Errori giudiziari: ventisettemila persone finite in carcere ingiustamente di Luca Grossi civonline.it, 9 dicembre 2018 Dagli anni 90 ad oggi le ingiuste detenzioni sono tante quante lo stadio olimpico di Torino pieno. Il dato allarmante è emerso nel corso dell’importante convegno organizzato dalla Camera penale di Civitavecchia Urge un confronto più serrato tra magistratura e avvocatura. Preoccupa l’eventuale abolizione della prescrizione che rischia di peggiorare la situazione Ventisettemila errori giudiziari dagli anni novanta ad oggi. Tanti quanti lo stadio Olimpico di Torino pieno. Errori che hanno portato ad ingiuste detenzioni e sui quali la Magistratura e l’Avvocatura hanno il dovere di riflettere insieme avviando una più forte comunicazione. Un confronto più frequente, perché diritto e giustizia devono andare in un’unica direzione che ha come unico obiettivo la tutela dei diritti costituzionalmente garantiti. È quanto emerso nel corso dell’importante convegno organizzato dalla Camera penale di Civitavecchia presieduta dall’avvocato Andrea Miroli (moderatore del convegno) in collaborazione con la scuola di alta formazione, Corso per i difensori d’ufficio, coordinata dagli avvocati Paolo Pirani e Remigio Sicilia, rispettivamente della Camera penale di Civitavecchia e Viterbo. L’appuntamento, svoltosi presso un’affollatissima sala meeting dell’Hotel San Giorgio di Civitavecchia, ha raccolto l’interesse sia di avvocati sia di non addetti ai lavori, gettando le basi per una nuova metodologia volta a superare i dati allarmanti sul tema dell’errore giudiziario. Non ha potuto prendere parte al convegno, Giandomenico Caiazza presidente dell’Ucpi, Unione delle Camere penali italiane, trattenuto a Roma per l’importante impegno organiz- zato proprio dall’organismo. Al suo posto sono intervenuti il past president Beniamino Migliucci e il presidente della Camera penale di Roma Cesare Placanica. Il loro è stato un intervento molto importante: oltre che un resoconto sulla manifestazione di Roma e sul tema stretto degli errori giudiziari, si è infatti dato ampio spazio a quella che è la tutela del diritto da parte degli avvocati per tutte le riforme e gli emendamenti che vogliono attuare dal Governo. Momenti di alta commozione durante l’intervento della compagna di Enzo Tortora, l’onorevole Francesca Scopelliti, presidente della Fondazione internazionale per la giustizia Enzo Tortora. La donna ha letto una lettera del libro che Tortora le aveva mandato e si è particolarmente emozionata. Il suo discorso ha ripercorso la vicenda che ha travolto il noto conduttore televisivo, interessando anche tanti giovani, avvocati e non, presenti in sala. Giovani che hanno dimostrato di conoscere la vicenda Tortora, anche se accaduta quando probabilmente neanche erano nati. I numeri allarmanti sono stati il fulcro dell’intervento dei due giornalisti, Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, di errorigiudiziari.com, primo archivio on line di errori giudiziari e ingiuste detenzioni, dal quale è stato creato anche il programma Rai “Sono innocente”. Dal dopo Tortora in poi il dato è sconcertante. Di certo il caso Tortora ha sicuramente illuminato e sensibilizzato la coscienza degli avvocati e se anche rappresenta il caso più popolare, da quella vicenda ad oggi di errori giudiziari che hanno comportato una ingiusta detenzione ce ne sono stati troppi. E la cosa veramente preoccupante ed allarmante è che un’eventuale abolizione della prescrizione allungherebbe i tempi del giudizio in eterno: pertanto una persona potrebbe anche avere non diritto di vedere il successo dell’errore giudiziario. Un palese paradosso. Il rischio evidenziato è che si sta percorrendo una strada che porta all’abolizione della prescrizione che sostanzialmente non tutela il cittadino ma rischia di renderlo indagato e imputato a vita. Si rischia cioè di avere una indagine che non termina mai. Una eventualità che cozza contro quel sistema che vorrebbe invece distruggere l’errore giudiziario e tutelare il diritto della persona. La vicenda Gulotta ha impressionato la platea. Un vero e proprio caso limite raccontato dal diretto interessato. Più che vittima di un errore giudiziario, Giuseppe Gulotta è stato vittima di una intera vicenda giudiziaria, in quanto frutto di un errore generato da una confessione indotta con una vera e propria violenza che fu fatta nei suoi confronti ed interamente documentata. Certamente il più alto ed eclatante caso di errore giudiziario, con la vittima che ha avuto giustizia dopo ben 22 anni dalla condanna all’ergastolo e quindi dalla detenzione. Gulotta ha trasmesso durante il suo racconto una grande forza. Sia lui che la moglie, presente in sala, hanno vissuto un dramma lunghissimo, la donna dall’esterno e lui dall’interno: un errore giudiziario che ha condizionato la vita di entrambi. La sintesi generale sul tema è emersa nell’intervento del procuratore Delahye. L’avvocato Enrico Delahaye, che fino a dicembre 2016 era procuratore generale di Corte di Cassazione, ha parlato della sua visione di ex procuratore, mettendo in luce e in risalto aneddoti di quando era magistrato di sorveglianza e procuratore generale, anche nell’ottica di quello che è un sistema di giustizia che dovrebbe avere un confronto tra tutti gli operatori: magistrati e avvocati, perché il diritto non è della magistratura o dell’avvocatura, ma diritto e giustizia dovrebbero appunto andare in un’unica comune direzione che è quella di tutelare il diritto e applicare la norma, ma sempre a tutela di diritti costituzionalmente garantiti. E la categoria degli avvocati deve essere il baluardo della tutela della difesa dei diritti costituzionalmente garantiti. La conclusione del procuratore ha dato un segnale forte nel dire che sicuramente il dialogo e il confronto sono l’unico modo per poter superare l’errore, fermo restando che là dove il confronto non dovesse esserci è chiaro che necessariamente bisogna fare un’operazione di assoluta coscienza e di difesa di questi diritti. La sfida dei nuovi diritti di Maurizio Molinari La Stampa, 9 dicembre 2018 I 70 anni della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo sono un punto di arrivo e di partenza: di arrivo per riflettere quanto la protezione dei singoli ha segnato la crescita delle democrazie dopo gli orrori della Seconda Guerra Mondiale e di partenza per comprendere quanto sia oggi necessario rilanciare quella sfida per proteggere nuove tipologie di diritti. Come scrive il giurista di Harvard Alan Dershowitz nel suo “Rights from Wrongs”, nella storia dell’umanità “i grandi diritti si originano dai grandi errori” perché ne costituiscono la reazione per evitare che si ripetano. Proprio come avvenne il 10 dicembre de11948 con la Dichiarazione Universale creando una nuova tipologia di protezione degli esseri umani dai “crimini contro l’umanità” commessi dai totalitarismi con modalità di orrore senza precedenti. L’emanazione di quel testo non è stata di per sé sufficiente a scongiurare stragi ed eccidi ma ha creato uno standard più alto e poderoso di rispetto dell’uomo con cui tutti devono fare i conti. Ci troviamo ora davanti alla necessità di creare simili standard per i nuovi diritti al fine di estendere la protezione degli individui a situazioni che non erano neanche ipotizzabili nel secolo scorso. Un’esigenza divenuta impellente soprattutto in due ambiti: le diseguaglianze economiche e la realtà digitale. Sul fronte delle diseguaglianze la necessità di nuovi diritti investe la vita economica perché le protezioni dello Stato sociale frutto della reazione alla rivoluzione industriale non bastano più davanti alle profonde trasformazioni che stiamo attraversando. Come alla fine dell’Ottocento lo sviluppo delle fabbriche e l’avvento dell’elettricità portarono alla necessità di proteggere i lavoratori delle industrie, ponendo le premesse per un Welfare State finalizzato a tutelare le famiglie - con tipologie diverse fra Stato e Stato - così ora la globalizzazione e le nuove tecnologie impongono di formulare nuove protezioni sociali. Si tratta di riqualificare chi perde il posto di lavoro a causa dell’avvento dell’hi-tech, di rispondere al disagio chi non ha redditi a sufficienza