo hanno risposto in tanti anche del Pd locale. C’è il consigliere comunale Ulderico Orazi, quello con il bar davanti al monumento dove Traini si era arreso: “Certo che sono qui. E con orgoglio piddino”. Oppure il capogruppo dell’Udc, Ivano Tacconi, che qui appoggia il sindaco, portando la bandiera con lo scudo crociato: “Lavoravo all’Eni; ho conosciuto Enrico Mattei. Noi abbiamo sempre rispettato l’Africa”. Passa Cecile Kyenge, eurodeputata del Pd: “No, oggi di politica non parlo”. C’è anche Angelo Bonelli, dei Verdi. C’è Riccardo Magi, della lista Più Europa. Il disagio dei dem su migranti e xenofobia. Renzi amaro: “Tutto usato contro di me” di Alberto Gentili Il Messaggero, 11 febbraio 2018 Matteo Renzi non cambia linea. Nel giorno della marcia antifascista di Macerata, con il Pd grande assente, il segretario dem sceglie ancora di volare basso. Di non lanciare allarmi o anatemi. E chiede, come fa dagli spari del fascio-leghista Traini contro sei migranti e la sede del Pd maceratese, di tenere “i fatti di cronaca” fuori dalla battaglia politica: “I responsabili si facciano fino all’ultimo giorno di galera, ma dico no alle strumentalizzazioni. L’Italia ha bisogno di tranquillità”. Un silenzio che comincia a essere assordante anche per i suoi colonnelli. Venerdì, dopo Andrea Orlando e Graziano Delrio, anche Paolo Gentiloni è andato giù duro inquadrando nel mirino Matteo Salvini: “La giustificazione del fascismo è fuori dalla Costituzione. Non consentiremo a nessuno di giustificare comportamenti criminali”. E, con molti commentatori impegnati a stigmatizzare la timidezza di Renzi - i suoi appelli ad “abbassare i toni”, a “mantenere la calma” per evitare di schierarsi su un terreno insidioso data l’avversione dell’opinione pubblica verso i migranti - si fa sentire pure Marco Minniti: “C’è un limite oltre il quale non si può andare in una democrazia e non consentiremo a nessuno di superare questo limite. A Macerata c’è stata una rappresaglia ingiustificabile, un atto criminale di un criminale”. “Unico punto in comune tra le vittime di questa rappresaglia”, aggiunge il ministro dell’Interno, “è il colore della pelle e questo è odio razziale. In Italia non c’è posto per l’odio razziale, il fascismo in Italia è morto per sempre”. Leader in difesa - Nel Pd il disagio è palpabile. È dimostrato dal tweet puntuto del presidente Matteo Orfini: “Un fascista ha sparato alla sede del Pd. Per i commentatori di sinistra il problema è il Pd. Applausi”. È confermato dalle giustificazioni del vicesegretario Maurizio Martina: “Sono sorprendenti le polemiche contro di noi. A Macerata è andato Minniti, poi Orlando e io sono stato dal sindaco Carancini e nella nostra sede attaccata dal killer fascista. Poi abbiamo accolto l’invito del sindaco a non caricare di ulteriori tensioni quella comunità sconvolta. Se non l’avessimo fatto ci avrebbero accusato di andare da soli, magari perfini elettorali”. Renzi però tira dritto. Certo, rilancia l’idea di un partito a più punte. Al comizio di Perugia, dietro a un manifesto “Vota la squadra, scegli il Pd”, il segretario afferma: “Questa partita non si regge su di me, abbiamo già visto che le sfide solitarie non sono sufficienti. Io ho fatto un frontale” con il referendum. Ma su Macerata non cambia linea. Parla di “Pd sotto attacco, hanno sparato a noi”. E precisa, con una certa amarezza: “Tutto viene usato contro di me”. Un attacco lanciato anche dai commentatori: “Ho letto i giornali con le polemiche sul Pd e la questione di Macerata e mi sono quasi arrabbiato. È un periodo strano. In quella città un dirigente della Lega, fascista, spara a gente di colore e alla nostra sede dove poteva essere ucciso qualcuno dei nostri. Insomma, il Pd è preso, è proprio il caso di dirlo, a pistolettate per quello che ha fatto, per i valori che esprime. E sento gente che dice che il problema è il Pd”. Insomma, Renzi ancora in difesa, prudente, impegnato a dare “tranquillità” al Paese. Parole dure invece contro Matteo Salvini che “specula sulla paura”. Mostrando una foto del 2001 in cui il segretario leghista è immortalato con la comunità musulmana di Milano, il leader dem aggiunge: “Quello che promette adesso di chiudere i centri islamici qualche anno fa ci andava a chiedere voti”. Ce n’è anche per Silvio Berlusconi: “Dice di voler mandare a casa i migranti, ma nel 2011 a Tunisi prometteva lavoro, casa e accoglienza ai tunisini che volevano venire in Italia”. Segue un video in cui il Cavaliere (in francese) apre davvero le porte ai tunisini. Ma questa è normale campagna elettorale. Sui fatti di Macerata le parole d’ordine restano “responsabilità”, “calma”, “toni bassi”. Al resto della squadra il compito di alzarli. C’è da capire se è una strategia studiata. O se il leader, su Macerata, è sotto assedio. Con i bambini a provare il mitra, ecco l’Italia che sogna le armi di Franco Vanni La Repubblica, 11 febbraio 2018 Pienone di visitatori all’inaugurazione della fiera “Vicenza Hit”. Proteste per la presenza dei minori. Passa la manina sul metallo opaco della canna. “Papà, questo serve per ammazzare le giraffe?”, domanda. “No, le giraffe non si possono ammazzare. Serve per i terroristi”, risponde il padre, pancia importante, pantaloni mimetici. Insieme al figlio, dieci anni al massimo, è in adorazione dell’espositore della ditta Bushmaster. Il fucile ammazza terroristi si chiama Aac 300 Blackout. Una carabina semiautomatica da 29 colpi in uso agli eserciti di 50 Paesi. Per la legge italiana è un’arma da tiro, non da guerra. Quindi può essere esposta. Ieri decine di bambini hanno potuto apprezzarla e studiarla, al fianco di armi simili, nella prima giornata di apertura della quarta edizione di Vicenza Hit, fiera “della caccia, della protezione individuale e degli sport di tiro” in programma fino a domani: 380 imprese in 41mila metri quadrati di capannoni. Al fianco degli appassionati di caccia e tiro a volo - che sono la grande maggioranza fra i visitatori - ci sono i genitori in cerca di armi con cui difendere casa. “Cerco una compatta, che però abbia un po’ di manico”, dice una donna sui quaranta, capelli corvini, mentre maneggia una minuscola pistola allo stand Beretta. Al suo fianco, un bambino paffuto. “Lui è il più grande, ha otto anni. La sorella è a casa. Vivo in una villetta fuori Rovereto, mio marito è spesso via, ho paura delle rapine”. Lei non è mai stata rapinata. Nemmeno i suoi vicini. A pensarci bene, non conosce nessuno che abbia subito rapine. “Ma armarmi è mio diritto, quindi mi armo. Di pistole ne ho già due”, taglia corto. La signora non è fra il milione e 100mila italiani (dato 2017) che hanno il porto d’armi. È nella schiera più numerosa - circa sei milioni, ma di dati ufficiali non se ne hanno dal 2008 - di chi detiene almeno un’arma denunciata. Da mesi, associazioni pacifiste e politici locali fanno pressioni sul sindaco di Vicenza, Achille Variati del Pd, perché “eserciti la sua preziosa moral suasion nei confronti degli organizzatori”, al fine di “evitare la compresenza in fiera di bambini” e fucili d’assalto. Lo scorso 21 settembre, 23 consiglieri comunali di ogni schieramento hanno