Perché se calano i reati aumentano i detenuti? di Adriano Sofri Il Foglio, 7 dicembre 2018 Due notizie: l’una spiega l’altra e tutt’e due spiegano in che tempo e in che mondo viviamo. Un direttore di giornale avrebbe appena avuto l’occasione di intitolare scegliendo fra due notizie concorrenti. Una: i reati in Italia fra l’agosto 2017 e l’agosto 2018 sono diminuiti nel complesso del 9,5 per cento. Un’altra: il 30 novembre scorso il numero dei detenuti ha di nuovo superato, dopo anni, la soglia dei 60 mila: 60 mila e due. Oppure poteva fare un solo titolo, più lungo, con ambedue le notizie. In fondo l’una spiega l’altra e tutt’e due spiegano in che tempo e in che mondo viviamo. Rita Bernardini: “Carceri, detenuti e giustizia… ecco cosa abbiamo detto al ministro” di Liliana Chiaramello Corriere Nazionale, 7 dicembre 2018 Intervista all’esponente del Partito Radicale nella delegazione che ha incontrato Bonafede. Sono ancora tante le criticità irrisolte del sistema penitenziario. Secondo i dati pubblicati dal ministero della Giustizia, nelle carceri il sovraffollamento aumenta sempre più. È stata infatti superata la soglia dei 60 mila detenuti che occupano una capienza effettiva di 45mila posti: un sovraffollamento che non si registrava dal 2014 quando i detenuti erano 60mila 197. Con la crescita della popolazione carceraria aumentano anche i suicidi. Nel 2018, 61 detenuti si sono tolti la vita: un tasso di suicidi che non si registrava dal 2012 quando i detenuti erano 66mila. Oggi dunque il numero di suicidi è sicuramente maggiore. In questo contesto emergenziale delle carceri italiane la delegazione del Partito Radicale composta da Rita Bernardini, Sergio D’Elia e dall’avvocato Giuseppe Rossodivita ha incontrato, dopo giorni di attesa e numerose richieste, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede il quale, sottolineano, “ha mostrato profondo rispetto e grande attenzione nei confronti delle nostre battaglie su carcere e giustizia”. Bernardini, come giudica questo incontro? “È stato un incontro sicuramente cordiale, fatto di ascolto e attenzione reciproca, consapevole ciascuna parte che le posizioni sono molto distanti sul modo di concepire l’amministrazione della giustizia e dell’esecuzione penale. Su una cosa ci siamo sicuramente trovati d’accordo: le carceri devono essere luoghi in cui lo Stato esercita la sua legalità”. Avete dunque parlato innanzitutto di carceri? “Sì, l’incontro a questo tema era finalizzato, pur essendo diversi i punti di vista e, per alcuni aspetti, addirittura opposti. In esordio abbiamo fatto presente soprattutto una cosa: noi vogliamo che le istituzioni italiane, a partire dal ministro e dal ministero della Giustizia, rispettino la legalità di questo nostro Paese che è prima di tutto legalità costituzionale. Ci confronteremo perciò via via su quanto siano legali o meno le carceri italiane e a tal proposito gli abbiamo anche fatto presente il rapporto da noi preparato, circa la prevenzione dei trattamenti inumani e degradanti, che stiamo per inviare al comitato di Ministri del Consiglio d’Europa, alla Cedu e al Comitato europeo per la prevenzione della Tortura. Da parte del Ministro c’è sicuramente la volontà di verificare tutti i vari aspetti dell’esecuzione penale nel nostro Paese”. Il governo gialloverde non ha approvato il decreto delegato sulle misure alternative al carcere. Avete parlato anche di questo? “Sì, il ministro Bonafede conviene sul fatto che le carceri per come sono oggi sono criminogene. Mi è sembrato, per esempio, oltremodo ricettivo su quel fenomeno che vede ristretti in carcere circa 9mila detenuti che devono scontare pene molto brevi, per esempio meno di un anno, a volte solo pochi giorni. Se fossero disponibili i braccialetti elettronici - come affermano i nostri amici dell’Osservatorio Carceri dell’Ucpi - potrebbero, attraverso un provvedimento del magistrato di sorveglianza, sperimentare la via della detenzione domiciliare o di misure simili senza necessariamente gravare sul carcere. Come sappiamo, la gara è stata vinta da Fastweb e da ottobre l’azienda avrebbe dovuto fornire mille braccialetti (che poi sono cavigliere) in più ogni mese, ma tutto è fermo perché ancora non sono stati fatti i necessari collaudi da parte del ministero degli interni. Abbiamo inoltre affrontato il tema della carenza di educatori e assistenti sociali, figure centrali che in carcere si occupano del trattamento dei detenuti. E anche in questo caso il Ministro Bonafede ha manifestato volontà di far fronte a tali gravi mancanze che si registrano anche negli organici della magistratura di sorveglianza. Ha inoltre manifestato grande interesse al meccanismo con cui l’Italia viene controllata dagli organismi internazionali”. Cioè? “Per esempio, i rapporti del comitato europeo per la prevenzione della tortura prima di essere pubblicati, secondo la disposizione attuale del governo italiano, devono essere autorizzati. Invece può essere preventivamente consentita una procedura di pubblicazione automatica senza il consenso dello Stato. Il tutto in nome della trasparenza, cavallo di battaglia del movimento cui appartiene il ministro Bonafede”. Pare di capire sia stato un incontro costruttivo dunque… “Nonostante la visione circa il sistema giustizia e le relative riforme da realizzare sia tra noi politicamente diversa e distante, il ministro si è mostrato particolarmente attento a che i detenuti in Italia scontino una pena legale senza maltrattamenti da parte dello Stato, vivendo (come oggi accade) in contesti degradati e degradanti. Perché con carceri costituzionalmente legali si fa sicurezza, come si fa sicurezza con pene alternative, comunque oggi previste dal vigente ordinamento penitenziario. Quando afferma che oltre ai detenuti occorre rieducare anche la società esterna rispetto a quello che avviene in carcere, dice una cosa importante sempre sostenuta da Pannella e dal Partito Radicale perché solo così può cambiare la percezione che i cittadini hanno nei confronti del mondo penitenziario. Infine, non credo sia secondario il fatto che l’appuntamento si sia concluso con lo scambio dei numeri di telefono e con l’impegno ad incontrarci (fisicamente o telematicamente) ogni due mesi per fare il punto”. Sulla legittima difesa possibile rinvio, il M5S non esclude modifiche di Martina Cecchi De Rossi La Stampa, 7 dicembre 2018 I giochi potrebbero riaprirsi e l’approdo finale slitterà con ogni probabilità oltre gennaio. Possibili modifiche e un nuovo terreno di confronto nella maggioranza. Sulla legittima difesa, approvata dal Senato il 24 ottobre i giochi potrebbero riaprirsi e l’approdo finale slitterà con ogni probabilità oltre gennaio, termine dato da Salvini solo pochi giorni fa per il via libera definitivo. Il testo è all’esame della Commissione Giustizia di Montecitorio, che ha avviato la discussione oggi, con le relazioni di Zanettin e Turri, relatori Forza Italia e Lega. Primo punto di rilievo, l’inversione dell’onere della prova, con l’aggiunta di un comma all’articolo 55 del Codice penale, quello che regola l’eccesso colposo, con cui si conferma la non punibilità per legittima difesa per chi agisce a propria tutela: su questo fronte Fi, firmataria già nei mesi scorsi di due proposte di legge alla Camera, converge con il partito di Matteo Salvini. Ma c’è un altro fronte su cui gli azzurri cercano di “scavalcare” la Lega da destra ed è l’indennizzo per l’aggressore in caso di eccesso colposo, previsione che, per gli azzurri “va cancellata”. Un inasprimento ulteriore che potrebbe mettere in difficoltà la Lega rispetto all’alleato di Governo. Il Carroccio nega modifiche (oggi Turri le ha sostanzialmente escluse, né la Lega si aspetta un ritorno al Senato, dove è alla guida della Commissione Giustizia), ma il Ddl continua ad agitare parte del Movimento. Perché se sull’obiettivo di “evitare all’aggredito un calvario giudiziario”, per dirla con il Guardasigillli Alfonso Bonafede, la maggioranza rimane compatta, è nelle pieghe dell’autodifesa che si nascondono ancora possibili divergenze, nonostante il testo sia passato al Senato con un’ampia maggioranza. Nel M5s il dissenso è a tratti palese, come quello di Doriana Sarli, la deputata che ha chiesto apertamente una marcia indietro sul testo uscito da Palazzo Madama, e comunque sotteso: in quel Ddl “non c’è alcun automatismo che escluda la punibilità a priori. All’orizzonte non c’è nessun Far west”, ribadisce il capogruppo alla Camera, Francesco D’Uva. Per questo, nonostante per la Lega si potrebbe chiudere così, sul Ddl si potrebbero aprire spazi di modifica: “Abbiamo la possibilità di eliminare alcune zone d’ombra”, dice Bonafede. Sul testo, per ora, la Commissione, presieduta dalla M5s Giulia Sarti, non accelera, anzi. La discussione è stata rinviata alla prossima settimana, ci saranno le audizioni, soprattutto pende sull’Aula il via libera alla manovra e il possibile ritorno del Ddl Anti corruzione. In Commissione, oggi, nessun intervento da parte del Movimento “e nessuna intenzione di accelerare l’iter - dice il deputato dem Alfredo Bazoli. Il rischio è di innescare una reazione per cui passa il principio che ognuno possa farsi giustizia da se”. Il testo, oltre ad intervenire sull’eccesso colposo prevede anche l’estensione del gratuito patrocinio in caso il giudice debba procedere di fronte a chi si è difeso legittimamente e l’inasprimento delle pene per il furto in casa e per lo scippo, da quattro a sette anni. Caso Cucchi, “verbali modificati”: il depistaggio arriva in udienza di Eleonora Martini Il Manifesto, 7 dicembre 2018 Il comandante della caserma di Tor Sapienza e un carabiniere testimoniano le pressioni. Colombo Labriola: “Il colonnello Cavallo impose le modifiche. Il Nucleo investigativo ignorò la mail”. Il processo bis per la morte di Stefano Cucchi entra in una nuova fase. Ieri davanti ai giudici della Corte d’Assise di Roma hanno deposto alcuni dei testimoni chiave del tentativo (riuscito per nove anni) di insabbiare il pestaggio del giovane geometra romano da parte dei carabinieri che lo arrestarono la sera del 15 ottobre 2009, e del depistaggio delle indagini (nel primo processo, infatti, ad essere accusati delle violenze furono gli agenti di polizia penitenziaria che custodirono Cucchi in tribunale prima dell’udienza di convalida del fermo). Testimoni - alcuni dei quali sono ora indagati - chiamati dal pm Giovanni Musarò nell’ambito dell’inchiesta integrativa al processo aperta in seguito alla denuncia presentata il 20 giugno scorso da Francesco Tedesco, uno dei cinque carabinieri imputati che ha deciso raccontare la verità su quanto accaduto quella notte, peraltro già trascritta in un’annotazione di servizio depositata negli archivi della caserma Appia la sera stessa della morte di Stefano, ma poi scomparsa nel nulla. È uno degli indizi dell’insabbiamento e del depistaggio, ma ieri sono diventate prove dibattimentali anche altre due testimonianze: quella del luogotenente Massimiliano Colombo Labriola (da settembre entrato nel registro degli indagati di questo secondo filone d’inchiesta), comandante della caserma di Tor Sapienza dove Cucchi passò la notte, ma a sua insaputa: non venne infatti avvisato malgrado dormisse nell’alloggio di servizio della caserma, e seppe di quanto accaduto durante la notte solo al suo risveglio, il mattino dopo. In udienza anche la testimonianza dell’appuntato scelto Gianluca Colicchio che era di turno a Tor Sapienza, prese in consegna Stefano e chiamò il 118 quando il giovane cominciò a sentirsi male. Colicchio, a differenza dell’altro piantone, Francesco Di Sano, si rifiutò di firmare le modifiche imposte “da ordini gerarchici” al verbale nel quale descriveva le condizioni fisiche di Cucchi all’arrivo nella stazione. Era il 27 ottobre 2009, durante la visita quadrimestrale dell’allora maggiore Luciano Soligo, comandante della compagnia Talenti-Montesacro dalla quale dipendeva la stazione di Tor Sapienza: Colombo Labriola, riferisce il carabiniere, gli chiese di portargli l’annotazione di servizio che aveva steso la sera precedente. “A fine turno Soligo mi chiese di firmare l’annotazione, ma mentre lo facevo mi resi conto che era stata modificata, non solo nella forma ma nella sostanza, e così mi rifiutai. A quel punto - prosegue Colicchio - telefonarono al tenente colonnello Francesco Cavallo (all’epoca vice capo ufficio comando del Gruppo carabinieri Roma, ndr) e me lo passarono. Lui mi chiese di firmare ma io rifiutai. Non mi lasciai intimidire dal grado”. “Perché invece Di Sano firmò?”, chiede il pm. “Perché è un tipo un po’ più ansioso - è la risposta di Colicchio -: aspettava una licenza per andare a casa, in Sicilia, ma il maggiore dispose che non partisse perché doveva rimanere a disposizione per il caso Cucchi. Dopo aver firmato gli fu concessa la licenza”. Un episodio, questo, confermato dalla testimonianza del maresciallo Ciro Grimaldi, anch’egli della caserma di Tor Sapienza: “Ricordo che il 27 ottobre 2009, in occasione della visita quadrimestrale del comandante in Stazione, il collega Colicchio era arrabbiatissimo e, andandosene, ebbe con me un breve sfogo. Mi disse “mi volevano fare cambiare l’annotazione, ma li ho mandati aff…”. Quella mattina, riferisce il luogotenente Colombo Labriola (interrogato ieri davanti alla Corte per oltre cinque ore), “Soligo convocò me, Colicchio e Di Sano. A me disse che le note erano troppo particolareggiate e ridondanti e quindi disse che dovevano essere modificate”. Soligo comunque inviò per