pur non essendo povero, di migliorare l’istruzione dei singoli per consentirgli di fronteggiare la competizione con i robot, di garantire la vita dei cittadini ben oltre la terza età perché la vita durerà presto in media cento anni imponendo forme di assistenza assai più lunghe e sofisticate. Si tratta, in sintesi, di ridefinire i diritti economici e sociali degli individui per adattarli alle esigenze del XXI secolo. Una situazione simile si registra sul fronte della realtà digitale ovvero il trasferimento delle attività umane in uno spazio che nel secolo scorso semplicemente non esisteva. L’avvento di Internet, delle comunicazioni online, della realtà virtuale e dell’intelligenza artificiale ha determinato il trasferimento sul web della maggioranza delle attività della popolazione del Pianeta, ponendo l’urgenza di estendere a tale ambito le protezioni dei diritti che garantiscono gli individui nella vita quotidiana. È una sfida epocale che parte dalla tutela della privacy, dell’identità personale e della proprietà intellettuale per articolarsi in campi inesplorati come le transazioni digitali di beni e servizi senza passare per leggi, confini nazionali e Trattati internazionali. Si tratta di elaborare, declinare e tutelare tutti i protagonisti di tali transazioni. Tanto i nuovi diritti economici-sociali che digitali sono impellenti perché è la loro assenza, non solo giuridica ma anche teorica, che spinge un crescente numero di individui nelle democrazie avanzate a forme di protesta collettiva ed aggressività personale che mettono a rischio le regole basilari della convivenza. Da qui l’urgenza, non solo per accademici e legislatori ma per ognuno di noi, di dedicare più tempo allo studio delle trasformazioni in atto per contribuire ad elaborare le risposte più efficienti al fine di aggiornare il corpo dei diritti degli individui. Guerra di sicurezza di Fabrizio Gatti L’Espresso, 9 dicembre 2018 Tutto quello che Matteo Salvini non vi dice: scende in piazza la strategia della paura. Il leader della Lega non racconta che ha espulso meno irregolari del Pd. Che ha bloccato il ritorno volontario degli immigrati che vogliono andarsene. E che grazie al suo decreto sicurezza avremo 19.000 senzatetto in più. Matteo Salvini porta in piazza la strategia della paura: la paura che scatena rabbia contro gli immigrati, i diversi e chiunque non la pensi come il governo. “L’Italia rialza la testa” grida lo slogan sulla sua pagina Facebook, per chiamare i quasi tre milioni e mezzo di seguaci alla manifestazione di sabato. Sì, l’Italia leghista dovrà alzare la testa nel guardare il suo leader salito da sei mesi al potere con l’incarico di vicepremier e ministro dell’Interno. Ma intanto si è tappata le orecchie, ha chiuso gli occhi e serrato la bocca: come nell’immagine della famosa scimmietta. C’è infatti una storia che Salvini non vuole raccontare e che il suo popolo si guarda bene dal chiedergli. E non ci riferiamo soltanto ai 49 milioni che la Lega ha rubato allo Stato italiano e che grazie a un accordo scandaloso restituirà in ottant’anni. C’è molto altro di cui il ministro Salvini non vuole parlare. Non ci dice che la sua promessa elettorale di rimpatriare cinquecentomila irregolari è pura fantasia. E che nei primi tre mesi del suo mandato, da giugno a settembre 2018, ha fatto perfino peggio del suo predecessore del Pd: 1.296 persone rimpatriate da Salvini contro i 1.506 rimpatri forzati eseguiti, secondo i dati comunicati dal Viminale, nello stesso periodo del 2017 da Marco Minniti. Non ci dice che il suo decreto sicurezza nel giro di pochi mesi provocherà almeno diciannovemila senzatetto, disseminando insicurezza nelle città italiane: insicurezza soprattutto per chi finirà a dormire sui marciapiedi, comprese famiglie con mamme e bambini. A tanto ammontano, secondo uno studio della Corte dei Conti pubblicato a marzo 2018, i permessi umanitari che scadranno a breve. Permessi che su proposta di Matteo Salvini la maggioranza gialloverde in Parlamento ha cancellato. Non ci dice che i rimpatri forzati costano oltre 7.000 euro a persona: perché, oltre alle spese di viaggio, richiedono la scorta di due o tre agenti di polizia per ciascun irregolare, che una volta arrivato in patria si ritrova nelle stesse condizioni che l’avevano spinto a emigrare. Non ci dice che i ritorni volontari assistiti costano invece 4.500 euro a persona perché non hanno bisogno di scorte di polizia. E che la stessa cifra comprende 2.000 euro di investimento perché l’interessato, una volta arrivato in patria, possa avviare attività commerciali o artigianali per sé e pagare la scuola ai figli. Eliminando o alleviando così le condizioni che altrimenti spingerebbero chiunque a emigrare di nuovo. Non ci dice che però i ritorni volontari assistiti, che costano quasi la metà di quelli forzati che piacciono alla Lega, sono bloccati da sei mesi: perché da quando è arrivato Matteo Salvini al ministero dell’Interno soltanto a fine ottobre è stato pubblicato il bando per il ritorno volontario assistito dei prossimi tre anni. Così 684 persone che hanno fatto domanda, delle quali 337 avevano già ottenuto dalle questure l’autorizzazione a partire, rimarranno in Italia con i documenti in scadenza o scaduti. Non ci dice nemmeno che il nuovo bando per il ritorno volontario assistito, pubblicato a fine ottobre dal suo ministero per il periodo 2019-2021 e finanziato con soldi dell’Unione Europea, stabilisce un massimo di 2.000 beneficiari in tre anni. Appena 666 rimpatri all’anno, soltanto il 2,2 per cento di quanto ha fatto la Germania nel 2017: cioè il ritorno volontario finanziato dall’Ue di 29.522 immigrati. Non ci dice che da ministro non è mai stato in Niger, Mali, Senegal, Gambia, Ghana, Pakistan, Bangladesh, Nigeria, Algeria o Costa d’Avorio. E che senza buone relazioni e accordi bilaterali con i Paesi d’origine dell’emigrazione, Matteo Salvini è soltanto un arruffapopolo. Corruzione, disastro italiano: ci costa 230 miliardi l’anno di Federica Bianchi L’Espresso, 9 dicembre 2018 I risultati di uno studio europeo: il nostro Paese è il peggiore tra quelli occidentali. Con quello che viene sottratto alla comunità si potrebbero risolvere le principali emergenze sociali. È l’Italia il Paese con il più alto livello di corruzione in Europa. Almeno in termini assoluti e non in percentuale al Pil. Ogni anno perdiamo infatti 236,8 miliardi di ricchezza, circa il 13 per cento del prodotto interno lordo, pari a 3.903 euro per abitante. La cifra della corruzione, già impressionante di per sé, è due volte più alta di quella della Francia, pari a 120 miliardi di euro e al 6 per cento del Pil e di quella della Germania, dove la corruzione costa 104 miliardi di euro (il 4 per cento del Pil). Questi sono i numeri contenuti in uno studio pubblicato dal gruppo dei Verdi europei basato sulle analisi condotte dalla ong americana RAND per il parlamento europeo, relatrice la deputata 5 Stelle Laura Ferrara. Complessivamente l’Unione europea perde per corruzione 904 miliardi di euro di prodotto interno lordo se si includono nel calcolo anche gli effetti indiretti, come le mancate entrate fiscali e la riduzione degli investimenti esteri. Tanto per mettere le cifre in contesto: porre fine alla fame del mondo costerebbe 229 miliardi; fornire educazione primaria a tutti i bambini dei 46 Paesi più poveri del globo 22 miliardi; 4 miliardi per eliminare la malaria; 129 miliardi per offrire acqua pulita e fognature a tutti gli esseri umani. In Europa le persone non credono che gli sforzi del governo per combattere la corruzione siano efficaci e le uniche istituzioni di cui hanno fiducia a larga maggioranza sono le forze di polizia. La fiducia nelle istituzioni europee poi è bassissima: si ferma al 4 per cento. All’interno della Ue, il Paese più corrotto in termini di perdita percentuale del prodotto interno lordo è la Romania, con il 15,6 per cento di perdita del Pil. Non è un caso. Il suo governo socialista, che sta per presiedere il prossimo semestre dell’Unione, è da tempo nel mirino della Commissione e del parlamento europeo per le misure legislative prese con lo scopo di coprire la corruzione. E la mancanza di lotta contro la corruzione è stata al