firmato una mozione. Il Comune di Vicenza è uno degli azionisti di Italian Exhibition Group (Ieg), società nata dalla fusione di Rimini Fiera Spa e Fiera di Vicenza Spa. La fiera si è attrezzata con decine di cartelloni, che mettono in guardia sul fatto che i minorenni non possono toccare le armi. Ma evidentemente non basta. Le associazioni che criticano la presenza dei bambini si sono date appuntamento ieri, sempre a Vicenza, in un convegno dal titolo “Insicurezza, rancore, farsi giustizia: dentro l’Italia che si arma”. Nella sala dell’istituto Missionari Saveriani ha parlato fra gli altri Giorgio Beretta, presidente dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di difesa e sicurezza (Opal), secondo cui “quella vicentina è l’unica fiera nell’Unione europea in cui siano ammessi tutti i tipi di armi, e non sia vietato l’accesso ai bambini”. Un’accusa che Ieg e l’Associazione nazionale dei produttori di armi e munizioni respingono, sostenendo che tutte le fiere europee di settore aperte al pubblico - da Salisburgo a Dortmund, fino a Rambouillet - avrebbero regole simili o ancor più permissive. A Vicenza, i minorenni devono essere espressamente accompagnati da un adulto, altrove no. Ma Opal e del Movimento nonviolento replicano: “Altrove ci sono solo armi da caccia o sportive”. Ed è questo il punto. A Vicenza Hit, la maggioranza delle armi esposte sono fucili da caccia e tiro. Molti sono italiani. Punte d’eccellenza dell’industria italiana delle armi non da guerra, che vale 7 miliardi e 293 milioni e impiega 87.549 lavoratori, con il 90,3 percento di esportazioni. Delle 63 medaglie assegnate nel tiro a Rio nell’ultima Olimpiade, 61 sono state vinte con fucili italiani. E come ha detto ieri in fiera Luciano Rossi, presidente della Federazione italiana tiro a volo (la più titolata al mondo), “ben venga se i giovani si avvicinano allo sport”. Solo che, arrivati in fiera, sugli scaffali trovano anche gli Ak 47. Campania: carceri, presentato il dossier di Antigone di Anna Ansalone contattolab.it, 11 febbraio 2018 Il Garante dei detenuti, Ciambriello: “Quando aumenta il numero delle persone dentro il carcere, di 1524 detenuti in più, il carcere peggiora sotto ogni punto di vista”. Sono stati presentati ieri mattina all’interno dell’ex carcere minorile Filangieri, oggi Scugnizzo Liberato, i dati raccolti in un dossier dall’associazione Antigone sulla condizione dei detenuti campani. Alla presentazione del tredicesimo rapporto di Antigone, erano presenti diverse associazioni penitenziarie, il cappellano del carcere di Poggioreale e il Garante dei detenuti campano Samuele Ciambriello. Il presidente di Antigone precisa: “In Campania ci troviamo di fronte a un aumento di 1.524 detenuti nell’arco di sei mesi, una media del 34,6% di detenuti in custodia cautelare, 68,45% i recidivi tra coloro che scontano una pena in carcere. Accanto a questo dato enorme, si è registrato un aumento esponenziale di misure cautelari in carcere, il ricorso alla misura cautelare è un indice importante che supera i definiti” Don Franco: “Sulla questione penitenziaria quello che può cambiare è la sensibilità dell’opinione pubblica del non carcere”. Il Garante dei detenuti Samuele Ciambriello: “Quando aumenta il numero delle persone dentro il carcere, “il carcere” peggiora sotto ogni punto di vista. A mio avviso, un dato allarmante è quello dei detenuti che escono dal carcere, più di 7.000 detenuti sono seguite dagli uffici Uepe, cosa si può fare per loro? Purtroppo si fa poco, perché l’ 80% rientra in carcere e vive una recidiva. Il carcere non è una scelta immorale, alla persona che sbaglia va tolto il diritto alla libertà, ma, non alla dignità” conclude Ciambriello. Benevento: se la pena si sconta nell’orto, magistrati a “Casa Betania” Il Mattino, 11 febbraio 2018 “La pena va intesa come forma di rieducazione” ha ricordato il presidente del Tribunale Marilisa Rinaldi, che basa questa sua convinzione su ciò che prescrive la Costituzione che all’articolo 27 sancisce che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. “Rieducazione e socializzazione sono elementi essenziali - ha detto Rinaldi per evitare l’emarginazione dei detenuti, e scongiurare che il 70% dei condannati torni a delinquere. Del resto anche Papa Francesco, di recente, parlando delle pene, ha sostenuto la necessità della speranza”. “Un reato rappresenta uno sfilacciamento per la società, la rottura di una trama sia per chi lo subisce che per chi lo ha compiuto. Chi partecipa a questi progetti alternativi difficilmente ricadrà negli stessi reati” ha sostenuto il procuratore della Repubblica Aldo Policastro. E le affermazioni dei magistrati hanno trovato puntuale conferma in alcuni dati enunciati dal fautore di questa iniziativa, Angelo Moretti, che ha sostenuto come negli ultimi anni, su 27 persone con pena da espiare e tramutate in misure alternative, solo in cinque hanno avuto un ritorno a delinquere. Una convinzione sulla validità di pene alternative espresse anche da Marianna Bocchino, dirigente dell’esecuzione penale, che ha voluto sottolineare l’importanza dell’evento, che ha visto i magistrati abbandonare il Tribunale per incontrare coloro che sono impegnati in questa fase di recupero. E non sono mancate anche delle testimonianze: un condannato a quindici anni, ora nella fase finale del suo percorso di recupero. E di chi è responsabile della struttura, Donato De Marco. Per tutti i presenti l’invito del responsabile del Caritas don Nicola De Blasio, ad acquistare i prodotti posti in vendita. Presenti alla iniziativa numerosi magistrati tra cui Simonetta Rotili, Sergio Pezza, Ennio Ricci, Maria Di Carlo, Giuliana Giuliano, Ida Moretti, Pierfrancesco De Pietro e i sostituti procuratori Francesca Saccone e Miriam Lapalorcia. Sala Consilina (Sa): “battaglia per riaprire il carcere” La Città di Salerno, 11 febbraio 2018 L’avvocato Angelo Paladino scrive al sindaco e chiama a raccolta le istituzioni. “La politica può riaprire il carcere ed il sindaco di Sala Consilina non deve essere lasciato solo in questa battaglia per riavere la casa circondariale”. È questo l’invito che ieri l’avvocato Angelo Paladino, presidente dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani ha fatto nel corso di una conferenza stampa indetta per illustrare il contenuto di una lettera inviata al primo cittadino Francesco Cavallone, ai candidati del Vallo di Diano alle prossime elezioni politiche, ai rappresentanti di zona dei partiti politici e al Consiglio dell’Ordine degli avvocati presso il tribunale di Lagonegro. “Bisogna chiamare alla responsabilità i vari livelli di governo - si legge nella lettera - regionale e nazionale, nonché i rappresentanti dei partiti ed i candidati che si accingono a chieder il consenso nella campagna elettorale in corso. Richiamo tutti ad una unità sostanziale e non solo di facciata per affrontare questa nuova fase di confronto col ministero. Il sindaco dovrà sentire la solidarietà di tutti e dovrà presentarsi al tavolo coi necessari robusti sostegni politici per indurre il Ministero della Giustizia a tornare sui suoi passi, adottando la giusta