Bonafede: “Lavoro esterno al carcere disincentivo a delinquere” giustizia.it, 6 dicembre 2018 “Con il lavoro all’esterno dei detenuti noi riusciamo a disincentivare la criminalità”. Con queste parole il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha commentato la cerimonia della firma di due protocolli che vengono siglati oggi a Napoli. Il primo, “Mi riscatto per Napoli”, grazie al quale verrà avviato un progetto che prevede l’impiego di detenuti nell’ambito di attività lavorative di pubblica utilità, in particolare, attraverso interventi di pulizia e restituzione del decoro di alcuni spazi pubblici come aree verdi e piazze della città di Napoli. “All’esterno degli istituti non si ha chiara l’idea di cosa accada qui dentro - ha poi aggiunto il Guardasigilli - e così il lavoro avvicina la società esterna al carcere a quella interna”. Continua quindi nel capoluogo campano la promozione di iniziative per lo sviluppo di attività lavorative in favore della popolazione detenuta, con lo scopo di ridurre il rischio di recidiva, di recuperare e di favorire forme di riparazione del condannato nei confronti della collettività. Oltre al visto del Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, in forma di garanzia degli impegni che si intendono assumere, stipulano il protocollo, per il Comune di Napoli, il sindaco Luigi de Magistris e l’assessore al Verde e alla qualità della vita, Raffaele Del Giudice; il capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini; il provveditore regionale del DAP, Giuseppe Martone; il direttore del Centro penitenziario di Secondigliano-Napoli, Giulia Russo; il Direttore dell’Ufficio inter-distrettuale, Maria Bove; il Garante regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello; il Segretario generale della Cassa ammende, Sonia Specchia e la presidente del Tribunale di sorveglianza di Napoli, Adriana Pangia. “Questo è l’ennesimo risultato - ha detto nel suo intervento Francesco Basentini, capo del Dap - di una programmazione nuova, che trova supporto nelle istituzioni nazionali e locali che ne sono testimoni e protagoniste. Il lavoro di pubblica utilità costituisce un valore per la vita del detenuto, che così acquisisce esperienze e competenze spendibili una volta uscito dal carcere”. L’accordo, che avrà una durata di 12 mesi, prevede che l’Amministrazione penitenziaria individui quattro detenuti, già nelle condizioni di poter essere ammessi al lavoro esterno, da avviare alle attività previste e che verranno, nel dettaglio, concordate con il Comune. Tutti i sottoscrittori, per la parte di loro competenza, dovranno garantire che l’inserimento dei detenuti nelle attività di pubblica utilità avvenga nel pieno rispetto della loro dignità. Il secondo protocollo coinvolge i Ministeri della Giustizia e delle Infrastrutture e dei Trasporti, viene infatti siglato dal Guardasigilli e dal Ministro Danilo Toninelli, e permetterà di aprire nell’Istituto penitenziario di Secondigliano un centro autorizzato per le revisioni di autovetture e veicoli stradali fino a 3,5 tonnellate, all’interno del quale saranno impiegati i detenuti, previa adeguata formazione da parte di operatori delle MIT. [fea] I reati sono in calo ma aumentano i detenuti. Questa politica non funziona di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 6 dicembre 2018 Alla fine di ogni mese l’amministrazione penitenziaria pubblica i dati delle presenze nelle carceri. Sono usciti quelli del novembre che si è appena concluso e abbiamo appreso che i detenuti sono oggi 60.002. La popolazione penitenziaria ha quindi superato la soglia dei 60mila, con quasi seicento persone in più rispetto ai posti letto regolamentari. Il 13 gennaio del 2010 l’allora presidente del consiglio Silvio Berlusconi firmava il decreto di “Dichiarazione dello stato di emergenza conseguente all’eccessivo affollamento degli istituti penitenziari presenti sul territorio nazionale”. Il numero dei detenuti era pari a 64.791 unità. Ci avviciniamo dunque a quelle cifre impazzite, che tre anni dopo ci costeranno una pesantissima condanna da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo. Un anno fa, al 30 novembre 2017, le carceri italiane ospitavano 58.115 persone. Ora ce ne sono quasi 2mila in più. Il segno di un aumento dei crimini? Niente affatto. Secondo gli ultimi dati forniti dal ministero dell’Interno, tra l’agosto 2017 e l’agosto 2018 tutti i delitti sono diminuiti di quasi dieci punti percentuali (-9,5% per l’esattezza). Una riduzione considerevole. Nessuna emergenza sicurezza dunque. La risposta “se mancano i posti letto allora costruiamo nuove carceri” non è quindi quella giusta. Non lo è da un punto di vista pratico, visto che chiunque ci abbia provato negli scorsi governi non c’è riuscito (primo tra tutti il leghista Roberto Castelli, che al tempo in cui era ministro della Giustizia mise in piedi allo scopo una società apposita, la Dike Aedifica Spa, salvo poi rivelarsi una società fantasma che la Corte dei conti fu costretta a liquidare per aver sprecato oltre un miliardo di euro dei cittadini). Non lo è da un punto di vista teorico, visto l’andamento in calo della criminalità in Italia e visto che il nostro tasso di incarcerazione è in piena media europea. Per costruire un nuovo carcere dalle dimensioni piuttosto piccole, diciamo da 200 posti, servono circa 25 milioni di euro. Vale a dire 125 mila euro a posto letto. La carcerazione in generale costa moltissimo. E la paghiamo noi. Un singolo detenuto costa 136 euro al giorno. Le misure alternative alla detenzione, che sono pene a tutti gli effetti, costano enormemente di meno. Vogliamo davvero farci prendere in giro da chi vuole usare i nostri soldi per guadagnare consenso popolare in nome di una percezione di insicurezza, da lui stesso indotta, che non ha nulla a che vedere con quello che ci dicono le statistiche? È quanto sta continuando a succedere. Il decreto cosiddetto “sicurezza e immigrazione” vuole fin dal titolo proporre una visione fuorviante. I dati ci dicono che nelle comunità immigrate che da più tempo risiedono sul territorio nazionale e che maggiormente hanno avuto opportunità di integrazione i reati calano, fino a diventare percentualmente inferiori a quelli degli italiani. Il patto di inclusione paga. E dunque cosa fa il decreto? Decide di togliere la protezione umanitaria a un gran numero di persone, spingendole verso una vita che non riuscirà più a essere rispettosa delle regole. Il testo si sarebbe dovuto chiamare “decreto insicurezza”. Ma naturalmente ciò è indispensabile al piano politico del ministro dell’Interno. Se gli stranieri smettessero di commettere reati, come farebbe a continuare a guadagnare consensi promettendoci di salvarci da un pericolo che non esiste? E intanto le nostre carceri sono sempre più affollate. Una seria politica criminale mostrerebbe tutta l’inutilità di questo affollamento. Senza andare troppo lontano, basterebbe agire su due fronti per risolvere il problema in maniera duratura e non posticcia: 1. Convincersi che il carcere non è la sola pena possibile, che le misure alternative alla detenzione sono pene a tutti gli effetti, con un gran carico di afflittività. Costano meno e sono più utili in termini di riduzione della recidiva e contributo alla società. 