Carceri strapiene, in aumento anche i bambini-detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 febbraio 2018 Al 31 gennaio sono 58.087 su 50.517 posti disponibili, mentre i piccoli in cella sono 62 sui 56 di dicembre. Aumentano i bambini dietro le sbarre e cresce il sovraffollamento. Al 31 gennaio del 2018, secondo i dati messi a disposizione dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e pubblicati sul sito del ministero della Giustizia, siamo giunti a 58.087 detenuti per un totale di 50.517 posti disponibili. Questo vuol dire che risultano 7.570 detenuti in più. Come previsto, il numero dei detenuti è aumentato rispetto al 31 dicembre scorso, quando erano 7.109 in più. Sì, perché il mese di dicembre, periodo natalizio, è quello dove vengono concessi più permessi e quindi il calo, leggerissimo, della presenza era dovuto da una assenza momentanea. Infatti il mese successivo, il sovraffollamento ha cominciato a crescere nuovamente. I numeri del sovraffollamento risulterebbero addirittura maggiori se venissero prese in considerazione l’esistenza di celle ancora inagibili. Situazione ben documentata dal rapporto annuale del Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale Mauro Palma: ovvero l’alto numero di camere o sezioni fuori uso, per inagibilità o per lavori in corso, che alla data del 23 febbraio scorso erano pari al 9,5 per cento. Cioè parliamo di circa 4.700 posti ancora non disponibili. Maglia nera per quanto riguarda i bambini in carcere. Al 31 gennaio, risultano 62 bambini. Un aumento esponenziale rispetto ai mesi precedenti. Basti pensare che a dicembre ne risultavano 56, mentre a novembre ne erano 58. Per quanto riguarda l’esecuzione penale esterna, ovvero le misure alternative, lavoro di pubblica utilità, misure di sicurezza, sanzioni sostitutive e messe alla prova, al 31 gennaio ne sono state concesse a 47.954 detenuti. Un dato positivo, ma che può crescere se verrà introdotto al più presto il nuovo ordinamento penitenziario che punta molto all’estensione delle pene alternative: l’affidamento in prova attualmente viene applicata alle persone che non hanno superato i tre anni di pena, con la riforma la soglia si allargherebbe a quattro. In realtà, la riforma dell’ordinamento risolverebbe anche il problema delle detenute madri con figli al seguito: valorizza la concessione della detenzione domiciliare a donne incinte o madri di minori di 10 anni. Riforma che però rischia di naufragare. Come già spiegato ieri su Il Dubbio, si era riunito il Consiglio dei ministri, ma all’ordine del giorno non c’era l’esame definitivo dei decreti attuativi della riforma dell’ordinamento penitenziario. Si è persa, quindi, un’occasione per la certezza dell’approvazione della riforma visto che l’iter rischia di non concludersi prima delle elezioni. In teoria l’attuale governo dovrebbe restare in carica fino al 22 marzo, ma il rischio di vanificare tutti i lavori è ben concreto. Per questo c’è l’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini, giunta oramai al 19esimo giorno dello sciopero della fame, che chiede l’approvazione prima del 4 marzo. Con lei si affianca la comunità penitenziaria con la partecipazione al Satyagraha di oltre 8000 detenuti attraverso l’azione non violenta. Le criticità dunque persistono. Così come la presenza dei detenuti in attesa di giudizio. Sempre secondo gli ultimi dati, il 2017 ha il numero più alto di detenuti non condannati definitivamente rispetto agli ultimi 4 anni. Basti pensare che nel 2014 avevamo 8.926 detenuti in attesa di giudizio, nel 2017, invece, 10.181. Altro dato sono i detenuti presenti per classi di età: la maggiore presenza, che si attesta a 9.298 detenuti, sono coloro che hanno una fascia di età da 50 a 59 anni. Nonostante la legge preveda un’alternativa al carcere per le persone anziane, i detenuti oltre i 70 anni sono 776. Carceri, bando per l’assunzione di 250 assistenti sociali blitzquotidiano.it, 10 febbraio 2018 In un video pubblicato sul suo profilo Facebook, il ministro della Giustizia Andrea Orlando annuncia la pubblicazione del bando per l’assunzione di 250 assistenti sociali, “figure fondamentali per il funzionamento dell’esecuzione penale esterna”. Che cos’è l’esecuzione penale esterna? “È quell’insieme di pene, alternative al carcere, che può consentire di far sì che chi ha sbagliato restituisca alla società, nel suo insieme, qualcosa - spiega Orlando. Spesso la pena è passività, spesso la pena è un costo per i contribuenti. Il lavoro, il lavoro socialmente utile, il lavoro che può in qualche modo ridare dignità è, invece, un modo per costruire una società nella quale anche le vittime possono avere un ritorno e non semplicemente assistere all’esecuzione della pena”. “Attraverso questo strumento, che abbiamo potenziato nel corso di questi anni- afferma il ministro - siamo riusciti a far sì che la deflazione del carcere sia stata accompagnata ad un aumento delle persone sottoposte a esecuzione penale esterna. Il che significa sostanzialmente che i cittadini, anche senza utilizzare soltanto il carcere, possono essere più sicuri, contrariamente a quello che si sta dicendo in questi giorni”. Il ministro Orlando: “i processi non si fanno nelle piazze, né sui giornali” di Simona Musco Il Dubbio, 10 febbraio 2018 “I processi non si fanno nelle piazze, né in televisione o sui giornali”. Il richiamo di Andrea Orlando ai magistrati rappresenta anche il lascito del ministro della Giustizia al suo successore e un grido d’allarme in un tempo “insofferente alle garanzie”. Un’insofferenza che trascina con sé anche la democrazia, messa a rischio nel momento in cui vengono minati i diritti fondamentali e che solo un fronte comune tra avvocatura, magistratura e politica può difendere. Il monito arriva dopo la visita negli uffici giudiziari di Macerata e alle vittime del raid xenofobo di una settimana fa, quando il 28enne Luca Traini ha seminato il panico sparando sugli immigrati per vendicare la morte della giovane Pamela Mastropietro. Un invito ribadito anche ieri, nel corso dell’inaugurazione dell’anno giudiziario forense, dove ha chiesto di nuovo uno sforzo di “serenità” a magistrati e avvocati, il cui ruolo, ha sottolineato il ministro, “è fondamentale a difesa dei diritti più intimi che costituiscono la democrazia. Trovate quella serenità - ha aggiunto, che spesso non è agevolata da rumori di fondo, nei valori portanti della Costituzione”. E sono i rumori di fondo rappresentati da una giustizia sempre più mediatica e giustizialista quelli da eliminare, contrapponendo “un’avvocatura forte e libera”, come condizione essenziale “per la libertà di tutta la giurisdizione”. Orlando ha approfittato del momento per tirare le somme del suo mandato, vissuto fianco a fianco con il Cnf. “In questi, anni grazie anche al lavoro del Consiglio, sono stati battuti molti luoghi comuni che in passato hanno caratterizzato la professione forense e si sono difese le ragioni dell’avvocatura senza mai sconfinare nell’ambito del corporativismo - ha affermato. Credo che sia una lezione di portata generale in una fase come questa, in cui tentazioni di chiusura e di reazione corporativa ai cambiamenti sono diffuse nella società italiana. L’avvocatura è baluardo della difesa dei diritti e della democrazia. Una voce fondamentale a tutela delle garanzie, soprattutto di chi ha meno voce per difendersi. Per questa ragione abbiamo lavorato insieme, inaugurando un metodo nuovo che ha contribuito a realizzare molti dei risultati che abbiamo ottenuto”. Un cambio di passo rispetto al passato, quando l’avvocatura veniva tenuta ai margini nel dialogo con la politica, risultando “troppo spesso dimenticata, nell’ascolto necessario che deve esservi, a mio avviso, da parte del ministero della Giustizia”. La legislatura appena terminata è stata importante soprattutto per il pianeta giustizia, “per ciò che è stato fatto e per i processi avviati”. La sfida, ha spiegato il ministro, è quella di renderla