decisione di riaprire la struttura, volontà questa che è esclusivamente politica”. L’avvocato Paladino ha inoltre sottolineato la necessità di “fornire anche le soluzioni adeguate in termini di risorse economiche per l’adeguamento strutturale del carcere di Sala Consilina, dal momento che le altre soluzioni avanzate di riaprire Lagonegro e Chiaromonte, richiedono risorse, non disponibili, nell’ordine di milioni di euro, così come si evince dall’ultima relazione ministeriale”. Il Ministero di Giustizia convocherà, a breve, un nuovo tavolo di confronto con la presenza del Comune e del Consiglio dell’Ordine. “È urgente - ha concluso promuovere ogni utile iniziativa in sede politica per modificare la improvvida volontà di chiudere il carcere di Sala”. L’Aquila: “Dalla pena alla vita”, studenti tra legalità e umanità di Andrea Giallonardo ilcapoluogo.it, 11 febbraio 2018 Ieri mattina al Liceo Cotugno si è parlato del giusto processo e delle condizioni in cui sono costretti a vivere i detenuti in molte carceri italiane. L’incontro è stato il secondo di quattro eventi previsti dal progetto di alternanza scuola - lavoro intitolato “Dalla pena alla vita” che coinvolge le classi 4B e 4C del Liceo delle Scienze Umane e le classi 3C e 3D del Liceo Cotugno. La dottoressa Fabiana Gubitoso, referente locale dell’Osservatorio Carceri per le Camere Penali italiane, e le avvocatesse Maria Leone ed Ersilia Lancia, della Camera Penale del Tribunale dell’Aquila, hanno illustrato ai ragazzi delle classi 4B e 4C del Liceo Cotugno come si svolge un processo, quali ne sono gli attori principali, e quali sono le caratteristiche e le mancanze del sistema carcerario italiano. Il tema del sovraffollamento delle carceri ha particolarmente interessato i ragazzi alcuni dei quali, nonostante la giovanissima età, hanno espresso al riguardo posizioni di equilibrio: “Bisognerebbe costruire più carceri - riflette Irene, del 4B di Scienze Umane - lo dico non per fare inutile giustizialismo ma perché i detenuti non sono animali”. Mirko, del 4C, è concorde nel sottolineare come l’umanità delle persone vada rispettata sempre: “Il nostro Paese ha enormi problemi da affrontare, il sovraffollamento delle carceri è uno di questi e non bisogna ignorarlo perché anche chi ha sbagliato ha diritto ad essere tratto con dignità, fermo restando che deve scontare una pena”. Chi conosce bene quanto sia drammatica la situazione nei penitenziari italiani è la dottoressa Fabiana Gubitoso che Il Capoluogo ha intervistato a margine dell’incontro. Dottoressa Gubitoso, quanto è importante portare nelle scuole le tematiche legate ai penitenziari ed in particolare quella del sovraffollamento? “Le carceri rappresentano una parte del nostro mondo che troppo spesso non vogliamo vedere, questo ci induce, istintivamente, a non farne parola con i più giovani che infatti non hanno la minima idea di cosa significhi essere un detenuto”. Negli incontri che tiene nelle scuole quale atteggiamento riscontra da parte dei ragazzi? “Spesso alcuni ragazzi, nella loro inconsapevolezza, si lasciano andare a commenti di natura estremamente giustizialista. Non c’è nulla di male nel volere che un condannato sconti la sua pena fino in fondo tuttavia bisogna anche essere consapevoli delle condizioni in cui quella persona si trova a dover espiare la sua colpa”. Quali sono le condizioni dei detenuti in Italia? “Le condizioni in cui sono trattenuti i soggetti in vinculis sono spesso al di fuori dei diritti costituzionalmente garantiti. Le carceri sono sovraffollate e non sono garantiti il diritto alla salute, quello all’informazione ed al lavoro. Abbiamo dai 200 ai 210 istituti che risalgono ai primi del 900 se non all’800 con celle in cui vivono fino ad otto detenuti. Abbiamo una percentuale di tantissimi malati in carcere che non vengono sottoposti a regolari visite mediche, spesso è proprio il sovraffollamento che favorisce il diffondersi di malattie soprattutto alla luce del fatto che un detenuto su tre è tossicodipendente”. Immagino che lei stia parlando dei penitenziari maschili. “Purtroppo la situazione è la medesima anche nei penitenziari femminili anzi, a volte è anche peggiore. Tenga conto che le donne sono più problematiche degli uomini, spesso sono madri e patiscono pesantemente il distacco forzato dai loro figli”. Spesso a livello mediatico si parla di queste problematiche, lei cosa pensa delle dichiarazioni spesso molto forti fatte periodicamente dagli esponenti politici? “Se ne sentono tante ma ad oggi si è fatto molto poco, con la Riforma Orlando avrebbero dovuto essere cambiati molti aspetti del sistema penale come quelli legati alle pene alternative ed ai benefici extra murari ma di fatto la riforma è stata applicata in maniera estremamente marginale”. Sul regime del 41bis cosa mi dice? Qui all’Aquila abbiamo la Lioce sulle cui condizioni di detenzione sono state fatte molte polemiche. “Guardi, il regime del 41bis, nella sua durezza, fornisce ai detenuti celle singole con un bagno a disposizione. Con questo non voglio assolutamente sminuire la severità delle condizioni in cui si trovano i condannati al 41bis che, pur non subendo le conseguenze terribili del sovraffollamento, devono fare i conti con regole radicali come la limitazione degli effetti personali e dei contatti umani. Essere in carcere non è mai bello”. Campobasso: “Scritti di cuore”, torna il concorso dedicato ai detenuti primonumero.it, 11 febbraio 2018 Sarà presentato - lunedì 12 febbraio - a Palazzo San Giorgio, ma per Campobasso non è una novità. “Scritti di cuore - l’amore e le parole per raccontarlo” è infatti un progetto che quest’anno celebra la sua seconda edizione e nasce proprio dalla convinzione che leggere e scrivere siano attività sociali ancora prima che filosofiche o scientifiche perché producono esperienze condivise, incontri che suscitano altri incontri, generando un circolo virtuoso che ci pone gli uni davanti agli altri. Il ciclo “Scritti di cuore” - promosso e organizzato dall’assessorato alle Politiche per il sociale del Comune di Campobasso e dall’Unione Lettori Italiani con la direzione artistica di Brunella Santoli in collaborazione con la Provincia e la Direzione della Casa Circondariale di Campobasso, e attraverso la sinergia con il tessuto scolastico del capoluogo, rientra nelle attività di “Ti racconto un libro 2017-2018” e intende realizzare un’esperienza progettuale che proprio nella settimana dedicata al tema dell’amore romantico e della relazione sentimentale affronti il tema dell’Amore, inteso nel significato più ampio e profondo di dedizione appassionata. La manifestazione si svolgerà a Campobasso dal 13 al 15 febbraio, nei locali del Circolo Sannitico, e prevede anche la seconda edizione del Concorso nazionale di scrittura “Scritto di cuore” destinato ai detenuti degli istituti carcerari. Trapani: il Comitato di quartiere “Sant’Alberto” dona libri ai detenuti trapanioggi.it, 11 febbraio 2018 Sono stati consegnati al comandante della Polizia Penitenziaria Giuseppe Romano i libri raccolti dal Comitato di quartiere “Sant’Alberto”, con il presidente Giovanni Parisi, in favore dei