Digiuno per il 10 dicembre contro la pena dell’ergastolo di Eleonora Forenza* Ristretti Orizzonti, 8 dicembre 2018 Il prossimo 10 dicembre, in occasione del 70° anniversario della Dichiarazione dei Diritti Umani, migliaia di detenuti, familiari e attivisti parteciperanno alla IV giornata nazionale di digiuno per l’abolizione dell’ergastolo indetta e sostenuta da diverse associazioni ed organizzazioni (Liberarsi, Fuori dall’ombra, Yairaiha Onlus, Ristretti Orizzonti, Comunità Papa Giovanni XXIII, Osservatorio sulla Repressione). Attorno alla lotta per l’abolizione dell’ergastolo, grazie alla messa in relazione di diverse esperienze e realtà sociali, si sta sviluppando una notevole sensibilità che vede il moltiplicarsi di iniziative solidali e momenti di confronto. L’obiettivo è quello di mettere in discussione non solo l’esistenza della pena perpetua ma l’intero sistema penitenziario in cui il carcere continua ad essere l’unica risposta possibile ai fenomeni devianti nella nostra società. In una fase storica in cui l’ossessione securitaria ha sostituito la sicurezza sociale attraverso un lungo processo di creazione e criminalizzazione di marginalità sociali - e detta l’agenda politica in chiave repressiva e carcerocentrica, sostituendo al welfare la carcerazione di massa di soggetti sociali che ben rappresentano le disuguaglianze create dal sistema capitalista - provare a decostruire la mistificatoria retorica giustizialista che, oramai, ha infettato larghi strati della società, non è più rinviabile. Emarginazione sociale e alta ricattabilità economica i tratti distintivi della popolazione carceraria. I numeri e le condizioni di carcerazione raccontano di una emergenza invisibile e deliberatamente ignorata e alimentata. Cercare di dare valore agli articoli 3 e 27 della Costituzione significa ricercare i principi di giustizia che pongono ogni persona in una condizione di parità economica, culturale e sociale. Riteniamo che questa ricerca debba diventare pratica comune di tutta la società per rimuovere gli ostacoli che creano sperequazione, disagio e devianza. Iniziare a rifiutare una pena fine a se stessa qual è la privazione della libertà, sarebbe il primo passo verso una società che non chiede il disciplinamento e l’annullamento dei corpi, bensì la cura e il libero sviluppo della personalità di ogni singolo individuo quale parte fondamentale della comunità umana. Liberi dall’ergastolo, liberi dalle galere! *Associazione Yairaiha Onlus, Osservatorio sulla Repressione Appuntamenti di solidarietà organizzati per il 10 dicembre Campobasso ore 18.00 casa del popolo in Via Gioberti, 20 “Abolire l’ergastolo - dibattito organizzato da Casa del popolo”. Catanzaro, ore 17.00 Sala Giunta della Provincia: “La funzione rieducativa della pena”, dibattito organizzato da Potere Al Popolo Cz. Cosenza - ore 18.00 piazza xi settembre: “Diritti a testa alta”, fiaccolata per i diritti umani organizzata da: Action Aid, Emergency, Amnesty International, adesioni: Yairaiha Onlus. Napoli, ore 10:30, carcere di Secondigliano, Via Roma Verso Scampia: “Presidio di solidarietà” sotto il Carcere Di Secondigliano Organizzato da Compagni e Compagne napoletani contro il carcere Roma, ore 18:30 Viale delle province 196: “NO ergastolo, NO fine pena mai” - dibattito organizzato da Potere al Popolo - Roma. Viareggio, ore 18.00 Varignano Quartiere Fontanini: “Proiezione di video, reading e performance, a seguire dibattito”. Organizzato da: Pap Versilia, Officina di Arte Fotografica e Contemporanea Dada Boom, Cantiere Sociale Versilese, Csoa S.A.R.S., Laboratorio Contro la Repressione Sacko, Repubblica Viareggina Superata la soglia di 60mila detenuti. Quali alternative al carcere? di Antonio Amorosi affaritaliani.it, 8 dicembre 2018 “Bomba” carceri, sovraffollamento e degrado: martedì 11 un incontro su soluzioni ed alternative. Emergenza carceri, i penitenziari di tutta Italia si preparano ad esplodere. Da Nord a Sud, posti letto “sold out”: la popolazione carceraria torna alla soglia record di 60mila unità. L’allarme più che mai attuale arriva dal Garante delle persone private della libertà della Regione, Stefano Anastasìa, che dal proprio blog rilancia i numeri allarmanti relativi al sovraffollamento delle carceri, spesso sinonimo di malessere e degrado per gli ospiti. Un tema urgente, che arriva presso la Sala Tevere della Presidente della Regione Lazio martedì 11 dicembre ore 17:30. L’incontro conclude il ciclo “Convivenza e libertà”, promosso proprio dal Garante Anastasìa, e vedrà gli interventi di Gherardo Colombo, già magistrato da tempo impegnato sui temi della cultura e della legalità, nonché attuale presidente della Cassa delle ammende. Poi Lucia Castellano, già direttrice del carcere milanese di Bollate e ora Direttore generale dell’esecuzione penale esterna e della messa alla prova presso il Ministero della giustizia, e Maria Antonia Vertaldi, Presidente del Tribunale di sorveglianza di Roma, competente sulle condizioni di detenzione, l’accesso alle misure alternative al carcere e l’esecuzione delle misure penali detentive e non detentive nell’intero territorio della Regione Lazio. L’opportunità concreta per riflettere sulle soluzioni concrete per aggirare il fenomeno, oggi più che mai vera bomba da disinnescare. Il paese rischia difatti un seconda “bacchettata” dalla Corte europea dei diritti umani, come già accaduto in passato. Era il 2009 quando centinaia di detenuti fecero ricorso, costringendo di fatto, attraverso una sentenza pilota, il governo ad una politica di riduzione delle presenze. Oppure di dover ricorrere ad un provvedimento straordinario di clemenza, come, ancora prima, avvenuto nel 2006. Ma sulle contro-misure da attuare contro il sovraffollamento il Garante avverte, mettendo in guardia il governo da facili soluzioni “tappa buco” che non risolvono definitivamente il problema: “Di fronte alle nubi che si addensano all’orizzonte, dal Ministero della Giustizia giungono flebili voci - dichiara Anastasìa - come quelle che promettono di affrontare il problema del sovraffollamento con l’incremento dei posti letto in carcere, secondo un ennesimo piano di edilizia penitenziaria che non porterà a nulla, come i precedenti”. “Un’occasione è stata già persa - conclude - con l’approvazione di una riforma dell’ordinamento penitenziario, da cui è stato espunto ogni riferimento alle alternative al carcere. Non molte altre ne verranno, prima che le carceri diventino ingovernabili”. Il carcere che cambia: dall’orto sociale al lavoro che salva i detenuti di Maria Rosaria Mandiello Il Denaro, 8 dicembre 2018 Esiste un mondo contiguo e speculare, per niente lontano e distante dall’immaginario comune, si chiama carcere, ma si legge -per molti -come luogo di contenimento e di espiazione. Drammatiche le condizioni in cui versano le carceri italiane negli ultimi anni. Quella dei penitenziari è una bomba ad orologeria che rischia di esplodere. Gli scenari della carceri italiane ammutoliscono. Celle di sei, otto detenuti insieme, spesso non sono detenuti condannati ma in attesa di una sentenza - a cui attendono da mesi. Docce comuni, orari fissi e sguardi attenti, poliziotti che vegliano. Condizioni igieniche quasi nulle. Gli spazi sono finiti. La polizia penitenziaria è poca. I soldi meno ancora. Aumentano le violenze, le risse ed i suicidi. La speranza è attesa di una richiestissima riforma penitenziaria, che da tempo giace nei meandri di Camera e Senato. In questa giungla di dolore, solitudine e sofferenza, nelle case di detenzione maschili, femminili e minorili si fanno sempre più largo le realtà associative, Onlus di volontariato che offrono agli ospiti opportunità di lavoro creative e valide. È il caso di dire che il lavoro salva il carcere e sono molte le protagoniste di questa mission: unire la forze sfruttando le risorse sociali per far sentire più alta la propria voce. Il lavoro passa e riparte proprio dal carcere: un laboratorio di idee e progetti utili a dare un segnale forte dimostrando la forza riabilitativa del lavoro e dei percorsi di formazione e istruzione come strumenti di valore legati alla dignità della persona. Si crea così una vera e propria economia carceraria, che secondo i responsabili di molte Onlus che operano nel settore, ha tutto il potenziale produttivo per contribuire alla crescita del paese. È un business virtuoso, pulito, solidale, dall’alto valore sociale e rigenerativo. Ogni cosa che prende vita in carcere è sinonimo di qualità e di riscatto sociale, di una scommessa su se stessi che ha il profumo di valore e valori. Così si macinano idee e progetti, volano dell’economia carceraria ed italiana. “Cotti in Fragranza” , start-up a vocazione sociale: un laboratorio per la preparazione di prodotti da forno di alta qualità, commercializzati nel territorio locale e nazionale. Nasce a Palermo ed è un esempio innovativo nel territorio del sud Italia, prima realtà imprenditoriale all’interno di un Istituto Penale per i Minorenni del sud (terza in tutta Italia). L’obiettivo ambizioso è quello di promuovere una stabile inclusione dei giovani del Malaspina che, previa formazione, potranno diventare lavoratori specializzati e autonomi, anche al di fuori del percorso detentivo. Apprendimento reciproco come condizione necessaria ed unica strategia vincente. Il “noi” che vuole diventare insieme persone competenti, capaci di operare scelte precise per il proprio benessere e quello altrui, capaci di cogliere il significato delle cose, valutare e decidere. Insieme, in grado di utilizzare strategie adeguate nei diversi contesti per trovare nuovi adattamenti e soluzioni creative. Il caffè diventa Galeotto al penitenziario Rebibbia di Roma, i detenuti producono e confezionano la torrefazione. Un eccellente prodotto solidale, miscelato con i migliori crudi, provenienti da continenti lontani. Si chiamano “lanzarelle” del caffè, sono le donne del carcere femminile di Pozzuoli e producono caffè artigianale, secondo la tradizione napoletana. Cinquantasei le donne che nel tempo si sono susseguite, perché solo il lavoro offre dignità e possibilità di riscatto reale. Molte di loro prima di lavorare al progetto, non avevano mai avuto un regolare contratto di lavoro. Ora hanno la possibilità di imparare un mestiere, ma ancor di più acquisiscono coscienza dei loro diritti e delle loro possibilità. “Buoni dentro”, al Beccaria di Milano, carcere minorile si è intrapresi la sfida di pianificazione e pasticceria. Una piccola bottega nel cuore del penitenziario minorile, strutturato in forma di bottega di produzione artigiana, dove i giovani attivi nel laboratorio sono affiancati da un formatore sotto la supervisione di un maestro artigiano. Il laboratorio sforna quotidianamente pane, focaccia biscotti, destinati al consumo interno dell’istituto. In occasione delle festività realizza la produzione artigianale di dolci tradizionali: panettone per Natale e colomba per Pasqua. Dal febbraio 2015 è attivo anche il laboratorio di panificazione con punto vendita di pezzi di pane Piazza Bettini a Milano, che impiega alcuni giovani detenuti sotto la guida e la supervisione di un maestro artigiano. Il lavoro costituisce un fattore cruciale per favorire il cambiamento nei giovani sottoposti a restrizione della libertà e rappresenta un fattore determinante per il successo dei progetti di reinserimento sociale. Ai ragazzi viene offerta un’opportunità concreta di supporto al cambiamento e alla ricostruzione dell’identità personale attraverso il lavoro che nasce dalle loro capacità e dal loro impegno. Un orto sociale e un’area verde per i colloqui con le famiglie lì dove prima vi era un campo da calcio