mail le due note al colonnello Cavallo, e “la risposta mi arrivò dopo un’ora. C’era scritto: “Meglio così”, e nell’allegato c’erano le due annotazioni modificate che dovevano sostituire quelle precedenti”. Una mail che Colombo fece visionare al Nucleo investigativo quando, il 5 novembre 2015, si presentò in caserma chiedendo di vedere tutti gli atti riguardanti Cucchi. Ma “il comandante del nucleo investigativo non la acquisì”. Colombo Labriola e Colicchio hanno raccontato anche di aver partecipato alla riunione al vertice presso il comando provinciale di Roma che si tenne la mattina del 30 ottobre 2009, appena pochi giorni dopo questi avvenimenti. Eppure, durante quella riunione che il comandante di Tor Sapienza definisce “simile a quelle degli alcolisti anonimi nelle modalità, perché ognuno a turno si alzava e diceva quale ruolo aveva avuto nella vicenda Cucchi”, “nessuno - riferisce al manifesto l’appuntato Gianluca Colicchio - fece cenno alla correzione di quelle annotazioni”. Come è ovvio, se è vero che nessuno in quell’occasione fece minimamente cenno al pestaggio. Una riunione mai verbalizzata. “Da una parte c’erano i vertici dell’Arma che ponevano le domande, il generale Vittorio Tomasone e il colonnello Alessandro Casarsa (oggi a capo dei corazzieri del Quirinale, ndr) - racconta Colombo Labriola - e dall’altra io, Colicchio, Di Sano, il maresciallo Roberto Mandolini (allora comandante della stazione Appia, attualmente imputato nel processo con l’accusa di falso, ndr) e tre o quattro carabinieri della caserma Appia. Quando è stato il turno di Colicchio, il generale Tomasone si è complimentato perché aveva chiamato il 118. Il generale invece rimproverò Mandolini perché uno dei suoi carabinieri non riusciva a spiegarsi bene, e Tomasone gli fece notare che se non riusciva ad essere chiaro davanti al suo generale chissà cosa avrebbe potuto fare davanti all’autorità giudiziaria. Disse proprio così”. La deroga al segreto investigativo lede le prerogative del Pm di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 7 dicembre 2018 Corte costituzionale - Sentenza 6 dicembre 2018 n. 229. La deroga al segreto investigativo mette a rischio le indagini condotte dall’autorità giudiziaria. Lede le attribuzioni costituzionali del Pm la norma, inserita nel decreto legislativo 177/2016, in base alla quale ogni rappresentante delle forze dell’ordine deve trasmettere al suo superiore le notizie sulle informative di reato indipendentemente dagli obblighi dettati dal Codice di rito penale. Nella sentenza della Corte 229 di ieri, ci sono le motivazioni della decisione, anticipata il 7 novembre scorso, con la quale la Consulta ha accolto il ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, proposto dal procuratore di Bari nei confronti del Governo. Il giudice delle leggi, pur riconoscendo che le esigenze di coordinamento informativo poste a fondamento della disposizione impugnata sono meritevoli di tutela, ha ritenuto lesiva delle attribuzioni costituzionali del Pm, garantite dall’articolo 109 della Costituzione, la specifica disciplina della trasmissione per via gerarchica delle informative di reato. Per la Consulta le ambiguità del testo, che non specifica i confini della deroga, rendono concreto il pericolo che le notizie coperte da segreto investigativo finiscano nella sfera di conoscenza di una platea ampia di soggetti “che non hanno alcun titolo per rapportarsi con l’autorità giudiziaria concretamente competente sull’attività di indagine” Né, precisano i giudici, si può osservare che tutti sono tenuti a rispettare il segreto d’ufficio perché - a parte il numero elevato che rende la riservatezza illusoria - il nucleo del segreto di indagine è stato già infranto “quantomeno a loro beneficio”. Altrettanto larghe anche le maglie di ciò che deve essere comunicato ai superiori. La locuzione utilizzata “notizie relative all’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria” lascia il dubbio se l’oggetto dell’informativa si ala notizia di reato o solo la notizia relativa al suo inoltro e se dunque i dati devono essere limitati a quelli esteriori effettivamente utili per il coordinamento informativo e organizzativo “interforze” (numero degli indagati, tipo di reati, complessità delle indagini) oppure devono essere estesi a quelli di interesse investigativo (nome degli indagati, destinatari delle intercettazioni in corso, contenuto dei singoli atti investigativi ecc.). Ancora non chiara anche l’ampiezza delle informazioni da trasmettere: se siano tutte le notizie di reato o solo le più rilevanti. Il tutto comporta ulteriori interrogativi - scrive la Consulta - sul destino e il trattamento di una massa potenzialmente assai ampio di dati e informazioni personali oggetto di discipline ad hoc. Incertezza anche sull’eventuale esaurirsi dell’obbligo con la prima trasmissione dell’iniziale notizia di reato o del suo estendersi anche ai seguiti di indagine. Tutte ambiguità che rendono concreto il rischio di far concentrare nelle mani dei soggetti posti ai vertici delle forze di polizia una notevole quantità di dati e informazioni rilevanti a livello investigativo, che vanno oltre le necessità di coordinamento e organizzazione poste alla base della deroga. Difetti che trasformano un legittimo coordinamento informativo e organizzativo, in una forma indebita di coordinamento investigativo, che lede le attribuzioni dell’autorità giudiziaria. Penalità “231” a misura di dipendente di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 7 dicembre 2018 Corte di cassazione - Sezione VI - sentenza 6 dicembre 2018 n. 54640. Responsabilità dell’ente più stringente se il reato è commesso da una figura apicale all’interno della società, che non ha adottato un adeguato modello organizzativo. La Corte di cassazione, con la sentenza 54640, respinge il ricorso di una Spa, coinvolta nel reato di tentata corruzione commesso dal responsabile di un suo centro operativo, che lavorava a stretto contatto con la Pa, elargendo delle somme a pubblici funzionari per mantenere “buoni rapporti”. Somme inserite tra le spese di rappresentanza. La Cassazione conferma la responsabilità dell’azienda, in base all’articolo 5 del Dlgs 231 del 2001, ricordando che per l’ente scatta il “coinvolgimento” per i reati commessi nel suo interesse o vantaggio da chi riveste una posizione apicale o da persone sottoposte alla vigilanza dei vertici. Con una distinzione. Nel caso di figure apicali (articolo 6) l’ente per evitare la responsabilità deve dimostrare di aver adottato e attuato dei modelli organizzativi, utili a prevenire reati come quelli commessi nello specifico, in assenza dei quali scatta la responsabilità. Inoltre l’ente deve provare di aver affidato compiti di vigilanza sull’osservanza dei modelli a un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri. E solo la prova che il modello predisposto è stato eluso in modo fraudolento salva la società dalla condanna, agli effetti della 231. Nel caso di reato commesso da un soggetto non in posizione apicale (articolo 7) l’ente è responsabile se il reato è reso possibile da una carente vigilanza, esclusa però dall’adozione dell’attuazione del modello organizzativo: questo basta a considerare il reato al di fuori della sfera di operatività e interferenza dell’ente. Chiarito dunque che per allontanare la sanzione serve la prova di aver predisposto modelli efficaci, i giudici sottolineano come i rischi di condotte illecite vadano prevenuti anche in base al tipo di impresa. Nello specifico le cautele sono mancate, mentre erano più che mai opportune in una società che si rapportava con la pubblica amministrazione e dunque non era affatto estranea al rischio corruttivo. In più le condotte “disinvolte” dell’imputato che intratteneva rapporti con pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio erano note ai vertici. E l’azione disciplinare adottata nei suoi confronti non dimostra il previo esercizio di un’effettiva azione di direzione e controllo, basata su chiare regole cautelari. Responsabilità dell’aiuto chirurgo che se ne va e restano garze nel paziente di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 7 dicembre 2018 Cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 6 dicembre 2018 n. 54573. Responsabilità penale per i medici che - dopo l’intervento chirurgico - si siano dimenticati con negligenza delle garze negli organi del paziente appena operato. A chiarirlo la Cassazione con la sentenza n. 54573/18. I fatti - La Corte si è trovata alle prese con una vicenda in cui in un complesso intervento polmonare (durato più di dieci ore) i medici non si erano accorti in maniera del tutto negligente di avere lasciato delle garze all’interno del paziente. Questo il primo verdetto a carico del capo staff medico. La condanna, tuttavia, è stata estesa anche all’altro chirurgo che aveva presieduto all’intervento perché prima che l’operazione fosse terminata aveva timbrato il cartellino e aveva lasciato l’ospedale. I Supremi giudici, per l’appunto, hanno ravvisato una corresponsabilità anche del secondo medico in quanto non poteva non rendersi conto della stanchezza psico-fisica a carico del primo chirurgo alle prese con un intervento di più di dieci ore. E allora è stato espressamente sostenuto che l’allontanamento verificatosi nella fase finale dell’intervento, non poteva ritenersi giustificato da alcuna pressante e superiore esigenza professionale e neanche da una non indispensabilità della sua presenza in sala operatoria o dall’asserita semplicità delle operazioni ancora da compiere, trattandosi di operazione di notevole complessità e durata a conclusione della quale, anche per la stanchezza del primo operatore impegnato da 10 ore, doveva ritenersi affatto superflua la collaborazione dell’altro chirurgo, visto che in tale fase veniva effettuata la sutura e la conta delle garze e degli strumenti. Conclusioni - La Corte non, ha invece, riconosciuto la responsabilità di altri due componenti dell’equipe che avevano lasciato la sala operatoria a metà giornata per urgenza. Milano: quel suicidio in cella non convince i legali di Alessandro Gallelli di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 dicembre 2018 Il 13 dicembre si discuterà sulla richiesta di archiviazione della procura alla quale si oppongono i difensori. Le madri di due giovani morti in carcere si sono ritrovate l’altro ieri davanti al Tribunale di Milano per un presidio per testimoniare la “rabbia nei confronti di uno Stato nelle cui prigioni si muore quotidianamente”. Fianco a fianco, la madre di Alessandro Gallelli, che nel 2012 a 21 anni morì a San Vittore, e quella di Francesco Smeragliuolo, deceduto a 22 anni nel carcere di Monza, hanno partecipato al sit-in, assieme al “collettivo Olga”, denunciando anche “i tentativi di insabbiare le responsabilità” per quelle e “tante altre morti” nelle case di reclusione. Il caso di Gallelli, tra l’altro, è ancora aperto e per il 13 dicembre, davanti al gip di Milano, è fissata l’udienza per discutere l’opposizione all’archiviazione dell’inchiesta sulla morte del 21enne. La vicenda di Smeragliuolo si è chiusa invece con un’archiviazione e la verità giudiziaria è che il ragazzo è morto in cella per arresto cardiaco. La vicenda di Gallelli è oscura. Il giovane di 21 anni che nel febbraio del 2012 venne trovato cadavere in una cella del carcere milanese di San Vittore, mentre era detenuto, non è “compatibile con l’ipotesi suicidaria prospettata dalla Procura della Repubblica di Milano”, ma è “riconducibile a un omicidio, mediante strozzamento, con successiva attività di staging (manipolazione volontaria della scena criminis), finalizzata alla simulazione di un evento suicidario”. Lo si legge in una consulenza di parte, ossia richiesta dai legali della famiglia del 21enne che si sono opposti alla richiesta di archiviazione del Pm, secondo cui quella morte fu, invece, un suicidio per impiccagione. La relazione è firmata dai consulenti tecnici Berardo Silvio Cavalcanti, Vannio Vercillo, Luca Chianelli e Salvatore Spitaleri che hanno ricevuto l’incarico dall’avvocato Salvatore Tesoriero che rappresenta i familiari, i quali da tempo si battono perché la morte del giovane non venga archiviata come un suicidio. La Procura di Milano (il procedimento ora è seguito dal procuratore aggiunto Tiziana Siciliano), lo scorso giugno, ha depositato all’ufficio Gip la richiesta di archiviazione dell’inchiesta aperta per omicidio colposo a carico di ignoti su quella morte di 6 anni fa. “Allo stato - spiegava la Procura - non è in alcun modo possibile ipotizzare l’ipotesi di una causazione attiva da parte di terzi della morte dello stesso Gallelli”. E chiariva che dall’autopsia è emerso “come il corpo del Gallelli fosse privo di qualsivoglia lesione e come la morte sia derivata da asfissia, da soffocamento compatibile con le modalità con cui si è verificato l’impiccamento”. E, dunque, “l’unica ipotesi di responsabilità che si può astrattamente ipotizzare è quella omissiva, nella forma del non aver impedito la morte del giovane”. Per il legale dei genitori del ragazzo, invece, la consulenza tecnica “medico legale e criminalistica”, dà “conto al contrario proprio dell’esistenza, sul corpo del Gallelli, di segni lesivi le cui caratteristiche vengono ritenute dagli esperti di parte non compatibili con l’ipotesi del suicidio e, invece, coerenti con quella causazione attiva della morte da parte di terzi, sempre fino ad ora esclusa dalla Procura”. L’omicidio, secondo la