efficiente, precondizione essenziale per un sistema economico e produttivo competitivo e per assicurare garanzie dei diritti dei più deboli. I primi passi sono stati mossi, a partire dalla giustizia civile, che ha visto una drastica riduzione delle pendenze - circa un milione e mezzo in meno rispetto al 2013 - e una “tangibile riduzione della durata media dei procedimenti”. Strumenti e miglioramenti apprezzati dagli osservatori internazionali, che dal 2013 ad oggi hanno fatto guadagnare all’Italia 52 posizioni nelle classifiche del Doing business della Banca Mondiale. Le comunicazioni telematiche di cancelleria hanno inoltre raggiunto e superato i 50 milioni, consentendo, negli ultimi tre anni, un risparmio di 178 milioni di euro. Una vera e propria “rivoluzione digitale” resa possibile anche grazie al contributo dell’avvocatura. Fondamentale è stata poi la riforma dell’ordinamento professionale forense, “che ha consentito una valorizzazione del ruolo dell’avvocatura e del rilievo costituzionale della stessa”, facendo fronte alla crisi che “ha investito anche questa categoria - ha detto il ministro - e che rischia di essere un tutt’uno con la crisi della democrazia e delle classi dirigenti”. Un’avvocatura “forte e libera da condizionamenti”, invece, “assicura la libertà di tutta la giurisdizione”, ha sottolineato Orlando. In particolare, la “recente introduzione dell’equo compenso per le prestazioni professionali degli avvocati testimonia l’attenzione alle esigenze di una categoria professionale che, in particolare nelle giovani generazioni, è stata particolarmente colpita dalla crisi economica degli ultimi dieci anni, accentuando le asimmetrie e le prevaricazioni dei “clienti forti”. Azioni a difesa di “uno dei principali bacini di competenza del Paese - ha evidenziato. Dobbiamo imparare ad avere più fiducia nella competenza, in un momento storico in cui perfino le verità scientifiche vengono messe in discussione”. La sfida è quella di dare continuità alle riforme e riuscire a declinarle nella società. “Sono molte le cose fatte e quelle che avrei voluto fare e tra queste una su tutte è il rafforzamento dell’avvocatura nella governance territoriale della giurisdizione - ha concluso, cioè il ruolo degli avvocati nei Consigli giudiziari”. Il “caso Macerata”, tra insicurezza reale e insicurezza percepita di Astolfo Di Amato Il Dubbio, 10 febbraio 2018 La vicenda di Macerata e l’orribile gesto di Traini hanno catapultato al centro della campagna elettorale il tema della immigrazione e, legato ad esso, il tema della sicurezza. Subito si sono fronteggiati con un profluvio di dati i due schieramenti. L’uno che, con dati alla mano, segnala il deciso calo di omicidi, furti, rapine, con la conseguente valutazione di una effettiva maggiore sicurezza, che è, viceversa, oscurata dall’onda mediatica che funge da cassa di risonanza per quegli episodi che, comunque, inevitabilmente si verificano in una collettività e che vengono portati nelle case e all’attenzione degli italiani come qualcosa di imminente e di estremamente vicino. L’altro che suona la grancassa sugli episodi di violenza riferibili agli immigrati clandestini vellicando la pancia di chi si sente più debole ed indifeso. Gli uni e gli altri, tuttavia, non tengono conto di un dato di fatto vissuto dalla popolazione, come se vivessero su di un altro pianeta. La realtà è che se qualcuno subisce un furto in casa o una violenza in strada e si reca presso la stazione dei Carabinieri o il Commissariato di Polizia, troverà forze dell’ordine scoraggiate che, allargando le braccia, faranno presente di non poter fare nulla e di non essere in grado di dare seguito alla denuncia ricevuta. Riceverà la descrizione di una situazione di impotenza per l’impossibilità di controllare una dinamica sociale divenuta tumultuosa ed estremamente complessa, nella quale si inseriscono gli episodi denunciati, che ormai sfugge a qualsiasi possibilità di reale governo. Si deve, inoltre, registrare che è sempre più diffusa, in aree crescenti del paese, la costatazione della esistenza di zone franche in cui non c’è spazio per la legalità. La situazione che vedeva, un tempo, lo Stato estromesso da interi quartieri della città di Napoli o della città di Palermo non è più confinata in alcune aree del sud particolarmente disagiate. In città come Milano o Torino vi sono piazze di spaccio o luoghi di abusivismo di ogni genere sottratte, di fatto, a qualsiasi controllo. Il tema, quindi, non è quello di una società resa più insicura dalla immigrazione clandestina, ma quello di strutture statali che non riescono più a reggere l’urto poderoso della globalizzazione e la vorticosa circolazione di uomini e di cose che la globalizzazione ha portato con sé. Se si tiene presente questo dato e la circostanza che l’impotenza delle forze dell’ordine è un dato oggettivo, neanche lontanamente riferibile ad una cattiva volontà delle stesse, la conclusione che se ne deve trarre è, sotto certi aspetti, ottimistica. Tutto sommato, gli episodi di violenza di cui si legge sulle prime pagine dei giornali e che le televisioni portano nelle nostre case sono molto meno rispetto alla violenza e la insicurezza, che la impossibilità di adeguati controlli potrebbero far immaginare. Se a questa prima considerazione si aggiunge anche il rilievo che, molto spesso, la condizione degli immigrati clandestini è tragica e disperata non si può non considerare che l’effettivo argine ad una esplosione che travolga la società è, in larga misura, una indole del genere umano molto migliore di quello che normalmente si ritiene. L’Italia è molto più sicura di quanto percepito. Questo non perché le strade siano presidiate dalla polizia, o il territorio sia sotto pieno controllo, ma solo perché gli uomini che sono presenti, legittimamente o illegittimamente, sono migliori di quanto si teme. Non ci rassegniamo alla banalità del male razzista di Stefano Pirri Il Manifesto, 10 febbraio 2018 Da cittadino che ha vissuto i terribili episodi di Macerata, vorrei soffermarmi sui commenti che si ascoltano nei negozi, nei bar o in giro per la città. Commenti che già prima capitava di sentire ma che non credevo fossero la spia di un pensare così radicato e diffuso. Sembra, da questi incontri casuali, che buona parte dei maceratesi abbia smarrito il proprio senso di umanità: la sparatoria contro gli uomini e le donne neri incontrati per caso è ritenuta, in questi commenti così diffusi, giustificabile. Magari si ammette che “non sta bene” sparare per strada, tanto più che si mettono a rischio le persone che non centrano, con l’implicita assunzione che invece gli uomini e le donne di origine africana sono tutti colpevoli per nascita. Ma, viste le analogie con un altro fatto di cronaca nel modo raccapricciante in cui si è tentato di occultare i cadaveri delle povere ragazze, perché non prendersela con tutti i tramvieri, dato che tramviere è l’assassino di pochi giorni fa nel milanese? Qualche mite pensionato arriva a proporre di lasciare morire in mare gli immigrati, così magari l’Europa accetterà di accogliere gli emigranti. Si mettono sul piatto della bilancia due aspetti e si traggono infelici conclusioni. Da un lato la vita degli immigranti, che “attratti dal nostro mitico welfare e dal miraggio della bella vita”, hanno affrontato violenze e pericoli estremi. E sull’altro lato della bilancia si mette il fastidio che il comportamento di alcuni di loro suscita quando li vediamo girare senza nulla da fare, oppure quando ci chiedono l’elemosina o quando sono reclutati come manovalanza dai signori della droga. Accettano il male come normale. Un ceto diventato medio da pochi decenni, vive ora l’incubo di tornare proletariato, in una città di provincia tranquilla e tutto sommato al riparo dagli effetti più devastanti della crisi, si chiude nella contemplazione e nella difesa del residuo benessere, illuso, da una propaganda criminale, che il capro espiatorio cui imputare tutto