in erba per anni abbandonato. Oggi, cambia sembianze il super carcere di Ascoli Piceno. Oggi quel campo è tornato a nuova vita, in parte destinato di nuovo a piccolo perimetro di gioco, in parte ad area verde per i colloqui con le famiglie e per il resto destinato ad orto sociale. Un’innovativa esperienza nella quale il valore ricreativo ed educativo dell’orto, viene affiancato da un’esperienza teorico-pratica nella gestione del verde e del giardinaggio, per creare specifiche professionalità di settore. “La pizza buona dentro e fuori” questo lo slogan utilizzato dal carcere di Fuorni a Salerno che nei giorni scorsi ha presentato il progetto di una pizzeria sociale all’interno del penitenziario salernitano. Siglato il documento che realizzerà la pizzeria in un locale già individuato, si iniziano ora a formare i detenuti che potranno acquisire il titolo di pizzaiolo che sarà spendibile poi una volta tornati in libertà. Secondo il direttore del penitenziario, il progetto, in carcere continuerà, perché sarà favorito il passaggio di testimoni tra i detenuti. “Questa idea progettuale - ha dichiarato Martone - deve essere foriera di lavoro, di opportunità trattamentali, di opportunità formative e di attestati spendibili anche all’estero”. Tra carenze e diritti che sembrano essere negati, si fa largo un’idea di carcere sociale e costruttiva, attesa da tanto, troppo tempo e che sembra prendere il sopravvento con realtà belle e che vale la pena raccontare e perché no, acquistare. Bonafede: “Per risolvere il sovraffollamento usiamo le caserme dismesse” Il Fatto Quotidiano, 8 dicembre 2018 “Ho istituito una task force nel ministero per prendere in esame la possibilità di utilizzare le caserme dismesse” per realizzare nuovi carceri. Così il guardasigilli Alfonso Bonafede, ad una domanda, al termine del consiglio Giustizia, a Bruxelles. “Le caserme hanno un tipo di struttura che si presta tantissimo - ha spiegato. Sto cercando un’interazione con altri ministeri, ma stiamo lavorando a questa possibilità già da Alfonso due o tre mesi. Bisogna vedere quali sono le norme per arrivare con maggiore celerità e semplicità a quel risultato”. Lo stato cerca da anni, per lo più invano, di mettere sul mercato centinaia di edifici ex militari. Il ministro ribadisce inoltre: “Indulto e svuota carceri non ha mai portato ad esiti positivi, ai detenuti aprivi la cella, usciva no e andavano a delinquere di nuovo perché non avevano fatto un percorso di rieducazione. Noi invece, nel quadro della certezza della pena, investiamo su una rieducazione seria, che non è mai stata fatta in Italia. Quello che accade in un carcere è importante per i cittadini, perché se un detenuto lo rieduchiamo torna nella società e non delinque più”. Area resta sola con Spataro: l’Anm rischia la crisi di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 8 dicembre 2018 Giunta in pericolo: MI, Unicost e AeI lasciano alla corrente di sinistra la difesa del procuratore dopo la lite con Salvini. Tira aria di divisioni fra magistrati dopo lo scontro tra il ministro dell’Interno Salvini, che annuncia via social un’operazione di polizia, ancora in corso, a Torino e il procuratore Spataro che si infuria pubblicamente per il comportamento non istituzionale del ministro che fa sempre il leader della Lega e festeggia l’imminente pensione del magistrato. Il prossimo passo di queste divisioni fra toghe potrebbe essere la crisi della Giunta dell’Anm. Comunicati ufficiali e, soprattutto, mail interne mettono in evidenza che Area, la corrente progressista a cui appartiene Spataro è da sola a difendere “senza se e senza ma” il procuratore, a criticare senza remore il ministro Salvini, a protestare per il silenzio dell’Anm, per il rifiuto degli altri componenti della Giunta di accettare la sua richiesta di un comunicato unitario, come sindacato delle toghe, in difesa di Spataro e dell’autonomia della magistratura. Area protesta anche per la presa di posizione del presidente Francesco Minisci considerata ecumenica: “Ricerca un’equidistanza rispetto a questioni e valori in relazione ai quali la posizione della magistratura associata non può che essere netta e precisa”. Ieri sera è arrivata la reazione di Unicost, la corrente centrista a cui appartiene Minisci: “Ci riconosciamo nelle parole del presidente. Con toni moderati ed equilibrati è riuscito prontamente ad intervenire a tutela dei principi di autonomia e indipendenza che le garanzie costituzionali pongono a presidio della magistratura, al contempo evitando di scendere nel campo della contesa politica, e del connesso rischio di strumentalizzazione”. Minisci l’altro ieri aveva detto che “va ribadita la necessità che siano rispettati i ruoli previsti dall’ordinamento e le prerogative a ciascuno riconosciute, auspicando che ogni legittimo confronto e le connesse posizioni siano portate avanti abbassando i toni e rispettando i profili e i percorsi professionali”. Ma se in queste ore una parte di Unicost sta provando a dialogare con Area, riservatamente, per evitare rotture plateali, resta netta la contrapposizione tra Area e Magistratura Indipendente, la corrente di destra. Mi ha criticato nei giorni scorsi sia Spataro, per aver accusato Salvini a mezzo stampa sia Salvini per i toni usati verso il procuratore. Non ha preso alcuna posizione, invece, Autonomia e Indipendenza, la corrente di Davigo. Nessun comunicato della corrente trasversale, nata da una scissione di Mi. L’unico a parlare è stato Davigo, per tanti anni collega di Spataro alla procura di Milano. Lo ha fatto, a livello personale, al plenum del Csm per ringraziarlo per quanto fatto per la giustizia, a cominciare dalla lotta al terrorismo. Ma Davigo non ha detto una parola sulla polemica politica. Scorrendo diversi messaggi di magistrati in mailing-list, un gip siciliano se la prende con Area “ipocrita”: “Ma dove era davanti ai brutali attacchi a Nino Di Matteo e ai pm palermitani del processo sulla trattativa Stato-mafia, ad Annamaria Fiorillo (pm minorile del caso Ruby, ndr) e ai colleghi napoletani impegnati nel caso Consip fino a pochi mesi fa? Il silenzio dell’Anm, prosegue la mail, è chiaramente dovuto al doppiopesismo con il quale da anni trattai singoli magistrati (e le loro attività giurisdizionali) in base ad appartenenza torrentizia o alla simpatia nei confronti di governi amici”. Gli risponde a muso duro un pm antimafia che pure ha subito attacchi senza essere difeso: “Io mi vergognerei a sostenere tesi di questo genere. Non si tratta di cose lontanamente paragonabili con l’attacco ad un procuratore della Repubblica nell’esercizio delle sue funzioni e con un intervento che ha di fatto condotto alla mancata cattura di alcuni soggetti da arrestare. I fatti sono di una tale gravità che solo un malcelato collateralismo a questo governo può giustificare una presa diposizione del genere. Con buona pace di autonomia e indipendenza”. Un altro magistrato, evidentemente amareggiato leggendo le mail interne, scrive: “Il fatto che anche su questi elementari principi ci si divida per correnti è di uno sconforto infinito”. La resa dei conti dentro l’Anm, se operazioni “ricucitura”, soprattutto di Unicost, non andranno a buon fine, andrà in scena il 15 dicembre quando si riunirà il cosiddetto Parlamentino. La gogna giustizialista che perseguita Mori e De Donno: “non possono parlare di legalità” di Ermes Antonucci Il Foglio, 8 dicembre 2018 Uno dei pubblici ministeri del processo sulla cosiddetta trattativa stato-mafia, Vittorio Teresi, invoca la gogna pubblica e l’intervento dello stato etico nei confronti di due suoi ex imputati, spalleggiato dal quotidiano di riferimento del giustizialismo italiano (Il Fatto Quotidiano). Si tratta degli ex vertici del Ros dei Carabinieri, il generale Mario Mori (poi anche direttore del Sisde) e il colonnello Giuseppe De Donno, condannati in primo grado dalla Corte d’assise di Palermo con l’accusa di aver stretto una trattativa con Cosa nostra negli anni delle stragi, attraverso una loro autonoma iniziativa, cioè senza il coinvolgimento di nessun altro esponente delle istituzioni o della classe politica (insomma, più che reato una pazzia). Ma Mori e De Donno sono doppiamente colpevoli, secondo il Fatto (che alla vicenda ha dedicato ben quattro articoli negli ultimi due giorni, tra cui uno del direttore Marco Travaglio), di essersi macchiati di un altro gravissimo crimine, cioè di aver preso la parola in un incontro sulla legalità con gli studenti di una scuola di Avellino, nonostante la loro condanna in primo grado. Motivo per il quale il quotidiano ha invocato persino l’intervento del ministro dell’Istruzione. E non conta che Mori sia vittima di una gogna mediatico-giudiziaria da ormai 25 anni, che sia stato assolto in via definitiva (altro che primo grado) ben due volte dall’accusa di aver aiutato la mafia (lui che i boss, a partire da Totò Riina, li ha arrestati), e che soprattutto la nostra Costituzione preveda che ogni cittadino sia considerato innocente fino a sentenza definitiva (articolo 27). Per Travaglio una persona condannata in primo grado deve essere bandita dalla vita civile del paese. Che poi sarebbe come dire che Travaglio, essendo stato condannato molteplici volte per diffamazione, non dovrebbe più scrivere su un giornale (sarebbe paradossale, no?). Ma non è tutto. Il Fatto, ricostruendo la vicenda, ha riportato anche una dichiarazione rilasciata a margine dell’incontro con gli studenti da Mario Mori ad alcuni giornalisti locali: “Mi curo per vivere a lungo, perché devo veder morire qualcheduno dei miei nemici”. Una battuta frutto di uno slancio di sincerità da parte di chi, ormai da decenni, è costretto a difendersi dall’accusa più infamante per un servitore dello stato (il tradimento) ed è certo della propria innocenza. Una frase che, peraltro, era già stata espressa in passato da Mori, che ai giornalisti ha aggiunto: “Accetto il giudizio di una Corte di assise e accetto che un pm svolga pienamente il suo lavoro contro di me. Ma non accetto che un pm, dopo il giudizio, continui a parlare di questo argomento, perché la sua non è più una funzione impersonale, ma un qualcosa di personale”. Ecco allora che il Fatto decide di costruire improvvisamente un caso, distorcendo le parole del generale: “Il messaggio di Mori ai pm: “Spero di vederli morti”. Una vera e propria fake news, visto che Mori in nessun caso ha fatto nomi specifici e che la riflessione sull’accanimento personale di alcuni pm rispondeva a tutt’altra domanda dei giornalisti. Chiamato in causa (dal giornale, non da Mori), ieri sul Fatto è intervenuto proprio uno dei pm del processo sulla trattativa, Vittorio Teresi, che ha accolto le considerazioni travagliesche e rivendicato a sé le redini dello stato etico: “Che un soggetto sia non colpevole fino a sentenza definitiva non significa che una sentenza di primo grado non possa avere un significato nella storia personale dell’imputato, tanto da rendere inopportuno farlo diventare insegnare di etica pubblica”. Insomma, spetterebbe ai pm stabilire “l’opportunità” per una persona di partecipare alla vita civile del paese (e portare la sua testimonianza ultra quarantennale da uomo delle istituzioni), col risultato paradossale che se l’imputato venisse poi assolto in appello riacquisterebbe improvvisamente la sua dignità di cittadino, sempre per ordine dei magistrati. Una visione singolare dello stato di diritto, e più da repubblica degli ayatollah giudiziari. La messa alla prova non va menzionata nei certificati di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 dicembre 2018 La Corte costituzionale ha dichiarato illegittima la norma. È incostituzionale