consulenza, è stato compiuto “con la mano sinistra che ha afferrato il collo ponendo i polpastrelli delle dita (indice medio- anulare e mignolo) al collo della vittima in regione latero cervicale destra e il pollice della mano sinistra in sede mastoidea sinistra”. Lo strozzamento, secondo i consulenti, “è stato causato da un omicida posto frontalmente e lateralmente a destra rispetto al Gallelli”. Poi sarebbe stato simulato il suicidio utilizzando un laccio. Il 13 dicembre, a fronte di queste nuove prove, si discuterà quindi sull’opposizione alla richiesta di archiviazione San Gimignano (Si): la direzione nega i pestaggi ma ci sono i referti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 dicembre 2018 Dopo le lettere di denuncia dei detenuti la Procura di Siena ha aperto un’inchiesta. Cosa è accaduto nel carcere toscano di San Gimignano l’11 ottobre scorso? Ad oggi - come riportato in esclusiva da Il Dubbio - abbiamo la lettera di denuncia indirizzata a Sandra Berardi, presidente dell’associazione Yairaiha Onlus, da parte di un detenuto che sarebbe stato spettatore di un presunto pestaggio nei confronti di un extracomunitario. Addirittura lo scrivente dice di essere stato aggredito da un agente penitenziario per aver protestato contro il presunto pestaggio. L’altra conferma che qualcosa è accaduto proviene dalla Asl che, una volta ricevuto i referti compilati dal medico di turno, ai sensi dell’art 331 cpp, è stata trasmessa la notizia di reato alla competente Procura che sta indagando per capire cosa sia davvero accaduto. I referti si riferiscono a tre detenuti visitati il giorno dopo i presunti pestaggi. Un detenuto riferisce di avere un forte mal di testa e presenta una ecchimosi al livello frontale destro, la sua versione è che sarebbe stato aggredito da un agente il quale, secondo quanto riferito, puzzava di alcol. Il detenuto in questione sostiene che avrebbe aperto il blindo per chiedere agli agenti di non picchiare l’extracomunitario e per questo motivo avrebbe ricevuto un pugno in fronte. Un altro detenuto racconta addirittura che diversi agenti sarebbero entrati in cella insultandolo e minacciandolo. Uno di loro gli avrebbe messo le mani per stringergli il collo e lui, per liberarsi, sarebbe caduto sul letto. Il detenuto però non presenta nessun segno al collo. Un altro recluso, invece, presenta una ferita abbastanza grande al livello dell’occhio, ma ha riferito che se la sarebbe procurata cadendo in un posto non precisato e ha rifiutato di medicarsi. I referti non sono nessuna prova, ed emerge anche qualche discordanza, anche se effettivamente una testimonianza corrisponde alla descrizione della lettera pervenuta all’associazione Yairaiha Onlus. Si sono feriti da soli, qualcuno di loro mente, oppure hanno subito effettivamente un pestaggio? La Procura sta indagando per capire cosa sia avvenuto effettivamente quel giorno. Il Garante locale del carcere di San Gimignano è l’associazione L’Altro Diritto che, una volta avuta la segnalazione, si è prontamente mossa per riscontrare la veridicità dei fatti, contattando gli organi competenti, compresa la direzione del penitenziario. Quest’ultima ha fatto sapere al Garante che non c’è stato alcun pestaggio e tutta la documentazione è al vaglio dell’autorità giudiziaria. Che all’interno del carcere ci siano problemi, non è però un mistero. Tre giorni fa gli agenti penitenziari si sono messi in autoconsegna - cioè non lasciano il posto di servizio a fine turno, restando sul posto di lavoro - per protestare a causa delle difficili condizioni lavorative in cui versa l’istituto. “Una casa di reclusione - spiegano Fp Cgil - che negli ultimi anni ha avuto forti carenze in termini di direzione”. Proprio a causa di queste carenze il 10 ottobre scorso - quindi il giorno prima del presunto pestaggio che però viene smentito dalla direzione del penitenziario - i poliziotti penitenziari si sono mobilitati con una protesta davanti ai cancelli del carcere di San Gimignano, per rivendicare la necessità di una direzione stabile. La mobilitazione ha fatto sì che fosse designato un direttore, ma dall’arrivo di questa direzione gli eventi critici sono diventati costanti e quotidiani: tra questi - denuncia il sindacato - anche minacce nei confronti del personale in servizio. Un problema quindi c’è, il clima è irrespirabile. Ma a vederci chiaro sarà la Procura di Siena. Torino: la Garante dei detenuti “i migranti irregolari rimangono uomini” di Marina Lomunno vocetempo.it, 7 dicembre 2018 Sulla situazione degli stranieri espulsi parla Monica Cristina Gallo, garante regionale delle persone private della libertà. Tra le norme introdotte dal Decreto Sicurezza c’è il prolungamento a 180 giorni nei Cpr (come quello torinese di corso Brunelleschi) degli stranieri in attesa di rimpatrio. Il Decreto sicurezza e immigrazione approvato nei giorni scorsi dalla Camera prevede l’estensione del fermo nei Cpr (Centri di permanenza per il rimpatrio). La norma dispone che gli stranieri in attesa di essere rimpatriati (5306 persone al 31 ottobre 2018) potranno essere trattenuti fino a un massimo di 180 giorni e anche i richiedenti asilo potranno essere ristretti nei Cpr in attesa di essere identificati. A Torino in corso Brunelleschi ha sede uno dei Crp più importanti d’Italia, con una capienza massima di 180 persone. Abbiamo chiesto a Monica Cristina Gallo, garante dei - diritti delle persone private della libertà del Comune di Torino, cosa pensa di questa norma. “In questo ultimo anno le visite presso il Cpr di Torino, cosi come le attività di osservazione dei rimpatri, sono aumentate in virtù di un accordo specifico con il Garante nazionale sottoscritto dal Garante regionale e successivamente dal Garante comunale che ci vede designati quale organo di monitoraggio dei rimpatri forzati, interventi finanziati al Garante nazionale dal Fondo asilo migrazione integrazione. Come è noto, nel corso degli anni il legislatore è intervenuto più volte sui termini massimi di trattenimento degli stranieri nei Centri, più volte rinominati (prima di essere Cpr erano Cie, Centri identificazione ed espulsione): 30 giorni per la Legge Turco-Napolitano (n. 40/1998), 60 giorni per La legge Bossi-Fini n.189/2002,180 giorni per il “Pacchetto sicurezza” (dl n.92/ 2008 n.92) fino ai 90 giorni della legge n.161/2014. L’estensione della durata massima del trattenimento proposta nuovamente dal Decreto sicurezza non appare trovare giustificazione in un’effettiva esigenza di sistema né sembra idonea al raggiungimento dello scopo che si prefigge. Infatti, l’analisi dei rapporti percentuali persone rimpatriate/persone trattenute (dati tratti da: Documento della Commissione diritti umani del Senato, Documento programmatico Cie del ministero dell’Interno 2013, relazione al Parlamento del Garante Nazionale del 2018) continuano a mostrare che la media dei rimpatri effettuati rispetto alle persone trattenute - indipendente dai termini di trattenimento vigenti - si è sempre attestata attorno al 50%. Dunque i dati indicano come l’efficacia del sistema del trattenimento non sia direttamente correlata all’estensione dei termini massimi di permanenza nei Centri… È così. Molto, ovviamente, dipende dal livello di cooperazione offerto da ciascun Paese di provenienza dei cittadini stranieri. L’ampliamento del campo di applicazione della misura, con evidenti ricadute sul diritto fondamentale alla libertà dei cittadini stranieri irregolari, non sembra quindi trovare un adeguato bilanciamento in effettive esigenze di sistema. Inoltre l’indicazione che dalla previsione del prolungamento dei termini di durata massima non debbano derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica desta preoccupazione poiché, a un’estensione dei tempi di permanenza all’interno dei Centri, dovrebbero accompagnarsi misure dirette a garantire un aumento e una diversificazione delle attività a favore delle persone trattenute in modo che la società civile entri nei Cpr con progetti di percorsi trattamentali come accade in carcere. Qual è la situazione del Centro di corso Brunelleschi spesso al centro delle cronache per le proteste per le condizioni in cui versano gli stranieri tanto che spesso i Cpr vengono paragonati ad una forma di detenzione amministrativa per regolare i flussi immigratori? La situazione resta invariata nel tempo. L’architettura del Centro con le alte recinzioni (oltre 6 metri) e i moduli abitativi allocati all’interno producono un ambiente angosciante sia per chi vi è costretto a permanere sia per gli operatori che quotidianamente vi lavorano all’interno. A questo si aggiunge l’attesa, il fallimento di un progetto migratorio, la mancanza di attività, la lontananza dalla famiglia e la separazione dalla collettività, un insieme di fattori che inevitabilmente spesso producono rabbia e gesti di protesta estremi. Lunedì scorso in Regione (vedi box) durante la presentazione di una ricerca condotta dagli Atenei piemontesi sulla tutela della salute dei trattenuti nel Cpr di è stato sottolineato che le persone in attesa di rimpatrio versano in condizioni peggiori dei detenuti perché il sistema carcerario ha una normativa meglio regolata mentre nei Cpr, oltre a una scarsità di informazioni sui diritti di chi è fermato, le condizioni sanitarie e di alloggio sono precarie… La quotidianità all’interno degli Istituti penitenziari è regolata da una serie di attività che si susseguono, negli ultimi anni vi è stata un’apertura delle nostre carceri verso l’esterno con svariati interventi della società libera, delle Associazioni del territorio e delle Cooperative di solidarietà sociale. Il Cpr è un luogo troppo chiuso all’interno del quale ruotano da anni gli stessi operatori dallo “sguardo assuefatto” che difficilmente riescono a valutare il migrante come una persona esausta nel suo percorso. Sono le interviste riportate nella ricerca che ci offrono una chiave di lettura autentica e preoccupa quella divisione “Noi e loro”, che emerge dalle testimonianze perché priva di dignità. Nel suo intervento a commento della ricerca lei ha sottolineato come per gli operatori che lavorano nei Cpr - tra cui medici e infermieri - manchi una formazione adeguata per assistere gli stranieri in attesa di rimpatrio in un momento così delicato. A cosa si riferisce? Le nostre attività di monitoraggio ci offrono un osservatorio privilegiato sul momento più complesso del periodo di trattenimento, il rientro nel paese di origine. I rimpatriandi vengono avvisati all’ultimo per avviare la procedura di rimpatrio con partenza dal Cpr per raggiungere l’aeroporto di Torino-Caselle, luogo nel quale vengono presi in carico da operatori di scorta della Polizia di Stato, “scortisti” che hanno un adeguata formazione per l’impegno che affrontano, sono coloro che stanno accanto al migrante sino all’arrivo nel proprio paese. Osservare l’elevata professionalità di questo “corpo speciale” di Polizia inevitabilmente apre una riflessione su come un adeguato approccio “transculturale” faccia la differenza. Rapporto empatico, dialogo, contatto, sono le componenti che caratterizzano la relazione tra chi deve partire e chi deve accompagnare. Questo metodo è però utilizzato solo nell’ultimo pezzo di strada che i cittadini espulsi devono compiere, e cioè quello verso la loro Patria. Non così avviene nei Cpr, e a questo mi riferivo: all’adeguata formazione che tutti dovrebbero avere per gestire al meglio anche la permanenza all’interno dei Centri. Nella ricerca viene evidenziato - e lei lo ha confermato - come molti degli stranieri nel Cpr compiano gesti di autolesionismo (ferite, ingestione di pile o lamette) per poter essere ricoverati in ospedale dove non è previsto il piantonamento delle forze dell’ordine, utilizzando così il proprio corpo come strumento di negoziazione nel tentativo di sottrarsi al rimpatrio. Perché a queste persone non può essere riservato un trattamento che rispetti la loro dignità senza che siano costretti a gesti estremi? Il Cpr è una realtà presente nella nostra Città, a nulla è servita la Mozione del Comune di Torino dello scorso anno che ne chiedeva la chiusura e quindi sono necessarie nuove strategie di gestione condivise con il territorio. La separazione dalla collettività isola l’uomo e sottrae dignità. La mancanza di un apposito “registro delle criticità” non consente facilmente uno studio approfondito delle dinamiche e delle principali cause, a questo proposito la Direzione del Cpr è stata invitata a provvedere a tale mancanza sia dal Cpt (Comitato prevenzione tortura) sia dal Garante Nazionale. Cosi come andrebbe fatto un accurato monitoraggio sull’utilizzo degli psicofarmaci, che come riportato nella ricerca il loro uso è molto elevato. Pisa: i vertici del carcere incontrano la Commissione Politiche sociali del Comune pisa24.info, 7 dicembre 2018 “I problemi maggiori derivano - ha così ricordato, ieri mattina, Francesco Ruello, direttore del “Don Bosco” nel corso della sua audizione presso la Commissione Politiche Sociali del Comune a cui era presente anche Bianca Maria Melis, referente del servizio sanitario penitenziario di Pisa - in particolare, oltre che dalla struttura stessa dell’edificio “Don Bosco”, assolutamente inadeguata, dalla presenza di malati psichiatrici e dalle tensioni tra gruppi di detenuti di diversa provenienza etnica”. Innanzitutto i numeri. I detenuti della Casa Circondariale “Don Bosco”, sono 292, di cui 42 donne e 250 uomini. 168 sono i detenuti condannati in via definitiva. 127 sono i detenuti italiani. 