detenuti della Casa Circondariale di Trapani. Si tratta di un centinaio di volumi - dai romanzi alle biografie storiche - che andranno ad arricchire la biblioteca dell’Istituto che già conta oltre 6.000 volumi, tutti catalogati, e si avvale dell’opera di due volontari. “La lettura può essere una risorsa per far sentire i detenuti meno reclusi per alleviare la sofferenza, per la rieducazione e il reinserimento. Per questi motivi - dice il direttore Renato Persico - abbiamo potenziato e promosso questo servizio. Far amare i libri è quindi, secondo noi, il compito dei volontari ma creare le occasioni per poter esercitare il diritto a leggere è un dovere dell’Amministrazione Penitenziaria”. “Abbiamo puntato molto sulla lettura come mezzo di riflessione e di crescita culturale del detenuto - aggiunge il comandante Romano - infatti all’interno dell’Istituto e, in particolare, nel reparto Adriatico, è stato attivato da tempo un laboratorio di lettura grazie alla giornalista Ornella Fulco e all’a psicologa Fabrizia Sala che operano, anch’esse come volontarie”. Corte europea per i diritti dell’Uomo. L’equilibrio fra sicurezza e libertà di Beda Romano Il Sole 24 Ore, 11 febbraio 2018 In 50 anni il Tribunale ha emesso 19.500 sentenze: un quarto su Italia e Turchia. Schivo e misurato, parla l’italiano che presiede la Corte europea per i diritti dell’Uomo. Ai più realpolitiker la Corte europea per i diritti dell’Uomo potrà sembrare un inno alla retorica, un inutile atto votivo ai princìpi rivoluzionari francesi. C’è davvero bisogno nell’Europa del XXI secolo di un tribunale che giudichi il rispetto dei diritti umani? L’organismo nato nel 1959 dalle ceneri della Seconda guerra mondiale e delle dittature degli anni 30 appare a molti una istituzione anacronistica. Eppure in una Europa dove la democrazia rappresentativa è minacciata da Facebook e Twitter, da una crisi economica che ha dato nuova lena ai partiti estremisti, e in alcuni Paesi anche da un clientelismo imperante, la Corte ha improvvisamente una nuova ragion d’essere. A presiedere il tribunale che ha sede a Strasburgo è dal 2015 un magistrato italiano, Guido Raimondi. Altri italiani al vertice di istituzioni internazionali sono abituati, forse anche viziati, dall’attenzione che presta loro la nostra stampa. In alcuni casi, coltivano opportunisticamente la loro immagine nazionale. Non Raimondi, che quasi rifugge dall’interesse dei giornalisti. Accoglie il visitatore con elegante riserva in un ufficio illuminato da una grande vetrata aperta sul quartiere delle istituzioni europee nella capitale alsaziana. “La Corte è un presidio efficace contro possibili derive autoritarie. È un bene prezioso che bisogna salvaguardare, una polizza di assicurazione contro il ripetersi di avvenimenti passati”, spiega Raimondi. Nato a Napoli 64 anni fa, giudice della Corte dal 2010, suo presidente dal 2015, in precedenza il magistrato ha lavorato al contenzioso diplomatico del ministero degli Esteri e presso l’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) a Ginevra. Dal 1997 al 2003, è stato alla Corte di cassazione a Roma, prima alla Procura generale e poi alla Corte come consigliere. Schivo sulla sua vita privata, accenna rapidamente a sua moglie, a due figlie ormai adulte, la prima a Roma e la seconda a Parigi, ai due nipoti Ludovica e Guido, alla sua passione per la vela in una città, Strasburgo, tra le più lontane d’Europa dal mare. La Corte europea dei diritti dell’Uomo non è una istituzione dell’Unione europea; bensì del Consiglio d’Europa, un organismo istituito nel 1949 e che oggi raggruppa 47 Paesi. Il tribunale è chiamato a far rispettare la Convenzione dei diritti dell’Uomo firmata nel 1950. A dieci anni dallo scoppio della crisi finanziaria ed economica, il mondo politico è in subbuglio. In Austria, l’estrema destra è tornata al potere. In Germania, il nazionalismo di Alternative für Deutschland siede in Parlamento. In Polonia e in Ungheria, i governi sono accusati di politicizzare la magistratura e blindare la stampa. I partiti anti-sistema si sono rafforzati anche in Svezia e in Italia. Turchia e Russia, anch’essi Paesi membri del Consiglio d’Europa, sono vittime di una deriva autoritaria. Raymond Aron ricorda nelle sue Mémoires il periodo a Colonia nel 1932, mentre il Nazismo affilava le armi: la Germania era “diventata praticamente impossibile da governare in modo democratico”. I tempi non appaiono troppo dissimili; e il ruolo della Corte è tornato d’improvvisa attualità. “La nostra giurisprudenza - commenta il presidente Raimondi - è vastissima. Tocca tutti gli aspetti della vita moderna. I diritti assoluti alla vita, alla libertà di espressione, di movimento, di proprietà, di religione; ma anche in materia elettorale o sociale: dall’utero in affitto alla procreazione assistita a nuove tecniche mediche”. L’Italia è stata oggetto di alcune sentenze storiche: per esempio, sugli atti di tortura della polizia in occasione del G8 di Genova nel 2001 o sull’affissione dei crocefissi nei luoghi pubblici. La Corte è chiamata ad affrontare tre grandi sfide: l’allarme terrorismo, la crisi economica, e l’emergenza migratoria. “Non sono sfide nuove. Abbiamo una giurisprudenza che ci permette di giudicare questi nuovi temi in modo piuttosto chiaro”. Il problema del terrorismo è particolarmente sentito dopo i recenti attentati, per non parlare del tentativo di colpo di Stato in Turchia. “Il nostro obiettivo è di sancire un giusto equilibrio tra sicurezza e libertà. Da un lato, la Convenzione spiega che lottare contro il terrorismo è un dovere dei governi nel pieno rispetto dei diritti assoluti. Al tempo stesso permette deroghe in casi di minaccia grave, ma la Corte deve valutare se questa deroga è effettivamente proporzionata”. A Bruxelles, la Commissione europea ha chiesto al Consiglio europeo di procedere contro la Polonia per violazione dello stato di diritto. La vicenda non suona nuova a Guido Raimondi. “Le ricordo che negli anni 70 alcuni Paesi del Nord Europa fecero ricorso contro un Paese membro del Consiglio d’Europa: la Grecia, ai tempi governata dal regime dei colonnelli. Il governo greco decise di ritirarsi dall’organizzazione dal 1970 al 1974. L’uscita di un Paese è uno scenario preoccupante. In casi come questo, la popolazione rimane orfana della protezione della Corte”. Il caso della Grecia riecheggia in questi mesi a Strasburgo. Il Consiglio d’Europa ha sospeso la partecipazione alla propria assemblea parlamentare dei rappresentanti russi sulla scia dell’annessione della Crimea, tanto che Mosca ha congelato il suo contributo al bilancio dell’organizzazione. La Turchia vuole abbandonare il ruolo di grande pagatore, una condizione che la accomuna all’Italia, alla Germania, alla Russia, alla Francia e al Regno Unito. La stessa Gran Bretagna ritiene la Corte una fastidiosa ingerenza nella sovranità del Paese, e da tempo flirta con l’idea di uscire dal Consiglio d’Europa. Evidentemente, il tribunale morde in tempi che ricordano gli anni 30. In un libro del 2009, I tribunali di Babele, Sabino Cassese analizzava il ruolo delle magistrature sovranazionali ai