menzionare la messa alla prova nei certificati penali. Così dichiara la sentenza n. 231 depositata ieri (relatore Francesco Viganò) con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità delle norme sul casellario giudiziale (articoli 24, primo comma, e 25, primo comma, Dpr n. 313/ 2002) là dove imponevano di riportare nel certificato generale e in quello del casellario, richiesti dall’interessato, sia l’ordinanza di sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato sia, implicitamente, anche la sentenza che dichiara l’estinzione del reato per il buon esito della prova. È quindi irragionevole, e contrario al principio costituzionale della finalità rieducativa della pena, che i provvedimenti sulla messa alla prova siano menzionati nei certificati penali richiesti dalla persona interessata. La menzione si risolve infatti in “un ostacolo al reinserimento sociale del soggetto che abbia ottenuto, e poi concluso con successo, la messa alla prova” poiché può creargli “più che prevedibili difficoltà nell’accesso a nuove opportunità lavorative». Secondo la Corte, oltre ad ostacolare il pieno reinserimento sociale, la menzione nel certificato finisce per contraddire la ragion d’essere della dichiarazione di estinzione del reato (con cui si chiude il processo se la prova è positiva), che è l’esclusione di qualunque effetto pregiudizievole, anche in termini di reputazione, a carico dell’imputato. Tutto è scaturito con l’ordinanza del 18 novembre 2016 (n. 47 del 2017), quando il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Firenze ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli art. 24 e 25 del decreto del Presidente della Repubblica 14 novembre 2002, n. 313, recante “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di casellario giudiziale, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti (Testo A)», nel testo anteriore alle modifiche, non ancora efficaci, recate dal decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 122 (Disposizioni per la revisione della disciplina del casellario giudiziale, in attuazione della delega di cui all’articolo 1, commi 18 e 19, della legge 23 giugno 2017, n. 103), in riferimento al “principio di eguaglianza e conseguentemente di ragionevolezza”di cui all’art. 3 della Costituzione, nella parte in cui “non prevedono che nel certificato generale del casellario giudiziale e nel certificato penale chiesto dall’interessato non siano riportate le ordinanze di sospensione del processo emesse ai sensi dell’art. 464- quater c. p. p.». A tale ordinanza si è opposto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sia dichiarata inammissibile o, comunque, infondata. Invece la Corte Costituzionale, come detto, non solo la dichiara fondata e quindi incostituzionale, ma ha anche rilevato che l’obbligo di includere nel certificato del casellario i provvedimenti sulla messa alla prova si risolve in un “trattamento deteriore” di chi beneficia di questi provvedimenti rispetto a chi, in altri procedimenti, come il patteggiamento, beneficia della non menzione nei certificati richiesti dai privati. Eppure, in entrambi i casi si tratta di istituti che hanno una finalità deflattiva con risvolti premiali per l’imputato. Messa alla prova fuori dalla fedina penale di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 8 dicembre 2018 Fuori dalla fedina penale i provvedimenti di messa alla prova. Ostacolano il reinserimento sociale e lavorativo. Per questo va evitata la possibile perdita di reputazione causata dalla conoscibilità dell’informazione nei certificati del casellario. È quanto deciso dalla Consulta con la sentenza n. 231, depositata il 7 dicembre 2018, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità delle norme sul casellario giudiziale (articoli 24, primo comma, e 25, primo comma, Dpr n. 313/2002), nella parte in cui imponevano di riportare nel certificato generale e in quello del casellario, richiesti dall’interessato, sia l’ordinanza di sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato sia, implicitamente, anche la sentenza che dichiara l’estinzione del reato per il buon esito della prova. Le motivazioni della sentenza fanno richiamo alle finalità rieducativa della pena. Se il quadro costituzionale è orientato in quella direzione, allora, si legge nella sentenza in esame, è irragionevole ed anche contrario ai principi di uguaglianza e allo stesso principio dello scopo rieducativo della pena, che i provvedimenti sulla messa alla prova siano menzionati nei certificati penali richiesti dalla persona interessata. La Corte dice espressamente che la conoscibilità della sottoposizione a quel procedimento si trasforma in un ostacolo al reinserimento sociale del soggetto che abbia ottenuto, e poi concluso con successo, la messa alla prova. E ciò perché gli crea più che prevedibili difficoltà nell’accesso a nuove opportunità lavorative. La Corte aggiunge un argomento tecnico-giuridico: la menzione nel certificato azzera l’effetto della dichiarazione di estinzione del reato. Questa dichiarazione significa che la prova è stata superata e, quindi, l’imputato ha scontato le conseguenze negative della sua condotta. Se, invece, la fedina penale rimane macchiata vuol dire che c’è ancora un residuo di effetti negativi, che si trascinano e sono effetti pesanti nella vita di relazione, poiché toccano la reputazione stessa dell’individuo. Sul punto va pur considerato che sono inevitabili gli effetti negativi sulla reputazione dell’autore di un reato, ma il discorso che fa la Consulta evidenzia che nel caso specifico gli effetti sulla reputazione sono sproporzionati ed eccessivi. D’altra parte in altri casi la legge esclude la menzione, come ad esempio nel caso del patteggiamento, che, al pari della messa in prova, è un procedimento con benefici per l’imputato. Infine, un altro squilibrio è rappresentato dal fatto che, mentre nella generalità dei casi la riabilitazione fa venir meno la menzione della condanna nei certificati, nel caso della messa alla prova la riabilitazione è per definizione esclusa, non trattandosi di una condanna. Viterbo: “Era pieno di lividi e mi ha detto: mi hanno picchiato in dieci” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 dicembre 2018 Il drammatico racconto della moglie di Giuseppe De Felice, detenuto a Viterbo. La donna si è rivolta a Rita Bernardini del Partito Radicale che ha inviato la segnalazione urgente al Garante nazionale Mauro Palma a quello regionale Stefano Anastasìa, al Dap e al Direttore del penitenziario. “L’ho visto con il volto tumefatto, pieno di lividi con il sangue all’occhio sinistro e ha detto che è stato pestato da una decina di agenti penitenziari». A denunciarlo a Il Dubbio è Teresa, la moglie del detenuto Giuseppe De Felice, 31enne, ristretto nel carcere di Viterbo. Tre giorni fa è andata a visitarlo ed è rimasta scioccata nel vederlo pieno di lividi. “Ho cominciato ad urlare - racconta la moglie, ma mio marito mi ha detto di smettere, perché ha paura di subire altre ritorsioni». De Felice è ristretto nel carcere di Viterbo da circa un mese - prima era a Rebibbia, si trovava nel quarto piano D1 quando sarebbe stato picchiato selvaggiamente dagli agenti. “Gli hanno perquisito la cella, messo a soqquadro tutto e hanno calpestato la foto che ritraeva noi due - racconta Teresa -, mio marito ha reagito urlandogli contro, prendendoli a parolacce». A quel punto, secondo la versione di Giuseppe De Felice, un agente penitenziario lo avrebbe chiamato in disparte, portato sulla rampa delle scale e una decina di agenti penitenziari, senza farsi vedere in volto, lo avrebbero massacrato di botte. Il marito le ha raccontato che gli agenti avrebbero indossato dei guanti neri e una mazza bianca per picchiarlo. “Lo hanno portato in infermeria - prosegue Teresa -, ma senza visitarlo, dopodiché lo hanno messo in isolamento per un’ora». È preoccupata, non sapeva chi contattare, fino a quando ha visto su internet un video di Pietro Ioia, ex detenuto che però vent’anni fa ha deciso di cambiare vita e si è esposto pubblicamente denunciando anche la famigerata “cella zero” del carcere di Poggioreale. Lo ha chiamato e subito si è attivato, consigliandole di contattare Rita Bernardini del Partito Radicale. L’esponente radicale ha immediatamente inviato la segnalazione urgente agli organismi preposti, dal garante nazionale Mauro Palma a quello regionale Stefano Anastasìa. Ma, soprattutto al Dap e al direttore del carcere di Viterbo pregandolo di verificare quanto denunciato dalla signora e di “far visitare urgentemente il detenuto in modo da mettere agli atti della sua cartella clinica il relativo referto». Eppure la legge parla chiaro, cristallizzata anche nell’attuale riforma dell’ordinamento penitenziario dove si prevede che, fermo l’obbligo di referto, il medico che riscontri “segni o indici che facciano apparire che la persona possa aver subito violenze o maltrattamenti” deve darne comunicazione al direttore dell’istituto e al magistrato di sorveglianza. Il carcere di Viterbo, però, non è nuovo per queste vicende, ancora da riscontrare. Attualmente ci sono indagini in corso per il suicidio di un detenuto italiano avvenuto quest’estate. Indagini per chiarire cosa sia davvero accaduto quel giorno. C’è la testimonianza di due detenuti, vicini di cella, che si erano fortemente allarmati perché hanno visto che il ragazzo era eccessivamente agitato e avrebbe urlato che si sarebbe suicidato, impiccandosi. Gli agenti penitenziari di turno, sempre secondo la testimonianza dei due detenuti, avrebbero sottovalutato il problema, pensando che facesse finta. A quel punto i detenuti avrebbero urlato che si doveva intervenire subito. Alla fine gli agenti sarebbero ritornati dopo due ore quando oramai il ragazzo era morto con il cappio ricavato dal lenzuolo. Ma a Viterbo, dopo quel fatto, è avvenuto un altro suicidio. Parliamo di Hassan Sharaf, un detenuto egiziano di 21 anni che avrebbe finito di scontare la pena il 9 settembre, ma il 23 luglio scorso è stato trovato impiccato nella cella di isolamento dove era stato trasferito da appena due ore. Parliamo dello stesso ragazzo che, durante la visita di una delegazione del garante regionale dei detenuti, mostrò all’avvocata Simona Filippi alcuni segni rossi su entrambe le gambe e dei tagli sul petto che, secondo il suo racconto, gli sarebbero stati provocati da alcuni agenti di polizia che lo avrebbero picchiato il giorno prima. Il Garante Anastasìa ha fatto un esposto, ad oggi non si sa se la Procura competente abbia avviato le indagini o meno per verificare l’accaduto. Roma: “Ho difeso una rom, mi hanno circondata e insultata» di Fulvio Fiano Corriere della Sera, 8 dicembre 2018 Il racconto di Giorgia Rombolà, giornalista di 39 anni, che alla stazione San Giovanni della metro A ha cercato di fermare un passeggero che stava picchiando una borseggiatrice: “Sono scoppiata a piangere, perché finora questa ferocia l’avevo solo letta. Ora, invece, è successo a me». Un tentativo di furto sventato o solo ipotizzato, una donna di etnia rom inseguita e picchiata dall’uomo che l’accusa di essere una ladra, i vigilantes della fermata San Giovanni, linea A della metropolitana, che la bloccano e riportano la calma. Nel mezzo, l’intervento di un’altra donna, italiana, che per istinto prova a sottrarre la giovane rom dai colpi e si ritrova poi isolata, derisa, insultata e minacciata sul vagone che la riporta, come ogni sera, verso casa. Il mercoledì di Giorgia Rombolà non voleva essere un giorno da leonessa né da paladina dei diritti. Ma neanche poteva immaginare che le lasciasse addosso tanta paura. La stessa che l’ha spinta ieri a