2. Smetterla di usare il sistema penale dove si dovrebbe intervenire con politiche e sostegni di tipo sociale. Il 35% dei detenuti ha violato la normativa sulle droghe. Molti altri saranno in carcere per reati connessi alla tossicodipendenza. Depenalizzare costa meno che incarcerare. In termini economici ma soprattutto in termini umani e sociali. *Coordinatrice associazione Antigone 60.002 detenuti. Si trovi un’alternativa prima che le carceri diventino ingovernabili di Stefano Anastasia* huffingtonpost.it, 6 dicembre 2018 Sessantamila e due detenuti. Il 30 novembre scorso, dunque, è stata varcata la soglia di sicurezza del nostro sistema penitenziario. Come nel 2006, quando fu necessario varare un provvedimento straordinario di clemenza per riportare la popolazione detenuta entro limiti accettabili. Come nel 2009, quando il Sig. Torreggiani e centinaia di detenuti ricorsero alla Corte europea dei diritti umani contro le condizioni degradanti a cui erano sottoposti a causa del sovraffollamento penitenziario, costringendo la Corte all’adozione di una sentenza-pilota e il governo italiano ad attuare una politica di riduzione delle presenze in carcere. Sessantamila e due detenuti senza che ancora sia stata messa mano a restrizioni dei benefici penitenziari o a particolari aggravamenti di pena. I reati, peraltro, si sa, sono in stabile e costante diminuzione. Sessantamila e due detenuti, peraltro, senza che il decreto Salvini abbia ancora potuto dispiegare tutti i suoi effetti, nel senso della costrizione alla irregolarità di migliaia di stranieri, della marginalizzazione delle loro vite e, quindi, della loro criminalizzazione. Abbiamo superato la soglia dei cento detenuti ogni centomila abitanti per il solo effetto della involuzione del dibattito pubblico in materia di sicurezza. Spiace dirlo a chi non ha piacere che le competenze si esprimano, ma noi lo sapevamo. Sapevamo che i tassi di detenzione non hanno nulla a che fare con l’andamento della criminalità e, dunque, con i pericoli reali per la incolumità delle persone. E sapevamo che la percezione della insicurezza alimentata da pulpiti istituzionali e amplificata nel sistema della comunicazione pubblica produce, invece, una chiusura guardinga del sistema penale e di polizia che, a parità di condizioni e a scanso di equivoci, arresta di più e libera di meno. Di fronte alle nubi che si addensano all’orizzonte, dal Ministero della Giustizia giungono flebili voci, risibili quanto impraticabili, come quelle che promettono di affrontare il problema del sovraffollamento con l’incremento dei posti letto in carcere, secondo un ennesimo piano di edilizia penitenziaria che non porterà a nulla, come i precedenti. “L’è tutto sbagliato, tutto da rifare”, diceva il grande Sandro Margara, citando il suo concittadino Gino Bartali. Un’occasione è stata già persa, con l’approvazione di una riforma dell’ordinamento penitenziario, da cui è stato espunto ogni riferimento alle alternative al carcere. Non molte altre ne verranno, prima che le carceri diventino ingovernabili. *Portavoce dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, Garante per le Regioni Lazio e Umbria Una guida per tutelare le persone Lgbti nei luoghi di detenzione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 dicembre 2018 Curata dall’associazione per la prevenzione della tortura. Le persone Lgbti sono state storicamente soggette a discriminazione, abuso e violenza istituzionale in tutte le regioni del mondo. I modelli discriminatori e di abuso sono amplificati in contesti di detenzione, rendendo le persone lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersessuali (Lgbti) che sono private della loro libertà, particolarmente esposte a rischi di maltrattamenti e persino di torture. Per questo motivo l’Associazione per la prevenzione della tortura (Apt) ha pubblicato la Guida al monitoraggio dei luoghi di privazione della libertà con uno sguardo specifico sulla tutela di queste persone. Alla sua realizzazione ha contribuito anche il nostro Garante nazionale delle persone private della libertà. “Questa guida - elaborata dall’Associazione per la prevenzione della tortura con grande attenzione allo stato attuale della legislazione internazionale sui diritti umani, le migliori pratiche nel campo della prevenzione della tortura - fornirà una comprensione dei fattori di rischio e degli atti, dei modelli e delle manifestazioni estreme di tortura e maltrattamenti nei confronti delle persone Lgbti, ed è un progetto inestimabile per chiunque voglia comprendere”, così si legge nella prefazione di Victor Madrigal-Borloz, esperto indipendente delle Nazioni Unite sull’orientamento sessuale e l’identità di genere. Nella guida si sottolinea il fatto che laddove i dati sono disponibili, viene rivelato che le persone Lgbti private della libertà hanno maggiori probabilità di essere sottoposte a degli abusi, compreso lo stupro. Si fa presente che i dati sono scarsi e quelli che arrivano è grazie alla disponibilità dei garanti nazionali. Tra i vari contributi c’è, appunto, anche quello relativo all’Italia e precisamente il Rapporto sulla visita effettuata il 17 maggio del 2016 alla Casa circondariale di Gorizia che aveva evidenziato la situazione relativa ai gay e trans detenuti. La visita è stata motivata “da circostanze specifiche” in seguito all’apertura di una sezione speciale per i detenuti gay nel settembre 2015. La sezione è stata equipaggiata per ospitare fino a 17 detenuti provenienti da varie prigioni della regione. Nel suo rapporto, il Garante era critico di quella sezione per varie ragioni. Pur riconoscendo che le autorità si erano consultate con le Ong che si occupano di questioni Lgbti per l’apertura di questa sezione speciale, il Garante aveva espresso preoccupazione per il rischio di un ulteriore isolamento e stigmatizzazione dei detenuti gay che erano tenuti in un “mondo a parte”. Il Garante era molto critico nei confronti del fatto che un detenuto era rimasto in una situazione d’isolamento di fatto per due mesi e mezzo. Nel suo rapporto, il Garante aveva quindi raccomandato l’impegno di una revisione della politica che ha portato alla creazione di tale sezione, con l’obiettivo di fornire pari trattamento e condizioni per tutti i detenuti, e ha suggerito l’istituzione di un gruppo di lavoro a identificare le vie da seguire. Di conseguenza, il ministero della Giustizia ha deciso di chiudere la sezione speciale per assegnare i detenuti gay ad altre prigioni della regione. Il rapporto aveva contribuito a dare visibilità al problema ed era stato rilanciato da alcune Ong e media. Morrone: “Sperimentare il taser, strumento indispensabile come deterrente” forlitoday.it, 6 dicembre 2018 Jacopo Morrone, sottosegretario alla Giustizia, sostiene da tempo “la necessità di dotare ogni Istituto di pena di questo strumento di deterrenza in caso di situazioni di particolare pericolosità”. “La fase di sperimentazione dell’utilizzo del taser da parte della Polizia di Stato sta proseguendo con ottimi risultati. Credo sia giunto il momento di pensare al medesimo percorso per la Polizia Penitenziaria”. Ne è convinto Jacopo Morrone, sottosegretario alla Giustizia, che sostiene da tempo “la necessità di dotare ogni Istituto di pena di questo strumento di deterrenza in caso di situazioni di particolare pericolosità”. “Non si tratta di fornire una pistola a impulsi elettrici a ogni agente, ma di formare, in ogni struttura carceraria, un nucleo di pronto intervento, che possa utilizzare questo mezzo in contesti di estrema necessità, secondo un preciso disciplinare - continua Morrone. Certo non si può che concordare sul fatto che l’ambiente carcerario rappresenti un contesto delicato e richieda particolari attenzioni, tuttavia dobbiamo anche tutelare chi opera al suo interno, provvedendo a fornire agli agenti formazione, addestramento e strumentazioni più moderne e adeguate all’attuale situazione degli istituti detentivi”. Duello sulla legittima difesa. M5S: via la stretta ai risarcimenti, la Lega frena sulle modifiche di Barbara Acquaviti Il Messaggero, 6 dicembre 2018 All’apparenza dicono la stessa cosa: ci confrontiamo su tutto, vedremo se ci sono da fare cambiamenti. Parola più parola meno, è questa la posizione che sia Lega che M5S hanno sulla legittima difesa che, dopo il primo via libera da palazzo Madama, ha cominciato ieri il suo iter in commissione Giustizia alla Camera. Nella versione Carroccio, tuttavia, la lettura autentica è questa: parliamone, ma la riforma va già bene così com’è. Lo fa capire il sottosegretario alla Giustizia, Iacopo Morrone: “Al Senato si è lavorato bene. Se verrà migliorato lo vedremo nelle prossime settimane, ma credo che ci siamo”. Per i pentastellati è tutta un’altra storia. Già si prepara la fronda e pesca in quello stesso gruppo di 17 deputati che aveva messo nero su bianco i propri dubbi sul decreto sicurezza. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede torna a ripetere che sulla legittima difesa c’è “la possibilità di eliminare le zone d’ombra” della legge attuale. Il primo ad aprire all’ipotesi di modifiche, per la verità, è stato proprio il titolare del Viminale che però sul quel provvedimento non vuole scossoni e ha dato ordine ai suoi di rispettare i tempi: ossia approdo in aula alla Camera a gennaio. Il punto è che una modifica, anche piccola, significa un nuovo passaggio al Senato. Per questo l’obiettivo del Carroccio resta quello di non modificare la riforma. Dai pentastellati vengono sollevati sostanziali dubbi sul testo. In realtà, le perplessità al momento non sembrano riguardare le modifiche al codice penale che pure sono il cuore del provvedimento. Il testo varato dal Senato, infatti, modifica gli articoli 52 e 55. Nel riforma leghista si prevede che la legittima difesa sia “sempre” proporzionata in casa o nel luogo di lavoro quando si “usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere la propria o la altrui incolumità, i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione”. Le maggiori perplessità che trapelano dai grillini hanno però a che fare al momento più con gli interventi che toccano il codice civile e, in particolare, la questione dei risarcimenti. Il provvedimento varato dal Senato, infatti, stabilisce che non vi sia possibilità di chiedere nessun tipo di risarcimento né da parte dell’aggressore né dei suoi familiari. Insomma, che non ci si possa rivalere economicamente sull’aggredito neanche se ha causato un danno fisico, o il decesso, del ladro. Una norma che per il M5S va cambiata. Salvini, tuttavia, l’ha più volte rivendicata come una delle novità di cui essere orgogliosi. Magistrati contro sul caso Spataro. Anm verso la spaccatura di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 6 dicembre 2018 La corrente di destra delle toghe si schiera con il ministro che ha svillaneggiato il procuratore di Torino e paralizza il “sindacato” dei giudici e dei pm. Nessuna difesa collettiva, a metà dicembre può finire la gestione (quasi) unitaria dell’associazione. Il ministro dell’interno fa una figuraccia su twitter, poi svillaneggia il procuratore di Torino che glielo fa notare. La magistratura reagisce unita a difesa dell’indipendenza e del buon nome del collega, magistrato con una prestigiosa carriera alle spalle? Niente affatto, la storia ha un finale diverso da quello che avrebbe avuto qualche anno fa. La corrente di destra della magistratura si schiera con Salvini - è già accaduto ai tempi dell’inchiesta sulla nave Diciotti - la corrente centrista non si espone e cade nel vuoto la richiesta della corrente di sinistra perché l’Associazione nazionale magistrati prenda le difese del collega. Le linee opposte di Magistratura indipendente (destra) e Area (sinistra) paralizzano l’Anm e dopo una giornata tesa il presidente Minisci, esponente della centrista Unicost, decide di pubblicare come nota personale quella che aveva proposto alla giunta. È un colpo al cerchio e uno alla botte, un invito a tutti ad “abbassare i toni” rispettando “i ruoli previsti dall’ordinamento e le prerogative a ciascuno riconosciute”. La polemica coinvolge anche il Csm, dove il tentativo di aprire una pratica a tutela di Spataro appare in salita. Il consigliere di Area Cascini critica duramente il ministro dell’interno: “Se un ragazzino assume incarichi istituzionali bisogna fargli capire che deve avere un atteggiamento consono al ruolo”. Finisce per questo sotto attacco da parte dei togati di Mi e Unicost e soprattutto del laico di Forza Italia Lanzi che presiede la commissione che si occupa delle pratiche a tutela. Intanto Mi definisce “quantomeno inusuale” la nota con cui Spataro ha precisato che i fermi dei nigeriani di cui si vantava Salvini su twitter erano in realtà l’esecuzione di misure cautelari disposte dalla magistratura, denunciando anche i rischi per l’operazione dalla fuga di notizie. I magistrati di destra si preoccupano invece di difendere il ministro: “Si fa fatica a pensare che i soggetti ancora non rintracciati abbiano appreso dell’operazione leggendo il tweet”. Area su questo è unita - Spataro è stato a lungo dirigente della corrente dei Verdi confluita con Md nel raggruppamento di sinistra - e lamenta “l’incredibile silenzio dell’Anm” che non ha criticato Salvini per il tweet e nemmeno per il “dileggio” successivamente riservato al procuratore di Torino. Prepara un documento di fuoco. A metà dicembre il comitato direttivo dell’Anm rischia di sancire la rottura della gestione a tre (Mi, Area, Unicost, fuori solo la corrente di Davigo). Può essere questo il finale della storia. Il pm che sceglie sempre avversari scomodi: mafiosi, terroristi e leggi sbagliate di Errico Novi Il Dubbio, 6 dicembre 2018 Armando Spataro, il procuratore di Torino individuato da Salvini come bersaglio di giornata: dalle indagini sulle br a quelle sulla “mala” del nord. C’è un film di una ventina di anni fa. Il protagonista è un giovane. Parricida e matricida. È ispirato abbastanza esplicitamente alla storia di Pietro Maso. Alcune scene sono cruente al limite dell’horror: al momento del massacro, uno dei complici del protagonista gli urla, machete in pugno, “questa non vuole morire!”. Si riferisce alla mamma dello sciagurato amico. Che arriva e provvede a finirla. Cosa c’entra con Matteo Salvini e Armando Spataro? Niente. C’entra però una scena meno pulp, ma se possibile più brutta, di quella stessa pellicola (il cui titolo, significativo, è “I pavoni”). Con le mani ancora mezze sporche di sangue, lo pseudo-Maso si fa scortare dall’autista dell’azienda di famiglia. Nessuno ancora sa che ad ammazzare il padre e la madre è stato proprio il rampollo. Neppure il povero autista. Al quale il giovane pluriassassino dice: “Lei deve stare a casa sua. A riposarsi…”. Lo congeda così. Poche ore prima di essere arrestato, ovviamente. Tanto per dire che scherzare sull’età della pensione più o meno raggiunta non è mai simpatico. Ora è chiaro che, quando Salvini ha detto a Spataro “se è stanco si ritiri dal lavoro”, con la perfidia livorosa di chi sa che il grande magistrato davvero sta per lasciare la toga perché compirà 70 anni il 16 dicembre, è chiaro, si diceva che Salvini con quella frase non ha tradito alcuna pulsione parricida. Però non ha fatto comunque una cosa commendevole, questo sì e pur sempre con le dovute proporzioni letterarie. Ora, di Spataro si può dire che non si accontenta di fare il burocrate della giustizia: e grazie al cielo. Ce ne diano ancora, di magistrati così. Speriamo anzi che una volta uscito dal ruolo funzionale, il procuratore di Torino si metta a disposizione del dibattito pubblico, si impegni a sostenere le proprie idee, a promuovere le proprie battaglie. Se ci riflettesse un attimo, dovrebbe augurarselo pure Salvini. Perché un Paese, una politica senza voci critiche sono come minimo dimezzati. Armando Spataro è un leader della cosiddetta sinistra giudiziaria, in particolare di “Movimento per la giustizia”, uno dei due gruppi riuniti oggi nella corrente togata “Area” (l’altro è “Magistratura democratica”). Ma è soprattutto un magistrato dal coraggio sfrontato. Se l’è vista con brutta gente: le Br e Prima linea, negli anni in cui il terrorismo rosso metteva i magistrati in cima alla lista dei nemici da giustiziare. Poi, sempre a Milano, dove indagò anche sull’omicidio Tobagi, fu tra i primi inquirenti italiani a dare sistematicamente la caccia a mafiosi e ‘ndranghetisti trapiantati al Nord. Nelle cronache riecheggia più rumorosamente il suo lavoro sull’ex imam Abu Omar certo è che criminalità organizzata e soprattutto terrorismo sono stati i suoi bersagli preferiti. A lungo nella “capitale morale” e poi a Torino. Non ha mai smesso di coniugare il rigore nelle inchieste con l’attenzione ai temi del dibattito pubblico legati al diritto. Non solo in questi ultimi mesi, quando si è trovato in più di un’occasione dalla parte opposta a quella di Salvini. Non solo quando, a inizio luglio disse che “si deve perseguire sia il reato connesso all’immigrazione sia quello a sfondo razziale, sempre più frequente”. Non si tratta solo delle sue prese di posizione recenti sul diritto dei passeggeri di una nave che attracca in un porto italiano a non rimanervi a bordo. Si tratta anche di altre occasioni, che Salvini dovrebbe considerare, in cui