33 detenuti sono, invece, tunisini, 31 i marocchini, 26 gli albanesi, 18 i rumeni, 8 i georgiani, 2 i senegalesi, e 35, infine, sono i detenuti di altre nazionalità. La capienza della Casa Circondariale “Don Bosco” è di 206 detenuti, ma, nonostante che ad oggi la popolazione carceraria sia, come detto, di 292 detenuti, rientra però nei limiti stabiliti dalle leggi e da alcune recenti sentenza. La Casa Circondariale “Don Bosco” ha inoltre, una grande mobilità delle sua popolazione penitenziaria. Sono oltre 900 i detenuti che, ogni anno, entrano ed escano dal “Don Bosco”. 221 sono, poi, gli agenti di polizia penitenziaria. Inoltre, per quanto riguarda il Centro clinico, sono impiegati 14 medici e 22 infermieri. “Molti detenuti - ha poi aggiunto Ruello - sono, poi, impegnati in attività di studio e in attività lavorative. La Casa Circondariale “Don Bosco” ha, ad esempio, una convezione con l’Università di Pisa e una con l’Istituto Alberghiero e organizziamo anche vari altri corsi di formazione, anche di musica e di teatro. La città di Pisa è molto attenta al “Don Bosco”. La Casa Circondariale non è lasciata da sola”. Firenze: “empatia confinata, noi infermieri nel carcere” met.provincia.fi.it, 7 dicembre 2018 La testimonianza durante l’incontro Opi Firenze-Pistoia al Forum Risk. Il ruolo dell’infermiere nelle carceri. È stato questo il tema trattato durante un incontro organizzato da Opi Firenze Pistoia, che si è tenuto nei giorni scorsi al Forum Risk presso la Fortezza da Basso di Firenze. A parlare di “Empatia confinata: la realtà dell’infermiere penitenziario” sono stati Luis Lujan infermiere nel reparto giudiziario del carcere di Sollicciano, Maria Stella Barbati, infermiera nel reparto accoglienza del carcere di Sollicciano, e Caterina Torcini coordinatrice infermieristica nelle carceri di Sollicciano, Mario Gozzini e Meucci. “Non esiste una formazione specifica che insegni agli infermieri come operare in un contesto particolare come quello del carcere - ha spiegato Louis Lujan. Ho trent’anni e sono infermiere in un carcere da cinque anni. Sono diverse le problematiche ci ritroviamo ad affrontare: dalle lunghe distanze date dai corridoi che separano l’infermeria da alcune zone del carcere dove potrebbero trovarsi i pazienti da soccorrere, agli interventi infermieristici che vanno sempre coordinati con la polizia penitenziaria per ragioni di sicurezza. Ci sono poi delle misure di sicurezza che vanno rispettate: per esempio il detenuto non deve sapere la nostra identità, per loro noi siamo semplicemente “infermiere” e “infermiera”. Questo per evitare che si entri in confidenza o si possa avere nei loro riguardi un eccessivo coinvolgimento emotivo. Per quanto riguarda le visite, da qualche anno possono avvenire con la vigilanza a vista dall’esterno della stanza dove si trovano medico e paziente (tranne in casi di particolare pericolo o agitazione)”. Maria Stella Barbati lavora come infermiera dal 2012 a Sollicciano. “In un carcere l’infermiere - racconta - ha a che fare con pazienti detenuti di varie etnie e culture, con diversi tipi di quadri clinici. Spesso ci si ritrova a prendersi cura della persona che ha attuato gesti di autolesionismo (soprattutto per protesta). Questo perché la voglia di libertà supera quella di stare bene in salute. I detenuti tendono a volte a simulare un malessere per uscire dal carcere. Il carcere di Sollicciano è dotato di un cardiolink, un elettrocardiografo portatile in grado di registrare un ECG. L’elettrocardiogramma registrato viene trasmesso tramite accoppiamento acustico con un normale telefono ad una centrale operativa ove operano medici specializzati in cardiologia che in tempi rapidissimi refertano il tracciato stesso, inviandoci il tutto tramite email. Tutto questo procedimento serve a limitare le uscite dei detenuti dal carcere. Inoltre, in carcere l’infermiere lavora attraverso protocolli e istruzioni operative Aziendali (Asl centro), per esempio per diabetici o per le malattie infettive. In più - conclude l’infermiera - dato che non possiamo conoscere tutte le lingue parlate dai detenuti, ci viene in soccorso il servizio di mediazione culturale telefonico attivo h24, che ci permette di avere in tempo reale una traduzione. “Quella del carcere è una realtà che non si può immaginare finché non ci si lavora - dice Caterina Torcini. Il 2008 ha segnato un momento importante per gli infermieri che operano in questo ambiente ma anche per i detenuti stessi: è infatti avvenuto il passaggio della gestione per la parte sanitaria nelle carceri dal Ministero della Giustizia al Ministero della Salute. Questo vuole dire che, se in passato nelle carceri c’erano agenti infermieri che vedevano principalmente il paziente come detenuto, oggi i pazienti in carcere sono effettivamente tali, seguiti nei loro problemi di salute da personale esclusivamente sanitario multi-professionale”. Cosenza: soppresse due classi della scuola in carcere, la Cgil protesta di Pino Assalone* iacchite.com, 7 dicembre 2018 Come Flc-Cgil siamo venuti a conoscenza di un decreto di accorpamento (formalmente, sostanzialmente si tratterebbe di una soppressione) delle due seconde classi della sede carceraria di Cosenza, di competenza dell’istituto “Cosentino-Todaro” di Rende. Ciò pare sia stato determinato e si renderebbe necessario per la esiguità non degli iscritti, ma dal numero dei frequentanti. Abbiamo immediatamente scritto all’Ufficio Scolastico Regionale della Calabria ed all’Ambito Territoriale Provinciale di Cosenza, da cui aspettiamo formale ed esaustiva risposta alle nostre preoccupazioni. Valutiamo infatti che, essendo la sede carceraria di Cosenza anche ad elevato regime di sicurezza e per altri motivi concreti, i due corsi non potrebbero affatto coesistere sul piano pratico e di conseguenza se ne sancirebbe la definitiva chiusura. Se ciò dovesse corrispondere a verità, sarebbe gravissimo. Riteniamo importante che l’esperienza di un luogo di chiusura e di esclusione, qual è il carcere, si trasformi in luogo di crescita, di confronto e di apertura verso la società. Sarebbe pazzesco non soffermarsi sulla valenza sociale che riveste la scuola nella sede carceraria di Cosenza, come in ogni altro luogo di detenzione, e ragionare solo sulla base di una qualche (pure presunta) convenienza ragionieristica. Infatti, a questo punto dell’anno scolastico, è certamente una forzatura produrre dei decreti prima di accorpamento delle classi e successivamente di chiusura poiché non produrrebbero alcun effetto sia sul piano economico che sul piano degli organici. Per queste ragioni, siamo convinti sia urgente attivare tutte le misure affinché ai detenuti sia assicurato il percorso scolastico iniziato parallelamente a quello di tutti gli studenti, con il medesimo programma scolastico e con gli stessi obiettivi finali tesi al conseguimento di un attestato di studio. Per tutto ciò abbiamo invitato Usr ed Atp a tenere in debita considerazione gli articoli 27 (sulla funzione rieducativa della pena) e 34 (sul diritto allo studio) della Costituzione, tutte le normative e le direttive, tutte le deroghe indipendentemente dal numero minimo per la formazione delle classi stesse, perseguendo una coerente politica del diritto dei detenuti a conseguire comunque, attraverso la scuola, un recupero teso a rendere non solo meno gravosa la condizione carceraria ma anche di legarla ad una consapevolezza di acquisizione di strumenti propri dell’esperienza scolastica. *Segretario provinciale della Flc-Cgil Modena: la giustizia si impara tra i banchi di scuola Gazzetta di Modena, 7 dicembre 2018 Gli alunni della “Cavedoni” e del “Ducale” hanno incontrato la polizia per una lezione sulla legalità. Gli alunni delle tre classi terze della scuola secondaria di primo grado Cavedoni (istituto comprensivo Sassuolo 4° ovest) e gli alunni delle quattro classi terze della scuola secondaria di primo grado “Parco Ducale” (istituto comprensivo Sassuolo 2° nord) hanno partecipato ieri mattina all’incontro con la polizia di stato nell’ambito del progetto di educazione alla legalità “La giustizia si impara a scuola”, attivato in entrambi gli istituti grazie alla collaborazione delle docenti in organico potenziato. Presenti, oltre alla dirigente di entrambe le scuole Sabrina Paganelli, il vice questore aggiunto del commissariato di Sassuolo Fabio Pecoraro e l’ispettore capo Marco Ferrari, responsabile della sezione di polizia postale e delle comunicazioni di Modena. Circa 150 i ragazzi presenti, con gli insegnanti di riferimento. “L’intervento - ha commentato la professoressa Giuseppina Leo - si inserisce nel più ampio Progetto “Awake”, sottoscritto nel protocollo d’intesa relativo al progetto formativo, informativo tra la questura di Modena, l’ufficio scolastico provinciale, la camera di commercio e le associazioni di categoria maggiormente rappresentative sul territorio. Il progetto viene sviluppato con un taglio educativo per gli studenti di ogni ordine e grado degli istituti scolastici di Modena e provincia con la finalità di favorire la cultura della legalità ed il rispetto delle leggi tra i giovani per promuovere l’acquisizione di corretti stili e modelli di vita e contribuire alla formazione di cittadini consapevoli e responsabili”. Nelle relazioni dei due ospiti, che durante la mattinata più volte hanno interagito gli studenti, stimolandoli al dialogo, sono state esposte le principali infrazioni alle leggi che hanno ripercussioni sia sui diretti interessati che sulle loro famiglie, in caso di età inferiore ai 16 anni. Roma: persone senza dimora, partono i bandi per condomini sociali e housing first Redattore Sociale, 7 dicembre 2018 L’obiettivo del Campidoglio è quello di costruire nuovi percorsi verso l’autonomia delle persone senza dimora. L’assessore al sociale, Baldassarre: “Puntiamo su modalità innovative, mutuando le migliori prassi degli altri Paesi”. Una novità che, col tempo, potrebbe cambiare la vita delle persone senza dimora a Roma: la mette in campo il Campidoglio, che fa partire oggi un’azione finalizzata a rafforzare il sistema dell’accoglienza e dell’inclusione di questa categoria di persone. Roma Capitale ha avviato una gara europea a procedura aperta per l’affidamento in gestione di servizi sperimentali per il contrasto alla grave emarginazione adulta. Le progettualità coinvolgeranno in forme diverse tutti i Municipi romani e dovranno operare tutti i giorni dell’anno. Gli interventi previsti si realizzeranno tra 1 gennaio e 31 dicembre 2019. Spiega l’Assessora alla Persona, Scuola e Comunità Solidale Laura Baldassarre: “Si tratta di un altro tassello nel lavoro che stiamo impostando, per comporre un sistema integrato di gestione coordinata delle questioni legate all’accoglienza e all’inclusione sociale. Puntiamo su modalità sperimentali e sull’adozione di interventi innovativi, mutuando le migliori prassi utilizzate anche in altri Paesi. Vogliamo che tutte le persone si sentano legate dall’appartenenza a una comunità che sappia rispondere sempre ai bisogni individuali”. Il progetto. Un asse del processo di rafforzamento consiste nella gestione di alloggi, veri e propri condomini sociali, per persone in condizione di marginalità e l’elaborazione di programmi personalizzati di accompagnamento, cura e reinserimento sociale e lavorativo. La struttura individuata per tale servizio è già nella disponibilità di Roma Capitale. Il progetto finanzierà le spese quotidiane per la gestione degli appartamenti, parte delle spese personali degli ospiti, parte delle spese di vitto e percorsi di formazione e reinserimento. Agli ospiti verrà offerta una presa in carico improntata all’accompagnamento verso una progressiva autonomia, prevedendo un intervento comunale sulle spese vive a tre scaglioni: 100% i primi sei mesi e 70% per la restante parte dell’anno. In questo quadro progettuale si prevede, per la prima volta a Roma, la sperimentazione di una struttura abitativa orientata ai principi dell’Housing First, attraverso l’utilizzo di un appartamento, anch’esso già nella disponibilità di Roma Capitale. I principi che orientano questo approccio sono: la comprensione del bisogno dell’utente; un supporto che dura per tutto il tempo necessario; accesso ad appartamenti indipendenti situati in diverse zone della città; separazione del trattamento dal diritto alla casa; auto-determinazione del soggetto nelle scelte; definizione di un programma di supporto condiviso tra servizio sociale e utente; riduzione del danno. Il personale sociale impiegato supporterà i beneficiari nella redazione e nello sviluppo dei progetti individuali che potranno riguardare diverse aree di intervento: dal lavoro, al recupero della cura di sé, al segretariato sociale, alla protezione dalla strada, alla riabilitazione alla vita sociale e relazionale. La presa in carico fondata sulla progettualità è sancita dalla condivisione e sottoscrizione di un vero e proprio patto. La procedura si inserisce nell’ambito del progetto “Scimai” (Sistema Cittadino Integrato di Monitoraggio, Accoglienza e Inclusione), finanziato dal Programma Operativo Nazionale (Pon) “inclusione” Fse 2014-2020 e dal fondo di aiuti europei agli indigenti Pon I Fead 2014-2020 e dal Pon Città Metropolitane 2014-2020. Padova: nel 2020 la città sarà la capitale europea del volontariato Redattore Sociale, 7 dicembre 2018 Il verdetto del Centro europeo volontariato (Cev) premia la città veneta, che batte la concorrenza della scozzese Stirling. È la prima località italiana ad