centro di uno dei rapporti più duri inviati recentemente da Bruxelles a Bucarest. Più in generale, la corruzione sembra essere un vero problema per l’Europa dell’Est, oltre che per l’Italia: Bulgaria, Lettonia e Grecia perdono circa il 14 per cento di Pil ogni anno, la Croazia il 13,5 per cento, la Slovacchia il 13, la Repubblica Ceca il 12. Al contrario, è l’Olanda - una notizia che non dovrebbe essere una sorpresa per chi segue le vicende europee - il Paese più virtuoso. Qui la corruzione vale solo lo 0,76 per cento del Pil (circa 4,4 miliardi di euro). Sul podio sono anche Danimarca e la Finlandia, 4 miliardi entrambe, rispettivamente il 2 e il 2,5 per cento del Pil. E non se la cava male nemmeno il Regno Unito dove la corruzione ruba al Pil “solo” il 2,3 per cento, ovvero circa 41 miliardi di euro. Con riferimento al nostro Paese, lo studio mette in evidenza come le risorse così sprecate potrebbero da sole risolvere le maggiori emergenze sociali. La perdita di ricchezza dovuta alla corruzione è infatti pari a oltre una volta e mezza il budget nazionale per la sanità pubblica; a 16 volte gli stanziamenti per combattere la disoccupazione; a 12 volte i fondi per le forze di polizia e addirittura è di 337 volte più grande della spesa per le abitazioni sociali. Per non parlare degli investimenti sull’istruzione, nota dolente, che con quei soldi potrebbero essere più che triplicati. Infine, se quei 237 miliardi fossero distribuiti agli italiani basterebbero per dare a oltre il 18 per cento della popolazione 21mila euro l’anno, la media nazionale. In oltre la metà degli stati europei (Italia, Bulgaria, repubblica ceca, Croazia, Cipro, Grecia, Ungheria, Lituania Lettonia, Romania, Portogallo, Slovacchia, Slovenia e Spagna) l’80 per cento degli abitanti ritiene che la corruzione sia un fenomeno diffuso nel loro Paese al punto che la maggioranza di loro non la denuncia. Un’abitudine al peggio che viene ribadita anche in un sondaggio condotto da Eurostat nel 2017, secondo cui il 55 per cento degli intervistati riteneva che l’alto livello di corruzione fosse peggiorato negli tre anni precedenti e il 30 percento che fosse rimasto allo stesso livello. Solo il 4 percento pensava che fosse diminuito. E difatti l’89 per cento degli italiani pensa che la corruzione sia estremamente diffusa nel Bel Paese, con l’84 per cento convinto addirittura che faccia parte della cultura d’impresa del Paese. Ma c’è un segno di speranza. Secondo il 79 per cento la corruzione non è un fenomeno accettabile e dovrebbe essere combattuta aggressivamente. Se solo lo Stato lo volesse. Calabria: Ruffa (Radicali) “la Regione istituisca il Garante dei detenuti” lameziaoggi.it, 9 dicembre 2018 Catanzaro - Rocco Ruffa, militante del Partito Radicale e già candidato alle scorse elezioni politiche con “+Europa con Emma Bonino” rivolge sulla questione del Garante regionale dei diritti delle persone private della libertà, un appello al Consiglio regionale della Calabria e, in particolare, alla Presidenza dell’assemblea. “Nel corso del sit-in dello scorso Luglio presso la sede del Consiglio, a Reggio Calabria - scrive - in occasione dell’incontro tra la delegazione dell’associazione radicale nonviolenta Abolire la miseria - 19 maggio costituita dal segretario Giuseppe Candido e dal politologo Antonio Stango e il Presidente della I Commissione On. Franco Sergio, quest’ultimo aveva garantito, anche a nome del Presidente Nicola Irto che era assente per ragioni istituzionali, che “la Calabria avrebbe avuto entro questo autunno due figure di grande importanza: il garante dei diritti delle persone private della libertà e il garante della salute”. L’autunno è quasi interamente trascorso - fa rilevare - e restano pochi giorni affinché la Presidenza del Consiglio mantenga i suoi impegni istituzionali e la parola data. Per questo - aggiunge Ruffa nel suo appello - prego il Presidente del Consiglio regionale e i consiglieri tutti, di voler inserire subito all’ordine del giorno della prossima seduta l’elezione del c.d. Garante dei detenuti e andare avanti finché la Calabria non si sia dotata di questa importante figura”. Nel suo appello Ruffa, che in passato ha fatto un prolungato digiuno perché la Calabria si dotasse della legge, ricorda che “per attuare l’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali (Proibizione della tortura) il Consiglio regionale della Calabria ha approvato la Legge 29 gennaio 2018 n. 1 che istituisce il Garante regionale che si occupa dei diritti umani di coloro che per varie ragioni vengono private della libertà. Le carceri -e non solo quelle- sono spesso luoghi dove non vengono garantiti i diritti fondamentali (salute, istruzione, lavoro) senza i quali non c’è vera rieducazione”. Una figura come il garante, che lodevolmente il Suo Consiglio ha istituito, rappresenta una speranza di umanità anche per coloro che hanno sbagliato e stanno scontando la loro pena. L’Italia è ancora sotto infrazione per violazione dei Diritti Umani e la mancata approvazione della riforma dell’Ordinamento Penitenziario ne è un esplicito esempio”. Ruffa conclude ricordando che “il 23 ottobre scorso è stato finalmente resa pubblica la rosa dei candidati alla carica di garante e siamo fermamente convinti che al momento del voto i membri del consiglio sapranno scegliere la persona più adatta, ma è fondamentale che questa votazione avvenga nel più breve tempo possibile”. Salerno: il Consigliere regionale Enzo Maraio in visita alla Casa circondariale quasimezzogiorno.org, 9 dicembre 2018 Una visita informale è quella che domani, domenica mattina (9 dicembre 2018), il consigliere regionale socialista Enzo Maraio terrà alla casa circondariale “Antonio Caputo” di Salerno, nell’ambito delle attività istituzionali programmate anche in vista della Giornata Mondiale dei Diritti Umani che si celebra ogni anno il 10 dicembre. Sono quanto mai attuali i temi legati al sovraffollamento delle carceri e di conseguenza al miglioramento delle condizioni generali come le cure adeguate ai pazienti detenuti presso gli istituti d’igiene mentale nonché il rispetto della dignità delle persone che vivono in regime di detenzione. “È di questi giorni la pubblicazione dei dati della ricerca “Space” del Consiglio d’Europa - commenta Maraio - Secondo questo documento tra il 2005 e il 2015 in Italia è diminuito il numero di detenuti, grazie in particolare alla legge n. 67 del 28 aprile 2014, che ha introdotto la messa alla prova. Oggi, i numeri sono cambiati e si sfonda il tetto dei 60.000 detenuti”. Con il consigliere Maraio ci saranno anche Enrico Maria Pedrelli, segretario nazionale della Federazione Giovani Socialisti; Vittorio Cicalese, responsabile nazionale Diritti e Politiche Sociali FGS, Marco De Luca, presidente dell’Associazione AvantGarde Sport, e Massimiliano Natella, consigliere socialista del Comune di Salerno. Cosenza: fiaccolata per 70° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani quicosenza.it, 9 dicembre 2018 Manifestazione per i diritti umani, lunedì 10 dicembre, in 80 città italiane. Anche Cosenza in occasione del 70° anniversario, con una fiaccolata in centro città partire dalle 18:00 da piazza XI Settembre ricorderà i contenuti della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Valori che gli organizzatori intendono ribadire in quanto “mai come in questo momento sono necessari per riuscire a costruire forme di convivenza più umane e contrastare le nuove forme di razzismo, criminalizzazione della solidarietà e odio per il diverso che vediamo anche nel nostro paese. Contemporaneamente migliaia di detenuti, familiari e attivisti parteciperanno alla IV giornata nazionale di digiuno per l’abolizione dell’ergastolo. La cittadinanza è invitata a scendere in piazza per accendere una candela contro le violazioni dei diritti umani. “Il 10 dicembre di 70 anni fa veniva approvata la Dichiarazione universale dei diritti umani, che indica nel rispetto degli uguali diritti di ogni essere umano il fondamento di un mondo libero, giusto e in pace. La Dichiarazione stabilisce eguaglianza e dignità di ogni essere umano e pone in capo a ogni stato il dovere centrale di garantire a tutti di godere dei propri inalienabili diritti e