il proprio disagio siano gli immigrati, possibilmente neri. La legge Bossi-Fini, che nessuno ha pensato di modificare, si è rivelata un incitamento a delinquere, dato che in base ad essa gli immigrati “economici” possono avere un permesso di soggiorno solo se arrivano in Italia già con un regolare contratto di lavoro, mentre gli altri dovrebbero uscire dai confini nazionali a loro spese. Il rimpatrio forzato non dovrebbe né potrebbe essere di massa, perché ingiusto e perché costa molto e presuppone un trattato con il paese di destinazione, che non è facile ottenere. D’altra parte chi fugge da un paese come la Nigeria, in cui la speranza di vita alla nascita, secondo la classifica dell’Onu è di 46,9 anni, per raggiungere un paese che vanta una speranza di vita di 82 anni qualche ragione umanitaria la potrebbe accampare. In questo clima il sindaco Pd di Macerata ha chiesto a tutti, ma in realtà in particolare a coloro che avevano indetto la manifestazione nazionale antirazzista e antifascista, di rinunciare, in nome di una città “smarrita” e del “ritorno alla normalità”. Il prefetto ha poi vietato tutte le manifestazioni, ispirato, si è scoperto, dal ministro Minniti, salvo poi dover tornare indietro. Le istituzioni locali rinunciano ad essere protagoniste della mobilitazione democratica e il ministro dell’interno rinuncia al suo dovere di garantirne il pacifico svolgimento e minaccia repressione. Un atteggiamento singolarmente speculare a quello dei concittadini che difendono il proprio “particolare”, rinunciando a ogni valore, moderna versione del familismo amorale, sempre in nome della difesa della tranquillità e normalità. Il sindaco non si rende neanche conto che proprio così si provocano le possibili risposte violente dei temuti (dal sindaco e dal ministro) centri sociali. Ma più importante è ribadire che il ritorno a una normalità non dominata dalla banalità del male impone che chi non ha ancora perso il lume della ragione faccia sentire la sua voce, a partire da Macerata, e non sia lasciato solo e muto. È essenziale che l’altra parte dell’opinione pubblica mostri la sua forte presenza e non lasci l’egemonia all’avversario. È essenziale che si sappia che sono tanti coloro non rassegnati alla banalità del male e semplicemente, per proporre uno slogan che forse racchiude tutti gli altri, vuole dire ad alta voce: Humanity first, prima l’umanità. Questo percorso deve continuare dopo la manifestazione ed essere guidato dalle istituzioni culturali della città, e in particolare dall’Università. Occorre esprimere noi stessi e mettere davanti a uno specchio i nostri borghesi piccoli piccoli e meschini prima che sia troppo tardi. Potrebbero avere ancora orrore di sé. O dovremmo forse rassegnarci al crescere delle organizzazioni nazi-fasciste, e alla diffusione, forse ancora più inquietante, di questo banale nazismo in versione italiani brava gente? Se la mafia teme i cronisti di Gianluca Di Feo La Repubblica, 10 febbraio 2018 Al quartiere Libertà il capo è Lorenzo Caldarola. Pure adesso che è in carcere, il capo è sempre lui”. Le vecchie dichiarazioni di una pentita fanno capire lo spessore del boss della criminalità barese. Arrestato nel 2001, ha scontato quattordici anni ed è stato accolto al suo ritorno a casa da una festa popolare, con tanto di fuochi d’artificio. Poi nella scorsa primavera è tornato in cella, con una nuova accusa di associazione mafiosa. In prigione anche il figlio maggiore Francesco: è stato condannato per l’omicidio di un giovane albanese, colpevole di avere dato un ceffone al fratello minore Ivan. Il quale ha una sentenza per rapina e un’imputazione per violenza sessuale collezionate prima della maggiore età: è stato invece appena assolto da un’accusa per droga, annunciando agli amici su Facebook la sua scarcerazione. Questa premessa serve per inquadrare cosa è accaduto ieri pomeriggio nel quartiere barese, dove si era appena tenuta una manifestazione di Libera con don Ciotti. Mariagrazia Mazzola, giornalista del Tg1, si è presentata nella casa di Lorenzo Caldarola e ha chiesto di parlare con la moglie del boss. Ma la donna ha risposto alle domande con uno schiaffo pesante, di quelli che lasciano il segno. “Ho fatto il mio dovere di cronaca. Non sono stata insistente, sono stata anglosassone, perché sono sempre rispettosa: ma mi ha aggredita”, ha dichiarato la giornalista. Immediata la solidarietà dei vertici Rai, di tutte le associazioni sindacali e degli esponenti di molti partiti. Resta un problema. Nonostante gli arresti, le mafie continuano a sentirsi padrone di pezzi del territorio. Lo fanno con la violenza ma anche coltivando il consenso del “loro” popolo, radice principale del loro potere che ha la necessità di venire pubblicamente riconosciuto. E che solo l’informazione riesce a incrinare. In tutta Italia le ultime leve del crimine hanno capito che la stampa è una minaccia, perché può spaccare la loro immagine vincente. Quello che è accaduto pochi mesi fa a Ostia quando Roberto Spada ha risposto con una capocciata alle domande dell’inviato di Nemo Daniele Piervincenzi. Nel nostro Paese venti giornalisti vivono sotto scorta: un primato che non ha pari in Europa e in tutto il mondo occidentale. Nel 2017 l’associazione “Ossigeno per l’informazione” ha censito intimidazioni, minacce, abusi, ritorsioni nei confronti di 423 tra cronisti, blogger, fotoreporter e video operatori. Una lista che continua a crescere, anno dopo anno. Sono dati che devono fare riflettere: se la libertà di informazione è il termometro di una democrazia, allora tanti nel nostro Paese non si riconoscono in questo valore. Una considerazione che non riguarda soltanto i boss, monopolisti della violenza, ma che spesso trova eco anche nelle parole avventate di tanti politici. Condanna per droga, revoca della patente non obbligata di Enrico Santi Italia Oggi, 10 febbraio 2018 In caso di condanna per i reati in materia di stupefacenti, è illegittimo il secondo comma dell’art. 120 del codice della strada nella parte in cui dispone che il prefetto debba (anziché “possa”) provvedere alla revoca della patente in caso di condanna successiva al suo rilascio. Lo ha deciso la Corte costituzionale n. 22 del 24 gennaio, depositata il 9 febbraio. L’art. 120, comma 1, del decreto legislativo n. 285/1992 prevede che le persone condannate per i reati di cui agli articoli 73 e 74 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 9 ottobre 1990 (“Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza”) non possano conseguire la patente di guida. Il successivo comma 2 dispone che se la condanna interviene in data successiva a quella di rilascio della patente di guida, il prefetto “provvede” alla revoca della patente. Secondo la Consulta, però, questo automatismo del comma 2 sulla revoca del titolo di guida viola i principi di eguaglianza, proporzionalità e ragionevolezza di cui all’art. 3 della Costituzione. Innanzitutto, in via automatica, nell’attuale formulazione la revoca della licenza di guida viene ricollegata in via automatica a una varietà disomogenea di fattispecie, considerato che la norma può riguardare reati di diversa entità, che possono anche risalire indietro nel tempo rispetto alla data di definizione del giudizio. Inoltre, mentre il giudice penale ha la facoltà di disporre il ritiro della patente, qualora lo ritenga opportuno, il prefetto, invece, ha il dovere di disporne la revoca. Pertanto, conclude la Corte costituzionale, va dichiarata l’illegittimità costituzionale del comma 2 dell’art. 120 del codice della strada nella parte in cui dispone che il prefetto “provvede” - invece che “può provvedere” - alla revoca della patente di guida, in caso di sopravvenuta condanna del suo titolare per reati di cui agli artt. 73 e 74 del decreto del presidente della Repubblica n. 309/1990. Violazione di domicilio. Lo studio come casa privata di Michele Damiani Italia Oggi, 10 febbraio 2018 Lo studio professionale vale come dimora privata. Se