Spataro è stato dalla sua stessa parte: per esempio contro il referendum sulla riforma Renzi. Il procuratore di Torino intervenne in alcuni dibattiti pubblici per sostenere il “No” alla consultazione. All’epoca, va detto, l’attuale vicepremier non lo invitò ad accelerare le pratiche per lasciare la toga. Spataro è persona tenace nel difendere qualsiasi diritto riconosciuto come tale. E in questo non c’entra la sensibilità “di sinistra”. A proposito del riserbo sulle indagini, a cui ha richiamato il capo del Viminale, andrebbe ricordato che è anche grazie a una circolare messa a punto dal capo dei pm torinesi se poche settimane fa si è arrivati alla sentenza della Consulta sulle “informative ai superiori”. È la pronuncia che ha travolto il decreto dell’estate 2016 con cui si estese a tutte le forze di polizia l’obbligo previsto per i carabinieri di informare i superiori su avvio e andamento di qualsiasi inchiesta. Una insensatezza che alcuni sospettarono fosse stata messa a punto per intercettare le mosse di Woodcock su Consip. Anche lì Salvini avrebbe potuto trovarsi d’accordo con Spataro, seppure il magistrato non avesse in mente l’indagine partenopea. Quanto meno il capo leghista avrebbe dovuto compiacersi della mossa con cui il pm creò i presupposti per la pronuncia di incostituzionalità: lo fece con una circolare in cui sollecitava i capi delle forze dell’ordine chiamati a svolgere funzioni di polizia giudiziaria affinché gli comunicassero formalmente di non potersi attenere al “segreto” ogni qual volta lui, il procuratore, lo avesse invocato. Il tutto in modo da rimettere alla Consulta proprio quell’atto formale (ce ne voleva uno da impugnare) della polizia. Alla fine la norma ci è arrivata sul serio, davanti al giudice delle leggi - anche grazie a un collega di Spataro, il procuratore di Bari Giuseppe Volpe - ed è franata miseramente. Magari Salvini, il re degli anti-renziani, ne sarà stato felice. Ne avrebbe dovuto ringraziare anche Spataro, Ma vaglielo a spiegare. Orfani del femminicidio, le vittime collaterali di Massimo Gramellini Corriere della Sera, 6 dicembre 2018 Alcune settimane fa, Giusi Fasano ha raccolto per la “Ventisettesima Ora” del Corriere la testimonianza di Renato, un signore di 74 anni che, assieme alla moglie, si occupa di due nipotini doppiamente orfani: hanno perso la madre, morta davanti ai loro occhi, ma anche il padre, perché è stato lui ad accoltellarla. Il nonno materno raccontava la vita grama delle “vittime collaterali” di un femminicidio. Le spese per gli psicologi e gli insegnanti di sostegno dei bimbi, le medicine per farli dormire, le rate del mutuo della casa appartenuta alla mamma. Renato ammetteva di tirare la cinghia, ma non chiedeva soldi, solo qualche facilitazione burocratica. Invece è stato travolto dal cuore dei lettori. Gli adulti hanno spedito denaro e i bambini i loro giocattoli, gli avvocati hanno offerto assistenza gratuita e altri si sono proposti per sbrigare pratiche e organizzare collette. Tutti al telefono esordivano con la stessa frase: “Che cosa possiamo fare?”. Bella domanda. Mi è tornata alla mente quando ho letto che l’emendamento di Mara Carfagna che destinava io milioni di euro alle “vittime collaterali” dei femminicidi era stato bocciato dalla commissione Bilancio della Camera. Che cosa possiamo fare? Una maggioranza che si proclama populista dovrebbe conoscere la risposta: la stessa dei lettori del Corriere. Ma se toglie soldi ai nonni di quei bambini per darli ai “navigator” di Di Maio, viene il sospetto che non sappia più che cosa fare e quindi possa fare di tutto. Se il governo punisce le donne di Maria Novella De Luca La Repubblica, 6 dicembre 2018 Gli orfani del femminicidio e i congedi di maternità. Prima le donne e poi i bambini. No, ultime le donne e ultimi i bambini. “Vittime collaterali” di un governo sovranista-familista che innalza sul podio una ipotetica e inesistente “famiglia naturale” per poi affondare, invece, la famiglia reale. Una campagna cominciata con il (vergognoso) disegno di legge Pillon sull’affido condiviso, sconfessato anche da gran parte della maggioranza, ma che adesso nella manovra di bilancio si mostra in tutte le sue contraddizioni. Colpendo al cuore, ad esempio, i bambini più fragili, gli orfani del femminicidio, i cui occhi hanno visto ciò che nessun bambino dovrebbe vedere. Figli che spesso nel buio di una notte si ritrovano soli, con una madre uccisa e un padre assassino suicida o in carcere. Disintegrati da un lutto che cancella infanzia e giovinezza. Ma per gli orfani del femminicidio, oggi sono quasi duemila, per aiutare le centinaia di nonni, zii, parenti, che dopo le stragi familiari si prendono cura di loro, il governo giallo-verde i soldi ha deciso di non trovarli. Anzi, con un colpo di mano, ha cancellato nella notte un emendamento alla legge di Bilancio presentato dalla vicepresidente della Camera Mara Carfagna, che portava a dieci milioni il fondo (già esistente ma assai esiguo) per questi piccoli sopravvissuti di una guerra che nessuno riesce a fermare. “Una bastardata”, l’ha definita Mara Carfagna, elencando con sarcasmo tutte quelle “necessità” - dalla detassazione dei trattamenti di bellezza ai vantaggi per i birrifici - per cui Lega e Cinque Stelle i fondi li hanno fatti saltare fuori, ma non per aiutare le famiglie che allevano questi “orfani speciali”. Un vero e proprio tradimento, visto che sull’emendamento sembrava esserci l’accordo, con ricadute politiche che sembrano scavare un solco ancora più profondo tra la Lega e Forza Italia. Ultimi i bambini e ultime le donne. Perché il filo misogino che sembra legare gran parte dei provvedimenti “pro-life” dell’esecutivo - dalla cancellazione dell’assegno di mantenimento nel decreto Pillon alla violentissima campagna antiaborto - si è espresso di nuovo con un emendamento che modifica i congedi di maternità. D’ora in poi le future madri potranno, salute permettendo, lavorare fino al nono mese, e poi usufruire di tutti e cinque i mesi di congedo obbligatorio dopo la nascita del bebè. Libera scelta, sembrerebbe. E perché no? Ci sono donne che hanno gravidanze splendide, hanno professioni garantite e tutelate, magari sarebbero felici di usufruirne. Già. E le altre, la maggioranza? Tutte quelle per cui in aziende sempre più ostili alla maternità, il semplice rispetto del congedo obbligatorio è una corsa a ostacoli? E le future madri che non se la sentono di lavorare in quegli ultimi due o tre mesi, o semplicemente scelgono di concentrarsi sulla rivoluzione della vita che è la nascita di un figlio? Giustamente, la Cgil sottolinea che non si sostiene la maternità facendo scomparire l’obbligo di astensione dal lavoro. Anzi questo costituirà un ricatto proprio verso le donne più fragili e precarie, alle quali, di fatto, i datori di lavoro potrebbero domani imporre di essere presenti fino al nono mese. Con serio rischio per la salute sia per la madre che per il figlio. E allora basta mettere in fila alcune delle scelte pro-family fatte da Lega e Cinque Stelle, per rendersi conto di quanto siano lontane dai bisogni reali, ma anche punitive, astruse, inapplicabili. Da una parte si approva il “codice rosso” per velocizzare le indagini sulla violenza contro le donne, ma poi si lasciano senza fondi gli orfani del femminicidio. Da una parte si chiede “fate più figli” ma poi si cerca di minare nelle fondamenta la nostra (buona) legge sulla maternità. I Comuni leghisti e di destra cacciano dalle mense i bimbi immigrati, invece di indignarsi contro i continui tagli del tempo-scuola. E così, tra contraddizioni sempre più gravi, proprio con il governo che della famiglia “naturale” ha fatto un vessillo, le culle sono invece sempre più vuote. Stop alla confisca retroattiva se più gravosa di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 6 dicembre 2018 Corte costituzionale - Sentenza 223/2018. È in contrasto con la Costituzione la legge comunitaria del 2004, con la quale è stato depenalizzato il reato di insider trading “secondario”, disponendo in maniera retroattiva l’applicazione della confisca per equivalente anche ai fatti commessi prima della sua entrata in vigore. La Consulta (sentenza 