cancellare il post-racconto su Facebook: troppe becere accuse e odiose parole le sono piovute addosso. Succede che Giorgia, giornalista di 39 anni, all’apertura delle porte del vagone dove si trovava due sere fa, viene attratta dalle urla di una bambina e poi da quelle di uomo. Si sporge e vede sulla banchina la giovane rom portata via a forza da due persone in divisa mentre una terza, “un uomo robusto” lo descrive lei, la colpisce al capo. “La donna poteva avere 20 anni, forse meno, la bambina 3 o 4 e piangeva disperata. Da mamma di tre figlie ho pensato subito a lei, alla piccola, che poteva restare da sola sul vagone mentre il treno partiva». Sono pochi attimi che così descriverà sui social: “Ne nasce un parapiglia, la bambina cade a terra, sbatte sul vagone. Ci sono già i vigilantes a immobilizzare la giovane (e non in modo tenero), ma a quest’uomo alto mezzo metro più di lei non basta. Vuole punirla. La picchia violentemente, anche in testa. Cerca di strapparla ai vigilantes tirandola per i capelli. La strattona fina a sbatterla contro il muro, due, tre, quattro volte». È a questo punto che Giorgia si fa coraggio, scende dal vagone e prova a fermare l’uomo: “Non può picchiarla, è stato il mio pensiero - racconta ora, ancora incredula - ho urlato “Basta! Stai calmo!” e mentre lo dicevo mi sono resa conto che ho rischiato anche io». Ma questo è niente. L’uomo si allontana (evidentemente il furto non c’era stato), la giovane rom viene portata via, Giorgia rientra sul treno. “Non mio aspettavo solidarietà, ma neanche di essere affrontata dagli altri passeggeri», dice. “Un tizio - questo è il suo post - mi insulta dandomi anche della p..., dice che l’uomo ha fatto bene, che così quella s... impara. Due donne (tra cui una straniera) dicono che così bisogna fare, che evidentemente a me non hanno mai rubato nulla». La giornalista all’inizio risponde, poi viene affrontata a brutto muso dal passeggero più inferocito: “Era a cinque centimetri da me e urlava. Nessuno mi ha difesa, ma soprattutto tanti hanno fatto finta di niente. Questa indifferenza mi ha scioccata». E c’è di peggio: “Due ragazzi ridono e fanno battute terribili, altri dicono frasi come “bisogna bruciarli tutti”, mi urlano anche dai vagoni vicini, “comunista di m..., radical chic, perché non vai a guadagnarti i soldi buonista del c...”». Quando scende alla sua fermata, l’uomo che aveva minacciato anche di seguirla per fortuna cambia strada. “A quel punto mi sono accorta di avere paura e sono scoppiata a piangere». Giorgia vive da 20 anni a Roma e dice di averla vista incattivirsi. “Non difendevo la ladra né la rom in quanto tale. Ma erano già arrivati i vigilantes, perché picchiarla? E non è un discorso politico, ma io che abito in un quartiere “per bene” mi chiedo: questi ragazzi che ridevano, di chi sono figli? Dove sentono questi discorsi?». Torino: carcere della Vallette, con i libri riprendiamo in mano la nostra vita di Marina Lomunno vocetempo.it, 8 dicembre 2018 Il 28 novembre presso il carcere “Lorusso e Cutugno”si sono celebrati i vent’anni dall’avvio della sezione “dietro le sbarre” dell’Ateneo subalpino. Franco Prina, delegato del Rettore per il Polo universitario, ci parla dei 40 studenti iscritti con percorsi di studio articolati su più corsi di laurea. Franco Prina, docente di Sociologia della devianza presso la Facoltà di Giurisprudenza, è il delegato del Rettore dell’Ateneo Torinese per il Polo universitario per gli Studenti detenuti presso La Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno». Lo abbiamo intervistato in occasione dei 20 anni di attività didattica nel carcere delle Vallette. Professore, Torino è la prima Università in Italia ad avere istituito un Polo universitario “dietro le sbarre». Ancora una volta la nostra città è laboratorio di cultura. Cosa significa celebrare il ventennale di un istituzione così complessa e di alto valore sociale? La storia dell’impegno dell’Università di Torino per i detenuti è ancora più lunga. In questi giorni celebriamo i 20 anni dalla firma del primo protocollo di intesa che formalizzò i rapporti tra carcere e Università che si erano aperti nella stagione delle detenute e dei detenuti delle formazioni armate. Donne e uomini che avevano chiesto di poter riprendere gli studi e che trovarono in alcuni docenti della Facoltà di Scienze Politiche un ascolto e una disponibilità al dialogo attraverso seminari e ricerche. Da quelle prime esperienze maturò l’idea di garantire opportunità di iscrizione ai corsi universitari. E i responsabili dell’Istituto offrirono le condizioni organizzative perché si realizzasse il primo “Polo” universitario in un carcere italiano, ossia una sezione interamente dedicata agli studenti universitari in cui i docenti, prima di Scienze politiche e poi anche di Giurisprudenza, potevano entrare a fare lezione e seguire i percorsi di studio fino alla laurea. Com’è cambiata in questi 20 anni la popolazione carceraria che chiede di iscriversi all’Università? Nel tempo si sono inseriti al Polo detenuti con storie personali diverse, ma sempre con pene lunghe e dunque reati in genere gravi. L’unicità dell’esperienza portava a Torino detenuti da varie parti di Italia. Hanno cominciato a inserirsi persone di origine straniera. Nei tempi più recenti c’è stato un interesse anche da parte di persone non più giovani, tra cui alcuni “colletti bianchi», responsabili di reati di impresa. Ma questo ha a che fare con le diverse motivazioni che spingono a chiedere di essere ammessi al Polo. Quali sono queste motivazioni? L’esperienza dello studio universitario, può assumere diversi significati. Per una parte dei detenuti la frequenza di un corso universitario significa esercitare un diritto, a volte rivendicandolo a partire da una consapevolezza che può essere preesistente al momento della reclusione o maturare in carcere nel dialogo con avvocati, personale educativo, volontari, altri detenuti. Per molti - forse la maggioranza - studiare in maniera organizzata e sistematica ha il significato di dare un senso a una esperienza difficile e particolare nel proprio percorso esistenziale come quella del carcere: nello studio e nella cultura molti trovano una opportunità di riflessione sulla propria vita e sulle vicende e condizioni che li hanno portati in carcere. Ma anche sul mondo, sulla società, sui valori, sui diritti e sui doveri, propri e altrui. Per i più giovani, soprattutto, lo studio e il percorso che porta a una laurea universitaria può essere considerato importante per prospettarsi un futuro, dopo il carcere: per prepararsi cioè ad affrontare con più strumenti culturali, con maggiori conoscenze, con un titolo almeno in alcuni casi spendibile, le sfide non facili che si aprono a chi quella esperienza ha fatto. Non solo per il valore che possono avere un titolo di studio e le competenze acquisite, ma perché l’individuo potrà “rappresentare”al mondo (alla sua famiglia, a chi lo conosce, a chi può offrirgli opportunità di lavoro, ecc.) un’ immagine di sé altra da quella che accompagna tutti gli ex detenuti. Infine, non si può ignorare il ruolo che l’accesso a questa opportunità (al pari dell’accesso ad altre, per definizione sempre scarse) riveste ai fini di “farsi meglio la galera». Per vivere cioè la detenzione in condizioni meno difficili, in un contesto in cui la vita quotidiana e la qualità delle relazioni tra gli stessi detenuti e con lo staff, anche per i tanti scambi con l’esterno, sono in genere di gran lunga migliori di quelle che si determinano nelle sezioni “normali” di tante carceri. Lei è docente anche degli studenti “fuori»: qual è la differenza fra gli iscritti “liberi” e quelli ristretti? Ci sono oggettive differenze legate all’età e alla maturità delle persone che sono in carcere. Molte di loro hanno esperienze di vita complicate e hanno sperimentato rapporti con le istituzioni penali e penitenziarie che segnano le personalità. La scelta di studiare nel periodo della detenzione è in genere una scelta che, per i motivi che ho illustrato, ne fa degli studenti molto interessati ai contenuti delle varie discipline e quasi sempre impegnati a “riuscire” bene negli esami. Così anche i risultati sono in genere buoni. Senza contare che in carcere non vi sono le molte distrazioni che segnano oggi l’esperienza dei giovani studenti universitari e a volte compromettono la concentrazione e la riuscita negli studi… Quali sono gli esiti sul piano dei percorsi successivi alla carcerazione? Il progetto torinese si contraddistingue anche per l’impegno ad accompagnare nelle fasi successive alla carcerazione i detenuti inseriti al Polo. In particolare con l’impegno dell’Ufficio Pio della Compagnia San Paolo e del Fondo Musy che consente di offrire, ai detenuti che maturino le condizioni per l’accesso alle misure alternative, opportunità di tirocini e borse lavoro con l’impegno di portare a termine i percorsi di studi, prevedendo che una parte della giornata sia trascorsa in Università. In queste opportunità molti trovano le occasioni di riprendere in mano la propria vita. Taranto: nel carcere nasce “Fieri Potest Pastry Lab”, laboratorio di pasticceria artigianale agensir.it, 8 dicembre 2018 Un laboratorio di pasticceria artigianale nel carcere di Taranto. Dopo Articolo 21, il ristorante sociale ormai lanciatissimo, in cui lavorano migranti, ex detenuti e ragazzi a rischio delle periferie della città, la cooperativa “Noi & Voi” si “tuffa” in una nuova avventura, con l’obiettivo di sempre: reintegrare nel tessuto sociale e lavorativo chi ha perso la libertà, i sogni, le speranze. La pasticceria è già una realtà. Oggi l’inaugurazione ufficiale. Un Maestro pasticciere farà da tutor ad un detenuto, assunto dalla cooperativa, ma il progetto è in espansione nei numeri del personale coinvolto. Crostate e cornetti da domani verranno venduti nello spaccio interno della polizia penitenziaria e ai primi bar che hanno sposato la causa. Intanto il dono dei prodotti ad associazioni locali ed enti locali, permetterà una prima diffusione e conoscenza dell’idea. È già attivo un contatto diretto con singoli acquirenti per le ordinazioni (fieripotest.pastrylab@gmail.com) ed è previsto presto l’avvio di un servizio di e-commerce e di una pagina Facebook. “Il laboratorio ha origine da un corso professionalizzante esterno alla casa circondariale, che ha coinvolto 50 detenuti in misura alternativa, di cui 10 nel laboratorio di pasticceria. “Fieri Postest”, in latino “È possibile”, è un percorso che prende il nome dal ‘Centro Socio Rieducativo’ voluto da monsignor Filippo Santoro, arcivescovo della diocesi di Taranto, e realizzato con il contributo della Caritas italiana”, spiega don Francesco Mitidieri, cappellano della casa circondariale e presidente dell’Associazione “Noi e Voi” onlus. L’obiettivo è offrire formazione e lavoro a chi vive tra le sbarre ed è in cerca di un futuro migliore. “Fieri Potest Pastry Lab”, il laboratorio di pasticceria artigianale all’interno del carcere di Taranto, è un esempio concreto di connubio tra amministrazione penitenziaria e terzo settore. “È infatti la Cassa Ammende ad aver finanziato l’acquisto delle attrezzature necessarie - spiega la direttrice dell’Istituto penitenziario, Stefania Baldassari - con una spesa di 45mila euro. La zona, interna al penitenziario ionico, è stata adeguata dal punto di vista elettrico e idrico e ceduta in comodato d’uso gratuito alla cooperativa Noi&Voi attraverso la firma di un protocollo d’intesa che prevede che venga svolta attività di formazione e che il personale impiegato sia esclusivamente detenuto, in modo da favorire l’inserimento sociale e lavorativo, concluso il periodo