tempi della globalizzazione. La strada del tribunale di Strasburgo nell’affrontare le grandi crisi del momento è tracciata. Ma può la Corte essere uno strumento per meglio gestire la globalizzazione o un argine contro le derive subdole e surrettizie della democrazia rappresentativa? Lo sguardo corre al ruolo di Internet nel dibattito pubblico e anche al terribile clientelismo che tanti danni fa in Italia, ostacolando tra le altre cose la libertà di concorrenza e la premiazione del merito. Il magistrato premette che alla Corte non si può chiedere l’impossibile. “La Convenzione però ha dimostrato di essere uno strumento vivente in tutti i campi. Per quanto riguarda Internet abbiano stabilito che il Far West non è consentito, e che è necessario mettere un freno ai commenti offensivi. Quanto alla globalizzazione, il tribunale può verificare se la riduzione della protezione sociale sia compatibile con la Convenzione. A proposito del clientelismo, purtroppo il tribunale può fare poco per creare un circolo virtuoso. Certo, tra gli elementi dello stato di diritto c’è la trasparenza. Se manca la trasparenza, lo stato di diritto funziona male”. L’istituzione giudiziaria si pronuncia sui ricorsi statali e individuali. In questo mezzo secolo, il tribunale ha esaminato oltre 712mila domande, adottando più di 19.500 sentenze, tutte vincolanti per gli Stati membri. Oltre un quarto delle sentenze ha riguardato due Paesi: la Turchia e l’Italia (in prevalenza sul sovraffollamento delle carceri). La brusca reazione politica del presidente Recep Tayyip Erdogan dopo il tentato golpe del 2016 ha scatenato decine di migliaia di ricorsi presso il tribunale di Strasburgo. “Il governo turco - spiega ancora Raimondi - ha creato una commissione apposita. Noi possiamo procedere solo dopo che il ricorso interno abbia fatto la sua strada. Naturalmente la Corte deve vigilare sull’accesso e l’efficacia dei ricorsi interni”. A conferma dello stile discreto, il presidente della Corte europea dei diritti dell’Uomo ha deciso di rimanere in disparte nel caso che riguarda Silvio Berlusconi. L’ex premier ha presentato ricorso a Strasburgo per via della Legge Severino, che gli impedisce di presentarsi alle prossime elezioni dopo la sua condanna definitiva per frode fiscale. La Grande Camera ha tenuto a fine novembre una udienza, l’unica prevista in questo caso. “Di solito - si limita a notare il presidente Raimondi - la sentenza giunge sei-dodici mesi dopo l’udienza”. Più che in altri momenti, traspare forte, almeno agli occhi del giornalista, il desiderio del magistrato di tenere a distanza la politica nazionale, optando come in mare per il grande largo. Comunità di Sant’Egidio. “L’Onu di Trastevere”, 50 anni tra carità e diplomazia di Andrea Tornielli La Stampa, 11 febbraio 2018 L’Onu di Trastevere celebra il suo mezzo secolo di vita. E pur non disdegnando - tutt’altro - il paragone con le Nazioni Unite a motivo delle mediazioni operate nel mondo, la carta d’identità della Comunità di Sant’Egidio fondata da Andrea Riccardi, non può fare a meno della Città Eterna e della sua Chiesa papalina e popolare. Nonostante sia presente in oltre settanta Paesi del mondo. La Comunità di Sant’Egidio compie cinquant’anni. Dall’opera di assistenza ai poveri della metropoli alle mediazioni sugli scacchieri internazionali. All’inizio, Riccardi e i suoi amici separano la loro strada da quella di Gioventù Studentesca, come allora si chiamava il movimento di don Luigi Giussani. Un ex convento di carmelitane abbandonato con annessa chiesa, ottenuto in affitto a prezzi stracciati, è la base di partenza ed è rimasta la sede per la quale sono passati Papi, cardinali, patriarchi orientali e imam, ma a anche presidenti e segretari di Stato statunitensi. Dal grande sponsor Giovanni Paolo II al presidente George Bush junior, la Comunità di Sant’Egidio è crocevia (quasi) obbligato di incontri diplomatici. Gli ultimi delle periferie Eppure il tratto che rimane più distintivo per il gruppo trasteverino è quello per gli ultimi. I poveri delle periferie di Roma, innanzitutto. Nel quartiere romano accostato al carcere di Regina Coeli, Riccardi e i suoi incontrano il giovane prete Vincenzo Paglia, che si unisce a loro e che sarà parroco di Santa Maria in Trastevere e anche coinvolto nelle mediazioni durante il conflitto in Kossovo, prima di essere nominato vescovo di Terni da Giovanni Paolo II e poi richiamato a Roma da Benedetto XVI a capo del dicastero vaticano per la famiglia. Anche Papa Ratzinger, durante tutto il pontificato, mantiene ottimi rapporti. Un amico fin dai primissimi tempi è il gesuita Carlo Maria Martini: negli anni romani, prima di diventare arcivescovo di Milano, celebra per loro e s’impegna a visitare un anziano abbandonato, uno dei primi “clienti” seguiti dalla Comunità. Con Karol Wojtyla è amore a prima vista. Quando il Papa appena eletto visita la Garbatella, passa sotto le finestre di un asilo dove Sant’Egidio ha raccolto i figli delle ragazze madri. I bimbi, istruiti per tempo, intonano canti in polacco che richiamano l’attenzione del giovane Pontefice. È l’inizio di un rapporto strettissimo. Gli scartati, i clochard sono al centro dell’attenzione dei “santegidini”, che insegnano a leggere ai bambini delle periferie pasoliniane di Roma, aprono case di accoglienza, e ancora oggi stampano annualmente una guida Dove mangiare, dormire, lavarsi per i senzatetto che vivono nella capitale, giunta alla 28a edizione, promuovendo anche, in tantissime città, i pranzi di Natale per i poveri all’interno delle chiese. Il ruolo di Wojtyla Il dialogo tra le religioni è un altro dei compiti che Sant’Egidio si è dato: molto apprezzato il suo contributo per l’amicizia tra la comunità ebraica di Roma e il Vaticano. Furono al fianco Wojtyla nell’organizzazione del primo il grande raduno interreligioso di Assisi del 1986. Gli incontri annuali nelle grandi città europee vedono sfilare autorità religiose islamiche e buddiste, il Dalai Lama e gli animisti, nonché cristiani di ogni confessione. Tra i messaggi per il cinquantesimo c’è quello del Patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo. Anche la diplomazia “ufficiosa” della Comunità non passa inosservata: dal Burundi, al Mozambico, dall’Algeria al Sudan. E non tutto accade sotto i riflettori, come dimostra l’aiuto dato per far siglare una tregua tra le fazioni in lotta che insanguinano la Repubblica Centrafricana e permettere il viaggio di Papa Francesco a Bangui nel novembre 2015 con l’apertura anticipata del Giubileo. Non mancano, talvolta, tensioni con diplomazie ufficiali, in primis quella d’Oltretevere e l’accusa di eccessi di protagonismo. Una stagione tramontata in fretta è quella dell’impegno diretto in politica con Mario Monti, che vede Riccardi fare il ministro della cooperazione. Ma altri non hanno abbandonato l’agone: dal sottosegretario Mario Giro all’onorevole Mario Marazziti, che ha lavorato per la legge sul fine vita. La presenza del Segretario di Stato vaticano Pietro Parolin alla celebrazione del cinquantesimo ieri sera in San Giovanni in Laterano attesta quale sia la stima che la Comunità