ottenere il riconoscimento, che in passato è stato assegnato a Barcellona, Lisbona e Londra. Il presidente del Csv Padova, Alecci: “C’è un’Italia che vince, sarà entusiasmante”. Ha vinto Padova. La lotta a due con la cittadina scozzese di Stirling si conclude con un successo per la città veneta, che viene incoronata capitale europea del volontariato per il 2020 nel corso del congresso del Centro europeo volontariato (Cev) che si è riunito ad Aarhus (Danimarca) nel giorno della Giornata internazionale del volontariato. È la prima volta che una città italiana ottiene questo titolo: prima d’ora le capitali del volontariato erano state Barcellona nel 2014, Lisbona nel 2015, Londra nel 2016 e Sligo nel 2017. A succedere ad Aarhus, capitale europea del volontariato 2018, saranno dunque prima Kosice (Slovacchia) per il 2019 e poi Padova. “Non posso nascondere che l’Amministrazione di Padova ci contava moltissimo - dichiara l’assessore comunale al volontariato, Cristina Piva. Il patrimonio del volontariato padovano meritava un riconoscimento del genere. Da oggi saremo ancora più impegnati e vicini alle realtà del terzo settore del nostro territorio”. “C’è una Italia che vince, ed è l’Italia del volontariato - aggiunge Emanuele Alecci, presidente del Centro Servizi Volontariato Padova - Sarà un cammino entusiasmante, con una apertura a livello Veneto, italiano ed europeo”. Lecce: detenuti-scrittori, c’è poesia anche dentro il carcere trnews.it, 7 dicembre 2018 “Contro certe punizioni, bisogna armarsi di poesia”, dice uno di loro sul palcoscenico. E quelle punizioni li riportano bambini: stare in equilibrio su un piede solo, come imposto dalla maestra. O una settimana a casa con la nonna, per volere del papà. E le “mazzate, quante mazzate”, uguali, nella comunità ospitante o nella buona famiglia che paga le scuole private. Tante fino a “farsi invisibile”, a scappare di casa “per andare con gli zingari”, a 14 anni. C’è il senso di colpa, che inizia col raggiro della vecchina: mezza moneta per un pacco di caramelle. Quindici storie. Una sola storia, nel teatro del carcere di Borgo San Nicola. Nel pomeriggio di mercoledì 5 dicembre, è stato come guardare dalla crepa di un muro l’umanità che c’è dietro, umanità restituita in parole, piene di sbagli, certo, di reati, ovvio, colme di penitenza eppure di speranza. Quello “restituito” è il frutto del Terzo Studio “Vide Cor Meum” del collettivo Rosa dei Venti, che da due anni, ogni giorno, dal lunedì al venerdì, tiene un laboratorio di scrittura dentro la biblioteca della sezione maschile, sotto la guida della scrittrice Luisa Ruggio e con la ricerca fotografica di Veronica Garra. Sul palco non ci sono attori che recitano una parte, ma ci sono persone che portano in dote il loro vissuto. Un esercizio che ha un senso. Il progetto del collettivo ne ha partorito anche un altro: due detenuti sono impiegati come bibliotecari nella Biblioteca provinciale Bernardini. Tanta emozione, tanta immedesimazione, sciolta in un lunghissimo applauso finale, tutto il pubblico in piedi, ognuno con la sua elaborazione. E con la mente alle parole di Pasolini: “Penso che sia necessario educare le nuove generazioni al valore della sconfitta. Alla sua gestione. All’umanità che ne scaturisce. A costruire un’identità capace di avvertire una comunanza di destino, dove si può fallire e ricominciare senza che il valore e la dignità ne siano intaccati”. Torino: le nuove Pigotte dell’Unicef “made in carcere” di Maria Teresa Martinengo La Stampa, 7 dicembre 2018 Le bambole sono state realizzate dalle detenute con il desiderio di contribuire ad aiutare i bambini. Rieccole morbide, colorate, internazionali, le faccine sorridenti o un po’ stupite: sono le 400 Pigotte pronte per essere adottate a Natale, ritirate ieri alla Casa Circondariale Lorusso e Cutugno, dove la sezione femminile ha avviato da alcuni anni il laboratorio delle bambole di pezza dell’Unicef, il cui ricavato salva la vita dei bambini. Per arrivare alla produzione - le donne detenute si avvicendano spesso, l’attività è preceduta da momenti di informazione sul significato della Pigotta, collegato alla missione dell’Unicef, e di formazione operativa per mostrare i passi necessari al suo confezionamento creativo. L’iniziativa, dall’alto valore sociale, ha sempre riscosso grande successo: è una attività di socializzazione che consente alle detenute di uscire dalle celle e lavorare in gruppo, contribuendo con il proprio impegno ad una grande opera umanitaria. “La nostra presenza - spiega Antonio Sgroi, presidente provinciale per l’Unicef di Torino - ha portato una ventata di ottimismo, consentendo alle detenute di diventare protagoniste nelle campagne umanitarie tese alla difesa dei diritti dell’infanzia ed all’accoglienza dei bambini migranti”. E il direttore della Casa Circondariale, Domenico Minervini: “Abbiamo cercato di rendere concreta la loro aspirazione a sentirsi parte della comunità, diventando mediatrici con la realtà al di là delle mura. Con risultati pregevoli. La realizzazione delle “Pigotte” rientra nel progetto LEI che si pone gli obiettivi di consentire alla detenute di apprendere o affinare le competenze nella prospettiva dell’uscita dal carcere per un reinserimento socio-lavorativo volto alla prevenzione della recidiva”. Il Laboratorio, promosso nell’ambito del progetto Lavoro, Emancipazione e Inclusione (LEI), è formato da gran parte delle donne recluse nella sezione femminile della Casa Circondariale di Torino, seguite da Laura Bevilacqua e, per l’Unicef, da Annamaria Pansera, referente delle Volontarie “Pigottare”. Le “Pigotte” possono essere adottate presso: la sede dell’Unicef in via Cernaia 28; la postazione Unicef allestita in Piazza San Carlo nei giorni 8, 9, 15 e 16 dicembre; InGenio Via Montebello 28; Temporary Shop, via Santa Croce 10, Moncalieri; le Pro Loco di Pianezza, Rivarolo e Rivoli. Roma: Padre Lombardi “seminare fiducia e speranza di redenzione in carcere” di Davide Dionisi vaticannews.va, 7 dicembre 2018 Convegno promosso dal Seraphicum, l’Associazione Culturale G. De Carli e le E. Messaggero Padova sul mondo dei “ristretti”. Presentato il libro di F. Beppe Giunti “Padre nostro che sei in galera”. Coincidenza non voluta, ma efficace e, per certi versi, illuminante. Nel giorno in cui Papa Francesco ha inaugurato il nuovo ciclo di catechesi per l’udienza generale, dedicato alla preghiera di Gesù, al Seraphicum di Roma si è parlato di “Padre nostro che sei in galera”. È questo infatti il titolo del volume, edito da “Edizioni Messaggero Padova”, scritto da Fr. Beppe Giunti e i “fratelli briganti”, ovvero gli ospiti (collaboratori di giustizia ndr) della Casa di reclusione “San Michele” di Alessandria. Un’esperienza maturata dal francescano accanto ai detenuti che è diventata, appunto, preghiera. “Non ho avuto alcuna difficoltà a scrivere un libro del genere” ha detto Fr. Beppe ai nostri microfoni. “Di fronte ad un frate, i detenuti non hanno avuto alcuna difesa. Ho provato molte gioie nel percorrere questa strada, ma anche tante nostalgie che vado a curarmi ogni tanto tornando da loro.” Ma come nasce l’idea di un volume con un titolo così forte? “Per il carcere, ma non solo, dobbiamo tornare alle origini ed ispirarci al protocollo francescano dell’accoglienza” ha sottolineato nel corso del suo intervento Fr. Fabio Scarsato, Direttore del Messaggero di S. Antonio. “Cambiare in sostanza la grammatica dell’approccio nei confronti della devianza criminale, proprio come fece San Francesco con il lupo” ha aggiunto. Secondo il Direttore di Tv2000, Lucio Brunelli “Lo scopo del carcere è quello di dare sicurezza e allo stesso tempo assicurare il reinserimento nella società. Questa la finalità costituzionale e tutti gli interventi dei pontefici che si sono recati in carcere hanno sottolineato proprio questo” “Il sistema carcerario dovrebbe portare ad un reinserimento positivo nella società” ha evidenziato Padre Federico Lombardi, Presidente della Fondazione Ratzinger, “La giustizia si ristabilisce non quando si chiude qualcuno, lo si elimina o lo si condanna perpetuamente, ma quando gli si dà la possibilità di superare l’errore, riconoscendone la gravità ma anche ricostruendo un rapporto con gli altri, con le vittime e con la società che è stata danneggiata. La giustizia vera” ha aggiunto Lombardi “si stabilisce quando si è costruito il rapporto di fiducia e di pace con il prossimo. Questa è la meta da raggiungere”. Milano: l’umanità di una Nave chiamata carcere, mostra alla Triennale di Fabrizio Ravelli La Repubblica, 7 dicembre 2018 La vita nel reparto che cura le dipendenze in una mostra alla Triennale. Può anche sembrare un paradosso, che dentro la Triennale di Milano, questo bellissimo luogo della bellezza, dell’architettura, dell’arte, entri un carcere come San Vittore. La galera il cui nome risuona di brutte memorie e pessimi luoghi comuni: vecchia, fatiscente, sovraffollata, piazzata come un mostro dentro la città a spaventare i benpensanti. Tutto vero, anche. Ma un carcere che è pure tante cose diverse, e buone cose. Un universo affaccendato, che vibra di dolore e di umanità, perfino di bellezza se uno la sa vedere. Alla Triennale, da venerdì 14 dicembre fino al 20 gennaio, c’è una rassegna che si chiama “ti Porto in prigione”, fortemente voluta dal direttore Giacinto Siciliano e dal provveditore Luigi Pagano proprio per aprire uno sguardo della città su quel suo quartiere diverso. Le foto della mostra “In transito. Un porto a San Vittore” di Nanni Fontana - raccontano il lavoro del reparto più particolare del carcere. Quello chiamato La Nave, gestito dalla Asst Santi Paolo e Carlo e diretto da Graziella Bertelli. Un’esperienza che ha ormai una sua storia lunga 16 anni, dedicata alla cura delle dipendenze da droghe, alcol, gioco. Il bianco e nero di Nanni Fontana è drammatico nel mostrare la povera scalcinatezza delle celle, delle stanze di riunione, dei corridoi e dei bagni, ma affettuoso coi volti e i corpi di chi li abita e ci si muove. Una sessantina circa di detenuti - italiani, albanesi, marocchini, serbi, sudamericani, filippini - tutti in attesa di giudizio. Il ricambio è quindi continuo, salvo ricadute, e il ripresentarsi di facce conosciute: succede, a volte. Più o meno come in un ospedale. Con una differenza: ai pazienti di questo reparto si chiede un impegno sottoscritto da un contratto. La foto ci mostrano momenti della giornata alla Nave, dove le attività sono scandite da un orario. Educazione alla legalità, genitori e figli, lettura, sport, cartonaggio, yoga, scrittura, videobox (ogni ospite, solo davanti a una videocamera, parla di sé e dei suoi pensieri liberi). Niente di tutto questo è un intrattenimento, un far passare il tempo lungo e vuoto della carcerazione. È un trattamento psicologico e partecipativo che ha regole ben definite, e richiede una partecipazione attiva. Anche le riunioni di redazione dell’Oblò, il giornale del reparto che ha cadenza mensile e viene distribuito all’esterno, fanno parte di questo trattamento: i detenuti scelgono i temi, scrivono i loro articoli, li leggono ad alta voce davanti a tutti, li discutono. Racconti strazianti a volte, ma anche ironici o esilaranti. Il coro è uno degli impegni più popolari. Diretto da Paolo Foschini, uno dei molti volontari che affiancano lo staff, si è già esibito diverse volte anche fuori dal carcere. Vedere detenuti marocchini o albanesi cantare canzoni in dialetto milanese è uno spettacolo. E il coro è anche uno dei momenti in cui si misura l’efficacia delle terapie alla Nave, la capacità di sviluppare solidarietà e reciproco aiuto fra gli ospiti. Gli ospiti della Nave, in corso d’opera della loro navigazione, chiedono soprattutto ascolto. Ci si augura che la Milano di fuori saprà darglielo. Alessandria: “Artiviamoci”, il festival delle arti recluse di Daniela Bartolini piemonte.checambia.org, 7 dicembre 2018 Dal 7 al 12 dicembre l’arte esce dal carcere per entrare nella città di Alessandria. Esposizioni, incontri ed approfondimenti per conoscere ed accogliere le voci e i gesti delle persone ospitate all’interno dell’Istituto di Reclusione “Cantiello e Gaeta”, attraverso le opere e le riflessioni nate dai laboratori d’arte e artigianato di Artiviamoci. “Eppure è l’arte che dà voce all’uomo e lo risolleva dalla sua condizione più misera. L’uomo capisce d’avere in sé una scintilla d’infinito”. È così che si presenta, sul sito dedicato, Artiviamoci, non un progetto, ma tanti progetti integrati di artigianato d’arte e arti visive all’interno delle due carceri alessandrine: la Casa Circondariale di Piazza don Soria e la Casa di Reclusione di San Michele, oggi riunite nell’unico Istituto di Reclusione “Cantiello e Gaeta”, che ospita circa seicento persone. Laboratori dentro le mura della prigione, ma il loro è uno spazio non detentivo. È spazio di creatività e di cambiamento, potenza liberatrice. È scoperta di se stessi, d’una imprevista identità espressiva. Un’arte che non solo ridà dignità di uomo, ma che libera e distrugge la cella-prigione anche attraverso la condivisione all’esterno delle opere e dei percorsi che qui si svolgono. Proprio come avviene dal 7 al 16 dicembre attraverso il festival “Artiviamoci: le mani e le arti” che presenta alla città tutti i progetti realizzati nei laboratori all’interno delle carceri; la bottega di pittura, l’arte contemporanea, la fotografia, la xilografia e la stampa, il cinema, la letteratura, la ceramica, il teatro espongono le loro opere e offrono momenti