di detenzione”. “Questa della pasticceria è una bella scommessa. Nella casa circondariale - racconta Antonio Erbante, presidente della cooperativa Noi & Voi - lavoriamo da 25 anni. Vogliamo formare i ragazzi in prospettiva di un lavoro all’esterno. Il carcere non deve essere considerato solo una punizione ma una modalità per poter pensare ad una nuova vita, una volta fuori”. Palermo: nella biblioteca del carcere minorile “non si giudica un libro dalla copertina” di Marta Occhipinti e Giorgio Ruta La Repubblica, 8 dicembre 2018 Una biblioteca con oltre 4mila volumi all’interno dell’istituto penitenziario minorile Malaspina di Palermo, nata per rieducare i detenuti attraverso la lettura. Una piccola sala illuminata da un’unica finestra, gestita dalle volontarie dell’istituto, dove i ragazzi prendono in prestito testi che insegnano loro storie di riscatto con protagonisti in cui riconoscersi. Dalle poesie di Alda Merini ai romanzi di Calvino e le storie dei grandi sportivi, tra i lettori più assidui c’è anche chi si prende cura della biblioteca, catalogandone i volumi. “Se un libro non si giudica dalla copertina, neppure noi dobbiamo essere giudicati per il nostro passato - dicono i ragazzi - ci impegniamo per un futuro diverso e attraverso i libri abbiamo imparato a essere più curiosi del mondo che ci sta attorno”. Milano: più vip che detenuti, alla proiezione di “Attila” nel carcere di San Vittore di Manuela Messina La Stampa, 8 dicembre 2018 Il penitenziario si riempie di personalità eccellenti che siedono di fianco a una sempre più striminzita delegazione di carcerati. Più vip che detenuti, alla proiezione della diretta scaligera di “Attila”, alla rotonda del carcere di San Vittore. Una proporzione tipica del periodo storico: le serate di gala ormai non sono più così di moda, mentre guadagnano popolarità quelle solidali, per stare vicini agli ultimi, ai reietti, ai dimenticati. Se al Teatro alla Scala, il salotto buono del capoluogo lombardo, pesano le assenze (il vicepremier Salvini potrebbe partecipare solo alla cena di gala) il penitenziario si riempie di personalità eccellenti, che siedono di fianco a una sempre più striminzita delegazione di carcerati, una cinquantina al massimo. Tolte le figure istituzionali - il vicesindaco Anna Scavuzzo, alcuni assessori, il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio, il presidente dell’Ordine degli avvocati Remo Danovì, tra gli altri - il parterre della casa circondariale si riempie di avvocati, medici, imprenditori, personaggi della società civile. Arriva anche Alberto Bonisoli, il ministro dei Beni culturali, per il secondo atto (ha visto il primo al Piermarini) per dire che è importante “dialogare con chi prende le decisioni, e questi magari sono i signori che ho appena salutato alla Scala” ma “ricordandoci di chi rimane in fondo e degli ultimi”. Anche il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano Giovanna Di Rosa, che a San Vittore è una figura importantissima, quasi un’istituzione, commenta: “Quest’anno i detenuti sono un po’ meno dell’anno scorso, questo perché la società deve entrare in carcere, e portare questo ricordo e questa esperienza fuori da qui. La cultura unisce, la cultura rompe le sbarre”. Pochi istanti prima dell’inizio dello spettacolo, anche dal cortile in cui convergono i sei raggi della struttura, si leva un lungo applauso al presidente Mattarella, simbolo di patriottismo e figura di garanzia nell’epoca delle divisioni. Ma anche durante la proiezione, e soprattutto alla fine, non mancano gli applausi. L’Attila verdiano, straniero e invasore, conquista i detenuti. Antonino, 56 anni, insegnante e clarinettista, apprezza soprattutto la scelta di Saioa Hernandez, il soprano che interpreta Odabella. “È bravissima, azzeccata, soprattutto fisicamente”. Radhoen, 33 anni, dalla Tunisia, da 14 anni in Italia, è commosso. “Mi ha colpito moltissimo, nel mio Paese la gente normale non va a vedere l’opera, qui c’è una cultura diversa”. Proprio lui che stasera tornerà in cella ci lascia con una speranza. “Attila è cattivo, ma alla fine si innamora. Questo perché l’amore può cambiare un uomo, l’amore può cambiare il mondo”. Milano: “è strano scoprire l’opera lirica a San Vittore” di Sara Bernacchia La Repubblica, 8 dicembre 2018 L’applauso esplode fragoroso con qualche secondo di ritardo rispetto a quello della Scala, ma coinvolge tutti, dai detenuti alle autorità, agli agenti della polizia penitenziaria. La rotonda di San Vittore si anima e brulica di persone come la piazza dei un paese nel giorno di festa. D’altra parte Sant’Ambrogio è la festa di Milano e “San Vittore è una parte della città, è il suo quartiere più nascosto», come lo definisce il direttore Giacinto Siciliano. Seduti tra il pubblico ci sono 40 detenuti scelti per assistere alla proiezione. “Non avevo mai visto l’opera ed è strano farlo per la prima volta qua dentro - spiega uno di loro. Mi è piaciuta anche se non ho capito perché hanno scelto di ambientarla nel Novecento». Se ne intende di più il compagno che siede accanto a lui: “Ho già partecipato alla proiezione tre anni fa. È un’occasione per ricordare alle persone fuori che ci siamo anche noi”dice. Durante la proiezione le luci si abbassano, ma non si spengono del tutto e sporgendosi si intravedono i bracci illuminati e le porte delle celle. Di tanto in tanto il rumore delle chiavi che aprono e chiudono i cancelli al passaggio degli agenti si sovrappone alle note dell’Attila, ma con il passare dei minuti lo spettacolo cattura tutti. Anche il movimento continuo degli agenti, silenzioso e schematico, si fa più lento, ma la concentrazione è forte. “C’è molto impegno dietro la realizzazione di serate come questa - spiega il sostituto commissario Mario De Michele, anche perché intanto nei bracci i colleghi stanno lavorando». La macchina, però, funziona e all’intervallo si passa tutti al buffet. In 15 stanno lavorando alla serata: chi segue il corso di cucina ha preparato il cibo, altri hanno posizionato le sedie in sala. Tra loro ci sono quelli che l’assistente capo Pasquale Costanzo definisce “i suoi ragazzi», tre giovani di vent’anni che scontano pene brevi e lavorano nel magazzino. Tra i detenuti impegnati a servire al buffet c’è anche Martina Levato che si occupa delle bevande. “Ho imparato a cucinare in carcere, la mia specialità sono gli aperitivi” dice ignara della conferma della condanna a 19 anni e 6 mesi decisa dalla Cassazione pochi minuti prima. L’atmosfera a San Vittore è quella di una festa consapevole. “Questo è un segno tangibile della vicinanza della città al carcere. La Prima diffusa porta l’opera in tutta Milano, era giusto che fosse anche qui” afferma la vice sindaca Anna Scavuzzo. E la volontà delle istituzioni di essere presenti è confermata dall’arrivo direttamente dalla Scala del ministro della Cultura, Alberto Bonisoli. “Il Paese può crescere solo ragionando come una comunità - ha detto il ministro - e in una comunità bisogna ascoltare la voce di tutti». Come è accaduto ieri sera. Brindisi: “La Magia del Cioccolato”, laboratorio con protagonisti padri detenuti e figli brundisium.net, 8 dicembre 2018 Due anteprime aspettando “La Magia del Cioccolato”, evento organizzato nel centro cittadino di Brindisi dall’associazione Puglia Insieme si Può, in programma dal 13 al 16 dicembre. La prima anticipazione si è tenuta lo scorso fine settimana nella Galleria del centro commerciale “Le Colonne Shopping Centre” dove gli avventori hanno potuto degustare Cremosa, un nuovo prodotto realizzato e lanciato da Caffarel, anche quest’anno main sponsor della kermesse. Ma La Magia del Cioccolato non è solo un evento dedicato ai golosi e alle famiglie, è anche una manifestazione che negli anni ha assunto un valore aggiunto, che si è arricchita di iniziative collaterali finalizzate a regalare un sorriso ai bisognosi, agli ultimi, a chi spesso vive ai margini della società. Lo scorso anno, ad esempio, gli organizzatori fecero visita ai piccoli degenti del reparto di pediatria dell’ospedale Perrino di Brindisi ai quali distribuirono il cioccolatino Baciocco, quest’anno invece il presidente Fabio Pochi ha voluto regalare un sorriso ai figli di genitori detenuti nella casa circondariale di Brindisi sostenendo il progetto “Altrove” che dal 2014 si occupa della genitorialità in carcere. “Altrove” collabora con l’Associazione Nazionale “Bambini Senza Sbarre” che da anni porta avanti, a livello nazionale, azioni sulla tutela della relazione padre-figlio nonostante la detenzione. In questi giorni, infatti, in tutta Italia si stanno svolgendo iniziative che vedono protagonisti papà detenuti e figli. E a Brindisi, in occasione della sesta edizione de “La Magia del Cioccolato”, per la prima volta i pasticcieri, coordinati dal maestro Nicola Ravone, sono entrati negli spazi della Casa Circondariale per realizzare, insieme ai piccoli aiutati dai genitori, gustosi cioccolatini. Un’idea che gli ideatori del progetto “Altrove” e la Casa Circondariale di Brindisi hanno accolto con entusiasmo. È stato, infatti, un momento di condivisione tra padri e figli, 32 bambini e 12 adulti, un’occasione per creare, divertirsi, scambiarsi un abbraccio al profumo di cioccolato in un luogo “diverso”, in un posto grigio che per un giorno ha cambiato volto, che per una volta si è colorato dei sorrisi dei bambini, delle loro manine sporche di cioccolato. Un’esperienza dall’alto impatto emotivo, un’occasione preziosa per migliorare una relazione tanto importante quando complessa. Napoli: VIII Edizione Mostra mercato “ArtigiaNato in carcere” comune.napoli.it, 8 dicembre 2018 Sabato 15 dicembre 2018, dalle ore 9.00 alle 18.00, presso la Galleria Umberto I° di Napoli, si terrà la 8° edizione della mostra-mercato “ArtigiaNato in Carcere”, promossa dal Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria di Napoli in collaborazione con il Centro Giustizia Minorile, il Garante per i Detenuti della Regione Campania, l’Associazione “Il carcere possibile o.n.l.u.s.” e con il patrocinio del Comune di Napoli. La manifestazione propone l’esposizione e la vendita di manufatti e prodotti artigianali realizzati negli Istituti Penitenziari della Regione, coinvolgendo anche le Cooperative e le Associazioni di volontariato operanti negli Istituti e i detenuti impegnati direttamente nelle lavorazioni. Obiettivo principale dell’iniziativa è sensibilizzare l’opinione pubblica dando visibilità alle tante attività laboratoriali che i detenuti svolgono all’interno degli Istituti unitamente all’impegno dell’Amministrazione Penitenziaria nel garantire l’esecuzione della pena nell’ottica della rieducazione e del reinserimento sociale attraverso il lavoro e la formazione professionale. Negli anni questa manifestazione è diventata fortemente motivante per tutti gli operatori coinvolti, oltre ad essere un’occasione di incontro e verifica con la rete territoriale, contribuendo a rafforzare i rapporti ed a favorire nuove sinergie e progetti. Sono previsti momenti d’intrattenimento e di richiamo per il pubblico e uno spazio per gli interventi istituzionali: dalle ore 10.00 è programmato l’arrivo delle autorità e l’esibizione del Coro del S. Carlo diretto dal maestro Carlo Morelli; alle ore 11.00 circa, la Banda dell’Esercito e la Banda nazionale del Corpo della Polizia Penitenziaria suoneranno brani celebri. Il Coro scolastico dell’I.C. Statale “Don Milani - Aliperti” di Marigliano canterà l’inno nazionale. Ferrara: “Arte in libertà”, mostra dei detenuti estense.com, 8 dicembre 2018 Inaugurazione giovedì 13 dicembre nella sede dell’associazione “Noi per loro”. Una mostra speciale, aperta a tutti, con i lavori eseguiti