libertà. A oggi, - ricordano gli organizzatori invitando a partecipare tutte le persone le associazioni, le istituzioni e le scuole che condividono questo appello - non uno degli stati firmatari ha riconosciuto ai cittadini tutti i diritti che si era impegnato dovere a promuovere. Nel nostro paese, la negazione nella pratica di questi diritti sta facilitando la diffusione di nuove forme di razzismo, la solidarietà è considerata reato, l’odio per il diverso prevale sullo spirito di fratellanza, l’aiuto viene tacciato di buonismo. Oggi più che mai è urgente recuperare quei principi di umanità e di convivenza civile che sono alla base della Dichiarazione e che la retorica della paura sta cercando di smantellare. Il 10 dicembre scendiamo in piazza per dire al mondo che stiamo dalla parte dei diritti e delle persone”. Diritti a testa alta, la fiaccolata per i diritti umani organizzata anche a Cosenza intende intervenire con una voce forte in una fase storica in cui l’ossessione per la sicurezza ha sostituito la solidarietà con la criminalizzazione di chi è ai margini della società. Un’agenda politica in chiave repressiva in cui ai servizi sociali viene sostituita la carcerazione di massa di soggetti simbolo delle disuguaglianze create dal capitalismo. L’emarginazione sociale e l’alta ricattabilità economica sono secondo quanto dichiarato dall’Osservatorio sulla Repressione “i tratti distintivi della popolazione carceraria. I numeri e le condizioni di carcerazione raccontano di una emergenza invisibile e deliberatamente ignorata e alimentata. Cercare di dare valore agli articoli 3 e 27 della Costituzione significa ricercare i principi di giustizia che pongono ogni persona in una condizione di parità economica, culturale e sociale. Riteniamo che questa ricerca debba diventare pratica comune di tutta la società per rimuovere gli ostacoli che creano sperequazione, disagio e devianza. Iniziare a rifiutare una pena fine a sé stessa qual è la privazione della libertà, sarebbe il primo passo verso una società che non chiede il disciplinamento e l’annullamento dei corpi, bensì la cura e il libero sviluppo della personalità di ogni singolo individuo quale parte fondamentale della comunità umana. L’obiettivo è quello di mettere in discussione non solo il “fine pena mai”, ma l’intero sistema penitenziario in cui il carcere continua ad essere l’unica risposta possibile ai fenomeni devianti nella nostra società”. La mobilitazione è stata indetta e sostenuta da: Liberarsi, Fuori dall’ombra, Yairaiha Onlus, Ristretti Orizzonti, Comunità Papa Giovanni XXIII, Osservatorio sulla Repressione, La Terra di Piero, Otra Vez Cooperativa sociale, FIAB, Comune di Parenti. Hoplà Cooperativa Sociale Onlus. Arci Cosenza. Arci Servizio Civile Cosenza, Mediaterronia Tv, Eos Arcigay Cosenza, Comitato Fierainmensa, Casa dei diritti, Radio Ciroma, ActionAid Italia, Amnesty International Italia, Caritas, Emergency, Oxfam, Potere al Popolo, Pap Versilia, Officina di Arte Fotografica e Contemporanea Dada Boom, Cantiere Sociale Versilese, Csoa S.A.R.S., Laboratorio Contro la Repressione Sacko, Repubblica Viareggina. Gela (Sr): il carcere a vita del “fine pena mai”, avvocati e radicali a confronto in città quotidianodigela.it, 9 dicembre 2018 Il “fine pena mai” raccontato dagli ostativi, dai detenuti destinati a morire in carcere. Gli avvocati della Camera penale “Eschilo” e gli esponenti di “Nessuno Tocchi Caino” tornano a discutere di come superare il carcere a vita, rendendolo veramente rieducativo. Una tavola rotonda è prevista per venerdì 14 dicembre (dalle ore 16 all’ex chiesa di San Giovanni). Al tavolo, gli avvocati Giacomo Ventura (presidente della Camera penale “Eschilo”), Joseph Donegani, Gioacchino Marletta e Maurizio Scicolone e gli esponenti radicali di “Nessuno Tocchi Caino” Rita Bernardini, Sergio D’Elia e Elisabetta Zamparutti. Ai lavori partecipa anche il magistrato Emanuele Nicosia del tribunale di sorveglianza di Caltanissetta. L’esperienza del carcere sarà raccontata dall’ex presidente della Regione Salvatore Cuffaro, presente al dibattito. Nel corso dell’incontro sarà anche proiettato il documentario “Spes contra spem” di Ambrogio Crespi che esamina proprio le vite di alcuni ostativi, condannati al carcere a vita. È previsto il saluto del commissario Rosario Arena. Milano: la cultura di casa a San Vittore di Paolo Foschini Corriere della Sera, 9 dicembre 2018 C’era il ministro della cultura Alberto Bonisoli ed è stata la prima volta di un ministro a San Vittore per la prima della Scala, anche se solo nel finale. E mai come quest’anno, comunque, tanti magistrati e imprenditori, e politici, e personalità della città e della cultura, e perfino la presentazione di una intera mostra offerta dalla Fondazione Maimeri (“Gianni Maimeri: la musica dipinta”) che a San Vittore resterà per settimane. Al punto che il direttore Giacinto Siciliano, intervistato dalla tv, non è riuscito a trattenere quella che ha subito precisato essere una (fantastica, diciamolo) battuta: “E bello vedere tutta questa gente in galera”. In effetti, senza ironia, è stato bello: l’iniziativa portata avanti da molti anni grazie all’associazione Quartieri Tranquilli di Lina Sotis è una diventata un appuntamento che Milano ha ormai eletto a propria tradizione. Bello in particolare è stato questa volta il momento in cui, morto il povero Attila, la diretta è finita e mentre tanti iniziavano ad andarsene (i liberi, i soli che potevano) a San Vittore è arrivata Marta Cartabia, vicepresidente della Corte Costituzionale. Venuta non per l’opera, ma per un unico motivo: portare il suo saluto e il suo non metaforico abbraccio agli altri. Quelli che restavano. Come Lucio, Tiziano, e gli altri detenuti che avevano già avuto la avuto la fortuna di incontrarla nella sua visita di due mesi fa. Ricordava perfino i loro nomi. Sì, è Stato bello. Milano: anche il carcere è un porto di Elisabetta Rosaspina Corriere della Sera, 9 dicembre 2018 Nel reparto “La Nave” i detenuti-giornalisti lavorano al mensile “L’Oblò”, perché da qui si può guardare fuori e qualche volta anche salpare. San Vittore approda alla Triennale di Milano (con una mostra) e apre le porte alla città. Ore 9, riunione di redazione al III raggio. Come al “Corriere della Sera”, alla stessa ora, nella storica sala della cronaca dei tempi di Dino Buzzati, in via Solferino. Ma la “Sala Albertini” del carcere di San Vittore a Milano, in via Filangieri, è un po’ più pittoresca. Alle pareti, invece delle prime pagine ingiallite su memorabili eventi come l’attentato al Papa, il suicidio di Marilyn, lo sbarco sulla Luna o il crollo del Muro di Berlino, ci sono alcune massime sempreverdi: “Stai in campana, la vita è tutta un blitz” o “Dentro col corpo ma fuori di testa”. E anche: il profilo della Dama del Pollaiolo, la riproduzione di un’opera di Paola Piavi con un asino in precario equilibrio su una barca, un grande cuore rosso, un maestoso veliero, il mare all’orizzonte, attraverso il trompe-l’oeil di un oblò. Infatti, “L’Oblò,” è il nome del mensile confezionato nel reparto di trattamento avanzato “La Nave”, gestito dalla Asst Santi Paolo e Carlo, dove il giornalismo è una delle attività terapeutiche finalizzate alla cura e al recupero dei detenuti, “i ristretti” nel gergo carcerario, con problemi di dipendenze. Di ristretto, qui dentro, c’è lo spazio; ma non la fantasia, la spontaneità e il senso dell’umorismo con i quali i redattori riempiono le otto pagine del periodico, scegliendo un tema diverso a ogni numero. Il prossimo sarà dedicato ai viaggi. Argomento non facile se, per vagabondare, hai a disposizione per mesi o per anni un corridoio. “Ma questo non è un giornale in cui ci si piange addosso”, avverte Graziella Bertelli, responsabile del progetto. “Né dove si scimmiotta la stampa tradizionale”, aggiunge Fabrizio Ravelli, navigato giornalista professionista, prestato come Renato Pezzini (il direttore) e Paolo Foschini (del “Corriere”), alla redazione de “L’Oblò”. Quindi niente rubriche, niente politica, niente spettacoli, niente editoriali. Per scrivere, s’intinge la penna direttamente nelle emozioni. Daniele, Orion, Ferdinando e gli altri articolisti leggono ad alta voce i loro pezzi e quelli preparati da altri reclusi, assenti giustificati perché a colloquio con parenti o avvocati. Si alza il sipario su ricordi, avventure, misfatti, fughe e latitanze. Sono viaggi anche quelli, no? Quelli “senza testa”, per esempio: da Milano a Capo d’Orlando (Messina), in treno, senza biglietto, dribblando i controlli soltanto “per il gusto di trasgredire”. O quelli che “non avresti mai voluto fare”: “Da Tirana, negli anni Duemila, perché ero ricercato - ammette Orion. Sono partito per un Paese che non conoscevo, l’Italia, con un visto greco. Ma arrivato a Milano mi innamorai. Fu un amore tradito, perché sono stato arrestato quasi subito e ho visto tante città, tutte dal furgoncino delle traduzioni”. C’è il lieto fine: “In Italia ho conosciuto la donna che è diventata mia moglie e mi ha dato due figli”. Sono là fuori, ma ci sono. Il racconto sfuma dalla confessione alla nostalgia; e, ogni tanto, mutua lo stile dei verbali di polizia: “Non scrivere che ti sei recato - Ravelli corregge un redattore; parlando, dici forse: mi sono recato?”