d’incontro dentro e fuori le mura del carcere. I luoghi del Festival saranno: la Casa di Reclusione Cantiello e Gaeta, San Michele e piazza Don Soria, l’Istituto Superiore Saluzzo Plana, il Comune di Alessandria, il Palazzo del Monferrato e la Sala Affreschi e Chiostro di Santa Maria di Castello. “Il festival - ricorda Pietro Sacchi, coordinatore del festival e Presidente di “ICS Onlus”, associazione presente in maniera continuativa con varie progettualità all’interno delle due carceri dal 2009- ha come protagonisti i carcerati e le tante attività che si svolgono al suo interno si finalizzano in questo festival”. Non solo laboratori d’arte, le persone ospitate nelle strutture di questo istituto di detenzione, svolgono molte attività anche al di là del muro (panetteria, falegnameria, produzione agricola, progetti di pubblica utilità) e hanno anche la possibilità di partecipare a momenti di riflessione culturale e vero e proprio studio e formazione professionale. Perché un positivo esito del percorso di reinserimento all’interno della società passa anche per una più sicura appropriazione del ruolo di cittadino, mediante un ampliamento degli orizzonti culturali attraverso l’innesco di esperienze di “pensiero libero”. “Il festival - prosegue Pietro Sacchi dai microfoni di Radio Pnr - da l’opportunità di vedere, in luoghi distinti della città, questi aspetti. Ad esempio ci sarà una giornata di studio con il Cesp (Centro studi scuola pubblica) e Rete nazionale delle Scuole Ristrette e un importante incontro presso la sede dell’Associazione Cultura e Sviluppo, dove con il provveditore si cercherà di arrivare alla formazione di una nuova scuola, con un proprio dirigente e un organico, all’interno del carcere per riprendere il discorso sulle formazione professionale”. Cremona: “I Buoni di Cà del Ferro”, gli chef-detenuti protagonisti di una filiera sociale di Carla Parmigiani mondopadano.it, 7 dicembre 2018 Il 12 dicembre (dalle 17 alle 19), presso la Sala Teatro della Casa Circondariale di Cremona, sotto la “supervisione” dello chef “chic” Alessandro Bellingeri, si terrà “L’è Bon”, evento conclusivo del corso di formazione per addetto alla cucina - organizzato nell’ambito del progetto Re-Start. C’è del “buono” a Cà del Ferro. Un “buono” contagioso che si estende a tutta la filiera sociale a Km “0”, dal campo alla tavola. “Buone” le verdure biologiche coltivate dalla cooperativa Nazareth a Persico Dosimo. “Buoni” i preparati dei detenuti-chef che, nella cucina-laboratorio della casa circondariale di Ca’ del Ferro, le trasformano in conserve e salse. “Buone” le strade che accompagnano i detenuti nelle “attività di formazione e riabilitazione sociale” del carcere, frutto di un “sentire comune e di felici coincidenze”. E, di tanto lavoro, non privo di difficoltà. Tutto questo, e altro ancora, sono “I Buoni di Ca’ del Ferro”, ovvero i conservati a base di pomodoro, giardiniere, preparati per minestroni. Progetto partito qualche anno fa e che si è andato progressivamente ampliando, anche attraverso l’attivazione di nuove linee di produzione (pizza, focacce e pasta fresca). Tre i corsi di formazione già realizzati (con il Sol.co), con conseguente rilascio di un’attestazione regionale e che ha coinvolto 45 detenuti; 7, dal 2016, gli assunti in carcere con contratto di avventizio. Un buon progetto che ora vivrà una “sua” consacrazione con l’Apericena “L’è bon” del 12 dicembre. “Un evento al quale teniamo molto - confessa Maria Gabriella Lusi, direttrice della Casa Circondariale di Cremona - che, di fatto, rappresenta la prova pratica del Corso di formazione professionale per addetti alla cucina e che vedrà la partecipazione dello chef-chic Alessandro Bellingeri”. Non spegnete Radio Radicale, voce per tutti di Roberto Saviano La Repubblica, 7 dicembre 2018 Proprio quel Movimento e quel governo che si presentano come difensori dei diritti del “popolo” impediscono poi al “popolo” di avere accesso alla conoscenza, determinando la chiusura di realtà fondamentali. La furia di questo governo si abbatte sui media più piccoli - ma non marginali - che a causa dei tagli all’editoria rischiano la sopravvivenza. La giustificazione? Il risparmio. Ma si può mai risparmiare su Radio Radicale che ci permette di assistere e comprendere i processi decisionali entrando nelle stanze del potere? Si può risparmiare su Avvenire che racconta, ogni giorno e quasi da solo, le sorti dei migranti in mare? Si può risparmiare sul Manifesto che è rimasto tra i pochissimi quotidiani a occuparsi con assiduità di temi sociali con un taglio diverso, mai banale? Proprio quel Movimento e quel governo che si presentano come difensori dei diritti del “popolo” impediscono poi al “popolo” di avere accesso alla conoscenza, determinando la chiusura di realtà fondamentali. Mai nessun governo, da quando esiste la convenzione con Radio Radicale, aveva osato tanto. Mai. L’ultima battaglia di Marco Pannella, fondatore di Radio Radicale, è stata per il diritto alla conoscenza che in apparenza sembra una cosa tanto banale e scontata, ma ovviamente non lo è. Diritto alla conoscenza non significa diritto ad accedere a internet o possibilità di acquistare un quotidiano, ma il diritto che ciascuno di noi ha a conoscere ciò che davvero accade nelle stanze del potere. E siccome Pannella prima agiva e poi comunicava, nel 1975 fonda la radio, un organo di informazione fondamentale che, negli ultimi 40 anni, ha fatto entrare il cittadino in Parlamento per ascoltare le sue sedute, nelle aule di giustizia per assistere in maniera integrale ai processi più importanti, nei congressi dei partiti fino alle sedute del Consiglio superiore della magistratura. E tutto questo è la reificazione del controllo sociale sul Potere e sul suo esercizio di cui si nutre una sana democrazia. Il punto è tutto qui: esiste una politica che preferisce cittadini disinformati - resi timorosi e pieni di rancore da semplificazioni della realtà che sono veri e propri attacchi alla democrazia - ed esisteva, perché adesso non esiste più, una politica capace di volere bene e esortare in maniera sfrontata, quasi impertinente - come faceva Pannella - a non avere paura del prossimo, ma fiducia nelle persone e nella conoscenza. Una politica che invitava a rivolgere l’attenzione agli ultimi, a chi sta in carcere perché ha sbagliato e sta pagando, meritando al contempo un’occasione di reinserimento tra noi. Una politica in grado di non esasperare le differenze, ma di mostrare le vicinanze. Pannella era l’uomo della gente, non del “popolo”. Uno che se gli avessi chiesto un selfie, prima avrebbe accettato ma poi ti avrebbe coinvolto nella raccolta delle firme necessarie a dare supporto alle iniziative del Partito Radicale. Una razza rara che oggi siamo costretti a rimpiangere. Radio Radicale è per noi un dono prezioso: la radio che sta “dentro, ma fuori dal palazzo”, come ogni mattina ci ricorda la bella (per sempre) voce di Dino Marafioti; la radio che consente a chiunque di sapere ciò che accade in Turchia, in Cina, in Europa, negli Stati Uniti, nel Mediterraneo, in Africa, sulle droghe, nei tribunali, nelle carceri, nel mondo culturale. La radio dove tutti i politici sono ascoltati e dove tutti i giornalisti hanno un solo obiettivo: rendere il miglior servizio possibile agli ascoltatori. La radio di Antonio Russo. Perdere Radio Radicale significa perdere un patrimonio preziosissimo, e non ce lo possiamo permettere. Radio Radicale ha subito il taglio del 50% della convenzione che ha con il Mise, e questo significa la chiusura per una radio che non ha pubblicità con la quale sostenersi, perché è l’unico media di servizio pubblico integrale. Lo sa questo Vito Crimi, sottosegretario all’editoria, per il quale gli organi di informazione fanno troppa politica? Ma a Crimi - parlamentare da più di cinque anni - sfugge il significato stesso della parola politica. Fare politica significa occuparsi di ciò che accade perché tutto, nella nostra vita, è politica. Crimi non sa che la sua società ideale, quella in cui i media non esprimono più opinioni ma si limitano a “raccontare i fatti” non è una novità: la mancanza di opinioni pubbliche e quindi della possibilità che vi sia una pubblica opinione, è stata il tratto distintivo di tutti i regimi totalitari. Non a caso il principale organo di informazione dell’Unione Sovietica si chiamava Pravda, come se oggi un giornale si chiamasse La Verità, senza che a nessuno venisse da ridere. Crimi probabilmente tutto questo lo ignora, ma altri, nel suo Movimento, con l’armamentario tipico dei regimi totalitari hanno maggiore confidenza: basti pensare all’orrida autocritica cui è stato costretto il padre di Luigi Di Maio. Del resto la libertà un popolo la può perdere a causa di perfidi aguzzini, ma di solito la strada la lastricano gli inconsapevoli, di se stessi e del mondo. L’8 dicembre il Ministro della Mala Vita porta in piazza i suoi sostenitori, per far vedere che il culto della sua personalità non si nutre di soli like, ma di persone in carne ed ossa, che sono state invitate a partecipare anche sul presupposto che io, come molti altri, non ci saremo. Non perché ci sia vietato, ma perché saremmo diversi da tutti quelli che ci saranno. Penso a Pannella e, se anche in quella piazza non ci sarò, so che dovrei esserci. Dovrei essere accanto non a quella che qualcuno chiama l’Italia peggiore, ma accanto all’Italia che si sente peggio trattata e che crede, sbagliando, che la risposta possa offrirla questo governo. Dovrei esserci per dire a tutte le persone accanto a me di accendere la radio e di ascoltare Radio Radicale, di farsi questo regalo, per una settimana: sarà come un risveglio dal sonno. Poi magari continueranno a sostenere questo governo, ma lo faranno in maniera più consapevole, più informata. La conoscenza passa necessariamente per la pluralità dell’informazione, per l’informazione che vi piace e con cui vi trovate d’accordo e per quella che mai riuscirete a condividere. La conoscenza passa per le opinioni, non per il racconto asettico dei fatti, un racconto che non esiste, e chi lo auspica è un truffatore. E allora, contro questi nuovi barbari - che si fingono amanti di selfie e gattini e che non esitano a infliggere, per ambizione, pubblica umiliazione ai propri familiari - abbiamo una sola alternativa: difendere ciò che di prezioso abbiamo, la nostra libertà di informarci. Difendiamo Radio Radicale ascoltandola, mostrando quanto sia necessaria, perché oggi Radio Radicale garantisce il nostro diritto alla conoscenza ed è un’arma pacifica a disposizione di tutti, per resistere a chi nulla sa e nulla vuole sapere. A tutti quelli che, per mantenere il potere, pretendono che venga raccontata solo “la verità”, la loro verità. Povertà, più di un italiano su quattro è a rischio La Repubblica, 7 dicembre 2018 Il quadro dell’Istat sui redditi delle famiglie: nel 2016 la media era di 2.550 euro al mese. Miglioramento sul fronte delle diseguaglianze: gli stipendi delle famiglie meno abbienti sono cresciuti maggiormente. La mappa dell’Italia a rischio povertà. Restano le ampie distanze di reddito tra le famiglie più e meno abbienti, ma gli ultimi dati dell’Istat - relativi al 2016 - tracciano una lieve riduzione della forbice. Rimane alto nel Paese anche il rischio di “povertà o esclusione sociale”, che riguarda più di un italiano su quattro, anche se - pure sotto questo aspetto - c’è qualche timido segnale di miglioramento. Secondo lo studio dell’Istituto di statistica su “Condizioni di vita, reddito e carico fiscale delle famiglie”, nel 2016 il reddito netto medio annuo delle famiglie - esclusi gli affitti figurativi (ovvero il costo che dovrebbero sostenere sul mercato coloro che hanno case di proprietà o affittate in modo agevolato, ndr) - era di 30.595 euro, “circa 2.550 euro mensili”. È cioè cresciuto del 2% in termini nominali e del +2,1% in termini di potere d’acquisto rispetto al 2015, considerando che l’inflazione ha dato una mano alle famiglie e i prezzi del 2016 erano scesi dello 0,1%. Come accennato, la crescita riscontrata dall’Istat ha riguardato tutte le fasce di reddito “ma è più accentuata nel quinto di famiglie meno abbienti, dopo il marcato calo del 2015. Al netto degli affitti figurativi, si stima quindi che il rapporto tra il reddito equivalente totale del 20% più ricco e quello del 20% più povero si sia ridotto da 6,3 a 5,9, pur rimanendo al di sopra dei livelli pre-crisi (nel 2007 era 5,2)”. Il reddito equivalente del 20% più povero della popolazione è infatti cresciuto del 7,7% in termini reali rispetto al 2015, mentre il reddito del 20% più ricco è aumentato dell’1,9%. Resta per la fetta più debole della popolazione il grave lascito della crisi, con una perdita complessiva cumulata che resta la più ampia: -14,3% dal 2009. Nel complesso, metà delle famiglie italiane non va oltre i 2mila euro di reddito netto mensile (2090 per la precisione, +2,3% rispetto al 2015). “Il reddito mediano - aggiunge l’Istat - cresce in tutte le ripartizioni: da +0,6% del Nord-ovest a +3,9% del Nord-est”. In lieve progresso la fotografia per quanto riguarda la povertà: l’Istat stima che nel 2017 sia risultato a “rischio di povertà o di esclusione sociale” il 28,9% dei residenti in Italia, in miglioramento rispetto al 2016 quando si era al 30%. Stagnante al 20,3% la percentuale di individui a rischio di povertà (era 20,6% nell’anno precedente), mentre “si riducono sensibilmente i soggetti che vivono in famiglie gravemente deprivate (10,1% da 