da un gruppo di detenuti nel Laboratorio di Bricolage della Casa Circondariale “C. Satta” di Ferrara. La mostra “Arte in libertà” - organizzata dall’associazione “Noi per loro” (che si occupa del sostegno materiale e spirituale dei “fratelli ristretti”), e con il patrocinio del Comune di Ferrara - inaugura giovedì 13 dicembre alle ore 11 nella sede dell’associazione in via degli Adelardi, 9. All’evento inaugurale interverranno il direttore della Casa Circondariale Paolo Malato, la comandante Annalisa Gadaleta, l’assessore ai Servizi alla Persona Chiara Sapigni, il cappellano del carcere padre Tiziano Pegoraro, il presidente dell’associazione ed ex cappellano Antonio Bentivoglio e Stefania Carnevale, Garante dei diritti delle persone private della libertà Personale. Questi gli orari di apertura della mostra, visitabile a ingresso libero fino al 6 gennaio 2019: dal lunedì al sabato, dalle ore 9.30 alle 12.30 e dalle 15.30 alle 19. Airola (Bn): al carcere minorile detenuti protagonisti di uno spettacolo teatrale di Ferdinando Nardone linkabile.it, 8 dicembre 2018 “La sfida è stata vinta”. Si chiude con questa dichiarazione del direttore dell’Istituto Penale per minorenni di Airola Dario Caggìa la mattinata di ieri, 7 dicembre, che ha visto i ragazzi del centro protagonisti. Uno spettacolo teatrale a tutti gli effetti dove i ragazzi coadiuvati dalla Compagnia di Portici “Tra palco e realtà”, hanno messo in scena temi forti, come l’infiltrazione camorristica nel nostro Paese, in chiave comica, ma attraverso la testimonianza di un prete di frontiera. Battute, musica, danze e spunti di riflessione, quelli molti. Un finale mozzafiato con il rapper Lucariello che ha chiuso lo spettacolo con “Al posto mio”, singolo inciso con Alì, ragazzo detenuto presso il centro e tutti gli altri componenti dello spettacolo che sostenevano una dicitura: “basta”. Basta con i pregiudizi, basta con il fare di tutta l’erba un fascio, basta non considerare più questi ragazzi che hanno commesso degli errori, ma dei quali si pentono. Una riflessione sull’immedesimazione, ragazzi che sanno di aver sbagliato ma che hanno prospettive, sogni, desideri. Hanno preso la parola al termine dello spettacolo il sindaco di Airola, Michele Napolitano, che ha ricordato il giovane ragazzo di Airola che ha perso la vita, suicida, nei giorni passati e ha ricordato ai ragazzi che la vita va vissuta comunicando tutti i giorni, auspicandosi un riscatto nel futuro di questi giovani; il Garante dei diritti dei detenuti, Samuele Ciambriello, che ha ricordato come la loro opera ci invita ad essere coerenti con coloro che hanno dato la vita pur di non scendere a compromessi: “Bello spettacolo avete parlato di preti di frontiera che lottano contro l’esclusione sociale e la criminalità organizzata. Siamo tutti impegnati a vivere la legalità. Io sostituirei la parola legalità con responsabilità”, ha dichiarato Ciambriello. La dirigente del Centro della Giustizia minorile, Maria Gemmabella, che ha dichiarato: “Questo spettacolo è una testimonianza per difendere la dignità di chiunque metta piede sul nostro territorio”. Ha concluso la mattinata il direttore soddisfatto della riuscita del progetto. Erano presenti allo spettacolo anche alcune classi del Liceo Scientifico “Nino Cortese” di Maddaloni. Carinola (Ce): alla Casa di reclusione concerto e cena natalizia con sessanta detenuti paesenews.it, 8 dicembre 2018 In occasione delle festività natalizie, la Direzione dell’istituto penitenziario di Carinola, nell’intenzione di offrire momenti di aggregazione per alleggerire il peso della distanza dagli affetti familiari, soprattutto durante le festività, ha organizzato una serie di eventi volti proprio a festeggiare il Natale, nonostante tutto. Come di consueto vi sarà la cena di Natale, organizzato dalla Diocesi di Sessa Aurunca e dalla Comunità di Sant’Egidio, che quest’anno si terrà il giorno 12 Dicembre e sarà destinato ad un gruppo di circa sessanta detenuti, gruppo formato soprattutto a coloro che versano in particolari condizioni di indigenza. La cena sarà l’occasione per stare insieme in un contesto più familiare e caldo; saranno presenti, oltre ai volontari della Diocesi e della Comunità di Sant’Egidio, anche operatori del carcere ed insegnanti. Invitati anche il sindaco di Carinola, il Garante dei diritti dei detenuti e delle persone ristrette, il dott. Ciambriello, i Magistrati di Sorveglianza dell’ufficio di Santa Maria Capua Vetere, e il Presidente del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, Gabriella Casella. Il giorno seguente, il 13 dicembre, la diocesi di Sessa Aurunca ha organizzato un concerto del cantautore Giosy Cento, Don Giuseppe Cento, compositore di oltre 900 brani di musica cristiana, che verrà a portare il messaggio Dio, con un linguaggio alternativo. Se l’Italia diventa cattivista. La fotografia del Censis di Dario Di Vico Corriere della Sera, 8 dicembre 2018 La pancia del Paese da indolente è diventata cattiva e siamo davanti a una trasformazione antropologica degli italiani che non sono più la “brava gente», hanno preso invece a moltiplicare egoismi, chiusure e invidie. Dobbiamo deciderci ad aggiornare la fotografia buonista della società italiana. Lo chiede il Censis che pure ha raccontato negli anni con continuità e compiacimento la capacità adattiva degli italiani, il ventre molle che li portava ad essere protagonisti riluttanti della modernizzazione del Paese. Proprio per questa sottolineatura Giuseppe De Rita ha attirato su di sé l’accusa di essere indulgente con le pigrizie italiane, se non addirittura di giustificarle. Ebbene nel Rapporto 2018 la fotografia buonista va in soffitta e spunta la parola “cattiveria», indicata come sostantivo ricco di significati e denso di contenuti sociali. La pancia del Paese da indolente è diventata cattiva e siamo davanti a una trasformazione antropologica degli italiani che non sono più la “brava gente», hanno preso invece a moltiplicare egoismi, chiusure e invidie. Argomenta il Rapporto: “Sono diventati normali opinioni e comportamenti che erano indicibili solo fino a qualche tempo fa». E ancora: “Le diversità sono percepite come pericoli da cui proteggersi e la dimensione culturale della insopportazione degli altri sdogana ogni sorta di pregiudizi, anche i più passatisti». È francamente difficile non condividere la fenomenologia di cui sopra, la si può rintracciare quotidianamente nelle cronache nazionali ma al momento di indagarne le motivazioni il Rapporto Censis scarta ed evita una lettura tutta politica e forse scontata. L’innesco della cattiveria non viene prevalentemente dall’alto, dall’azione consapevole e cinica di soggetti politici come Lega e Cinque Stelle, la radice di questa trasformazione va cercata in basso, negli orientamenti popolari più profondi. La politica e le sue retoriche - dice il Censis - rincorrono, riflettono o semplicemente provano a compiacere un sovranismo definito “psichico”in quanto si è installato nella testa e nei comportamenti degli italiani. Ma se la radice non è politica dove ha preso alimento la svolta della cattiveria? La prima risposta rimanda all’economia e alla materialità della crisi con il suo carico di esclusione, sofferenze e privazioni. La fenomenologia anche in questo caso è ben nota e riporta al miraggio di una ripresa durata troppo poco, al ristagno del Pil, ai consumi piatti, allo stop degli investimenti e persino dell’export e soprattutto rimanda alla mancanza di lavoro. È stato dunque un pervasivo sentimento di solitudine sociale ad alimentare un sovranismo spicciolo che vede l’ingiustizia e la disuguaglianza tutte originate dalla sottrazione di potere nazionale. E che si nutre di un facile capro espiatorio: l’immigrazione. Più i cittadini italiani si sentono fragili più la loro contrapposizione alla società aperta si fa radicale e le opinioni sul fenomeno migratorio registrano un’impennata della diffidenza. La seconda risposta ci porta alla relazione che si è stabilita tra il popolo del rancore, il suo peso gettato nelle urne e l’auspicato cambiamento. Il Rapporto non è tenero con la maggioranza gialloverde guidata da Giuseppe Conte non perché ne sottolinei l’incompetenza e l’improvvisazione ma perché dà già per scontato che il cambiamento miracoloso promesso da Matteo Salvini e Luigi Di Maio resterà al palo e la successiva disillusione non produrrà certo il ritorno agli equilibri politici ex ante. Renderà, invece, ulteriormente cattivi gli italiani che “sono pronti ad alzare ulteriormente l’asticella, sono disponibili persino a un salto nel buio». La metafora è di quelle forti ed evoca il peggio. Il “sovranismo psichico” di un’Italia povera e incattivita di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 8 dicembre 2018 Rapporto Censis. I migranti il capro espiatorio degli italiani passati alla “difesa delle trincee». Il reddito ristagna: tra il 2000 e il 2017, 400 euro in più all’anno contro i 6 mila in Francia. Sovranismo psichico, prima ancora che politico. È la definizione del Censis nel 52esimo rapporto presentato ieri al Cnel a Roma. Più che un’analisi sui dati dell’economia, e della sua crisi, l’indagine trova un suo interesse per il panorama che offre sulla crisi della soggettività nell’epoca del risentimento e del “populismo” al potere. L’espressione ridondante di “sovranismo” non allude solo al conflitto tra Stato-Nazione e tecnocrazia europea, ma al cittadino-consumatore che “assume i profili paranoici della caccia al capro espiatorio». Si esprime “in un egolatrico compiacimento nei consumi” mentre il suo reddito ristagna - tra il 2000 e il 2017, solo 400 euro in più all’anno contro i 6 mila in Francia dove sono insorti i gilet gialli - ed è drammatica l’emergenza casa (solo 4 mila alloggi sociali costruiti) in un paese di gente senza casa e di case senza gente. La caccia al capro espiatorio è auspicata, per motivi elettorali, dai populisti. Dall’alto, sul balcone di Facebook c’è un ministro dell’Interno che gestisce un’economia psichica che ieri aveva al centro il “rancore” e oggi la “cattiveria” contro gli inermi. In basso, si registrano le aggressioni, quella fascista di Macerata o quella a una ragazza rom l’altro ieri nella metro di Roma. L’alto e il basso si saldano nelle norme del cosiddetto “Dl sicurezza»: galera contro “l’accattonaggio molesto», oppure per i sindacati e movimenti che fanno blocchi stradali o occupano. In entrambi i casi si prospetta l’uso penale del diritto contro il dissenso e i poveri. “La conflittualità latente, individualizzata, pulviscolare e disperata», rilevata dal Censis, non è uno stato di natura, ma una condizione governata attraverso l’uso mediatico di un’emergenza fittizia. Viviamo in un’”era biomediatica” dove si è rovesciato il rapporto tra l’io e il sistema dei media. Il soggetto ne è diventato il protagonista centrale, anche perché senza di lui Facebook o Twitter non esistono. Geniale invenzione: piattaforme senza contenuti che realizzano i loro profitti con i contenuti personali prodotti gratuitamente dai loro utenti. Ciò che legittima questa situazione è la “vetrinizzazione del sé», la vita trasformata in un brand dell’Io. Le fashion blogger, gli “autori” o i politici, ad esempio. Il Censis interpreta questa trasformazione nei termini della “celebrità”. Un terzo del suo campione ritiene che la popolarità sui social network sia un ingrediente “fondamentale”, a dispetto dei titoli di studio (il 41,6% tra i 18-34enni). Ma, allo stesso tempo, un quarto afferma che i “divi”non esistono più (il 24,6%). Nell’economia digitale, tuttavia, tutti sono sollecitati a mettersi in mostra. La nostra esistenza coincide con la “visibilità” e, talvolta, con la sua monetizzazione. Non è un’eccezione, è la regola. I social media fanno parte della politica - non sono “pre-politica», né sovrastruttura. È politico il lavoro di chi, nello stato e nel mercato, forma il senso comune a partire dal sistema pulviscolare degli account personali. Il “sovranismo psichico” unisce le élite al loro popolo reinventato quotidianamente sulle piattaforme digitali. E lo chiama “popolo». Siamo passati dall’assalto al cielo alla “difesa delle trincee», la formula del Censis è efficace. Segno che per questa soggettività introflessa, vulnerabile e capace di affermare la sua passione per le merci che non riesce più ad acquistare, la salvezza sta nel difendere l’ultima proprietà che resta: la sovranità sull’identità. L’intolleranza verso gli stranieri, sui confini esterni, ha un analogo all’interno. L’identità è sessuata, maschile, tradizionalista e patriarcale. Il 43,2% del campione interpellato non vuole convivenze tra persone non sposate, il 37,1% è paladino della tradizionale divisione dei ruoli e il 22,7% è convinto che le faccende domestiche debbano essere svolte dalle donne. Lo pensa anche il 19,7% delle interpellate. È in questa torsione reazionaria che nascono le violenze maschili contro le donne, quelle che il movimento femminista Non una di meno denuncia instancabilmente da tre anni, non solo in Italia. Il rischio delle indagini che intrecciano crisi individuali e sociali è limitare la clinica della paura alla dimensione psicologica e morale di un Io desovranizzato. La salvezza non sta in una nuova accumulazione del “capitale umano». Questa è una parte del problema, come emerge, ad esempio, nel libro di Federica Giardini I nomi della crisi. Antropologia e politica (Wolters Kluwer), una diagnosi chirurgica del nostro presente. Concorrenza, prestazione, empowerment - i valori del “capitale umano”- mescolano il tratto vitale delle passioni con una nuova gerarchia tra chi è più o meno concorrenziale. Il “sovranismo psichico” è una reazione a questa situazione impossibile, prodotta dal mercato e usata dal populismo. E va decostruito con una critica dell’economia politica, e psichica, di quello che siamo diventati in questa bolla dell’odio e dell’impotenza. Le alternative esistono. Ieri Giuseppe De Rita ha accennato al desiderio di un altro mondo, “un senso diverso del futuro», di un “mondo come società possibile». In Italia c’è una società viva che lo sta cercando. Lo dimostrano, a nostro avviso, anche le manifestazioni antirazziste da Milano, a Catania, a Roma. Ci vuole coraggio nel rendere queste testimonianze politicamente attive. Paura dei migranti, e il rancore diventa cattiveria di Luigi Pandolfi Il Manifesto, 8 dicembre 2018 Rapporto Censis. Un quadro allarmante, su cui pesa molto la condizione lavorativa dei giovani. Precarietà, sottoccupazione, part-time involontario. Un Paese incattivito. Cupo, anziano, diffidente, senza speranza. Non è la Francia dei Gilet jaune, che molto sta facendo parlare di sé in questi giorni. È l’Italia di oggi, raccontata alla luce delle sue frustrazioni nell’ultimo Rapporto del Censis. L’Italia che il 4 marzo aveva affidato la cura della sua rabbia sociale ai partiti populisti, oggi uniti in matrimonio nel governo giallo-verde, che adesso non nasconde un certo disincanto per come stanno andando le cose, a cominciare dall’andamento dell’economia (pesa lo shock per l’arretramento del Pil dopo 14 trimestri di crescita). Complice lo “sfiorire della ripresa», monta la convinzione che gli anni a venire non saranno affatto quelli del miglioramento delle condizioni materiali di vita della stragrande maggioranza della popolazione, di quelli che maggiormente hanno pagato il prezzo della crisi nell’ultimo decennio. Non c’è un crollo del consenso verso i partiti di governo, non ancora, ma l’idea che “anche questa volta” le aspettative su un cambio radicale di marcia del Paese possano andare deluse è già presente in una fetta larga dell’elettorato. Nessuna rivalutazione di “quello che c’era prima», beninteso. La rabbia, che nel frattempo è diventata “cattiveria», si sta tramutando in “sovranismo psichico», nella ricerca di un “sovrano autoritario” al quale affidare le sorti del Paese. Per decenni, in Europa, le nuove generazioni hanno vissuto nella certezza che la loro vita sarebbe stata migliore di quella dei propri padri. Ora non è più così. In Italia più che altrove. Nel nostro Paese, secondo le rilevazioni del Censis, solo il 23% dei cittadini dichiara di aver migliorato la propria condizione socio-economica rispetto ai genitori, contro una media Ue del 30%. Quasi nessuno, poi, tra le persone con un basso titolo di studio o a basso reddito pensa che il futuro possa riservare alla propria esistenza materiale qualcosa di meglio. Un salto indietro di un secolo, almeno. L’ascensore sociale si è di nuovo bloccato, è andato in frantumi il patto sociale su cui si è retta l’Italia per oltre un sessantennio. Cala la fiducia nella politica, cresce il risentimento verso le istituzioni europee (solo il 43% degli italiani pensa che l’appartenenza alla Ue abbia fatto bene all’Italia, a fronte di una media europea del 68%), gli immigrati fanno sempre più paura (sono un problema per il 63% degli italiani). Il dominio del capitale è entrato in una fase nuova. Se ieri i nostri problemi derivavano dal fatto che avevamo vissuto “al di sopra delle nostre possibilità», oggi la causa dei nostri mali andrebbe ricercata nella concorrenza e nell’invadenza di chi sta sotto di noi. Per il 58% degli italiani gli immigrati sottrarrebbero posti di lavoro ai connazionali e minaccerebbero la tenuta di ciò che resta del welfare state. Coperta corta, risorse scarse, ognuno a casa propria. Il problema non è l’iniqua distribuzione della ricchezza ma la sottrazione di risorse da parte di chi entra in casa nostra “senza averne diritto». Eppure, se in Italia i salari sono aumentati soltanto dell’1,4% dal 2007 al 2017, mentre in Francia e in Germania l’aumento è stato nello stesso periodo, rispettivamente, del 13,6 e del 20,4%, una domanda bisognerebbe porsela sullo stato delle nostre relazioni industriali, su come le stesse si siano via via modificate in questi anni. Il Rapporto del Censis dice anche che il potere d’acquisto delle famiglie italiane è sceso del 6,3% rispetto al 2008 (in termini reali) e che negli ultimi tre anni si è allargata la forbice nei consumi tra i diversi gruppi sociali (-1,8% le famiglie operaie, +6,6% quelle degli imprenditori). Il problema è di coperta corta o di distribuzione della ricchezza? A maggior ragione se si tiene conto di un altro squilibrio: quello tra nord e sud del Paese. Dopo la crisi, c’è stata una parte dell’Italia che ha recuperato quasi tutto il terreno perduto ed un altra che è andata ancora più indietro, che rischia spopolamento e desertificazione economica. Squilibri sociali, squilibri territoriali. Un quadro allarmante, su cui pesa molto la condizione lavorativa dei giovani. Precarietà, sottoccupazione, part-time involontario. In dieci anni, da 236 giovani laureati occupati ogni 100 anziani si sarebbe scesi a 99. Eppure, proprio i giovani avrebbero più fiducia nel progetto di integrazione europea: il 58% dei 15-34enni e il 60% dei 15-24enni. Migranti dalla Svizzera in Italia: “Respingiamo anche i minori» di Giusi Fasano Corriere della Sera, 8 dicembre 2018 Non solo Francia. La denuncia dell’avvocato Paolo Bernasconi, l’ex procuratore di Lugano che collaborò con Falcone: “In Ticino negati i diritti». L’avvocato è uno che va subito al punto. “Tanto per essere chiari - scandisce - in Ticino è più facile ottenere un permesso di dimora o lavoro come prostituta che come richiedente asilo. C’è qualcosa che non funziona se siamo il Paese più ricco del mondo e non riusciamo a garantire i diritti fondamentali di questa gente che scappa dalla guerra, sì, ma pure dalla fame. Anche questo continuo distinguere fra bombe e pane... Perché? La fame forse è più accettabile?». Nato a Lugano - Si infiamma, Paolo Bernasconi, classe 1943, nato a Lugano, avvocato e docente universitario di Diritto penale dell’economia. Lui che da una vita segue i percorsi degli ultimi della Terra, che per 27 anni è stato nel Comitato internazionale della Croce Rossa, che ha fatto per vent’anni il procuratore pubblico del suo Paese, che è stato l’interfaccia svizzera di Giovanni Falcone... Lui che ricorda: “Durante la guerra casa mia era piena di profughi e fuoriusciti, mio padre ospitò Saba e Montale...». Ecco. Lui oggi legge le notizie sui migranti e scuote la testa. Ogni volta di più. “Qui non li vogliono, diciamoci la verità. Il nostro ministro della Giustizia ticinese - dice - dichiara che “dobbiamo rimandarli tutti al Sud”, che poi vuol dire quasi sempre in Italia. E le guardie si adattano: aprono le porte, li cacciano, più spesso di notte ma anche di giorno», spiega citando casi precisi. In Francia - Non solo Francia, insomma. Le espulsioni sommarie avvengono anche ai varchi dei confini italosvizzeri (sia pure in misura ridotta dopo il blocco delle Ong) e spesso nel silenzio. “Faccio parte di una rete di avvocati italosvizzeri che si occupa di questi problemi. Siamo una ventina e le posso assicurare che ne abbiamo di persone che ci raccontano di respingimenti discrezionali - conferma Bernasconi. Le guardie spesso decidono della vita di una persona guardandola in faccia, senza criterio. Ti cacciano e pazienza se hai qui la famiglia, se è qui che volevi venire, se si violano i diritti fondamentali dell’uomo. E poi magari vanno a casa a fare il presepe...». La rete degli avvocati che cita Bernasconi (legata all’Asgi, Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) serve a tenersi aggiornati sulle questioni di diritto, a scambiarsi informazioni sulla situazione in Italia e quella in Svizzera. Ma soprattutto serve per gli accompagnamenti. “Dati i continui casi di espulsioni sbagliate ci siamo chiesti: che possiamo fare? E allora abbiamo pensato a questa faccenda degli accompagnamenti - riassume l’avvocato Bernasconi. Tutto legale, s’intende. L’illegalità è semmai mandar via le persone su due piedi». Riammesso sei volte - Uno di loro, di recente, è stato “riammesso”(così si chiama un respinto nelle carte elvetiche) per sei volte in Italia. Finché il suo avvocato non si è presentato al confine con lui. E allora finalmente è passato. Dalla casistica di questi avvocati emergono spesso storie di minorenni non accompagnati. “Trovo che sia da criminali prendere una ragazzina e piazzarla su un treno per l’Italia, sola, di notte. E lo dico perché abbiamo casi del genere, in violazione di tutte le convenzioni Onu firmate dalla Svizzera. Chiedo a chi lo fa: ma tu lo faresti con tua figlia?». Fra maggio 2016 e aprile 2018 sono stati “riammessi” in Italia 6.286 minori soli (ne sono rimasti in Svizzera 7.049). Minori o no, tutte le volte che è possibile si fa ricorso. Quest’anno, per dire, il Tribunale amministrativo federale ha valutato finora più di 4.300 casi di chi ha ritenuto di essere stato espulso ingiustamente (in grandissima parte in Italia), e per 267 volte i giudici hanno stabilito che è stato un errore mandarli via. Un altro dato: nel 2017 la Segreteria di Stato della migrazione ha respinto 12.110 migranti (i ricorsi furono 4.354) e anche in quel caso la maggioranza dei respingimenti è stata verso l’Italia. Chiude Bernasconi: “Ottenere l’asilo da noi è come scalare l’Everest. Ce la fanno in pochissimi». La lotta per il clima approda nei tribunali di mezzo mondo di Marica Di Pierri* Il Manifesto, 8 dicembre 2018 Cambiamenti climatici. Centinaia i contenziosi legali mossi da cittadini e associazioni