223) boccia la norma Ue escludendo che, senza guardare al caso singolo, si possa dare per scontato che le nuove sanzioni amministrative siano di maggior favore rispetto al trattamento pre-depenalizzazione, che ha lasciato in piedi il reato solo per gli insider “primari”. Il giudice delle leggi, invita a non sottovalutare l’impatto della sanzione amministrativa sui diritti fondamentali della persona, che è anzi “andato crescendo nella legislazione più recente”. La Corte ricorda il giro di vite messo in atto con il Dlgs 107/2018 che ha modificato il regime del market abuse, allineandolo al Regolamento Ue (596/2014).?Una norma dalla elevatissima carica afflittiva: dalle sanzioni fino a 5 milioni di euro, alle misure interdittive che limitano fortemente il diritto al lavoro, fino alla pubblicazione delle sanzioni sui siti di Bankitalia e Consob. Sgombrato il campo da presunzioni di maggior favore, la Consulta chiarisce che bisogna lasciare spazio alla possibilità di dimostrare, caso per caso, che il nuovo trattamento sanzionatorio amministrativo sia di fatto più gravoso del precedente. Con conseguente illegittimità costituzionale della disposizione transitoria che preveda l’inevitabile applicazione della confisca per equivalente (articolo 187-sexies del Dlgs 58/1998)?- quando il procedimento penale non è ancora definito - anche ai fatti pregressi e anche quando il trattamento sia in concreto meno favorevole di quello precedente la depenalizzazione. Come avvenuto nel caso esaminato dalla Cassazione, giudice remittente, relativo ad alcuni insider secondari - oggi sanzionati con “pene” pecuniarie fino a 3 milioni di euro - nei confronti dei quali la Corte d’Appello aveva confermato la legittimità dell’applicazione, da parte della Consob, delle sanzioni pecuniarie, interdittive e della confisca per equivalente. I fatti, relativi all’abuso di informazioni privilegiate erano stati commessi, quando la condotta era ancora reato. La Consulta attira l’attenzione sulla sorte dell’ insider primario che aveva rivelato informazioni privilegiate ai ricorrenti e che è stato alla fine “punito” con una multa di mille euro beneficiando anche dell’indulto previsto dalla legge 241/2006. Il caso dimostra che la comparazione tra i due regimi non solo è possibile ma doverosa, per evitare l’applicazione retroattiva di una disciplina punitiva. Sequestro ad ampio spettro nell’abuso di informazioni di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 6 dicembre 2018 Nelle inchieste su insider trading il sequestro preventivo colpisce legittimamente sia il profitto del reato sia “l’investimento” iniziale funzionale alla commissione dell’illecito. La misura sanzionatoria prescinde in sostanza anche dalla presenza o meno di un profitto derivante dall’utilizzo di informazioni riservate. La Quinta penale della Cassazione (sentenza 54524/18, depositata ieri) ha esplicitato in una lunga motivazione il contenuto dell’articolo 187-sexies del Tuf circa le conseguenze dell’insider trading, laddove si prevede appunto che “l’applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie (...) importa sempre la confisca del prodotto o del profitto dell’illecito e dei beni utilizzati per commetterlo”, con l’inevitabile corollario che la stessa “può avere ad oggetto somme di denaro, beni o altre utilità di valore equivalente”. Il ricorso era relativo all’inchiesta della procura di Milano sulle presunte soffiate in materia di Opa di alcuni giovani avvocati di importanti studi milanesi, deflagrata a inizio anno con un’ondata di arresti e il sequestro di 878mila euro ai danni del presunto istigatore. Secondo i difensori dell’avvocato - ed ex ufficiale della Gdf, come molti degli indagati - il decreto di sequestro del Gip aveva illegittimamente sommato al profitto del reato su tre Opa (61 mila euro) le provviste necessarie a fare incetta di azioni, tra il 2012 e il 2014, di due società quotare a Milano e una a Parigi (in totale 816 mila euro di investimento iniziale). Per i giudici della V il ricorso è totalmente infondato, in quanto le somme impiegate per rastrellare azioni sono “lo strumento utilizzato per attuare la condotta criminosa” e quindi beni strumentali legati a vincolo di pertinenzialità con la condotta penalmente rilevante. Del resto, sottolinea il relatore, la Cassazione (42778/17) ha esteso il concetto di beni utilizzati per commettere il reato anche ai finanziamenti concessi da una banca ai clienti per l’acquisto di azioni e obbligazioni dello stesso istituto per dribblare l’ispezione della vigilanza. Del tutto infondata, secondo la Quinta, anche la questione di illegittimità costituzionale dell’articolo 187 del Tuf perché “il reato è consumato a prescindere dal risultato dell’operazione finanziaria”. Bancarotta, bocciati i 10 anni per le sanzioni accessorie di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 6 dicembre 2018 Più spazio ai giudici nella determinazione delle sanzioni accessorie in caso di condanna per bancarotta. È questa la conseguenza della sentenza della Corte costituzionale n. 222, depositata ieri e scritta da Francesco Viganò. La pronuncia è stata emessa su questione sollevata dalla Corte di cassazione, nell’ambito di un ricorso presentato, tra gli altri, da Cesare Geronzi e Matteo Arpe, in un filone del crac Parmalat riguardante la compravendita delle acque siciliane Ciappazzi. In appello a Geronzi erano stati inflitti 4 anni e mezzo e ad Arpe 3 e mezzo. Nel capo d’imputazione, fatti di bancarotta fraudolenta. Diretta conseguenza della condanna erano stati, per entrambi, i 10 annidi inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e di incapacità a esercitare gli uffici direttivi presso ogni impresa che la Legge fallimentare prevede senza margini di discrezionalità per l’autorità giudiziaria. Adesso la Consulta, con un verdetto che potrebbe dispiegare effetti anche per chi si trova a dovere scontare la medesima sanzione per condanne di bancarotta già passate in giudicato, ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 216, ultimo comma, del Regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (la Legge fallimentare, appunto), nella parte in cui dispone: “la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa per la durata di dieci anni l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa”, anziché: “la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni”. Per la Corte, pene accessorie temporanee di durata fissa, come quelle previste dalla norma dichiarata illegittima, non sono compatibili con i principi di proporzionalità e necessaria individualizzazione del trattamento sanzionatorio. Infatti la gravità dei fatti qualificabili come bancarotta fraudolenta può essere in concreto assai diversa e un’unica e indifferenziata durata delle pene accessorie determina risposte sanzionatorie evidentemente sproporzionate per eccesso rispetto ai fatti di bancarotta meno gravi. È lo stesso articolo della Legge fallimentare in parte dichiarato illegittimo, tra l’altro, a disciplinare e sanzionare fatti diversi di bancarotta punendoli con misure detentive assai diverse. A restare privo di flessibilità è invece solo il limite di 10 anni per le sanzioni accessorie che la Consulta riconosce essere fortemente limitativo su una vasta gamma di diritti fondamentali del condannato, riducendo drasticamente la sua possibilità di esercitare attività lavorative per un ampio arco temporale, destinato oltretutto a decorrere solo dopo l’integrale esecuzione della pena detentiva, che, a sua volta, potrebbe avere luogo molti anni dopo la commissione del fatto di reato). Quanto alla soluzione, la Cassazione, nella sua ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale, suggeriva di ancorare la durata delle sanzioni accessorie a quella delle pene detentive. Un’indicazione che, puntualizza la Consulta, rappresenterebbe comunque un passo avanti e tuttavia ancora insoddisfacente. Meglio fare riferimento alla stessa Legge fallimentare e ai 2 articoli che seguono quello “incriminato” e cioè quelli che disciplinano la bancarotta semplice e il ricorso abusivo al credito. Entrambi prevedono le misure accessorie ma non in maniera rigida: il limite è infatti individuato nel