gode in Vaticano. La formazione Nelle sue fila si sono formati storici e studiosi in grado di analizzare ciò che si muove sui vari scacchieri, dall’Oriente all’Occidente: Marco Impagliazzo, attuale presidente in prima fila per le mediazioni nel continente africano e per i programmi di lotta all’Aids, Roberto Morozzo della Rocca, Agostino Giovagnoli, Adriano Roccucci. Oltre al giù citato Paglia, sono diventati vescovi don Ambrogio Spreafico e il romano don Matteo Zuppi, prima ausiliare della capitale e oggi arcivescovo di Bologna, rientrato in servizio l’anno scorso quando ha presenziato alla riconsegna delle armi degli indipendentisti baschi dell’Eta a Bayonne. Papa Bergoglio conosce Sant’Egidio da molti anni, e oggi può contare sull’impegno della Comunità nell’accoglienza dei migranti e nell’organizzazione dei corridoi umanitari dalla Siria e dal Corno d’Africa per i rifugiati in fuga dalle tante guerre che la diplomazia non è riuscita ad evitare. Ma la cultura ci rende migliori? di Edoardo Albinati La Repubblica, 11 febbraio 2018 “Chi ha letto un romanzo è diverso da come era prima? E se è diventato diverso è quindi migliore di prima?”. Così la provocazione di un premio Strega si è trasformata in un piccolo viaggio alla ricerca del senso perduto: della conoscenza. Chi ha letto un libro, ha visto una mostra, ha ascoltato un concerto è diverso da come era prima? E se è diventato diverso, è necessariamente migliore di prima? È una domanda che ciascuno pone a sé stesso, soprattutto se appassionato di arti, letteratura, musica, scienza, insomma di tutto ciò che siamo soliti chiamare “cultura”. Peraltro, questa benedetta domanda, “la cultura rende migliori?”, mi attraversa in quanto scrittore, ma mi attraversa ancora più fortemente, invece, nell’attività che svolgo insieme ad altri, e per altri, e cioè il lavoro nel carcere di Rebibbia come insegnante di lettere nella sezione staccata di un istituto tecnico: il ruolo classico del professore di scuola. È chiaro che andare in posti come la galera dove comunque le esperienze sono estreme, le persone a cui tu insegni sono particolari e così via, ti fa domandare più volte al giorno, e più volte in un anno, e più volte nel corso di una carriera - posso chiamarla così visto che lavoro lì dal 1994, insomma, una carriera sempre ferma, un’anti-carriera, quella dell’insegnante, che comincia e finisce esattamente sempre sullo stesso gradino - perché sai che lì ci sarebbe da raggiungere un risultato ulteriore a quello meramente scolastico, e dunque non puoi non porti la domanda “l’insegnamento a queste persone contribuisce in qualche misura ad allontanarle dalla ragione per cui sono qui?” - vale a dire, dalla delinquenza? Lo studio, la scuola, riducono o non riducono la cosiddetta “recidiva”? Cosa accade ai tuoi studenti dal momento in cui entri nella classe fino al momento in cui ne esci a fine lezione? Intendo dire ogni giorno, non a fine anno o a fine studi. Sì, usare la parola riscatto per una volta è opportuno: ogni ora della vita di un individuo (e, incredibile a dirsi! persino i ragazzini e le ragazzine e i detenuti sono individui…) è irripetibile e unica, quindi, durante quel lungo tratto (se cominci dalle elementari e finisci col diploma, sono tredici anni di vita), cosa è successo? Di quell’ammasso di ore e di giorni, cosa ne è stato? E quei gruppi variabili formati da bambini e poi ragazzi e ragazze, e maestre e professoresse che sono entrate in classe davanti a quindici, venti, trenta persone, cosa hanno fatto? Che cosa è veramente accaduto loro? La galera obbliga a prestare attenzione alla singola lezione, alla singola irrecuperabile giornata per una ragione semplice: tu non hai alcuna certezza che la persona con cui stai parlando, a cui stai insegnando matematica o disegno, o diritto, o una ballata di Cavalcanti, sarà con te il giorno seguente o il mese seguente. Le primissime lezioni e le prime settimane di scuola sono infatti decisive, devi catturare queste persone, che si trovano con te solo per non stare a marcire chiuse in cella e, piuttosto della cella, preferiscono sorbirsi quattro o cinque ore di fisica, di scienze o di grammatica. Queste persone vanno catturate prima che si disperdano, affinché non preferiscano restarsene a morire in branda piuttosto che venire ad ascoltare te, oppure se ne vadano al passeggio, dato che per venire a scuola rinunciano alle due ore d’aria della mattina… e poi tu sai fin dall’inizio che, per loro fortuna, alcuni verranno scarcerati; per loro sfortuna, alcuni si ammaleranno o forse moriranno, perché già malati; altri ancora verranno trasferiti nottetempo in altre galere, e non li vedrai più; altri ancora andranno a fare i loro processi che, come sapete bene, in Italia possono durare anni. Negli anni ho avuto una interessante conferma di una sola cosa: la letteratura italiana è leggibile? Sì, lo è. Così alta, difficile, crudele, esasperante, perché Dante, Machiavelli, Leopardi sono autori estremi, quasi insostenibili nella loro radicalità: sono autori sempre sul punto di far crollare tutto, tutti i valori, tutte le cose in cui uno crede. Per esempio, il radicale materialismo leopardiano già è complicato farlo passare a un ragazzino di sedici anni, figurarsi a un uomo di quaranta o di cinquanta che lì in galera si attacca alla fede, alla famiglia, a qualche valore residuo, bè, arriva Leopardi e gli stronca pure quello. Infatti, alcuni miei studenti, onestamente, mi hanno confessato: “Guarda, preferisco la menzogna, preferisco l’illusione, preferisco ingannarmi, avrà forse ragione lui, non lo nego, però io devo appigliarmi a qualcosa per vivere”. La domanda decisiva sulla letteratura italiana ha ricevuto una risposta lungo tutti questi anni, e ora posso affermarlo senza tentennamenti: la letteratura italiana è grande, è leggibile e si può leggere ovunque e a chiunque. Per esempio Dante, d’accordo, è difficile, però è talmente potente, è talmente pieno di cose per cui se non acchiappi l’intero, porterai sempre a casa qualcosa. Un po’ come Shakespeare: io ho visto tantissimi orrendi Shakespeare, però uscendo dal teatro mi accorgevo che mi ero portato a casa delle scene, magari gli attori erano cani, non importa, magari lo scenografo aveva combinato pasticci con la foresta di Macbeth, non importa, la grandezza filtrava comunque. Ecco, Dante, e faccio l’esempio massimo ma anche quello più arduo, passa. E se passa in galera, deve passare ovunque, anzi, mi correggo: non deve passare, può passare. Questa è la scoperta in positivo. La scoperta in negativo - ma è un negativo che io vorrei comunicarvi in quanto noi dobbiamo conviverci e coltivarlo e addirittura prosperare in esso, o almeno vivere negli interstizi, nelle fessure di questo negativo - è che in effetti la cultura non salva nessuno. Non salva proprio nessuno. Mi dispiace dirlo a chi è convinto che un uomo che ha letto un libro sia sicuramente migliore di uno che non l’ha letto: bè, non è così. Tra i peggiori e i pessimi ci sono tanti uomini colti, uomini che possedevano biblioteche e ascoltavano musica sublime. La cultura non rende migliori le persone. I campi di concentramento non li hanno ideati uomini ignoranti. Noi pensiamo che la barbarie si scateni solo a causa dell’ignoranza, ma questo è un falso storico. Anzi, l’ignoranza pura (sarò forse un po’ roussoviano, o ingenuo io stesso), che peraltro nella sua purezza quasi non esiste più, protegge, per esempio, dalla cattiva cultura e dai suoi equivoci. A me nelle interviste chiedono di continuo, come una specie di mantra: “Qual è il libro che ti ha cambiato la vita?”