contro governi e imprese. E dieci famiglie citano in giudizio la Ue. C’è un precedente: l’Olanda è stata condannata da due corti per non aver ridotto le emissioni. È la nuova frontiera della battaglia globale contro i catastrofici effetti dei cambiamenti climatici e non si gioca sui tavoli negoziali né nelle piazze ma nelle aule dei tribunali. Nei padiglioni affollati della Cop24 in corso a Katowice e nel Climate Hub organizzato poco distante dalle organizzazioni sociali, le climate litigation irrompono nei dibattiti, riempiono le sale e rappresentano una novità di grande importanza nell’agenda politica e sociale. Sono le drammatiche evidenze scientifiche e l’intensificarsi di eventi estremi a livello globale - unite alla crescente e diffusa percezione dell’urgenza di un’azione efficace - a spingere verso l’affermazione di nuovi approcci legali, centrati sul dovere di protezione della popolazione da parte degli Stati e sul tentativo di affermare anche in via giudiziale la responsabilità dei poteri pubblici nella messa in campo di risposte credibili. Dopo anni di negoziati, manifestazioni e campagne sociali, la lotta ai cambiamenti climatici affila i suoi strumenti e sbarca di fronte alle corti di più di 25 paesi. Sono circa mille ad oggi le cause legali contro governi, imprese o singoli progetti ad alto impatto climatico, con un unico obiettivo: costruire nuovi strumenti di incidenza. Di fronte all’inazione o alla mancanza di ambizione dei governi, agli impatti causati dalle attività industriali, allo scorrere delle Cop annuali senza avanzamenti incoraggianti, ricorrere alle vie legali è la scelta che in sempre più paesi cittadini e associazioni operano per fare pressione ed essere ascoltati. Nel 2017 il report dell’Unep The status of climate change litigation ha realizzato un primo censimento: quasi 900 contenziosi aperti nel mondo per spingere decisori politici e imprese a politiche di riduzione delle emissioni più ambiziose. Più di 650 le cause iscritte a ruolo solo negli Usa, dove le azioni climatiche sono ormai talmente tante da eguagliare per quantità quelle contro il tabacco o l’amianto. Seguono Australia, Gran Bretagna e Unione europea, con circa 40 procedimenti avviati alla Corte di Giustizia. Nell’ultimo anno decine di nuove cause si sono unite a quelle censite dall’Unep, come risulta dal database online curato e continuamente aggiornato dal Sabin Center della Columbia University. Il campo delle cause legali climatiche è divenuto in pochi anni un nuovo e rilevante ambito di azione in cui si sommano attivisti, giuristi e accademici, richiamando l’attenzione dell’informazione e delle istituzioni pubbliche, che rischiano sempre più spesso di essere trascinate davanti ai giudici. Le tipologie di azioni che rientrano sotto l’etichetta generale di climate litigation sono molteplici. La più rilevante riguarda la messa sotto accusa degli Stati, da parte di cittadini, ong o imprese, cui viene contestato insufficiente impegno nella riduzione delle emissioni clima-alteranti. L’esempio più famoso è quello intentato dalla Fondazione Urgenda, in rappresentanza di circa 900 cittadini, contro lo Stato olandese. Nel 2015 la sentenza di primo grado del tribunale distrettuale dell’Aia ha emesso lo storico verdetto di condanna contro l’Olanda, obbligandola ad aumentare i suoi target di riduzione per raggiungere entro il 2020 il taglio del 25% delle emissioni rispetto ai livelli del 1990. La sentenza è stata confermata in appello ad ottobre 2018 ma lo Stato ha nuovamente presentato ricorso: sarà la Corte Suprema a decidere definitivamente. L’azione olandese ha contribuito ad affermare un precedente di rilievo: per la prima volta un tribunale ha stabilito che un governo è obbligato a proteggere la propria popolazione dal climate change, rispettando gli accordi internazionali sul clima. Molti altri paesi hanno avviato cause simili, tra cui Irlanda, Regno unito, Belgio, Svizzera e Norvegia, Filippine, India, Colombia, Canada e Usa. Di fronte alla Corte di Giustizia europea è invece avviato da alcuni mesi il cosiddetto Peoplès Climate Case. Dieci famiglie di otto paesi diversi hanno citato in giudizio parlamento e Consiglio europeo per l’inadeguatezza dei target previsti per il 2030. Il 40% di riduzione delle emissioni non sarebbe adeguato a difendere i loro diritti fondamentali. Tra i querelanti anche la famiglia italiana Elter, di Cogne, in Val D’Aosta. Che utilizzino il paradigma dei diritti umani, la violazione di norme costituzionali, il diritto civile o amministrativo, che si scaglino contro i governi, osteggino singoli progetti contaminanti o mettano sotto accusa major petrolifere o del carbone, le cause legali in campo climatico sono da guardare con attenzione. Lo spazio di azione che aprono potrebbe avere sulle istituzioni l’influenza che nessun altro strumento di advocacy e campaigning è riuscito sin qui ad avere. *A Sud Droghe, alcol o ludopatie: la soluzione è solo collettiva di Alessandro Zaccuri Avvenire, 8 dicembre 2018 Contro le dipendenze del XXI secolo le politiche isolate sono inutili. Il ruolo decisivo di famiglia e scuola nel soddisfare la ricerca di senso. Una sintesi molto convincente viene da Alexis Goosdeel, direttore dell’Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze: “È vero, nelle città occidentali non si vedono più le persone che muoiono di overdose per strada, ma non per questo possiamo illuderci che il problema sia risolto». Non solo le sostanze psicotrope sono più numerose che in passato, ma anche la loro distribuzione geografica è cambiata, adeguandosi a un criterio di globalità al quale non corrisponde, purtroppo, una visione politica altrettanto lungimirante. Lo ha ribadito anche papa Francesco durante l’udienza che il 1° dicembre ha concluso la Conferenza internazionale su droghe e dipendenze svoltasi a Roma nei giorni precedenti su iniziativa del Dicastero vaticano per il Servizio dello Sviluppo umano integrale. “Non servono politiche isolate - ha detto il Papa -. È un problema umano, un problema sociale. Tutto deve essere collegato». a questione è esattamente questa: l’interconnessione dei fenomeni, la fragilità umana da cui derivano, la ricaduta sociale che generano. In materia ha le idee chiare padre Carlos Olivero, meglio conosciuto come “padre Charly”, uno dei curas villeros che svolgono la loro opera all’estrema periferia di Buenos Aires: “In America Latina, come in Africa e in parte dell’Asia, la dipendenza è affrontata nei termini di un male che riguarda l’intera collettività - spiega. Al contrario, in Europa e negli Stati Uniti la si considera un malessere individuale, privato, che ciascuno cerca di superare per conto proprio». Un caso particolare è costituito in questo senso dal Giappone, dove la “cultura della vergogna” rende molto difficile l’affrancamento da ogni tipo dipendenza, come nel corso della Conferenza internazionale ha testimoniato Noriko Tanaka, ex giocatrice compulsiva di pachinko, le tipiche macchinette, simili a flipper, su cui si basa l’azienda nipponica dell’azzardo. differenza del quadro tradizionale, al quale fanno riferimento le convenzioni delle Nazioni Unite sulle droghe (risalenti rispettivamente al 1961 per le sostanze naturali, al 1971 per quelle artificiali e al 1988 per il contrasto al traffico illecito), le dipendenze del XXI secolo coinvolgono spesso la sfera dei comportamenti, che vanno dalla ludopatia all’uso ossessivo della rete denunciato dalla psicologa irlandese Mary Aiken in un saggio, The Cyber Effect, che sta facendo molto discutere. “Ma non dobbiamo dimenticare che, in moltissimi casi, l’ossessione comportamentale si associa ad altre forme di dipendenza, come per esempio l’alcolismo», sottolinea lo psicoterapeuta statunitense Peter Kleponis, che da una decina di anni si è specializzato nella dipendenza da sesso e pornografia. “All’origine c’è l’elemento che in termini clinici definiamo craving - spiega lo psicologo Umberto Nizzoli, membro della Commissione nazionale di esperti sulle tossicodipendenze In italiano potremmo parlare di un desiderio spasmodico e insaziabile, che costituisce la base di ogni dipendenza. Il ricorso alle sostanze, in questo senso, non è l’elemento discriminante. Il craving ci interroga su un altro piano, quello della ricerca di senso: ci obbliga anzitutto ad ammettere che l’essere umano è di per sé una creatura dipendente, se non altro dalla relazione con l’altro; in secondo luogo, c’è da chiedersi se questa mancanza irriducibile non possa rivelare un bisogno implicito di Dio». Dal punto di vista fisiologico, però, l’assunzione di sostanze non costituisce affatto una variabile indifferente. “L’aspetto più preoccupante è costituito dalle trasformazioni epigenetiche che le droghe sono in grado di provocare - avverte Gilberto Gerra, capo dipartimento dell’Unodc, l’ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine. Si tratta di mutazioni ereditarie che basterebbero, da sole, a scongiurare ogni ipotesi di legalizzazione. D’altro canto, sappiamo bene che anche un’unica assunzione occasionale di sostanze può avere conseguenze devastanti. Per uno scienziato, poi, la categoria delle presunte “droghe ricreative” rappresenta una specie di insulto. Dietro questa mistificazione si nascondono semmai processi di sfruttamento e di emarginazione, come accade con le sostanze somministrate alle prostitute minorenni in molti Paesi, specie nell’area asiatica». L’allarme è reso ancora più urgente dal dilagare delle cosiddette “droghe a-legali”, ottenute attraverso una continua riformulazione delle nuove sostanze psicoattive, insidiosa evoluzione delle smart drug degli anni Novanta. “Solo in Italia nell’ultimo decennio sono state individuate più di trecento nuovi preparati», ricorda il capitano Riccardo Napoli, comandante della Sezione operativa centrale dei Nas. “Senza dimenticare il dilagare dell’utilizzo di farmaci come il Fentanyl o il Tramadol in assenza di ogni prescrizione medica», incalza Antonio Mazzitelli, responsabile regionale dell’Unodc per Messico, America Centrale e Caraibi. “A essere completamente caduta - aggiunge - è la distinzione, valida fino a non molto tempo fa, tra Paesi produttori, consumatori e di transito. Alcune droghe, come la marijuana e le metanfetamine, possono essere coltivate o sintetizzate ovunque. Allo stesso modo, non vale più la vecchia regola per cui nelle zone di passaggio battute dai trafficanti il consumo era pressoché irrisorio. Sotto questo aspetto, la globalizzazione delle tossicodipendenze è ormai un dato di fatto». Sul fronte della prevenzione, Li rimane fondamentale il ruolo della famiglia e delle istituzioni scolastiche, oltre che di organismi non governativi come lo Youth Development Link attivo in Ghana, Uganda e altri Paesí africani. In Perù e altrove si è invece rivelato molto utile il sostegno garantito dall’esecutivo al progetto Familias Fuertes: Amor y Lhnites. Per la cura e il recupero sono ancora le comunità a svolgere una funzione imprescindibile. Durante la Conferenza internazionale si sono susseguite, tra le altre, le testimonianze del Cenacolo di madre Elvira Petrozzi, di Nuovi Orizzonti di Chiara Amirante, della Giovanni XXIII fondata da don Oreste Benzi e della Fazenda da Esperarwa, nata in Brasile, a San Paolo, oltre trent’anni fa e oggi presente in più di venti Paesi: “I princìpi del nostro metodo sono molto semplici: spiritualità, lavoro e tolleranza - elenca l’iniziatore, il francescano Hans Stapel Disintossicarsi però non è sufficiente. Quello che davvero conta è la manutenzione della sobrietà». Uno sguardo globale, di nuovo. Qualcosa di umano, che incide sulla società e la trasforma.