un soggetto accede con la forza all’interno dello studio, commette violazione di domicilio, diversamente dal caso in cui l’accesso si manifesti in un esercizio commerciale. A queste conclusioni sono giunti i giudici della quinta sezione penale della Corte di cassazione, nella sentenza n. 5797/2018 depositata lo scorso 7 febbraio. La sentenza parte dall’assunto che tutte le volte in cui uno spazio non è indiscriminatamente aperto al pubblico, chi vi si intrattiene contro la volontà del titolare commette violazione di domicilio; inoltre, “è necessario che in concreto si svolgano, anche in modo transitorio e contingente, atti della vita privata”. A differenza di un esercizio commerciale, quindi, uno studio professionale rientra nella definizione di privata dimora. La Corte era già intervenuta in materia con la sentenza 31345/2017 in cui si escludeva la definizione di privata dimora per un ristorante. In quel caso ricorrevano gli estremi della vita privata, ma mancava il divieto di accesso al pubblico senza il consenso del titolare. La sentenza n. 5797 riguarda il caso di un avvocato che era stato condannato per violenza privata e violazione di domicilio per essersi intrattenuto all’interno dello studio legale contro la volontà espressa dal titolare e per aver “compiuto atti idonei in modo non equivoco a costringerlo a ricevere una missiva e ad apporvi la firma per ricevuta, minacciandolo di non andar via dallo studio fi no ad avvenuto adempimento”. L’avvocato era stato condannato a cinque mesi di reclusione in primo grado nel 2013, pena confermata dalla Corte di appello di Roma nel 2015; i fatti sono stati commessi a Roma nel 2008. La Cassazione ha riconosciuto il concetto di dimora privata ma ha annullato la sentenza in quanto il reato è estinto per prescrizione. L’avvocato è stato condannato a pagare le spese sostenute dalla parte civile. Milano: la Garante “diritto alla sessualità per chi è recluso non è mai garantito in Italia” di Renato La Cara Il Fatto Quotidiano, 10 febbraio 2018 Il Consorzio Vialedeimille, che riunisce cooperative sociali che lavorano nelle carceri lombarde, ha lanciato la “Milano Love Week” per affrontare il tema di affetto e sessualità dietro le sbarre: “Vogliamo eliminare pregiudizi e aprire una breccia nel silenzio assoluto”. “In Italia non esistono nelle carceri luoghi protetti e sicuri dove è possibile entrare in intimità tra un detenuto e il rispettivo coniuge o partner, esterno o interno al penitenziario. Si parla di diritti dei carcerati ma quello alla sessualità non è quasi mai affrontato né, tanto meno, garantito nelle carceri italiane. C’è proprio un vuoto nella legislazione del nostro Paese: sarebbe ora di colmarlo”. A sostenerlo è Alessandra Naldi, Garante per i diritti delle persone private della libertà presso il Comune di Milano in occasione di un incontro pubblico organizzato la sera del 7 febbraio dal Consorzio Vialedeimille dal titolo “Carcere & Amore: dove si lasciano i sentimenti?”, che fa parte del progetto Milano Love Week (7-14 febbraio). Il Consorzio è costituito da cooperative sociali che operano nelle carceri lombarde e si occupa di vendere e promuovere prodotti e servizi dell’economia carceraria. Le coop sociali che appartengono al Consorzio impiegano oltre 100 persone in carcere e altrettante fuori. “Quello della sessualità è un tema che i media trattano pochissimo, un po’ per opportunità e convenienze interne alle testate ma a volte anche per disattenzione dei giornalisti. Quando siamo dentro le celle non veniamo considerati come delle persone uguali agli altri, ma siamo trattati diversamente. Ma anche noi, pur consapevoli di aver commesso dei reati e per questo siamo in carcere, abbiamo certe esigenze, certi desideri sessuali. Mi sembra una cosa del tutto normale”. Così Maurizio, detenuto nel carcere di Bollate che quasi ogni giorno si reca in permesso (articolo 21) al Consorzio Vialedeimille svolgendo attività professionali il cui ricavato va a finanziare progetti di inclusione sociale e recupero. “L’articolo 21 non è una vera misura alternativa alla detenzione, ma un beneficio, concesso dal direttore del carcere che, di volta in volta, può decidere di attuarlo. Consiste di uscire temporaneamente dal carcere per fare un’attività lavorativa e dare una svolta positiva alla propria vita”, precisa a ilfattoquotidiano.it Elisabetta Ponzone del Consorzio Vialedeimille. “In vista del 14 febbraio, festa di San Valentino, abbiamo deciso di affrontare il tema del carcere e dell’amore insieme. Vogliamo eliminare pregiudizi e aprire una breccia nel silenzio assoluto che c’è intorno al diritto alla sessualità anche per chi vive recluso nelle carceri italiane. Diritto da garantire all’uomo ma anche alla donna”. “Vorrei vivere dei momenti di intimità con mia moglie, poter stare con lei e amarci anche fisicamente. Ma purtroppo questo non è ancora possibile stando dentro (il carcere, ndr). Spero che qualcosa possa cambiare. So che in alcuni Paesi europei questo è già una realtà regolamentata. Mi sono costituito volontario e sono in carcere perché ho capito che la mia famiglia è più importante di qualsiasi altra cosa al mondo ma adesso mia moglie mi manca tantissimo” afferma Sebastiano, detenuto a Milano-Opera e anche lui in art.21 presso il Consorzio Vialedeimille. Sebastiano ha imparato, stando in carcere, a fare il pane grazie all’intervento della cooperativa sociale In-Opera. “L’affettività e la sessualità - spiega - dovrebbero essere garantite per favorire il venir meno delle tensioni emotive delle persone rinchiuse negli istituti di pena. Bisogna prestare molta più attenzione a questo aspetto”. Nel corso del convegno si è affrontato anche la questione dei figli minori dei detenuti. “La Carta dei diritti dei figli dei genitori detenuti, Protocollo firmato nel 2014 e rinnovato il 6 settembre 2016 dal ministero della Giustizia alla presenza delle associazioni di riferimento - dice una rappresentante dell’organizzazione Bambini senza sbarre - riconosce formalmente il diritto di questi minorenni alla continuità del proprio legame affettivo con il proprio genitore detenuto e, al contempo, ribadisce il diritto alla genitorialità dei detenuti”. Il Protocollo rende i bambini che entrano in carcere visibili, tutelando il loro diritto a mantenere un legame affettivo con il genitore in carcere e cercando di superare le barriere legate alla discriminazione e allo stigma all’interno della società. “Tra le varie cose previste dalla Carta - aggiunge Marianna Grimaldi, coordinatrice dell’Istituto a custodia attenuata per madri detenute (Icam) dipendente dal carcere di San Vittore - sono previste le visite all’interno degli istituti di pena, la formazione del personale e l’istituzione di un Tavolo permanente che effettuerà un monitoraggio sull’applicazione dello stesso Protocollo, utilizzando anche il sostegno delle associazioni territoriali”. “Noi lavoriamo a Milano - dice Grimaldi - in particolare con madri rom. La nostra è una comunità dove anche giovanissime mamme e figli condividono un certo periodo limitato di tempo: spesso pochi mesi. Con noi le mamme e i bambini hanno la possibilità di crescere in un ambiente meno duro e più familiare, anche se per le detenute vigono le stesse regole presenti negli istituti di pena. Uno dei nostri obiettivi è costruire un legame il più possibile di affetto e di amore tra i soggetti coinvolti nei nostri percorsi. Lottiamo anche contro la solitudine e l’abbandono delle mamme da parte delle rispettive famiglie di riferimento. Dopo la delicatissima fase del recupero, cerchiamo - termina la coordinatrice dell’Icam - di restituire loro dignità e supporto ai loro figli, anche con percorsi scolastici selezionati”. I piccoli dormono con le loro mamme, ogni mattina sono accompagnati all’asilo e rientrano nel pomeriggio, sempre accompagnati dalle educatrici dell’Icam. “Inclusione, rispetto e affetto sono i nostri interessi primari per cercare di rendere meno dura