12,1%), come pure coloro che vivono in famiglie a bassa intensità lavorativa (11,8%, da 12,8%)”. Per il rischio di povertà gli statistici intendono quelle persone che vivono in famiglie con un reddito disponibile equivalente inferiore a una soglia di rischio di povertà, che nel 2017 era di 9.925 euro annui (827 euro al mese) per una famiglia di un componente adulto. Il concetto di “rischio di povertà o di esclusione sociale” estende poi il lotto di famiglie includendo - oltre al solo rischio di povertà - anche quelle persone che vivono in nuclei a “bassa intensità di lavoro” e in condizioni di “grave deprivazione materiale”. Nel primo caso, significa che il rapporto tra il numero totale di mesi lavorati dai componenti e il numero di mesi teoricamente disponibili per lavorare è inferiore a 0,2. Nel secondo, significa ricadere in almeno quattro dei nove indicatori di rischio: non riuscire a pagare bollette, affitti o rate di mutui; non poter riscaldare l’abitazione; non riuscire a sostenere spese impreviste di 800 euro; non potersi permettere un pasto adeguato ogni due giorni; una vacanza l’anno; una tv a colori; una lavatrice; un’automobile; un telefono. A livello geografico, il Mezzogiorno “resta l’area territoriale più esposta al rischio di povertà o esclusione sociale (44,4%), seppur in diminuzione rispetto al 2016 (46,9%). Il rischio è minore e in calo nel Nord-est (16,1% da 17,1%) e, in misura meno ampia, nel Nord-ovest (20,7% da 21,0%). Nel Centro la quota è stabile al 25,3%”. Soffrono poi maggiormente le famiglie numeroe, con cinque o più componenti. Infine “l’indicatore peggiora sensibilmente (+5,4 punti percentuali) per le famiglie in altra tipologia (costituite da due o più nuclei familiari)”. Venendo infine agli aspetti fiscali, l’Istat dice che il costo del lavoro dipendente risulta in media pari a 32.154 euro annui, sostanzialmente stabile rispetto al 2015. “Il cuneo fiscale e contributivo è pari al 45,7% del costo del lavoro, in lieve calo rispetto agli anni precedenti (46,0% nel 2015, 46,2% nel 2014)”. Sul reddito familiare grava in media una aliquota del 19,4%, con medie inferiori per le famiglie con un solo percettore con reddito prevalente da lavoro autonomo. Solidarietà, sicurezza, inclusione. Lo Stato se ne lava le mani di Diego Motta Avvenire, 7 dicembre 2018 L’imprevisto che spiazza la politica dal piglio cattivo sta diventando in queste ore anche una piccola lezione dei cittadini allo Stato e un compito che quegli stessi cittadini si autoassegnano. La storia che ha dato la scossa, ben nota ai nostri lettori, è quella di Yousuf (Giuseppe), Faith (Fede) e della loro bimba di pochi mesi, allontanati lo scorso fine settimana dal centro di Isola di Capo Rizzuto, in Calabria dove erano ospitati. In strada la piccola famiglia, accolta in Italia con “protezione umanitaria” eppure “scartata”, è rimasta solo poche ore. Sufficienti a entrare nell’attenzione e nel cuore di tanti come autentico “presepe vivente”, secondo il titolo e il senso del nostro editoriale di domenica 2 dicembre 2018. Come simbolo concreto di un’umanità che resiste allo spirito dei tempi e genera nuovo bene. Ed è quel che è successo da quel momento che colpisce e fa sperare: una mobilitazione reale, senza fronzoli, di singoli e di famiglie, di associazioni e di enti (non solo cattolici) che hanno dichiarato la propria disponibilità a farsi carico del futuro di quei giovanissimi genitori e della loro creatura. Come anche del futuro di tanti altri profughi, tristemente finiti nel limbo spalancato da alcune norme del decreto sicurezza e immigrazione. “Se invitassimo a casa nostra questa famiglia per il tempo delle vacanze di Natale? Quale insegnamento migliore per i nostri quattro bimbi piccoli per far capire quello che ha vissuto realmente Gesù?”, ha scritto alla nostra redazione una famiglia di Chiavari. Mentre da Milano si faceva viva la San Vincenzo. “Ci siamo, per loro e per tutti gli altri che verranno” e braccia aperte venivano annunciate in tutta Italia, da Nord a Sud, mentre sul territorio un silenzioso gioco di squadra di Caritas, Terzo settore e Prefetture ha dimostrato senza fanfare che il giro di vite anti-accoglienza non ha colto del tutto impreparati operatori della sicurezza, educatori e attori della solidarietà. Come trasformare tanta naturale generosità in un servizio effettivo al Paese? L’approvazione del decreto Salvini, paradossalmente, sta chiedendo al mondo delle associazioni e delle cooperative un serio salto di qualità nelle modalità di accoglienza: non basta il generoso impegno in prima, a volte primissima linea, per dare un tetto iniziale a profughi e migranti giunti via terra e via mare. Lo Stato si ritira e se ne lava le mani, creando condizioni per nuova miseria e nuova insicurezza. Serve un secondo passo, un impegno più pronunciato e deciso per una reale inclusione delle persone alle quali - per le sofferenze che hanno subito in patria o lungo il cammino verso l’Italia e l’Europa - è stato riconosciuto il diritto a restare. Perché non finiscano risucchiati nei gironi infernali dello sfruttamento e del crimine, servono più che mai - come sollecitiamo da anni, assieme ai protagonisti dell’accoglienza regolata e responsabile - percorsi che contemplino, insieme all’aiuto materiale, un efficace coinvolgimento degli stranieri nell’apprendimento della lingua, nei corsi di formazione personalizzati e, al tempo stesso, in attività di responsabilità sociale e di restituzione verso i territori che li accolgono. Lavori sin qui fatti sempre meglio dagli Sprar, che purtroppo la nuova legge punta a ridimensionare e smantellare. Eppure queste buone pratiche sono modelli da salvare, valorizzare e applicare. Micro-accoglienza diffusa, responsabilizzazione dal basso, partecipazione dei Comuni sono e restano fondamentali, come insegnano in queste ore le vicende di presa in carico spontanea di migranti (quando non di pacifica disobbedienza civile) di sindaci e comunità. È proprio questo farsi avanti gratuito, certo da armonizzare e organizzare sempre meglio, che l’attuale classe di governo - e primo fra tutti il ministro dell’Interno - dimostra purtroppo di non cogliere, di non capire e persino di avversare. Eppure è vero Bene comune, patrimonio su cui contare e su cui investire. Ministero Salute, nell’atto d’indirizzo anche una spinta alla cannabis terapeutica di Pasquale Quaranta Italia Oggi, 7 dicembre 2018 Prevenzione; efficienza gestionale, azioni di comunicazione; politiche in materia di ricerca sanitaria; politiche sanitarie internazionali; promozione della qualità e dell’appropriatezza dell’assistenza sanitaria; potenziamento del sistema informativo e statistico sanitario; dispositivi medici, stupefacenti e altri prodotti di interesse sanitario; promozione della salute pubblica veterinaria e della sicurezza degli alimenti. Sono le nove aree d’interesse sulle quali si concentrerà l’attività politica del Governo descritte nell’Atto d’indirizzo politico per il 2019 del ministero della salute. Nello specifico si porrà particolare attenzione alle attività di prevenzione delle malattie trasmissibili, soprattutto quelle di rilevanza epidemica, e alle malattie croniche non trasmissibili, a partire dai primi mille giorni di vita. Successivamente, evidenzia il documento, l’attività di comunicazione e informazione istituzionale avrà un ruolo strategico in tema di salute in quanto sarà finalizzata a rafforzare una migliore conoscenza e una maggiore consapevolezza nella popolazione generale per quel che riguarda l’adozione di corretti stili di vita e comportamenti salutari. In materia di ricerca sanitaria saranno potenziati i database di ricerca, il sistema di classificazione degli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico e la Strategia di specializzazione intelligente, indicata dal nuovo ciclo di programmazione della politica di coesione 2014-2020; mentre la promozione dell’internazionalizzazione della ricerca sanitaria mirerà a valorizzare l’impegno dei ricercatori italiani nel mondo, con l’obiettivo di amplificare gli investimenti per la ricerca e l’innovazione. Successivamente sono in programma le attività della Commissione nazionale per l’aggiornamento dei Livelli essenziali di assistenza (Lea), nuovi investimenti per il riammodernamento tecnologico del Servizio sanitario nazionale e continueranno le attività volte al riassetto strutturale e alla riqualificazione della rete dell’assistenza ospedaliera. Il ministero intende poi dare seguito al Nuovo sistema informativo sanitario con l’obiettivo di rendere disponibile, a livello nazionale e regionale, un patrimonio di dati centrato sull’individuo relativi a regole e metodologie per misure la qualità, l’efficienza, l’appropriatezza delle azioni messe in atto. Infine investimenti per lo sviluppo digitale della sanità italiana, interventi per incrementare coltivazione e produzione di cannabis ad uso medico e attività per la sicurezza alimentare e veterinaria. Decreto sicurezza. È caos accoglienza, scoppia il caso Mineo di Nello Scavo Avvenire, 7 dicembre 2018 Famiglie e bambini verranno allontanati a giorni. Il vescovo eri: “Abbandonare i cani è reato. Lasciare persone per strada è legge. Se serve apriremo le chiese per dare un tetto”. Ieri sarebbe dovuto toccare a una mamma con la sua bambina colpita da broncopolmonite. Ma la cacciata dei migranti dal Cara di Mineo, il più grande d’Italia, è stata posticipata di qualche giorno. Le istituzioni non si occuperanno di dare un tetto alle famiglie con bambini escluse dal sistema di protezione, ma il vescovo di Caltagirone non ci sta, e ha già trovato 40 posti letto. Se non bastassero, “apriremo anche le chiese per alloggiare queste persone”, annuncia monsignor Calogero Peri. Entro l’11 dicembre quasi 90 persone su 1.800 verranno accompagnate fuori dalla struttura. Poi ne seguiranno altri secondo una tabella di marcia non ancora precisata. A pochi giorni dal Natale, l’Italia mostra il suo volto peggiore. Verranno allontanati anche bambini da 1 a 12 anni, molti dei quali nati proprio in Sicilia durante la permanenza dei genitori nel Centro per richiedenti asilo. L’ultima volta il cappuccino Peri ne ha battezzati 11 e il rito dell’amministrazione dei Sacramenti non di rado si tiene nella cattedrale di Caltagirone, coinvolgendo così tutta la diocesi. Ma adesso questi bambini figli di migranti non solo dovranno trovarsi un tetto, ma saranno costretti ad abbandonare la scuola dell’obbligo, almeno fino a quando non raggiungeranno un’altra città italiana dove riorganizzare un futuro sempre più in salita. Nessuno dei cacciati potrà tornare nei Paesi d’origine e, dovendo vivere in “clandestinità”, non è neanche certo che i bambini continueranno gli studi da qualche altra parte. E pensare che il Cara “fu fortemente voluto da Forza Italia e dalla Lega Nord, rispettivamente nella persona di Silvio Berlusconi, presidente del consiglio, e di Roberto Maroni, ministro dell’Interno”, ricorda Calogero Peri. Una decisione che fu imposta “contro le alternative proposte dai sindaci del territorio”. Nei giorni scorsi il ministro Salvini ha provato a rassicurare: “Sembrava a leggere i giornali che io buttassi fuori la notte della vigilia di Natale donne incinte, bambine e anziani: chi è nello Sprar arriva alla fine del percorso Sprar, se uno ha ancora un anno sta lì un anno”. Affermazione che elude la situazione di tutte le altre strutture di permanenza, come i Centri per richiedenti asilo. Proprio come a Mineo. Quello del presule siciliano è però un richiamo alle coscienze: “In Italia, specialmente prima delle vacanze estive, passa una bella pubblicità: non è civiltà abbandonare i cani per strada e chi lo fa è punito dalla legge. Invece, abbandonare per strada i migranti o, se sembra troppo forte, “accompagnarli” e lasciarli per strada, è “sicurezza”, è legge”. I timori sono diffusi in tutta la Penisola. In Lombardia la cooperativa Aeris, con oltre 300 migranti ospitati in circa 150 appartamenti tra Milano, Monza e Lecco, prevede che già solo in questo mese di dicembre rimarranno senza tetto una trentina di migranti con la protezione umanitaria, visto che il decreto Salvini ha loro sbarrato l’accesso ai progetti di accoglienza dello Sprar, il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati. E nei prossimi mesi saranno almeno dai 20 ai 30 gli operatori (soprattutto mediatori culturali) che perderanno il lavoro. Il “Progetto Arca”, che attualmente accoglie 500 migranti a Milano, stima che nei prossimi mesi almeno un terzo sarà costretto ad arrangiarsi. Contemporaneamente i mediatori ai quali non verrà rinnovato il contratto a progetto sono una settantina. E la Caritas Ambrosiana prevede che almeno mezzo migliaio di stranieri finiranno a ingrossare le fila dei senzatetto. “Non ci interessa fare i bed & breakfast dei migranti - spiega Alberto Sinigallia, presidente di Progetto Arca -. Oggi prendiamo dai 27 ai 29 euro al giorno per persona ospitata. Con i nuovi bandi delle prefetture non ci sarà più obbligo di garantire neanche corsi di lingua, l’assistenza medica e i percorsi di integrazione. Il prezzo più basso servirà solo per offrire vitto e alloggio. Ma non è la nostra mission”. Il decreto sicurezza finirà per rendere più difficile anche i controlli sui malintenzionati. Trasformare i centri d’accoglienza in dormitori senza alcun progetto farà la fortuna di stranieri come i tre richiedenti asilo nigeriani arrestati ieri a Lucca per spaccio di droga e che fino a qualche tempo fa stavano in