massimo a 2 anni nel primo caso e a 3 nel secondo. Questa medesima soluzione può allora essere tradotta anche per la bancarotta fraudolenta, restituendo al giudice la possibilità di individualizzare la pena stabilendo, se lo riterrà, anche misure accessorie di durata più elevate di quelle detentive, ma sempre nel limite di 10 anni. Per l’amministratore subentrato niente bancarotta senza prove di distrazione di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 6 dicembre 2018 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 5 dicembre 2018 n. 54511. In caso di fusione societaria l’amministratore subentrato non è imputabile del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale quando non si rinvengano a suo carico prove di alienazioni e manchi ogni indizio che conduca al compimento del richiamato reato. Questo il principio formulato dalla Cassazione con la sentenza n. 54511/18. I fatti - Alla base della decisione una vicenda in cui un soggetto era stato imputato del reato in questione solo perché risultava amministratore di diritto di una srl fallita nel 2011. La Cassazione ha accolto il ricorso rilevando che la mancata individuazione dei beni oggetto della contestata distrazione e il difetto di prova sulla stessa capienza patrimoniale della fallita. Ha rilevato, inoltre, come in difetto di tali accertamenti non fosse stato possibile nemmeno identificare l’esatta condotta dell’imputato e l’effettiva attribuibilità sul versante dell’elemento soggettivo al medesimo. I Supremi giudici, pertanto, hanno chiarito come risulti illegittima l’affermazione della responsabilità dell’amministratore fondata esclusivamente sul mancato rinvenimento di dati beni di cui la società abbia avuto il possesso in epoca anteriore e prossima al fallimento, qualora sia subentrato un nuovo amministratore con estromissione del precedente dalla gestione d’impresa considerato che, in questo caso la responsabilità dell’amministratore cessato può essere affermata solo a condizione che risulti dimostrata la collocazione cronologica degli atti di distrazione nel corso della sua gestione o l’esistenza di un accordo con l’amministratore subentrato per il compimento di tali atti. Conclusioni - Errore macroscopico commesso dai giudici di merito quello di non aver chiarito il momento in cui sarebbe intervenuta la spoliazione della srl fallita, né per non aver motivato sull’eventuale consapevolezza da parte dell’imputato di aver contribuito attraverso la mera formale assunzione della gestione all’agevolazione di condotte poste in essere anche precedentemente da altri. Annullata quindi la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’appello di Venezia per nuovo esame. Napoli: detenuti e giardinieri, al via due progetti firmati da Bonafede La Repubblica, 6 dicembre 2018 Il ministro nel carcere di Secondigliano Puliranno le aiuole ma elimineranno anche le mini discariche abusive. Detenuti dentro il carcere ma giardinieri e netturbini fuori. Non solo, c’è anche chi si occuperà di revisionare le auto. Firmati due protocolli d’intesa che ai detenuti offriranno formazione e lavori di pubblica utilità. Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, è stato chiaro: “Se c’è uno strumento che può dare dignità al detenuto quello è il lavoro grazie al quale si può portare avanti una lotta alle recidive e anche alla criminalità organizzata che nella disoccupazione fa proselitismo”. E così si parte con “Mi riscatto per Napoli”, progetto che è stato messo in atto anche in città come Roma, Palermo, Milano e presto Torino. Si parte con quattro detenuti del carcere di Secondigliano e l’accordo avrà una durata di 12 mesi. “È un progetto per me molto importante: per la prima volta include due ministeri, quello della Giustizia e quello delle Infrastrutture e dei Trasporti”, ha spiegato Bonafede che la sua prima visita “in segreto bussando al citofono” ad un carcere, tempo fa la fece proprio a Secondigliano. I detenuti quasi sicuramente inizieranno a lavorare nel quartiere di Scampia. “Alla base di questo progetto c’è un eccellente lavoro di cooperazione istituzionale - ha detto il sindaco, Luigi de Magistris che ha firmato l’intesa - ci auguriamo che questo inizio si possa implementare e che si possa cooperare al meglio tra Napoli ed il governo”. “È l’ennesimo risultato”, per Francesco Basentini, capo del Dap, “di una programmazione nuova, che trova supporto nelle istituzioni nazionali e locali che ne sono testimoni e protagoniste”. C’è poi il secondo protocollo d’intesa che coinvolge i ministeri della Giustizia e delle Infrastrutture e dei Trasporti, e che permetterà di aprire sempre nel carcere di Secondigliano un centro autorizzato per le revisioni di autovetture e veicoli stradali fino a 3,5 tonnellate, all’interno del quale saranno impiegati i detenuti. “Un progetto - ha spiegato l’assessore regionale alla Formazione, Chiara Marciani - importante per la formazione e la buona prassi”. Nelle carceri, ha ammesso il Guardasigilli, la “situazione è tragica”. C’è il problema del sovraffollamento “che cercheremo di risolvere con la manutenzione ordinaria e straordinaria, con nuove carceri, con misure alternative”. Ma anche, dice, Bonafede, con “progetti piccoli, come distribuire computer che possono dare la possibilità di avere un collegamento via Skype con la famiglia, naturalmente tutto in piena sicurezza”. Attenzione, Bonafede la riserva anche alla polizia penitenziaria: “Stiamo investendo su questo ruolo, nessuno racconta mai quanto sia importante nell’attività di prevenzione, ad esempio contro il terrorismo”. Ma è il lavoro dei detenuti sul quale il ministro punta. “Il principio della certezza della pena ci deve essere sempre ma il lavoro, oltre al detenuto, serve anche alla società esterna e ad annullare la distanza che al momento è siderale tra i cittadini e quello che accade dentro un carcere”, ha concluso. Firenze: “qui cade tutto a pezzi, chiudiamo Sollicciano e liberiamo i detenuti” di don Vincenzo Russo* Corriere Fiorentino, 6 dicembre 2018 Vorrei portare la mia personale esperienza di cappellano e di operatore dell’istituto di Sollicciano ormai ultradecennale. Nel corso del tempo l’istituto ha conosciuto una involuzione che, a partire dalle gravi carenze strutturali ha inevitabilmente coinvolto le condizioni di vita dei detenuti e di tutti coloro che quotidianamente operano nella struttura. Ho deciso di prendere come partenza per ripercorrerne il declino la data dell’ultima evasione, il 2017. Tutti sanno ormai che nel momento in cui si è verificata, Sollicciano non aveva un muro di cinta funzionante, era pericolante e non permetteva una efficace sorveglianza con mezzi di ronda o con le telecamere. A distanza di quasi due anni non ci sono stati cambiamenti significativi nella sicurezza e nel riadeguamento della struttura. Segnalo, en passant, un episodio di questa estate: il crollo di un pezzo di intonaco dal muro di un passeggio, che ha comportato la sospensione delle ore d’aria per una settimana e più di tutti i detenuti. In questo periodo, due anni, sono invece cambiate le condizioni di vita dei detenuti e quelle dei lavoratori, in sintesi direi notevolmente peggiorate. In una istituzione totale quale è il carcere, se al disagio della privazione della libertà si aggiungono i disagi quotidiani legati alle esigenze di vita, come la mancanza di acqua calda, l’assenza di un riscaldamento adeguato, la scarsità di attività trattamentali e risocializzanti, è facile immaginare un progressivo allontanamento dai principi sanciti dall’art. 27 della Costituzione e un abbrutimento di coloro che vivono in carcere o ci lavorano. Il carcere fiorentino vive una grande contraddizione: da un lato soffre di una carenza strutturale che ne pregiudica la sicurezza e la vivibilità, dall’altro raccoglie gli “scarti del territorio” (per citare papa Francesco) e gli scarti degli altri istituti della regione Toscana: infatti i detenuti più facinorosi e refrattari alle regole vengono inviati proprio all’istituto fiorentino per ragioni di ordine e sicurezza, in sostanza per punizione. La contraddizione è ancora più stridente se si considera che il carcere è parte del territorio: Sollicciano è uno