. Sì, conferma l’autore, restio come molti scrittori a ritoccare la sua prosa. La conversazione si è già spostata su Zanzibar, meta di una vacanza indimenticata: “La terra rossa e, al risveglio, una lingua di sabbia bianca con l’acqua cristallina, le piantagioni di spezie...”, la descrizione celebra il paradiso perduto. Interrotta da una dissacrante domanda dal fondo: “Spezie, e basta?”. Risate. La riunione è accompagnata alle 12 e un quarto dal canto del muezzin peri reclusi musulmani e quasi un prologo alla storia di Awat, salpato quattro anni fa da Alessandria d’Egitto per l’Europa: “Avevo 14 anni, non ho detto a nessuno che partivo, nemmeno a mio padre. Ho trascorso gli ultimi giorni al mare con i migliori amici di sempre”. Sente ancora “gli scampoli dei profumi e di tutto quello che rende eccezionale il mio Paese. Darei qualsiasi cosa per poter essere lì adesso”. Applausi solidali. Luciano, “il nostro teorico dell’amore libero”, come lo presenta Foschini, ha scelto un approccio più filosofico: “Ho scritto sull’attesa di un viaggio. Da quando sei in arresto è come stare su una zattera in alto mare. Sai che prima o poi una riva dovrà comparire. Non riesci a dormire. E poi ci sono le tempeste e gli squali, almeno due, che ti girano attorno: il pm e il giudice. Meno male che non sempre vieni sbranato!”. Quindi l’attesa del colloquio: “Poter baciare tua moglie senza che nessuno ti guardi è un sogno che non sai quando si avvererà”. Infine l’attesa del processo: “Quando il mare si placa”. Si discute sull’immagine della zattera come metafora e stratagemma narrativo. In omaggio a “l’autoironia dei galeotti”, che riscuote l’approvazione del direttore Pezzini, “L’Oblò” ospita senza censure resoconti di truffe che sarebbero piaciute a Totò (“si compra un biglietto europeo per Lugano e, dopo aver cancellato l’inchiostro con il biospray sciogli macchia, si modifica la destinazione: Tarifa, Spagna”). E di una scorribanda a Lloret de Mar, tutta sesso, droga e rock’n’roll, alla fine degli anni 80, con in tasca soldi appena sufficienti per un panino al giorno: “Ci siamo divertiti come pazzi, ma è facile passare dalla festa alla tragedia”, è d’obbligo la morale. Per i marinai de “La Nave” è ora di pranzo: Lucio Formicola, napoletano, oggi cucinerà anche per il nuovo arrivato, un ragazzo dall’aria sperduta, seduto su uno sgabello nella sua cella. Lucio è stato chef nelle cucine di grandi alberghi del nord, ma il suo cuore è rimasto a Posillipo: “Per la notte di Natale avrò finito il mio quadro” annuncia, mostrando la baia di Napoli che sta affrescando su una parete del suo attuale domicilio. La riunione è finita, il giornale è impostato. Dai fogli di bloc notes, i testi saranno digitalizzati da Nicolò e inviati alla tipografia. È un numero speciale perché, oltre che alle librerie Feltrinelli e online (sul sito: oblodelanave.blogspot.com), sarà distribuito in Triennale, a Milano, durante la mostra ti Porto in prigione, dal 14 dicembre alzo gennaio. Curata dall’associazione Amici della Nave, la rassegna include il reportage fotografico di Nanni Fontana, In Transito. Un Porto a San Vittore, gli incontri di Daria Riguardi con ex detenuti, ma anche la possibilità per i visitatori di entrare alla casa circondariale di via Filangieri, per vedere i disegni e i dipinti della collezione della Fondazione Gianni Maimeri, esposti alla Rotonda centrale e nel I raggio. A “L’Oblò” si lavora già al prossimo numero. Tema: “In questa notte splendida”, di Natale o dell’ultimo colpo di pennello al Vesuvio. O diversamente speciale. Firenze: “Destini incrociati”, quinta rassegna nazionale di teatro in carcere agitateatro.it, 9 dicembre 2018 Dal 13 al 15 dicembre si terrà a Firenze e Lastra a Signa la Quinta edizione della Rassegna Nazionale di Teatro in Carcere “Destini incrociati”. La Rassegna si inquadra nell’ambito del Progetto Nazionale di Teatro in Carcere “Destini incrociati”, triennio 2018-2020 con il contributo del Ministero dei Beni e Attività Culturali, Direzione Generale Spettacolo. Il progetto è promosso in Rete da 22 organismi aderenti al Coordinamento Nazionale di Teatro in Carcere (organismo che conta oltre 50 aderenti in 15 Regioni italiane), avendo come soggetto capofila l’Associazione Teatro Aenigma. “Destini incrociati” si svolge in collaborazione con il Ministero della Giustizia, Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e il Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità, (in continuità con le finalità del Protocollo d’Intesa per la Promozione del Teatro in Carcere sottoscritto con il Dap e L’Università RomaTre in data 24 marzo 2016 e con l’Appendice operativa al Protocollo d’Intesa sottoscritta con il Dap, il Dgmc e l’Università RomaTre in data 17 novembre 2017). Anche per la quinta edizione della rassegna, così come accaduto nelle precedenti (Firenze 2012, Pesaro 2015, Genova 2016, Roma 2017), agli spettacoli, frutto di laboratori produttivi realizzati con detenuti, si alterneranno conferenze, mostre, dimostrazioni di lavoro. Verrà in questo modo restituito un panorama ampio delle nuove esperienze drammaturgiche sperimentate da registi e autori professionisti che da anni lavorano sul campo con detenute e detenuti, spesso direttamente coinvolti anche nel processo di scrittura e allestimento. Infatti, la Rassegna nella tre giorni, ospiterà spettacoli, conferenze, proiezioni, video laboratori ed una sezione particolare dedicata al Teatro attuato a favore del settore penale minorile. Saranno ospitati 5 o 6 allestimenti frutto di laboratori produttivi realizzati all’interno di altrettanti istituti italiani. Sarà inoltre allestita una sezione interamente dedicata alla proiezione di video, selezionati e scelti dalla direzione artistica dell’intera Rassegna composta da Ivana Conte, Vito Minoia, Valeria Ottolenghi, Gianfranco Pedullà. L’audiovisivo è uno strumento indispensabile per documentare le esperienze di teatro in carcere, in grado di restituire la ricchezza, l’articolazione e la diffusione ormai capillare di questo importante settore del teatro italiano, che ha evidenti ricadute sulla funzione di riabilitazione che il carcere deve istituzionalmente sviluppare. Saranno organizzati laboratori di accompagnamento alla visione degli spettacoli destinati ai detenuti e agli spettatori della Rassegna, curati da Agita (associazione nazionale e agenzia formativa) e quelli di critica teatrale, in collaborazione con l’Anct (Associazione Nazionale dei Critici di Teatro) Infine la rassegna ospiterà sezioni di studio, convegni e conferenze. Roma: affluenza record per la quarta giornata di “Più libri più liberi” plpl.it, 9 dicembre 2018 Tra gli ospiti, l’attivista turca Pinar Selek: “Per essere felici bisogna resistere”. La quarta giornata della diciassettesima edizione della Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria Più libri più liberi, l’appuntamento culturale più importante della Capitale dedicato esclusivamente all’editoria indipendente, promossa ed organizzata dall’Associazione Italiana Editori (Aie), nella sede del Roma Convention Center La Nuvola, il centro congressuale progettato da Massimiliano e Doriana Fuksas e gestito