una struttura per migranti controllata a vista dalla Croce rossa. Le “mele marce” certo non mancano. Ieri la Guardia di finanza di Ferrara ha perquisito 16 strutture attive nell’accoglienza dei migranti. Secondo gli investigatori vi sarebbero stati abusi sulla rendicontazione dei servizi erogati, con conseguente danno alle casse pubbliche. L’unica alternativa sembrano essere proprio quegli Sprar che il governo non ha voluto incentivare. Al contrario la Regione Campania chiede all’esecutivo 10 milioni per sostenere le attività di integrazione dei migranti. “Il nostro obiettivo principale - spiega Franco Roberti, assessore regionale alla Sicurezza - è sostenere le attività degli Sprar in tutte le province della Campania”. Migranti, l’Ue torna all’anno zero. Lite su Frontex, quote e asilo di Marco Bresolin La Stampa, 7 dicembre 2018 Nessuna intesa sulla modifica delle regole. Un ambasciatore: a Salvini questo stallo conviene. Non c’è intesa sul potenziamento di Frontex. Non c’è intesa sulla riforma dell’asilo. Non c’è intesa sul rinnovo del mandato dell’operazione Sophia. Non c’è intesa nemmeno sulle soluzioni-ponte per redistribuire su base volontaria i migranti sbarcati sulle coste europee. E l’ipotesi delle quote immigratorie sembra ormai tramontata definitivamente. Sulla gestione dell’immigrazione l’Ue è all’anno zero. Si va dunque avanti con le regole attuali, quelle che l’Italia contesta perché lasciano sulle coste dello Stivale tutto il peso dei flussi che arrivano dal Mediterraneo Centrale. “Abbiamo come l’impressione che Matteo Salvini non abbia alcun interesse a risolvere la questione. Evidentemente considera che questa situazione di stallo sia molto più conveniente elettoralmente”. È l’ambasciatore di un importante Paese europeo a sfogarsi con questa riflessione al termine del Consiglio Affari interni, terminato con l’ennesimo nulla di fatto. Alla delicata e tesa riunione di ieri non c’era il ministro dell’Interno a rappresentare l’Italia, ma il suo sottosegretario Nicola Molteni. Spetterà ora al premier Giuseppe Conte affrontare il nodo al tavolo del Consiglio europeo in agenda giovedì prossimo. Liti sulle missioni - Ieri mattina i ministri hanno cercato di trovare un compromesso sul potenziamento di Frontex, ma non è stato possibile fare grandi progressi. Il Consiglio ha raggiunto soltanto un’intesa parziale per dare alla nuova Guardia Costiera e di Frontiera Ue un maggior ruolo sul fronte dei rimpatri e nella collaborazione con i Paesi extra-Ue. Ma restano due grandi nodi irrisolti. Da un lato non c’è accordo sulle tempistiche per il potenziamento delle pattuglie Frontex, dall’altro permangono i dubbi sull’ampliamento del mandato, che per alcuni Paesi pone un conflitto in termini di sovranità. L’Italia è tra i Paesi più critici su questo fronte. La Commissione aveva proposto di portare a diecimila il numero degli agenti già entro il 2020, ma l’Austria - presidente di turno dell’Ue - ha definito “irrealizzabile” questo obiettivo: “Non prima del 2027”, dice il ministro dell’Interno, Herbert Kickl. La Germania propone di arrivarci nel 2025. Ma una sintesi non c’è. La riforma di Dublino - Stesso discorso per la riforma del diritto d’asilo, che comprende sette diverse proposte legislative. La Commissione preme per andare avanti con le cinque su cui c’è l’accordo e lasciare in sospeso i due più divisivi, tra cui la riforma di Dublino. Francia e Germania hanno spinto in questa direzione, ma l’Italia insiste nel dire “no” allo spacchettamento. In questa battaglia ha trovato la sponda dei Paesi del Sud, come Malta, Spagna, Grecia e Cipro. A cui si sono aggiunte - con motivazioni opposte - Polonia e Ungheria. Il blocco di Paesi contrari alla redistribuzione obbligatoria, però, non ha alcuna intenzione di mollare. E la stessa Commissione ha ammesso che “la discussione sulle quote obbligatorie è ormai esaurita”. Dimitris Avramopoulos ha insistito sulla necessità di trovare “soluzioni-ponte” attraverso accordi temporanei. L’Austria ha fatto circolare un piano che prevede interventi mirati su base regionale e ricollocamenti solo su base volontaria, anche in casi di forti flussi migratori. Non ha riscosso grande successo. Oggi il Comitato politico e di sicurezza affronterà invece la grana Sophia. Non c’è un’intesa sulla revisione del mandato (che prevede gli sbarchi solo in Italia), in scadenza il prossimo 31 dicembre. Il Servizio per l’azione esterna dell’Ue vuole una proroga tecnica di sei mesi per poter continuare i negoziati, ma Salvini ha già minacciato lo stop all’operazione. Uno scenario che a questo punto non è da escludere. Migranti. L’Aquarius sospende le attività, l’annuncio di Sos Méditerranée e Msf di Marta Serafini Corriere della Sera, 7 dicembre 2018 In comunicato delle due ong la notizia dello stop. “È un giorno buio. L’Europa ha fallito”. A fine settembre la nave era rimasta senza bandiera. Dal 2016 ha salvato 30 mila persone. Trentamila vite salvate in due anni. Migliaia di mani strette, “Benvenuti a bordo”, si sentiva dire chi saliva quella scaletta e veniva accolto e tratto in salvo dall’equipaggio. Ma ora basta, Aquarius, la nave di ricerca e soccorso di migranti, si ferma. La notizia è stata data in serata da Medici Senza Frontiere e Sos Méditerranée, le due ong che gestivano l’imbarcazione operativa nelle acque del Mediterraneo, tra Italia, Malta e Libia. A bordo di Aquarius, così si salvano 860 vite - “È un giorno buio. Non solo l’Europa ha fallito nel garantire la necessaria capacità di ricerca e soccorso, ma ha anche sabotato chi cercava di salvare vite umane. La fine di Aquarius vuol dire più morti in mare, più morti evitabili che avverranno senza alcun testimone”, ha dichiarato Gabriele Eminente, direttore generale di MSF. La fine forzata delle attività della Aquarius avviene in un momento critico. A fronte di un calo degli sbarchi, almeno 2.133 persone sono morte nel Mediterraneo quest’anno, la stragrande maggioranza partita dalla Libia. Segno, dunque - fanno notare gli operatori umanitari - che le morti in mare non si sono fermate. Il fermo della nave arriva dopo una serie di polemiche politiche e di inchieste giudiziarie iniziate la primavera di due anni fa (l’ultima accusa, quella di non aver smaltito i rifiuti in modo corretto), scaturite poi nella chiusura dei porti italiani alle navi delle ong per volontà del ministro dell’Interno Matteo Salvini e del ministro dei Trasporti Danilo Toninelli. Accuse, annunci social, fascicoli aperti. Fino ad arrivare al 23 settembre, quando le autorità di Gibilterra su pressione del governo italiano hanno ritirato la bandiera alla nave, impedendole di fatto di tornare in attività. Un crescendo di difficoltà che ha costretto Aquarius prima allo stop nel porto di Marsiglia e poi al fermo definitivo. “È stata scelta dolorosa, ma purtroppo obbligata, che lascerà nel Mediterraneo più morti evitabili, senza alcun testimone. In un crescente clima di criminalizzazione dei migranti e di chi li aiuta, si perde di vista il principio stesso di umanità. Finché le persone continueranno a morire in mare o a subire atroci sofferenze in Libia, cercheremo nuovi modi per fornire loro l’assistenza umanitaria e le cure mediche di cui hanno disperatamente bisogno”, ha commentato Claudia Lodesani presidente di Medici Senza Frontiere. L’Aquarius era rimasta l’unica nave di ricerca e soccorso attiva sulla rotta del Mediterraneo centrale. Iran e Yemen. La doppia ipocrisia dei sovranisti di Alberto Negri Il Manifesto, 7 dicembre 2018 Gli Stati Uniti ci chiedono più bombe per i sauditi e di non commerciare con l’Iran. A loro va l’egemonia,a noi profitti e posti di lavoro. E così anche l’Europa è doppiamente ipocrita: ambigua mediatrice dei conflitti, in realtà continua a dare fuoco alle polveri. Non è tempo per sovranisti, ma di Doppia Ipocrisia. Gli Stati Uniti ci chiedono di fare più bombe per i sauditi da rovesciare sui civili in Yemen ma ci impongono di non commerciare con l’Iran. Nel primo caso avremo la nostra fetta di utili e posti di lavoro. Rassicurando Riad e Israele. Nel secondo, se osiamo esportare verso Teheran anche un paio di scarpe, finiremo sotto sanzioni Usa, irritando gli occhiuti servizi americani e israeliani. Chi sbaglia paga: se qualcuno poi si spinge a vendere qualche apparato hi-tech alla repubblica islamica rischia di finire in carcere, come è accaduto alla direttrice finanziaria della cinese Huawei. Nessun problema invece per i 50mila yemeniti uccisi da bombardamenti e fame. Lì c’è licenza di uccidere: imprenditori e lavoratori siete avvertiti. Un ottimo spunto di riflessione sul nostro stato delle cose - italiano ed europeo - ce lo ha fornito ieri alla sala della Stampa estera la presentazione della video inchiesta “Doppia Ipocrisia” che ha vinto quest’anno il premio Roberto Morrione, uno dei pochi che finanziano gli under 31, dedicato a un grande giornalista che quasi 20 anni fa fu anche il primo a portami a Rainews dove il documentario è già stato tramesso: un messaggio nella bottiglia dell’informazione inviato anche a chi ha appena assunto le redini alla tv di stato. L’indagine dei tre colleghi è iniziata nel gennaio 2018 dopo la pubblicazione di un’inchiesta del New York Times sulla fabbrica italiana di armi Rwm a Domusnova, Sardegna, filiale della tedesca a Rheinmetall (“il metallo del Reno”), uno dei colossi tedeschi degli armamenti. La doppia ipocrisia del titolo è evidente. Dopo l’assassino del giornalista saudita Jamal Khashoggi, il cui mandante secondo la Cia è il principe Mohammed bin Salman, la cancelliera Merkel ha dichiarato che la vendita di armi ai sauditi rimarrà ferma fino a quando la vicenda non verrà chiarita. In realtà l’export tedesco continua con le filiali estere della Rvm (una è anche in Sudafrica). La Doppia Ipocrisia investe naturalmente anche l’Italia. I nostri governi, anche quelli precedenti l’attuale, si trincerano cavillando che in Yemen non c’è una guerra dichiarata, altrimenti ci sarebbe il divieto di export. In realtà non è vero perché sappiamo benissimo che in Yemen è in corso un conflitto dal 2015 da parte di un coalizione araba capeggiata da Riad, il maggiore cliente di armi americano e occidentale. E gli Stati Uniti dirigono anche i raid sauditi contro la ribellione degli Houthi, sciiti zayditi sostenuti dall’Iran e nel mirino dei jet di Riad da anni: nel 2008, nel Nord dello Yemen, già vidi bombardare gli Houthi dall’aviazione di Raid mentre gli ufficiali sauditi attraversavano la frontiera per pagare come mercenari i soldati dell’esercito yemenita per dare la caccia ai ribelli. Le guerre vengono da lontano ma facciamo finta che siano nate ieri. La Doppia Ipocrisia riguarda pure l’Europa, ambigua mediatrice dei conflitti, che in realtà continua a dare fuoco alle polveri di tutte le guerre. La Rwm triplicherà la sua produzione per sfornare 15mila bombe l’anno e si prepara a diventare un vero polo militare progettando persino un campo prova missilistico. Non solo: i sauditi starebbero per entrare come soci nella Rwm sudafricana, così si completa il cerchio. Ma soprattutto si capisce bene che qui tutti lavoriamo alacremente per gli Stati Uniti: uno dei contratti più grossi per le bombe prodotte in Sardegna riguarda la Raytheon americana, gigante della produzione bellica. L’aspetto più sconcertante è la cessione di sovranità europea e italiana per cui ci pieghiamo alle sanzioni americane contro l’Iran per favorire Arabia Saudita e Israele. Insieme alla doppia ipocrisia c’è quindi il consueto Doppio Standard che regola da decenni ogni questione mediorientale a danno di chiunque si opponga, dagli iraniani, ai palestinesi, ai siriani, al triangolo Washington-Riad-Tel Aviv. Al G-20 di Buenos Aires quasi tutti i leader, con Putin in prima fila, sono andati a stringere la mano del principe saudita Bin Salman che ha diretto l’assassinio del giornalista Khashoggi: qui la Doppia Ipocrisia ha raggiunto i suoi massimi livelli. Il diritto internazionale non esiste, le risoluzioni Onu vengono stracciate, la giustizia calpestata, dei diritti umani non parliamo neppure. È la realpolitik, bellezza. Questo racconta “Doppia Ipocrisia”, una sorta di autobiografia occidentale e di una nuova mala-educazione europea. Sud Sudan. Escalation di condanne a morte ed esecuzioni di Riccardo Noury Corriere della Sera, 7 dicembre 2018 Il paese più giovane del mondo ha deciso di puntare sulla pena più antica. Dal 2011, anno dell’indipendenza, i tribunali del Sud Sudan hanno emesso almeno 140 condanne a morte, 32 delle quali eseguite mediante impiccagione. Quest’anno le condanne eseguite sono state sette, di cui una nei confronti di un minorenne al momento del reato. Amnesty International teme che 135 prigionieri - su una popolazione complessiva nel braccio della morte di 342 condannati - siano a rischio imminente di esecuzione, tra la fine dell’anno e il prossimo. La Direzione generale del Servizio nazionale delle prigioni ha ordinato infatti il loro trasferimento nelle carceri centrali di Wau e Giuba, dove si eseguono solitamente le condanne a morte. Tra coloro che rischiano l’impiccagione ci sono un ragazzo ora 16enne e una donna in fase di allattamento. Lo scorso anno erano state eseguite quattro condanne a morte, due delle quali nei confronti di minorenni al momento del reato. La pena di morte è prevista per un’ampia serie di reati: omicidio, terrorismo, banditismo, insurrezione, sabotaggio, falsa testimonianza che determina l’esecuzione dell’incolpato, tradimento e traffico aggravato di droga.