dei peggiori del circuito, ma è collocato in una delle città più belle del mondo, ricca di storia, di arte e di risorse. Questa bella città mostra un certo interesse per il suo istituto penitenziario, attraverso la partecipazione di oltre cinquecento volontari, che però non sono allineati verso i medesimi obiettivi e, probabilmente non hanno un orientamento comune che permetta di unire le forze per aiutare le istituzioni a risolvere le problematiche più urgenti e i detenuti a costruirsi percorsi risocializzanti degni di tale nome. Quando chiedo, e mi chiedo, provocatoriamente cosa siamo riusciti a fare in termini di riabilitazione, di benessere, o di semplice diminuzione del dolore e del disagio dei detenuti, mi tocca rispondere: poco, troppo poco. E faccio anche autocritica. A rimarcare la nostra inefficacia bastano la rabbia e la violenza che ha connotato gli ultimi gravi episodi in carcere. Un fallimento. La struttura si sta decomponendo, le temperature, calde o fredde, aumentano disagi e malattie, la disaffezione al lavoro è sempre più diffusa, del resto come non capire. Il sovraffollamento ormai è stabile. Qual è la soluzione di fronte a questa situazione nella quale le vittime di questa situazione anche gli stessi vertici della struttura, stritolati da un meccanismo che facilmente li immola dopo una evasione o un suicidio, capri espiatori che pagano per tutti quando c’è da trovare un responsabile? Non lo so. Non so dire. Al Convegno al Palazzo di Giustizia si è parlato di braccialetti elettronici. Concludo con una provocazione: rimettiamo tutti i detenuti in libertà anche con il braccialetto elettronico e lasciamoli fuori fino a quando saremo in grado di far loro scontare una pena efficace e al contempo degna di un paese civile che, a detta di tutti, ha la Costituzione più bella del mondo. Facciamo che la Costituzione entri davvero nel carcere. *Cappellano del carcere di Sollicciano Salerno: detenuti invalidi a Fuorni, storie di ordinaria inciviltà umana di Tommaso D’Angelo La Città di Salerno, 6 dicembre 2018 Nessuna dignità per i detenuti salernitani. E nessuna eccezione per le persone diversamente abili. Al carcere di Fuorni infatti sono presenti due persone con gravi problemi di salute ma per loro nessuno sconto. Non di pena, sia chiaro. Ma di trattamento. Quello stesso trattamento che dovrebbe essere riservato a tutti, nonostante la struttura. Uno dei detenuti necessita di spostarsi in sedia a rotelle e di controlli costanti ma ad oggi poco e nulla viene fatto per lui, trattato al pari di tutti gli altri detenuti nonostante sia stata avanzata più volte richiesta di trovare una sistemazione più idonea alle sue condizioni di salute. Intanto, lo scorso 20 novembre, l’onorevole Rita Bernardini, insieme ad una delegazione del partito Radicale e accompagnati da Donato Salzano e Fiorinda Mirabile e altri avvocati fra i quali il Presidente della locale Camera Penale, Michele Sarno, hanno visitato il car cere di Salerno. In 366 posti deve farci entrare 500 detenuti, tanti erano il giorno della visita. 98 sono in attesa di primo giudizio, 52 attendono il giudizio d’appello e 27 sono ricorrenti in cassazione. I detenuti condannati definitivamente sono 242, mentre coloro che hanno un posizione mista sono 106. Gli stranieri presenti sono circa 72. Anche in merito alla questione sovraffollamento, la situazione non sembra affatto cambiata: 7 detenuti “sistemati” in letti a castello a due piani. “l’umidità si fa sentire, i materassi di gommapiuma sono bagnati perché, oltre alle perdite dalle tubature, quando piove entra l’acqua dalle finestre. Le mura delle celle sono sporche ed è usuale trovare fogli di giornale appiccicati alle pareti per coprire il sudiciume prodotto da precedenti, lontane detenzioni. Quanto al riscaldamento, il giorno della nostra visita coincideva con quello della prima prova in vista della stagione più fredda; risultato del test: termosifoni gelati… occorre evidentemente una più approfondita messa a punto considerata la vetustà delle caldaie che infatti ha richiesto nel tempo continue riparazioni”, ha reso noto l’ex parlamentare. Inoltre, su 500 detenuti, solo 113 lavorano (23%) e lo fanno per poche ore al giorno e per pochi mesi all’anno perché vige la rotazione per i lavori domestici in carcere, gli unici possibili a Salerno considerato che sono state dismesse tutte le lavorazioni. Se nelle sezioni del maschile qualcuno ha la possibilità almeno di studiare (c’è l’istituto alberghiero), nella sezione femminile, che ospita 41 donne, abbiamo trovato un’atmosfera tesissima: lì la scuola proprio non c’è e solo 6 detenute svolgono lavori domestici; manca l’acqua calda da un mese e non c’è la cucina cosicché i pasti (immangiabili a detta delle detenute) arrivano (freddi e incollati) dalle cucine del maschile. La situazione, dunque, resta ancora molto drammatica, senza contare i suicidi che si sono verificati in questi mesi e le aggressioni riscontrate. Avellino: “diagnosi in ritardo”, la famiglia di un detenuto deceduto fa causa all’Asl Quotidiano del Sud, 6 dicembre 2018 Saranno gli accertamenti medico legali disposti dal presidente della Sezione Civile del Tribunale di Avellino, Giuseppe De Tullio, a stabilire se la morte di Giuseppe Ferraro, sessantacinquenne di Taurano, è stata causata da una negligenza da parte dei medici del carcere di Bellizzi Irpino, che sono finiti sotto accusa insieme all’Asl per non aver eseguito approfondimenti necessari a diagnosticare in tempo il tumore al pancreas che poi ne ha cagionato il decesso. Il magistrato ha infatti assegnato una doppia consulenza tecnica, sciogliendo la riserva dopo l’udienza del 21 novembre scorso, quando il legale dei familiari di Giuseppe Ferraro, l’avvocato Antonio Mercogliano, aveva sollecitato proprio un approfondimento sulle presunte negligenze nel trattamento del detenuto da parte della struttura ospedaliera del carcere. Per questo motivo, tra i vari quesiti sottoposti ai due consulenti, l’oncologo Carmine Ferrara e la specialista in Medicina Legale Anna Matarazzo c’è anche quello di verificare “un adeguato approfondimento diagnostico nell’accertamento della patologia pancreatica ed un conseguente ritardo terapeutico; se, in particolare, i sanitari avrebbero dovuto eseguire un approfondimento diagnostico, a seguito dell’insorgenza del K pancreatico riscontrato nell’ecografia addominale eseguita il 19.3.S016; se e quali siano state le conseguenze della mancata esecuzione di tale approfondimento, in termini probabilistici, in ordine alle possibilità di sopravvivenza e/o di guarigione di Giuseppe Ferraro”. Il 18 dicembre ci sarà il conferimento dell’incarico ai due consulenti. La vicenda era stata anche oggetto di una denuncia alla Procura della Repubblica di Avellino. Accertamenti arrivati, però, solo dopo: nell’aprile del 2017. Quando un’altra Tac ha evidenziato come “quelle stesse lesioni risultino essere un cancro pancreatico che aveva invaso tutto l’addome”. Secondo l’accusa, “non sarebbe stata portata all’attenzione del magistrato di sorveglianza la richiesta di approfondimento diagnostico del 19 giugno e del 27 aprile”. Oltre all’“assenza di una totale terapia idonea a curare quelle lesioni che potevano essere invece trattate con chemioterapia o altre terapie adeguate”. Ferraro era deceduto qualche mese dopo la concessione da parte del Tribunale di Sorveglianza della misura degli arresti domiciliari. Le indagini dal punto di vista penale non sono giunte ancora ad una definizione. Parma: il Garante “le carceri dovrebbero ospitare solo persone del territorio” parmatoday.it, 6 dicembre 2018 Il Garante dei detenuti, intervenuto al seminario “Prendersi cura delle persone autrici di reato: dai luoghi ai percorsi nelle comunità”, ha disapprovato la tendenza a medicalizzare ogni forma di manifestazione del disagio. “In Emilia-Romagna, la riforma del 2014 che ha soppresso gli ospedali psichiatrici giudiziari sopravvissuti alla legge Basaglia ha visto la sua piena realizzazione, dando vita a quel sistema comunitario e articolato di cura delle persone con patologia psichiatrica autrici di reato in cui sono inserite le due Residenze per l’esecuzione di misure di sicurezza