da Roma Convention Group. Grandissima affluenza di pubblico - con lunghe e ordinate file agli ingressi sin dall’apertura della Nuvola - per questo sabato all’insegna di incontri che spaziano dalla letteratura alla politica e che vedono i diritti umani e le donne come protagonisti. Questa mattina la presenza in fiera di Beppe Grillo ha suscitato molta curiosità. Il comico e fondatore del Movimento 5 Stelle, che ha partecipato alla presentazione del libro di Petra Reski Palermo Connection ha dichiarato che Più libri più liberi “È una fiera molto importante perché i piccoli editori vanno sostenuti contro la deprimente ignoranza collettiva degli Italiani”. Successo di pubblico anche per l’attivista e scrittrice turca Pinar Selek che vive dal 2009 in esilio, in Francia. L’autrice ha parlato della sua vita e delle sue battaglie con Chiara Valerio. “Il colpo di stato del 1980 in Turchia cambia tutto. Una sera mio padre venne preso dalla polizia e restò 5 anni in prigione perché era un difensore dei diritti. Io ho passato la mia infanzia davanti alle carceri che erano spazi di lotta, filosofia, arte, poesia, e quando sono cresciuta mi sono accorta che quello, per la mia generazione, era stato un trauma e allora ho deciso di raccontarlo”. La scrittrice ha continuato il suo intervento raccontando le torture che ha subito in carcere a causa del suo impegno politico: “L’essenza della resistenza è fare delle cose anche quando farle provoca molto dolore, ma questo è l’entusiasmo della lotta, per essere felici bisogna resistere”. Palermo: “In stato di grazia”, lo spettacolo delle detenute del carcere Pagliarelli palermomania.it, 9 dicembre 2018 Martedì 11 dicembre alle ore 09:30, nella Sala degli Specchi a Villa Niscemi, si terrà la conferenza stampa di presentazione dello spettacolo teatrale In stato di grazia. Lo spettacolo è promosso dall’associazione Mosaico che dal 2015 è attiva all’interno della sezione femminile dell’Istituto Penitenziario Antonio Lorusso Pagliarelli di Palermo con un laboratorio di teatro permanente che coinvolge circa settanta donne di diverse nazionalità ed età riunite sotto il nome Compagnia Oltremura. Le attività hanno come finalità quella di rendere il carcere luogo di cultura e di produzione teatrale attraverso un lavoro di costante ricerca. Dopo il debutto al Pagliarelli, che ha destato grande interesse e curiosità tra il pubblico, In stato di grazia andrà in scena al Teatro Biondo il 20 dicembre alle ore 21.00 (unica data): lo spettacolo si ispira a “La lunga vita di Marianna Ucrìa” di Dacia Maraini, ed è la terza messa in scena della Compagnia diretta da Claudia Calcagnile. Interverranno: Leoluca Orlando, Sindaco del Comune di Palermo, Claudia Calcagnile, regista e presidente dell’associazione Mosaico, Maria Garro, docente di Psicologia Giuridica presso l’Università degli Studi di Palermo. La sfida di Castel Volturno: a canestro i figli dei migranti Corriere della Sera, 9 dicembre 2018 Il riscatto nella terra del racket. Ieri vittoria sul Casal di Principe. Blessing, 11 anni, una delle cinque ragazze: “Il basket è la mia vita. Non ci fosse più Tam Tam, scapperei di casa per trovare una squadra”. No, la sfida regina dello sport campano non si è giocata ieri davanti ai 35 mila del San Paolo - in festa per la goleada del Napoli sul Frosinone - ma a 40 chilometri dallo stadio del capoluogo campano, davanti a quattro spettatori non paganti, sotto i riflettori fiochi di un capannone in disuso riadattato a palasport. Casa per casa - A casa della Polisportiva Albanova, coraggioso progetto che vuole strappare al calcio e far innamorare della pallacanestro i giovani casalesi, sono arrivati i quattordicenni del Tam Tam Basket di Castel Volturno. Joy, Destiny, Fortuny, Jeffry, Miracle sono i figli di quei nigeriani, maliani, gambiani, ivoriani che fino a pochi anni fa erano nel mirino dei casalesi che temevano di perdere il controllo del territorio. Sconfinare, all’epoca, sarebbe stato oltraggio da lavare col sangue. Ieri, dopo aver caricato pazientemente tredici giovani atleti tra le case in rovina di Destra Volturno e Villaggio Coppola, il pulmino sociale ha puntato diretto su Casal di Principe: Albanova- Tam Tam, per la prima volta nella storia in calendario federale, partita tra due tra i team più forti del campionato regionale Under 15, ha avuto un valore simbolico ben superiore a quello agonistico. Invenzione dell’ex professionista della Virtus Bologna Massimo Antonelli (campione d’Italia nel 1975-76, il coach era Dan Peterson), da due anni Tam Tam strappa dalla strada e dall’inattività e consegna allo sport oltre cento figli d’immigrati africani. Tutti ragazzi nati in Campania ma senza la cittadinanza italiana. Antonelli li ha cercati casa per casa, scuola per scuola e li ha convinti a ritrovarsi tre volte alla settimana nel palasport del centro storico dopo un viaggio che molti fanno a piedi per chilometri e altri spendendo il tesoretto di un euro che consente loro di strappare un passaggio da uno degli “african bus” che fanno la spola giorno e notte tra Mondragone a Pozzuoli, sulla Domiziana. Sette vittorie su sette - Tutti hanno storie difficili, alcuni estreme: figli di schiavi dell’agricoltura, di ex prostitute, di genitori scomparsi o in carcere. Il padre di S. è a Poggioreale da tre anni per spaccio, la madre di M. si è suicidata da poco: ha voluto essere seppellita (e vista dai figli) in abito da sposa e con un coltello tra le mani per vendicarsi dell’uomo che l’aveva tradita. M. si è fatto carico dei fratelli, il basket è riuscito a canalizzare le sue paure, le sue nevrosi, la sua aggressività. Fino allo scorso anno i ragazzi Tam Tam potevano allenarsi ma non giocare: il regolamento federale autorizzava soltanto due stranieri per squadra e Miracle e compagni non sono italiani. Un decreto legge ad hoc, licenziato in extremis dal governo Gentiloni, ha “costretto” la federazione a un passo indietro: ora, almeno fino a 18 anni, chi vive in Italia ed è in regola con i documenti deve poter giocare. In campo i quindicenni Tam Tam sono delle furie, i volenterosi casalesi doppiati, storditi nella corsa, nei rimbalzi, nei tiri e nelle palle recuperate. Sette partite su sette vinte, due però cancellate a tavolino per piccoli errori formali nella compilazione degli elenchi di gara e dei tesseramenti di bambini dai nomi impossibili. Stima e rispetto - “Il basket - spiega Blessing, 11 anni, una delle cinque ragazze - è la mia vita. Non ci fosse più Tam Tam, scapperei di casa per trovare una squadra”. Il progetto ha ancora molti ostacoli da superare. Oltre alle zero risorse economiche, c’è la federazione che non ha ancora adeguato le regole dei campionati di eccellenza, cui i ragazzi aspirano naturalmente, mantenendo il limite di due stranieri. Le parole più belle a fine match (80 a 42 per gli ospiti) sono di Danilo, capitano casalese: “Sono aggressivi, duri negli scontri e su ogni palla. Ci hanno fatto un po’ male ma sono fortissimi. Meritano la nostra stima e speriamo facciano strada”. Partenza in salita per la conferenza Onu sull’immigrazione di Serena Chiodo e Lorenzo De Blasio Il Manifesto, 9 dicembre 2018 Domani il via a Marrakech al summit internazionale per l’adozione il Global compact. Assenti Usa e molti paesi europei. Italia compresa. È una conferenza che si annuncia a dir poco in salita quella che si apre domani a Marrakech, in Marocco, e che porterà all’adozione del Global compact dell’Onu sull’immigrazione. Una difficoltà dovuta soprattutto alla lista di Paesi che hanno già dichiarato di non voler aderire all’iniziativa e che per questo diserteranno l’appuntamento. Italia compresa, con il governo giallo verde che pur di non assumere alcun impegno in tema di migranti ha preferito rinviare ogni decisione al parlamento (che chissà se e quando discuterà del Global). Nato da un processo avviato a settembre 2016, durante il primo summit Onu interamente dedicato alla questione migratoria, il Global Compact for safe, orderly and regular migration, l’accordo Onu su migrazioni “sicure, ordinate e regolari” muove i suoi passi dalla Dichiarazione di New York approvata in quella sede, per poi arrivare, tra consultazioni e riesami, alla versione ufficiale