la vita di queste persone”. Verona: al lavoro invece che in carcere, c’è la convenzione L’Arena di Verona, 10 febbraio 2018 Raddoppiano, salendo a 24, i posti messi a disposizione dal Comune per l’inserimento di condannati con pene detentive non superiori ai quattro anni, in lavori socialmente utili. L’iniziativa è frutto della nuova convenzione siglata tra Comune e Tribunale. Le persone ammesse svolgeranno attività nei Musei cittadini (4 addetti), nel Settore Sport e Tempo Libero (2 addetti), all’Ufficio Manifestazioni (4 addetti), e nelle Biblioteche di Pubblica Lettura (14 addetti). Siglato inoltre un accordo, primo a livello nazionale, tra Tribunale e Csi-Comitato Sportivo Italiano provinciale di Verona per l’inserimento di coloro che si sono resi colpevoli di reati in occasione o durante manifestazioni sportive. Le due convenzioni per “Messa alla prova” sono state presentate questa mattina nella sala Zanconati del Foro scaligero, dal Sindaco, dal presidente del Tribunale di Verona Antonella Magaraggia, dalla direttrice distrettuale Uepe, l’Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Verona, Francesca Paola Lucrezi, dal presidente nazionale del Csi Vittorio Bosio e dalla presidente della sezione di Verona del Csi Rita Zoccatelli. “Una misura alternativa alla pena detentiva - ha detto il sindaco - che ha una valenza educativa oltre che rieducativa. Il precedente accordo, che aveva riguardato i condannati per reati ai sensi del codice della strada, ha avuto esiti molto positivi. Per questo l’Amministrazione ha deciso di raddoppiare i posti a disposizione. Le attività saranno svolte in sinergia ed in maniera collaborativa con il personale del Comune. Molto bello - ha concluso - anche il nuovo rapporto che si è creato con il Csi, utile a mostrare a coloro che si sono resi colpevoli di reati in occasione di eventi sportivi quali sono i veri e positivi valori che lo sport incarna”. Venezia: l’ex Casa lavoro della Giudecca torna carcere con foresteria Corriere del Veneto, 10 febbraio 2018 Piano di Comune, Demanio e ministeri. All’ultima seduta di giunta del 6 febbraio, sindaco e assessori hanno approvato una delibera che dà il via libera alla sottoscrizione di un protocollo di intesa tra Comune, Agenzia del demanio, ministeri della Giustizia e dei Beni culturali. L’oggetto è la valorizzazione dell’”Ex casa del lavoro per gli uomini ed ex chiesa della Croce” alla Giudecca, ossia la struttura penitenziaria che ospitava i detenuti in semi-libertà, chiusa nel 2008 dopo che un controllo dell’allora Magistrato alle acque aveva rilevato che le cucine erano impraticabili e pericolose. All’epoca, il Ministero non aveva i fondi necessari e i detenuti sono stati trasferiti a Padova, Treviso e Santa Maria Maggiore. Da allora, di quegli immobili non si è più sentito parlare e adesso spunta un progetto di recupero. Al momento l’ipotesi della vendita e della trasformazione degli edifici non sembrerebbe sul tavolo; anzi, Demanio, Comune e ministeri nei prossimi dodici mesi lavoreranno a un tavolo congiunto per stabilire le azioni da mettere in campo. “Non ci sarà assolutamente ricettivo - garantisce l’assessore all’Urbanistica Massimiliano De Martin - e nemmeno sarà venduta l’ex casa: il ministero di Giustizia vuole ripristinare la struttura penitenziaria con un centro di nuova concezione per chi è a fine pena e una foresteria per le guardie”. L’ex casa dovrebbe cioè tornare alle sue funzioni passate. Livorno: le Sughere carcere superaffollato, locali da ristrutturare costaovest.info, 10 febbraio 2018 Al polo associativo di Via Terreni, inaugurato nel 2012 (vi hanno la sede varie associazioni: Arci, Unicef, Centro per la Pace, Anpi, Anppia), si è svolto un incontro organizzato da Futuro, il gruppo consiliare formato dagli ex di Buongiorno Livorno, Andrea Raspanti e Giovanna Cepparello, per fare il punto della situazione nelle carceri, dopo la riforma del codice penale firmata dal ministro Orlando, approvata nel giugno 2017. Una legge sollecitata dalla Comunità Europea viste le condizioni disastrose degli istituti penitenziari italiani denunciate da associazioni e, soprattutto, dal Partito Radicale. Come ha ricordato l’avvocato Aurora Matteucci, consigliere della Camera Penale di Livorno, la riforma è frutto di un anno di lavoro degli Stati Generali, voluti dal ministro Orlando, di cui purtroppo poco si parla, che ha avuto il grande merito di affermare il principio del percorso individualizzato della pena impegnando con ciò i giudici a soluzioni alternative al carcere stesso per le condanne fino a quattro anni. Prima il limite era di tre. Un altro aspetto fondamentale della nuova riforma penitenziaria è l’aver messo il lavoro al centro del recupero del detenuto. Dati statistici provano che il 70 per cento dei recidivi non hanno svolto alcun lavoro in carcere mentre solo l’1 per cento di quelli che hanno avuto l’opportunità di farlo torna in carcere. Marco Solimano, dal 2010 garante dei diritti dei detenuti, sostituito dal sindaco Nogarin a gennaio di quest’anno con Giovanni De Peppo, presente in sala, ex assessore nella giunta di Gianfranco Lamberti (Ds), ha sottolineato la difficoltà a tradurre i principi legislativi in un effettivo miglioramento della vita carceraria di tutti i giorni. Da tempo, ormai, anche come presidente dell’Arci di Livorno, denuncia le condizioni deprecabili delle Sughere, una struttura aperta nella prima metà degli anni 80, che vede bagni inagibili, locali chiusi in attesa di ristrutturazioni, mancanza di spazi idonei per fare attività ricreative, teatro per esempio, che impegnino la giornata del detenuto. Mancano gli educatori. Ce ne sono due su una popolazione carceraria di circa 300 detenuti, compresi quelli a regime di alta sicurezza. E ancora: la nuova legge impone che il detenuto stia fuori cella 8 ore al giorno, con il risultato che alle Sughere 30-40 persone camminano in su e in giù per i corridoi di ciascuna sezione senza poter fare altro. Pone anche una domanda: dove sono finiti i 9 milioni, previsti inizialmente per la costruzione del nuovo carcere a Lucca, e dirottati per i lavori di ampliamento alle Sughere? Il presidente della Camera Penale di Livorno, avvocato Marco Talini, ha rincarato la dose affermando che nella sezione di alta sicurezza, in ogni cella, ci sono tre detenuti anziché due, perché il magistrato di sorveglianza, in presenza di letti a castello, considera idonei i 3,5 metri quadri minimi del cosiddetto spazio vitale per due sommando, quindi, il numero dei detenuti e non lo spazio. Ha auspicato che si faccia come a Firenze e cioè di convocare anche alle Sughere un consiglio comunale per far conoscere la realtà carceraria a chi amministra la città. Il consigliere Raspanti ha ricordato che più volte l’ha proposto sia in consiglio che in commissione consiliare, ma per il momento senza risultato. Ma assicura che l’impegno del suo gruppo proseguirà su questo fronte come su altri che interessano i cittadini livornesi. Sassari: medico indagato per un suicidio in cella di Luca Fiori La Nuova Sardegna, 10 febbraio 2018 Una visita medica che non tenne conto delle condizioni del paziente, un detenuto che arrivava dal carcere di Tempio con un carico di problemi psicofisici che avrebbero dovuto far accendere un campanello d’allarme. La sospensione improvvisa della terapia di benzodiazepina (un farmaco prescritto per stati gravi di ansia, insonnia e agitazione) e l’assenza di un’indagine sullo stato psichico dell’uomo di 43 anni che appena due giorni dopo l’ingresso nel carcere di Bancali decise di togliersi la vita. Ci fu una correlazione secondo la Procura della Repubblica di Sassari tra la morte di Giovanni Cherchi, originario di Orune ma residente a Olbia, avvenuta il 25 maggio dello scorso anno all’interno di una cella dell’istituto di pena sassarese e il comportamento del medico del carcere Massimo D’Agostino, che il 23 maggio compilò la scheda sanitaria d’ingresso in carcere. Per il sostituto