. E io rispondo: “Guarda che se un singolo libro ti cambia la vita, vuol dire che sei un idiota… oppure che hai letto solo quello”, infatti tendo a pensare che il libro che cambia la vita sia il Mein Kampf, quello sì che te la cambia! Lo leggi, e poi ti radi a zero i capelli, e cominci a urlare slogan, a marcare il passo… Sono i libri, semmai, che ti cambiano la vita, tanti libri, molto diversi, che te la cambiano e te la fanno cambiare ancora, in un senso e nell’altro. Quindi da questa idea della conversione tramite cultura, della cultura salvifica, io sono spaventato, e irritato, penso che indichi povertà e dogmatismo. Quindi alla domanda iniziale: la cultura è un riscatto, serve a questo, garantisce questo? La risposta è no, non lo garantisce, non c’è alcuna garanzia. E soprattutto non esiste - questo luogo comune vorrei che venisse deposto una volta per tutte - alcun marchio di superiorità morale in chi ha ricevuto un’educazione rispetto a chi non la ha, o non l’ha avuta. La parola cultura rischia di essere una discriminante odiosa quanto quella razziale, anzi, persino più odiosa, perché colorata di un connotato di classe insopportabile. Il problema vero semmai è la mezza ignoranza, perché la santa e piena ignoranza è oramai rarissima, quasi impossibile da trovare, quella per capirsi del proverbiale contadino di una volta. Visitando con mia figlia la mostra di fotografie di Berengo Gardin, le dicevo, in maniera un po’ schematica: “Guarda questi volti tipici italiani degli anni Cinquanta o Sessanta: non ci sono più, si sono estinti”. Una cosa del genere fu verificata da Stanley Kubrick, quando, per l’ultima scena di Shining, il lungo carrello al termine del quale si vede Jack Nicholson che stava lì, all’Overlook Hotel, già nel 1929, ha provato a scattare la foto-ricordo di quel capodanno usando delle comparse di oggi, e poi ha dovuto rinunciare perché si percepiva chiaramente che i volti degli uomini e delle donne degli anni Ottanta, quando ha girato il film, non erano credibili; perciò ha dovuto prendere una foto d’epoca e incollarci dentro la faccia di Jack Nicholson, in mezzo a una folla di fisionomie che sono inimitabili, non esistono più. Poi siamo usciti dalla mostra di Berengo Gardin e abbiamo incontrato per strada una foto vivente di Berengo Gardin, cioè, quattro vecchi signori pistoiesi che erano identici a quelli delle foto degli anni Quaranta e Cinquanta. Allora ho fatto immediatamente la mia ritrattazione: “Scusami, tutto quello che ti ho detto prima, Margherita, non è vero”. Siria. I dubbi Usa sui prigionieri dell’Isis. “Non vogliamo un altro Al Baghdadi” di Francesco Semprini La Stampa, 11 febbraio 2018 Se dalle carceri in Siria muovesse i primi passi il prossimo califfo? È questo l’interrogativo che tiene in ostaggio l’amministrazione di Donald Trump e ne condiziona le scelte operative ad ovest dell’Eufrate. Ad est, tra Raqqa e Deir Azzur, area di imprescindibile importanza per gli Usa, gli americani si prodigano in difesa degli alleati delle Forze democratiche della Siria, mentre ad ovest, tra Afrin e Manbij, zona meno strategica per Washington, appaiono più prudenti, anche dinanzi all’avanzata dei carri armati turchi verso le enclave degli amici curdi. Un modo di mantenere potere negoziale con gli alleati in Siria - suggeriscono alcune fonti - sullo spinoso problema dei prigionieri dello Stato islamico e delle proprie famiglie. Tra loro tantissimi volontari della jihad provenienti da 30 Paesi: mentre la Russia vuole rimpatriare i connazionali prigionieri (in particolare ceceni) che hanno combattuto sotto le bandiere nere, i Paesi europei sono invece riluttanti. Questo solleva timori al Pentagono, dove gli strateghi temono il ripetersi di quanto accaduto in Iraq. Ovvero che le prigioni dei jihadisti possano diventare incubatrici della nuova generazione terroristica. Come avvenuto a Camp Bucca, la struttura detentiva Usa al confine col Kuwait nella quale si sono radicalizzati i futuri leader dell’Isis, a partire da Abu Bakr al-Baghdadi. E con un’aggravante: rispetto alle prigioni in Iraq, quelle in Siria rientrano in una zona grigia dal punto di vista giurisdizionale, visto che si trovano in territorio siriano ma a controllo curdo, il quale però non gode di un riconoscimento internazionale organico. Sebbene Trump sostenga che i terroristi dell’Isis e delle altre formazioni radicali debbano essere giudicati da tribunali militari, e l’amministrazione Usa abbia schierato task force per aiutare gli alleati curdi, l’atteggiamento degli americani - come spiega il New York Times - appare quello di volersene lavare le mani, specie per le implicazioni umanitarie e di sicurezza relative alla gestione dei detenuti. In questo quadro arriva la denuncia del Syrian Observatory for Human Rights (Sohr), secondo cui 400 miliziani Isis sarebbero già stati rilasciati dalle forze curde. Mentre altri 120 sarebbero stati integrati nei ranghi delle Forze democratiche della Siria che combattono ad Est dell’Eufrate. A ciò si aggiunge la denuncia del generale russo Valery Gerasimov secondo cui gli americani starebbero addestrando miliziani estremisti ed ex bandiere nere confluiti dopo la caduta di Raqqa nella fantomatica formazione dei New Syrian Army. Washington smentisce categoricamente ma a sostegno dell’accusa - spiega il generale - ci sono le immagini dei satelliti che avrebbero individuato i “contingenti terroristici” nei pressi delle basi americani di Tanf e Shadadi. Egitto. Che fine hanno fatto Mustafa e Hassan? L’incubo delle sparizioni di Riccardo Noury Corriere della Sera, 11 febbraio 2018 Mohamed al-Kassas, vicepresidente del partito egiziano di opposizione Misr al-Qawia, è “riapparso” ieri sera al Cairo negli uffici della procura per la sicurezza dello stato, che ha disposto 15 giorni di arresto per l’accusa, da molti giudicata risibile, di favoreggiamento nei confronti della Fratellanza musulmana allo scopo di danneggiare la sicurezza dello stato e lo svolgimento del processo elettorale. Per molte ore dopo l’arresto, avvenuto nella notte tra l’8 e il 9 febbraio, in assenza di informazioni sul suo conto, si era temuto che al-Kassas fosse l’ennesima vittima di una sparizione forzata. Non si sa ancora nulla, invece, sul ricercatore e giornalista Mustafa al-Aasar e sul suo coinquilino, l’attivista Hassan al-Banna Mubarak, visti per l’ultima volta il 4 febbraio. Un mese fa, l’Agenzia per la sicurezza nazionale (i servizi civili alle dipendenze del ministero dell’Interno, sospettati di essere coinvolti, due anni fa, nella sparizione di Giulio Regeni) aveva convocato il fratello di al-Aasar interrogandolo a lungo su cosa stesse facendo il giornalista. Iran. Le