pubblicata lo scorso luglio. Non tutti gli stati membri delle Nazioni Unite sottoscriveranno l’accordo. Il primo rifiuto è stato quello degli Stati uniti guidati dall’amministrazione Trump, seguiti da Australia e Israele. In Europa, oltre all’Italia, non firmeranno i paesi del gruppo Visegrad - Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia e Polonia -, l’Austria, la Slovenia, la Bulgaria e la Svizzera. Le maggiori critiche avanzate dagli oppositori fanno riferimento alla presunta intromissione dell’Onu nella gestione nazionale dell’immigrazione, oltre a lanciare un generico allarme sul favoreggiamento dell’invasione a scapito della difesa dei confini. In realtà, il Global compact for Migration non è un documento vincolante, dunque gli stati non si troveranno di fronte ad alcun obbligo e la sovranità nazionale è ribadita nei suoi principi fondativi: “Il Global Compact riafferma il diritto sovrano degli stati nel definire le proprie politiche nazionali in materia di immigrazione all’interno della propria giurisdizione, in conformità con la normativa internazionale”. Si tratta quindi di una piattaforma composta da principi condivisi, elencati in 23 punti, per mezzo dei quali si mira a sollecitare la cooperazione tra stati in ambito migratorio, senza tralasciare il controllo dei confini, come specifica il punto 11. Linee guida dunque, che indicano approcci e possibili azioni da compere: il compito di tradurle in pratica spetta però agli stati. L’accordo, che si fonda sulle norme già previste dal diritto internazionale, si snoda su diversi livelli: l’attenzione va dalle cause delle migrazioni, per cui si esplicita la necessità di ridurre i fattori per cui le persone lasciano il proprio paese, all’analisi delle modalità con cui i e le migranti si spostano, proponendo da una parte di incrementare le possibilità di viaggi regolari e dall’altra di organizzarsi in modo coordinato per il soccorso delle persone, in un’ottica comune che mira a “affrontare e ridurre le vulnerabilità nella migrazione”. Il documento si concentra poi sul processo di inserimento nel paese di ingresso: si sottolinea la necessità di poter contare su dati accurati per creare da una parte politiche basate su nozioni reali, e dall’altra promuovere un discorso pubblico fondato su elementi concreti, eliminando le forme di discriminazione che poggiano su percezioni stigmatizzanti. Si sollecitano i paesi a “facilitare il riconoscimento delle qualifiche” e a “creare condizioni affinché i migranti contribuiscano pienamente allo sviluppo dei paesi di arrivo”, nell’ottica della “piena impiegabilità dei migranti nel mercato del lavoro”. Le misure detentive non vengono accantonate, ma si sollecita l’uso solo in ultima istanza, lavorando nel frattempo all’individuazione di alternative. Il testo, che da una parte può essere interpretato come un possibile punto di partenza, dall’altra non si sgancia dalla retorica che in questi anni ha accompagnato il discorso pubblico e le politiche generali sull’immigrazione, essendo frutto di negoziazioni. Non si superano alcuni concetti, come la detenzione delle persone, e l’inserimento dei migranti nel paese di arrivo passa soprattutto dal mercato del lavoro, dando spazio a un approccio economico e neoliberista piuttosto che culturale. Ciononostante, il documento è il primo tentativo intergovernativo di abbracciare il concetto di migrazione come diritto per tutti, garantendone l’universalità al di là di distinzioni tra persone e tra categorie: pur mantenendo separati rifugiati e migranti, nel preambolo il Global compact riconosce come entrambi i gruppi siano sottoposti a sfide comuni, muovendo un primo passo verso il superamento di una visione divisiva e dicotomica. Di una cosa il Global Compact sembra tenere conto: dell’impossibilità di frenare i processi migratori, da cui scaturisce la necessità di provare a gestirli. “La migrazione ha fatto parte dell’esperienza umana nel corso della storia e riconosciamo che è una fonte di prosperità, innovazione e sviluppo e che questi impatti positivi possono essere ottimizzati migliorando la governance della migrazione”. Danimarca. L’isola-prigione dei migranti e la propaganda cattivista di Massimiliano Sfregola eastwest.eu, 9 dicembre 2018 Il governo danese annuncia di voler deportare in un’isola semi-deserta i richiedenti asilo, “così si accorgeranno di non essere i benvenuti”. Amnesty International chiarisce che la misura riguarderà solo chi ha precedenti penali. Ed è rimandata a data da destinarsi. Che sia uno spot elettorale? In un momento in cui il dibattito internazionale sull’immigrazione raggiunge un nuovo picco per i contrasti sul patto Onu di Marrakech, l’ultima trovata della Danimarca, uno dei Paesi più anti-immigrazionisti d’Europa, getta altra benzina sul fuoco: il governo di centro-destra, sostenuto dai nazional-populisti del Dansk Volkspartei, inizierà a breve a costruire su un’isola semi-deserta nel sud-est del Paese, una struttura dove collocare richiedenti asilo che la normativa internazionale non consente di espellere. Persone già costrette nel limbo dei dannati, perché non considerati dalla legge rifugiati ma che non possono essere espulsi in mancanza di accordi con i Paesi d’origine - oppure perché si tratta di luoghi a rischio -, potrebbero finire in un remoto e dimenticato frammento del Paese che, nelle intenzioni dell’esecutivo, dovrebbe diventare la Nauru scandinava, imitando il governo australiano che segrega i suoi richiedenti asilo nel micro-stato del Pacifico. A condire la notizia con una dose ulteriore di carico emotivo si è aggiunto il commento crudele di Inger Støjberg, ministra dell’Immigrazione del partito di centro-destra Venstre, che su Facebook ha scritto: “Alcuni migranti si accorgeranno di non essere i benvenuti”. L’isola di Lindholm, nel sudest della Danimarca, quasi disabitata e utilizzata solo a scopo di ricerca, dovrebbe diventare una sorta di confino legale per i richiedenti asilo. La vicenda ha fatto in fretta il giro del mondo. Ma le cose stanno davvero così? La sezione danese di Amnesty International conferma l’impianto generale del provvedimento ma chiarisce un punto importante: la misura riguarderà solo richiedenti asilo con precedenti penali. Il che non rende meno cinico e inquietante il piano ma certamente riduce la platea degli interessati a poche centinaia, escludendo coloro che hanno avuto solo il torto di vedere la domanda rigettata. L’organizzazione per i diritti umani, però, non è meno preoccupata: “I futuri abitanti dell’isola di Lindholm avranno già scontato una pena in carcere quando saranno mandati sull’isola”, spiega l’avvocato Claus Juul. Tecnicamente non si tratta di una seconda reclusione e, come ha specificato il governo sul suo sito, agli ospiti forzati sarà consentito di lasciare l’isola ma con obbligo di ritornarvi entro sera, pena l’arresto. E, dato che l’obiettivo del governo è rendere il soggiorno un incubo, i collegamenti con la terraferma saranno sporadici e il costo del biglietto inaccessibile a chi vive con poche corone danesi al giorno, passate dal governo. Ma come si è arrivati a questa idea? “Al governo in carica, la permanenza nell’attuale centro di Kjaershovedgaard non è sembrata abbastanza una punizione”, prosegue l’avvocato Juul. Anche in quel caso, la Støjberg e l’alleato di governo, il Dansk Volkspartei, avevano detto di voler rendere la permanenza dei richiedenti asilo “indesiderabile”. “In quel centro, situato in una remota zona del Paese, si applicano le stesse regole e restrizioni che varranno per Lindholm. Ma evidentemente non deve aver soddisfatto le aspettative del governo e allora hanno pensato all’isola”, conclude Juul. Il problema principale, sul piano dei diritti umani, è la detenzione mascherata che un progetto simile può nascondere. “Per noi, quello pianificato è in tutto e per tutto un regime carcerario mentre il governo continua a ripetere “nessuno sarà in cella”, quindi non si può parlare di prigione”, continua l’avvocato di Amnesty. Ma per ora, a parte gli annunci, non c’è ancora alcun progetto di legge. Fino ad ora si parla di annunci perché la misura, in ogni caso, non entrerebbe in vigore prima del 2021 e a maggio del prossimo anno - insieme alle europee - si terranno le elezioni per il rinnovo del parlamento danese. Il sospetto, insomma, è che l’ennesimo annunciato giro di vite, in un Paese con una delle normative più rigide sull’immigrazione, sia un espediente da campagna elettorale e segua la comunicazione cattivista che molti Paesi, quali Ungheria, Norvegia e di recente la Germania, hanno adottato come deterrente per scoraggiare i richiedenti asilo a raggiungere i loro Paesi. Stati Uniti. A Tijuana il sogno dei migranti si infrange sul muro di Trump di Andrea Cegna Il Manifesto, 9 dicembre 2018 La frontiera Usa/Messico continua a raccontare le storie delle diverse carovane migranti partite dal centro America e che ora aspettano al confine. Per Noam Chomsky sono la miseria e gli orrori generati dagli Stati Uniti ad aver creato le condizioni alla base dell’esodo migratorio. Secondo la polizia migratoria messicana parliamo di 9471 migranti sparsi lungo il confine tra Messico e Usa. Di questi i dati governativi raccontano di 4080 che hanno accettato i rimpatri assistiti e di un migliaio di migranti detenuti, cioè quelli che hanno cercato di entrare illegalmente nel paese a stelle e strisce. Con la costante crescita dei numeri si fanno anche più critiche le condizioni igieniche e di salute dei campi “d’accoglienza” per i migranti, soprattutto a Tijuana, dove la maggior parte dei migranti sono concentrati. A rendere tutto più difficile le pesanti piogge che hanno trasformato i centri sportivi in fiumi di fango, e reso più difficile la vita di chi non avendo trovato posto nei ricoveri tijuanensi dorme per strada e in tende da campeggio ai lati delle vie. Andres Manuel Lopez Obrador, neo presidente messicano, la settimana scorsa ha promesso un suo intervento per migliorare le condizioni d’accoglienza a Tijuana. Intervento che avrebbe dovuto coinvolgere governo statale, federale e locale e che prevedrebbe la revisione dei luoghi di ricovero e il rafforzamento dei dispositivi di protezione umanitaria. Il condizionale resta necessario visto che per ora nulla si è modificato. Il tempo dell’attesa, mischiato alle forti problematiche di vita al confine, spingono sempre più persone a mettersi nelle mani dei coyotes, cioè chi, dietro lauto pagamento, porta, illegalmente, i migranti al di là della frontiera. Qualche settimana fa “il passaggio” costava 700 dollari, adesso dai 3000 in su. Alcuni chiedono anche 8000 dollari cioè quanto veniva chiesto per il viaggio completo dall’Honduras agli Usa. In tanti cercano così lavoro a Tijuana e provano a prenotare un viaggio. Chi non ha i soldi per i coyotes prova a scavalcare il muro, e a consegnarsi alle forze di frontiera, sperando di velocizzare le pratiche di richiesta asilo. Dieci donne continuano lo sciopero della fame, iniziato otto giorni fa, accompagnate da attivisti di centri dei diritti umani, chiedono che le richieste di asilo vengano visionate più velocemente. Tijuana è la trappola perfetta, il luogo dopo il sogno americano si trasforma in incubo messicano, dove superare la frontiera pare impossibile e dove si è troppo lontani dal centro del Messico per tornare sui propri passi, anche perché la dimensione collettiva che aveva garantito la velocizzazione del viaggio e forza si sta perdendo. Sempre più velocemente dopo gli scontri alla frontiera del 25 novembre. Ad aggiungere elementi di dubbi la notizia che, a novembre, gli arresti sulla frontiera tra Stati uniti e Messico sono saliti del 78% rispetto a un anno fa. Famiglie e bambini sono la maggioranza dei fermati per il terzo mese consecutivo. Yemen. Picchiati, bruciati con l’acido e appesi al soffitto: il racconto dei prigionieri torturati tpi.it, 9 dicembre 2018 Dall’inizio della guerra, più di 18mila persone sono state catturate dai miliziani houthi e rinchiuse nelle prigioni dei ribelli, dove sono state torturate. Mentre in Svezia continuano i colloqui di pace per mettere fine alla guerra in Yemen, iniziano ad emergere le testimonianze dei civili torturati dai ribelli sciiti houthi. I racconti evidenziano quanto sia importante giungere ad uno scambio di prigionieri tra i miliziani e il governo sostenuto dalla coalizione araba a guida saudita che dal 2015 bombarda il paese per fermare l’avanzata dei ribelli. Secondo gli accordi presi tra le parti, circa 5mila detenuti dovrebbero essere presto rilasciati come segno di fiducia tra le fazioni che si contrappongono in Yemen da tre anni. Dall’inizio della guerra, più di 18mila persone sono state catturate dai miliziani houthi e rinchiuse nelle prigioni dei ribelli, dove sono state torturate. Secondo gli attivisti per i diritti umani, la stessa sorte è toccata ai detenuti nelle carceri della coalizione araba. Farouk Baakar, un medico dell’ospedale al-Rashid nel nord dello Yemen, è stato arrestato dai miliziani nel 2016, dopo aver curato un uomo che era stato torturato dagli houthi stessi. L’uomo, intervistato all’Associated Press, ha raccontato di aver passato 18 mesi nelle carceri controllate dai ribelli sciiti, alcuni dei quali nella “Pressure Room”, il seminterrato di un castello ottomano nella città di Hodeidah, sul Mar Rosso. Una volta lì, il medico è stato spogliato, frustato e i carcerieri gli hanno strappato le unghie e i capelli. Sul suo corpo è stata anche versata della plastica fusa. Baakar è stato picchiato e appeso al soffitto per polsi per 50 giorni: i suoi rapitori pensavano che fosse morto. “Lascialo morire” - “È stato molto doloroso, specialmente durante i prossimi giorni”, ha detto il medico, che ha anche raccontato di aver cercato di aiutare altri prigionieri torturati con strumenti rudimentali come cavi elettrici. Un altro uomo ha raccontato di essere stato appeso per i testicoli e di non essere stato in grado di urinare. Su un terzo, invece, i carcerieri avevano versato dell’acido sulla schiena: il liquido era arrivato fino alle natiche, sigillando l’ano. Il medico Baakar ha usato uno strumento di fortuna per cercare di creare un’apertura. “Quando ho chiesto aiuto alle guardie houthi, dicendo che l’uomo stava morendo, la loro unica risposta è stata: ‘Lascialo morirè“, ha raccontato Baakar. Il medico è stato rilasciato lo scorso dicembre: la sua famiglia aveva pagato 5,5 milioni di rialton (circa 8mila dollari). Riconquistata la libertà, Baakar è fuggito a Marib, una roccaforte anti-houthi nello Yemen centrale, dove vive tuttora, in una tenda. Baakar è solo una delle 23 persone che Associated Press è riuscita ad intervistare e che hanno raccontato le torture subite nelle carceri dei ribelli houthi. Le carceri delle forze alleate - Le testimonianze arrivano pochi mesi dopo le accuse mosse da Human Rights Watch e Amnesty International contro gli Emirati Arabi Uniti e le sue forze alleate, accusate anche loro di torturare i detenuti nelle prigioni segrete nel sud dello Yemen. Secondo quanto rivelato dalle Ong, anche nelle carceri gestite dalla coalizione araba i detenuti sono sottoposti a trattamenti disumani. Un altro uomo, Anas al-Sarrari, di 26 anni, ha raccontato di essere costretto su una sedia a rotelle dopo essere rimasto paralizzato a seguito delle torture subite in una prigione controllata dagli houthi nella capitale Sanaa. Il ragazzo è stato appeso per 23 ore al giorno fino a quando le manette non gli hanno tagliato i polsi. Dopo essere stato picchiato con una pistola stordente, non è stato più in grado di usare le sue gambe. Diventato invalido, nessuno lo ha aiutato a raggiungere il bagno: è stato costretto a urinare e defecarsi addosso fino a quando non è stato rilasciato. “Vedere le persone uscire dalle prigioni con una disabilità che prima non avevano a seguito delle torture terrorizza tutti”, ha spiegato il giovane. Hussein, un insegnante della città settentrionale di Dhamar detenuto anche lui nelle prigioni yemenite, ha detto ad AP di essere stato tenuto bendato in una cella sotterranea per quattro mesi e 22 giorni. Durante la sua detenzione, i carcerieri lo hanno picchiato con barre di ferro e gli hanno detto che sarebbe morto lì. Monir al-Sharqi, un tecnico di laboratorio, è stato torturato talmente tanto che non riesce più a parlare. La sua famiglia lo ha ritrovato abbandonato sul fianco di un fiume, orribilmente sfigurato.