procuratore Paolo Piras e per il perito della Procura, lo psichiatra Pietro Pietrini, il medico non svolse bene il suo lavoro, compiendo una serie di omissioni - tra cui la sospensione di un antidepressivo - che appena due giorni più tardi portarono il detenuto a togliersi la vita, impiccandosi dentro la cella. Massimo D’Agostino, 48 anni, medico da vent’anni e sindaco di Bonorva dal 2016, il 19 aprile prossimo dovrà comparire davanti al giudice monocratico del tribunale di Sassari per difendersi dall’accusa di omicidio colposo. Il giudice delle indagini preliminari Michele Contini ha accolto la richiesta di giudizio immediato formulata dalla Procura sassarese e la costituzione di parte civile da parte dei genitori e dei fratelli di Giovanni Cherchi, assistiti dagli avvocati Danilo Mattana e Francesco Lai del foro di Nuoro. Cherchi era finito in manette il 17 maggio dello scorso anno insieme al fratello Nicola. I carabinieri li avevano subito individuati dopo una violenta lite dentro lo Snack bar di via Fausto Noce a Olbia conclusa con l’accoltellamento del proprietario del locale, Federico Porcu. Il gip del tribunale di Tempio aveva convalidato il fermo e disposto la scarcerazione di Nicola Cherchi. Per Giovanni, su cui evidentemente pesava il carico maggiore di responsabilità, il magistrato aveva deciso la custodia cautelare in carcere. Dopo una settimana nell’istituto di pena di Tempio l’uomo era stato trasferito all’insaputa dei suoi familiari e dei suoi legali nel carcere di Bancali. Al medico del carcere gallurese aveva riferito di far uso di alcol e stupefacenti e di essere un fumatore. I sintomi di “astinenza alcolica, ansia, tachicardia e tremore” riscontrati all’ingresso a Termpio avevano portato alla prescrizione della benzodiazepina. Terapia che all’ingresso a Bancali il medico Massimo D’Agostino decise di sospendere. Una decisione che secondo la Procura portò Cherchi a prendere la decisione di farla finita. I suoi familiari, convinti che se l’uomo avesse continuato la terapia molto probabilmente non si sarebbe tolto la vita, dopo la sua morte si sono rivolti alla magistratura e hanno fatto partire l’inchiesta. Ora il processo dovrà stabilire se ci furono effettivamente responsabilità da parte di D’Agostino o se invece la condotta del medico fu corretta, come è pronto a dimostrare il suo difensore, l’avvocato Gian Marco Mura. Verona: Consiglieri comunali in visita al carcere di Montorio veronaeconomia.it, 10 febbraio 2018 Comprendere da vicino la realtà carceraria veronese e le problematiche della detenzione e del reinserimento sociale. Questo l’obbiettivo della prima visita effettuata oggi dai componenti della Commissione consiliare 5ª alla Casa Circondariale di Montorio. “La volontà di visitare la struttura carceraria - spiega la presidente della Commissione - nasce a seguito della presentazione di una mozione riguardante le limitazioni della libertà personale dei detenuti e, più in generale, le problematiche del carcere. Per questo, è stato importante poter vedere concretamente le condizioni di vita dei carcerati e, in particolare, la validità del loro percorso di recupero e di reinserimento”. Presente alla visita anche Margherita Forestan, Garante per la difesa dei diritti delle persone private della libertà personale che, nel ringraziare per la nomina al suo terzo mandato, ha sottolineato come: “è fondamentale garantire a queste persone sanzioni alternative al carcere, che ne consentano l’effettivo reinserimento sociale dopo la detenzione. È dimostrato che più la reclusione è collegata alla sola vita carceraria e meno probabilità di recupero ci sano. Servono possibilità detentive in grado di offrire percorsi di crescita dell’individuo, perché permettere un reinserimento guidato significa far diminuire significativamente i casi di reiterazione del reato e quindi far aumentare la sicurezza di tutti i cittadini”. Trapani: una raccolta di libri in favore dei detenuti del carcere di San Giuliano trapaniok.it, 10 febbraio 2018 Il Presidente del Comitato di Quartiere “Sant’Alberto” Giovanni Parisi, attivissimo nel sociale e sempre in prima linea nella lotta in favore delle categorie disagiate ha attivato una raccolta di libri in favore dei detenuti del carcere di San Giuliano. I libri sono stati consegnati al Comandante della Polizia Penitenziaria Comm. Capo Giuseppe Romano; un centinaio di volumi (dai romanzi alle biografie storiche ecc.) che andranno ad arricchire la biblioteca dell’Istituto di Pena che già conta oltre 6.000 volumi, tutti catalogati, e si avvale dell’opera di due volontari esterni che provvedono a ricevere le richieste dei detenuti e a distribuire i libri per i vari reparti. “La lettura, anche se non è per tutti, può essere una risorsa per far sentire i detenuti “meno reclusi”, per alleviare la sofferenza, per la rieducazione e il reinserimento. Per questi motivi - dice il Direttore Renato Persico - abbiamo potenziato e promosso questo servizio. Far amare i libri è quindi, secondo noi, il compito dei volontari; ma creare le occasioni per poter esercitare il diritto a leggere è un dovere dell’Amministrazione Penitenziaria”. “Abbiamo puntato molto sulla lettura come mezzo di riflessione e di crescita culturale del detenuto” aggiunge il Comandante, “infatti all’interno dell’Istituto ed in particolare nel Reparto Adriatico dove sono ristretti tutti i detenuti - studenti è stato attivato da tempo un laboratorio di lettura grazie alla giornalista volontaria Ornella Fulco e la Psicologa Fabrizia Sala”. Un grazie a tutti gli abitanti del quartiere Sant’Alberto e al suo Presidente Giovanni Parisi per l’attenzione dimostrata nei confronti dei detenuti. Il vuoto socio-culturale e l’illegalità da arginare di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 10 febbraio 2018 La legge va fatta rispettare sempre e senza guardare in faccia nessuno. È solo così che si combatte l’estremismo e la violenza di parte. Chi ha letto qualche libro lo sa. La ragione forse più importante che determinò la vittoria del fascismo nel 1922 fu lo scardinamento dell’applicazione della legge avutasi negli anni precedenti. Uno scardinamento che ebbe due momenti: dapprima, durante il cosiddetto biennio rosso, il governo si mostrò di un’assoluta indulgenza nel tollerare da parte dei socialisti le violenze di piazza, il sobillamento continuo e in mille modi alla violazione dell’ordine pubblico e al sabotaggio, le minacce e le aggressioni, verbali e non, contro i rappresentanti dell’ordine e dell’esercito. In un secondo tempo, nel 1920-21, quando contro le cose e le persone delle leghe contadine, del movimento operaio e dei comuni socialisti, si scatenò in risposta la violenza fascista - più mirata, più organizzata e più feroce - il governo centrale ne ordinò, sì, a più riprese e anche con forza la repressione, ma senz’alcun esito. Ciò che accadde, infatti, fu la virtuale insubordinazione delle forze dell’ordine, dell’esercito e dell’apparato giudiziario. Le quali, consenzienti vasti settori dell’opinione pubblica borghese, si rifiutarono silenziosamente di esercitare contro i “neri” quell’azione repressiva che in precedenza non era stata esercitata contro i “rossi”. Fu grazie a tale catena di eventi che la democrazia italiana corse alla rovina. Questi precedenti contengono una lezione preziosa per l’oggi: per tutti ma in particolare per il ministro Minniti e per le procure della Repubblica. La legge va fatta rispettare sempre e senza guardare in faccia nessuno, colpendo tanto nella direzione che può dispiacere a una parte tanto nella direzione opposta. È solo così che si combatte l’estremismo e la violenza di parte. Colpendo con giudizio, si capisce, senza infierire inutilmente e senza smargiassate provocatorie (come del resto le forze dell’ordine della Repubblica fanno ormai da decenni). Ma sempre con la medesima, imparziale, decisione. Se dunque esistono, come esistono, organizzazioni di stampo fascista, esse vanno inquisite