incognite di Teheran al bivio del khomeinismo di Vanna Vannuccini La Repubblica, 11 febbraio 2018 Nella capitale che celebra il 39esimo anniversario della rivoluzione, i murales con le immagini degli imam e dei martiri che da quarant’anni segnano il panorama urbano sono quasi scomparsi: al loro posto spiccano prati verdi, cascate, cieli azzurri e giovani sorridenti che sventolano il diploma. Gli abitanti dei palazzi cui spetta decidere sulle decorazioni delle loro case, optano per visioni più anodine rispetto a quelle che per decenni erano state l’emblema di un popolo che credeva in quegli ideali di giustizia sociale che erano stati l’obbiettivo dei rivoluzionari. La rivoluzione del 1979 era stata una delle poche rivoluzioni veramente popolari della storia. Nazionalisti, comunisti e religiosi, tutti erano insorti per rovesciare lo scià “americano”, come veniva chiamato perché era stato riportato sul trono del Pavone dal colpo di stato della Cia contro Mossadegh, il primo ministro che aveva nazionalizzato il petrolio. Ma oggi, se si tenesse un referendum, il 70 per cento degli iraniani direbbe no alla repubblica islamica, sostiene Sadegh Zibakalam, professore all’università Azad di Teheran. I giovani che hanno manifestato il mese scorso in quasi ottanta città chiedevano per la prima volta la fine della Repubblica islamica, non una liberalizzazione come aveva chiesto l’Onda Verde ancora nel 2009. Zibakalam era stato un rivoluzionario della prima ora, poi sostenitore del presidente Khatami quando questi cercò di riformare la Repubblica islamica e liberare religione e politica da un matrimonio forzato. Il timore dei riformatori è che se ci saranno sono nuove sanzioni americane, e se Trump farà uscire l’America dal Trattato nucleare, l’Iran si troverà di nuovo isolato dal mondo e la risposta dei fondamentalisti potrebbe essere un colpo di mano che metta lo Stato sotto il controllo dei pasdaran facendo appello alla difesa della nazione. Stroncando così ancora una volta quel sogno di democrazia che il popolo iraniano insegue da quando fece la rivoluzione per la Costituzione nel 1906, e poi con Mossadegh nel 1953 e infine nel 1979. Sempre scontrandosi con l’America: Marg bar Amrika, morte all’America, era lo slogan dei rivoluzionari che sembrava finalmente esser stato superato con la presidenza Obama e la firma del Trattato nucleare. Si racconta a Teheran che Khatami vada ogni settimana a visitare il Leader Supremo per cercare di convincerlo a prendere posizione, dall’alto della sua autorità, a sostegno del presidente Rouhani e delle riforme. I conservatori vedono nel fallimento del trattato nucleare l’occasione d’oro per dare il colpo di grazia alle riforme che considerano propedeutiche al disfacimento del regime. La posta in gioco è tanto più alta perché si profila il momento della successione all’ottantenne Khamenei e loro vogliono ad ogni costo impedire che la carica più alta dello Stato vada a un moderato come Rouhani. Perfino Medhi Karroubi, l’ex presidente del Parlamento che pur essendo da otto anni agli arresti domiciliari non ha smesso di credere in una ideale Repubblica islamica, ha rivolto un pubblico appello al Leader Supremo: “Prima che sia troppo tardi, apri la strada a una riforma strutturale. Il sistema sta precipitando a tale velocità da essere messo in pericolo da qualche migliaia di persone che protestano. Invece di accusarli di legami con l’estero e reprimerli con la forza, ascoltali”. “Il potere d’acquisto degli iraniani è diminuito del 35 per cento rispetto al 2005”, spiega Said Leylaz, economista ed ex viceministro. Il 2005 è l’anno in cui andò al governo Ahmadinejad che con la sua politica populista vuotò le casse dello Stato (quando il petrolio era a 130 dollari al barile!) e portò l’inflazione al 40 per cento. Rouhani è stato costretto a una politica di austerità che ha riportato l’inflazione sotto le due cifre, ma la disoccupazione è aumentata e se il Trattato nucleare non funziona nessuno riuscirà ad abbassarla, dice Leylaz. Ogni anno si dovrebbero poter creare 900mila posti di lavoro solo per non far aumentare il tasso di disoccupazione. La demografia iraniana sta cambiando rapidamente e il tasso di natalità è oggi quasi a livelli italiani, ma i 18 milioni di giovani nati negli anni 80 in obbedienza al regime che chiedeva figli per la patria sono stati come una slavina di cui si sentono ancora le conseguenze. La disoccupazione dei giovani tra i 20 e i 24 anni ha raggiunto picchi del 25 % nelle province, mentre da novembre anche l’inflazione ha ripreso a crescere. A tutto questo si aggiunge una siccità che devasta le campagne. Quasi trenta milioni di iraniani vivono sotto la soglia della povertà, 11 in povertà estrema, dice Leylaz. La popolazione delle borgate è aumentata di dieci milioni dal ‘79. Che succederebbe se a protestare non fossero poche migliaia ma queste masse che si sentono abbandonate, tradite dalle élite che vivono in appartamenti che costano al metro quadro tre anni di stipendio del muratore precario che lavora in nero, senza assicurazioni sulla salute o sugli infortuni, a costruire il prossimo grattacielo di lusso? Nella storia dell’Iran sono sempre state queste masse a travolgere i governi. Dopo le proteste dei disoccupati sono venute quelle delle donne che si tolgono il velo. E quando la polizia ha arrestato 29 donne che avevano sventolato il loro foulard davanti ai passanti, Rohani ha risposto facendo pubblicare un rapporto fatto dall’Iranian Center for strategic studies, un istituto di ricerca che dipende dalla presidenza, da cui risulta che la metà degli iraniani sono favorevoli a considerale il velo una questione privata su cui le donne dovrebbero poter decidere. Non è detto però che il gesto abbia conseguenze positive per le arrestate perché il potere giudiziario è in mano ai conservatori che considerano il velo uno dei pilastri su cui poggia la Repubblica islamica. Iran. Ambientalista iraniano-canadese muore in carcere a Tehran di Filomena Fotia meteoweb.eu, 11 febbraio 2018 La comunità accademica iraniana è sotto shock per la morte del noto ambientalista Kavous Seyed Emami, La comunità accademica iraniana è sotto shock per la morte del noto ambientalista Kavous Seyed Emami, un iraniano-canadese: le autorità hanno reso noto che è deceduto in prigione due settimane dopo il suo arresto. Emami, 63 anni, a capo della Persian Wildlife Heritage Foundation, è stato arrestato insieme a sette colleghi il 24 gennaio. La sua morte è stata annunciata dalla famiglia sui social media. L’Iran Sociology Association, di cui Emami era un membro, ha messo in dubbio la possibilità che si sia trattato di un suicidio. Il procuratore capo di Teheran, Abbas Jafari Dolatabadi, aveva spiegato sabato che diverse persone erano state arrestate per accuse di spionaggio, senza fornire nomi: “Queste persone hanno raccolto informazioni classificate in settori strategici del paese in nome di progetti scientifici e ambientali”. Emami aveva insegnato all’Imam Sadegh University, dove molte delle figure di spicco del regime si sono laureate, compreso il negoziatore nucleare Said Jalili.