e denunciate alla magistratura. Se ne ricorrono gli estremi non bisogna esitare anche a scioglierle. La stampa e la diffusione di qualsiasi testo, la propaganda di qualsiasi idea, a mio giudizio è bene che restino sempre libere (le cosiddette leggi memoriali o altre analoghe che rendono penalmente obbligatoria una determinata versione del passato costituiscono solo un boomerang idiota e illiberale). Così come è bene che resti più libera possibile sempre la libertà di manifestare. Ma non appena si passa agli emblemi e ai saluti fascisti, ai caschi, ai bastoni, ai tirapugni e magari alle pistole, allora non vi deve essere indulgenza: e per tutte queste cose più che la galera servono forse meglio multe salate. Ma con la medesima decisione si deve cercare di prosciugare la vasta area di illegalità esistente intorno all’immigrazione clandestina e agli insediamenti Rom. Un’area d’illegalità che producendo una sensazione d’insicurezza, di disagio e di allarme sociale, ha l’effetto di minare alla base la fiducia di una parte di popolazione nelle istituzioni dello Stato. E quindi di creare un vuoto di legittimazione che può essere riempito da chiunque. È ammissibile per esempio, mi chiedo, che l’autorità di polizia abbia perduto di fatto il controllo di parti del territorio in moltissimi centri urbani del Paese e sui convogli ferroviari non di grande comunicazione? Che nelle periferie si sia instaurato in molte città un clima di intimidazione e di violenza da parte di bande di spacciatori e di più o meno piccoli delinquenti che fanno ciò che vogliono? Ancora: è ammissibile che in un settore assolutamente nevralgico come quello delle case popolari gli inquilini vivano spessissimo sotto assedio perché insidiati giorno e notte da potenziali occupanti abusivi che approfittano della loro assenza per installarsi a casa loro? O che non si sappia mai di operazioni di rilievo contro le organizzazioni criminali, quasi sempre non italiane, che gestiscono in grande il commercio di carne umana che fa mostra di sé ogni notte su tutte le strade d’Italia? La verità è che da anni, in tutti questi ambiti l’azione della legge è apparsa scoordinata ed episodica, con troppi larghi margini di tolleranza. Con conseguenze politicamente gravissime: perché trattandosi di comportamenti illegali che quasi sempre incidono sulla qualità della vita esclusivamente delle classi popolari, la tolleranza nei loro confronti genera l’idea nefasta che mentre la legge e lo Stato proteggono i ceti benestanti, viceversa se ne infischiano di quelli che benestanti non sono. In Italia non esiste alcun pericolo fascista. Non c’è alcuna “marea nera” che sale. Sicuramente nelle prossime Camere non ci sarà neanche un parlamentare fascista. Ci sarà una pattuglia di reazionari autoritari, questo sì, e forse qualcuno che in cuor suo nutrirà pure simpatie fasciste, ma di certo si vergognerà perfino di dirlo. Non c’è alcun pericolo fascista, dunque, nel nostro Paese. Il problema è un altro, e proprio per questo l’azione repressiva della legge, pur necessaria in misura maggiore di quanto si sia fatto finora, è solo una parte della soluzione. Il problema è quello di un crescente vuoto socio-culturale e politico che insieme alla disoccupazione e al degrado urbano sta corrodendo e avvelenando pezzi significativi di tessuto popolare e non solo. Come molti segnali lasciano prevedere tale vuoto può essere riempito dai gas esplosivi prodotti dal malcontento frutto dell’immigrazione, e dar luogo in prospettiva alle esplosioni più pericolose. Ma di questo problema che ha il suo centro nelle periferie urbane nessun partito sembra occuparsi o preoccuparsi, la politica su tutto ciò sembra non aver nulla da dire. Dal momento che, è vero, organizzare un corteo antifascista è molto meno impegnativo e consente certamente una dose di retorica in più. Ci sarà mai giustizia in un paese di vecchi? La Gente d’Italia, 10 febbraio 2018 L’inadeguatezza reale del nostro Paese si chiama giustizia. Nel senso lato della parola, da quello etico a quello sociale, da quello del diritto dovere a quello istituzionale. È ormai consuetudine acquisita “licenziare” lo sfacelo politico culturale italico con l’alibi dell’antipolitica, con la stanchezza dei cittadini verso un sistema di res publica deludente, verso una dirigenza non più “classe”, declassata e manutengola, ma, a mio avviso, tutto questo cianciare allontana le menti annebbiate dal vero problema, l’incapacità cronica di ottenere giustizia in questo Paese. La Costituzione prevede la divisione dei poteri, ma i continui straripamenti fra potere legislativo e giudiziario sono diventati un invaso alluvionale con cui gli italiani si sono abituati a convivere, fino ad oggi, ma si incomincia ad intravederne la deriva paludosa, il pantano melmoso in cui è ridotto il nostro Paese. Già, perché la rassegnazione, la disinvolta comprensione che si fa strada nel popolo quando assiste ad una nuova deficienza dell’impianto giudiziario è segnale del distacco, del “tiriamo a campare”, della sfiducia nella nostra democrazia. È come un virus pernicioso e infido perciò difficile da debellare, è diverso dall’ingiustizia. Questa è chiara, comprensibile nella sua antipatica definizione, ma la giustizia “incompleta o deviata”, la giustizia contrabbandata o manipolata è molto pericolosa e fuorviante perché ormai caratterizza il nostro quotidiano, le nostre abitudini. Incominciamo non ottenendo giustizia già a scuola, per poi cercare di farcela da soli, magari con atteggiamenti violenti. Scopriamo come sia difficile l’equità di una valutazione scolastica senza raccomandazioni, di un esame, di un concorso e come possa essere classista o sessista la giustizia. Se poi sei costretta a spogliarti totalmente ad un concorso in magistratura - sic! - solo per l’estremizzazione malata di un normale controllo, beh...la fiducia nelle regole di questa democrazia e di questa giustizia va a farsi benedire. Già, la magistratura, il problema irrisolto di questa giovane Repubblica. Assurta all’onore degli altari con la sciagura di Mani Pulite, osannata dalle masse come lavacro taumaturgico di scandali, concussioni, peculati e degli intrecci stato-malavita, fino a ventilare un “governo dei giudici”, ci ha consegnato una serie di mediocrità, un esempio su tutte, Antonio Di Pietro, ma specialmente la terminologia del “giustizialismo”, ben resuscitata, insegnata e metabolizzata già dal ‘68 tra i banchi degli attivisti di Botteghe Oscure. La tessera di partito è entrata nei palazzi di giustizia e per salvaguardare l’indipendenza “giudicante” dei magistrati ha fatto da contraltare il “garantismo” verso il diritto degli stessi ad avere “parità ideologica” come qualsiasi altro cittadino: la confusione dei ruoli scaturita da tale assunto costituzionale è sotto gli occhi di tutti. Giudici che entrano ed escono dalle porte girevoli di magistratura e politica addirittura freschi di sentenze contro ritrovati “avversari politici”, giudici sindaci, giudici consiglieri d’amministrazione e consulenti. Magistrati che s’intrattengono in allegre riunioni conviviali a stretto contatto con imputati sottoposti al loro stesso giudizio, che ricevono o offrono “delucidazioni” su inchieste che riguardano parenti o amici di personaggi politici, ma in fondo di cosa parliamo? E giusto per cazzeggiare, qualcuno dovrebbe ricordare all’allegra brigata di Arcore che se oltre un 80% di Forza Italia è stato rivoluzionato, lo “zoccolo duro”, quello fatto da manutengoli, latifondisti di voti, “galantuomini” certificati da almeno un paio di processi, è ben presente, il solito “cerchio marcio, pardon, magico”, tanto per intenderci. Il rinnovamento è solo nei nomi di coloro che, come li definì Berlusconi, devono ricordarsi del ruolo di peones, alzare la mano, obbedire e scena muta. Ma a Roma saranno in buona compagnia. Dagli ex delle liste del collocamento di M5S, al manipolo nostalgico di Fratelli d’Italia, dagli sgarrupati rimasugli di un Pd che fu, ai renziani che sono riusciti a rottamare perfino se stessi, per finire ai leghisti, che, se potessero, butterebbero a mare una bella massa di meridionali, eppure qualcuno ha la faccia tosta di presentarsi nelle loro liste perfino al Sud. Immigrazione, i punti critici dei programmi elettorali La Stampa, 10 febbraio 2018 Migrazioni, accoglienza, integrazione: temi d’attualità nella campagna elettorale per i quali ogni partito propone una ricetta. Ecco alcune criticità nei diversi programmi. La coalizione di centrodestra dà ampio spazio all’immigrazione nel capitolo “sicurezza” e propone “l’abolizione dell’anomalia solo italiana della concessione indiscriminata della sedicente protezione umanitaria”. Si tratta della tutela accordata dalle commissioni territoriali quando il respingimento di un migrante che non ha diritto ad asilo politico o protezione sussidiaria potrebbe configurare una violazione dei diritti sanciti dall’ordinamento dei Paesi d’ingresso. Come nel caso di specifiche esigenze mediche. Ma non vale solo in Italia: secondo l’Eurostat nel 2016 la Germania ha usato lo strumento in 26.015 casi, contro i 18.530 dell’Italia. Altri Paesi l’hanno usato meno in termini assoluti (Regno Unito 1.910, Svizzera 5.575, Finlandia 1.105), ma questo tipo di tutela costituisce solo l’8% delle oltre 700mila richieste di protezione approvate nel 2016 nell’Ue. Nel centrosinistra, Partito Democratico e +Europa affrontano il tema sotto il capitolo Europa, proponendo il superamento della convenzione di Dublino, che prescrive il trattamento della domanda di asilo del migrante nel primo Paese di approdo. Come? Puntando a una maggiore solidarietà tra i Paesi membri. Tuttavia altri Stati europei spingono in direzione opposta. La proposta di sostituzione della regola con un meccanismo di ricollocazione è in ogni caso già in discussione dal 2016 al Parlamento Europeo, promossa anche dall’eurodeputata Pd Cécile Kyenge. Ritorna anche la proposta di legge sulla cittadinanza, lo ius culturae. Per il Pd nel capitolo “sicurezza e cultura”, per +Europa e Liberi e Uguali alla voce “diritti”. “Stop al business dell’immigrazione”: il Movimento 5 Stelle promette il rimpatrio degli immigrati irregolari e promuove l’assunzione di 10mila nuovi funzionari nelle commissioni territoriali, con l’obiettivo di portare i tempi di attesa a “un mese come negli altri Paesi europei”. Tuttavia, secondo il rapporto Ecre 2016, la durata media della risposta per la richiesta d’asilo in Svizzera è stata di 243,5 giorni, in Ungheria di 4-5 mesi. In Germania il tempo medio per il completamento della procedura d’asilo è di 7,1 mesi (dati Aida 2016). Turchia. La libera voce della stampa da un carcere di Erdogan di Marco Ansaldo La Repubblica, 10 febbraio 2018 Quanto è complesso - allettante, ma rischioso - fare il giornalista in un luogo cruciale come la Turchia? Lo svela un libro bellissimo, autore il corrispondente del quotidiano Die Welt. Gli articoli di Deniz Yucel, da un anno in carcere a Istanbul, sono apparsi graffianti, informati, brillanti, zeppi di notizie e retroscena. Chi li leggeva entrava in possesso di chiavi fondamentali per capire il Paese. Posto stupendo, ma dove un governo, sul quale molti occidentali avevano scommesso, li aveva “traditi”, virando verso una deriva autocratica che restringeva diritti e libertà. Ne sono testimonianza le decine di migliaia di oppositori che affollano le celle della Turchia, fra cui circa 160 reporter, la maggior parte locali. Deniz Yucel, corrispondente estero, è uno di questi. Molti inviati stranieri, dagli americani ai francesi, hanno sperimentato difficoltà e ostacoli qui. Chi segue Die Welt sa quanto il quotidiano tedesco abbia a cuore la causa del proprio giornalista. Le sue parole filtrano di tanto in tanto dalla cella ai suoi avvocati, che le diffondono, più simili a gocce ora, e non certo il fiume di reportage un tempo densi e ricchi di particolari. La sua voce, adesso, giunge anche in Italia con questo volume pubblicato da Rosenberg & Sellier, dal titolo Ogni luogo è Taksim, uscito in Germania prima del golpe fallito del 2016 contro il presidente Recep Tayyip Erdogan. Lavoro interessantissimo. Perché addentrarsi nei suoi capitoli permette anche a chi conosce bene questi luoghi di focalizzare dettagli mai colti, che l’occhio del corrispondente turco-tedesco ha saputo invece scannerizzare e la sua penna descrivere. Il quartiere di Besiktas così laicamente orgoglioso della propria squadra di calcio. Gli “infedeli”, perché repubblicani e filo-occidentali, di Smirne, città più etnicamente mescolata del Paese. I pii e laboriosi imprenditori di Kayseri, alfieri in Anatolia del gruppo al potere. Sono tutti pezzi diversi di Turchia che compongono un quadro che parte da Piazza Taksim e dalla rivolta di Gezi Park del 2013, quando il pugno di Erdogan divenne per tutti una realtà evidente. Un racconto incalzante. Capace di spiegare, nelle pagine forse più attuali, l’importanza di Twitter, YouTube e Google di fronte al coro quasi univoco dei media controllati. E dove i contributi del giornalista Murat Cinar e di Alberto Negri, grande conoscitore di questa parte di mondo, aiutano a comprendere quanto sia essenziale l’informazione e quanto siano pesanti le pressioni per impedire di tenere la barra dritta. Turchia. Mandato d’arresto per i leader curdi dell’Hdp di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 10 febbraio 2018 Un mandato d’arresto è stato emesso oggi dalla procura di Ankara nei confronti della co-leader del partito filocurdo Hdp, Serpil Kemalbay e di altri 17 membri del partito che si avvicina sempre più “mutilato” al congresso del prossimo 11 febbraio. L’accusa è di “propaganda terroristica” per aver criticato l’offensiva turca contro l’enclave curdo siriana di Afrin durante l’operazione “Ramoscello d’ulivo”. L’episodio è solo l’ultimo di una serie. Giovedì 8 febbraio, infatti, la polizia turca ha compiuto un blitz nei confronti del medesimo partito Hdp in 20 province del Paese, arrestando 43 tra membri, dirigenti e simpatizzanti dello stesso partito. Secondo i media turchi gli arresti sarebbero stati motivati da presunte attività poste in essere a sostegno di attività terroristica e dall’opposizione che gli indagati hanno mostrato nei confronti dell’operazione militare “Ramoscello d’Ulivo”. Sono membri o simpatizzanti dell’Hdp la maggior parte dei 473 arrestati per aver manifestato sui social media o durante manifestazioni la loro contrarietà all’intervento militare in Siria. I due leader del partito Hdp, Selattin Demirtas e Figen Yuksekdag, sono stati arrestati e si trovano in stato di detenzione dal 4 novembre 2016 con l’accusa di terrorismo. Con loro altri 7 parlamentari dello stesso partito. Nel maggio del 2016 il Parlamento turco, in una seduta turbolenta, aveva varato una misura che toglieva l’immunità ai parlamentari. Da allora sono stati arrestati anche alcuni esponenti del partito secolarista Chp. Il mese scorso dalla sua cella Demirtas aveva fatto sapere che non si sarebbe ricandidato. I due nuovi co-leader saranno la deputata Pervin Buldan e Sezai Temelli, già vice di uno dei due co-leader. In manette sono finiti anche i portavoce del partito verde turco. Ne hanno dato notizia in Italia i coordinatori dei Verdi e fondatori della Lista Insieme, Angelo Bonelli, Luana Zanella e Gianluca Carrabs. “Apprendiamo con grande preoccupazione che i portavoce del partito Verde turco Yeil Sol Parti, Eylem Tuncaelli e Naci Sonmez sono stati arrestati questa mattina. Non si conoscono ancora i capi di imputazione. Eylem e Naci erano Impegnati in battaglia in difesa dell’ambiente e della salute e sono molto Stimati nell’ambito delle università turche. I Verdi italiani si uniscono all’appello dei Verdi di tutta Europa nel chiederne l’immediata liberazione. Si tratta di un ennesimo colpo alla democrazia e ai diritti civili del “sultano” Erdogan che ha imbavagliato l’opposizione arrestandola” si legge in una nota.