sanitaria (Rems) della nostra regione”. Lo ha detto il Garante regionale delle persone private della libertà personale, Marcello Marighelli, intervenuto in mattinata al seminario “Prendersi cura delle persone autrici di reato: dai luoghi ai percorsi nelle comunità”, organizzato dal Dipartimento di salute mentale dell’Ausl di Parma. L’iniziativa voleva fare il punto sullo stato dell’arte delle Rems e avviare riflessioni su un nuovo approccio “di comunità” al problema (l’obbiettivo è coinvolgere tutte le realtà attive nel contesto sociale e l’opinione pubblica). Marighelli ha evidenziato, quali aspetti negativi, la mancata riforma delle sezioni psichiatriche in carcere, affermando che “le carceri dovrebbero ospitare di norma solo persone del territorio e in misura limitata, per garantire adeguati percorsi di cura e riabilitazione”. Ha poi disapprovato la tendenza a medicalizzare ogni forma di manifestazione del disagio e della sofferenza delle persone, dato che “questi soggetti spesso hanno solo bisogno di ascolto e di aiuto”. Alessandria: l’orticoltura come riabilitazione dei carcerati radiogold.it, 6 dicembre 2018 Sono già iniziati i corsi di formazione e aggiornamento di agricoltura per alcuni detenuti delle carceri di Alessandria, realizzati dalla Cia. Le lezioni saranno dedicate all’uso di fitofarmaci, alla guida di mezzi agricoli, alla sicurezza e all’utilizzo di attrezzature. Si tratta di un progetto di agricoltura sociale finalizzato al reinserimento lavorativo di chi è recluso, una volta scontata la pena. La firma della convenzione, valida per un anno, ha coinvolto anche la cooperativa sociale Coompany, responsabile della gestione dei terreni agricoli intorno e all’interno dell’Istituto Penitenziario di San Michele. “Un nostro dovere offrire opportunità come queste - ha sottolineato la direttrice delle carceri alessandrine Elena Lombardi Vallauri - ringraziamo questi enti per la loro generosità. I detenuti sono grati per tutto questo, si percepisce che si sentono sulla buona strada”. “Un progetto finalizzato anche alla sicurezza, visto che restituiamo alla società persone che possono subito rendersi utili con un impiego”, le parole di Piero Valentini, responsabile dell’area educativa del carcere di San Michele. “Felici di essere utili - le parole del presidente provinciale della Cia Giampiero Ameglio - è già nostra abitudine organizzare corsi di formazione per manodopera specializzata”. In questi giorni già due detenuti in semilibertà hanno iniziato le lezioni, alla Cia di Casale Monferrato. Le lezioni si terranno anche all’interno delle carceri. Da luglio 2017, inoltre, la Cooperativa Coompany ha avviato la coltivazioni di frutta e verdura su terreni all’interno della struttura di San Michele. A lavorare i circa 17.500 metri quadri di terra, compresi 150 piante da frutta e delle serre, sono gli stessi carcerati, per venti ore a settimana. “D’estate produciamo melanzane, insalata, zucchine, peperoni, oltre ad angurie e meloni, nei mesi più freddi invece spazio a vari tipi di cavoli, broccoli, finocchi, cime di rapa, bietole e spinaci”, ha raccontato l’imprenditore agricolo Paolo Bianchi, uno dei responsabili della gestione dei terreni. “L’obiettivo è arrivare a 13mila chili di ortaggi all’anno e stiamo valutando una commercializzazione in città, con l’allestimento di punti vendita”. Nel frattempo “frutta e verdura provenienti dal carcere già forniscono la Ristorazione Sociale di Alessandria, in viale Milite Ignoto”, ha precisato Ahmed Osman, della Cooperativa Coompany. Milano: il lavoro dei detenuti del carcere di Opera a favore dei ciechi chiesadimilano.it, 6 dicembre 2018 A Opera digitalizzato il millesimo audiolibro della Biblioteca del Mac, che è stato benedetto dall’Arcivescovo: pubblichiamo il video del suo intervento. È stato l’Arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini, a benedire il volume numero 1.000 degli audiolibri della Biblioteca dei ciechi, digitalizzato grazie all’attività di volontariato svolta dai detenuti del carcere di Opera. La breve cerimonia nel pomeriggio del 5 dicembre, durante l’incontro “Carcere e volontariato 2.0”, tenuto nella sede di Sesta Opera San Fedele onlus, l’associazione di volontariato carcerario che da anni collabora con il Movimento Apostolico Ciechi (Mac). Titolo dell’opera numero 1.000 è Anche Dio ha un sogno, testo di Desmond Tutu, che raccoglie otto lettere indirizzate dal premio Nobel per la Pace “a tutti i figli di Dio”, nel nome della fratellanza e della speranza tra gli uomini in quanto membri di una stessa famiglia. Un messaggio che è stato rilanciato per dare riconoscimento pubblico all’attività dei detenuti, impegnati dal 2015 nel progetto di digitalizzazione della biblioteca del Mac. All’evento erano presenti il presidente dell’associazione Guido Chiaretti, la presidente del Tribunale di Sorveglianza Giovanna Di Rosa, una rappresentanza dell’ufficio del Difensore regionale-Garante dei detenuti, Silvio Di Gregorio (direttore del carcere di Milano-Opera) e la vice direttrice di Bollate Cosima Buccoliero, la presidente del Mac Milano Laura Morelli, oltre a tre detenuti di Opera, coinvolti nell’iniziativa in carcere. Il progetto di volontariato 2.0 è partito 3 anni fa, sulla base di un accordo tra Sesta Opera, Mac e direzioni degli istituti penitenziari, permettendo ai detenuti di convertire gratuitamente in sistema digitale le vecchie cassette della Biblioteca del Mac. Un patrimonio di 7.000-8000 opere, ciascuna registrata su 5-10 cassette, che rischiava di essere perduto per mancanza di riproduttori di cassette, ormai scomparsi dal mercato. Nel corso del tempo oltre 20 detenuti si sono dedicati all’operazione. Un’analoga iniziativa è attiva anche nel carcere di Bollate, dove sono già state riprodotte in formato digitale oltre 700 opere. Milano: i loro figli sono morti in carcere, due mamme protestano davanti al Tribunale askanews.it, 6 dicembre 2018 I loro figli sono morti in carcere e loro si sono riunite in presidio davanti al Palazzo di Giustizia di Milano per manifestare “rabbia nei confronti di uno Stato nelle cui prigioni si muore quotidianamente”. Protagoniste della protesta, le madri di Alessandro Gallelli, il 21enne morto del 2012 2012 a San Vittore, e di Francesco Smeragliuolo, che morì a 22 anni nel carcere di Monza. L’inchiesta sulla morte di Gallelli è finita con una richiesta di archiviazione a cui si è opposta la famiglia della vittima. Una consulenza di parte ha infatti escluso “l’ipotesi suicidaria prospettata dalla procura” sostenendo, al contrario, che il decesso del 22enne sarebbe “riconducibile ad un omicidio mediante strozzamento”, con la scena del crimine che sarebbe stata inquinata da una “manipolazione volontaria” necessaria per rappresentare “simulazione” del suicidio. Smeragliuolo, invece, sarebbe morto in cella per un arresto cardiaco ma i risultati dell’indagine non hanno convinto la madre che chiede “verità per la morte di mio figlio”. Durante il sit-in, che ha anche visto la partecipazione del collettivo Olga, è stato anche distribuito un volantino per denunciare i “61 morti suicidi” registrati nel 2018 nelle carceri italiane e chiedere “giustizia” allo Stato che “di fronte a questa realtà, resta muta”. Cosenza: Massimo Esposito, morto in carcere 20 anni fa. Gli amici: “i suoi lividi parlano” quicosenza.it, 6 dicembre 2018 La Casa degli Ultrà di Cosenza ha ricordato la vicenda di Massimo Esposito, deceduto in circostanze mai del tutto chiarite. Era in sciopero della fame. Le lenzuola del suo letto sono state ritrovate, in cella, ancora sporche di sangue. La magistratura ha inteso archiviare tutti i procedimenti sul caso giustificando il decesso di Nanà con un edema polmonare e una particolare forma di epilessia di cui, in realtà, pare non abbia mai sofferto. La morte di “Massimino” e le circostanze in cui è avvenuta a distanza di venti anni restano ancora tutte da chiarire. I suoi amici non lo hanno mai dimenticato. Anche quest’anno ne hanno commemorato la scomparsa con i racconti da stadio e da quartiere che lo vedevano protagonista, nel corso di un’iniziativa che si è svolta lo scorso venerdì presso la Casa degli Ultrà. È il 30 novembre del 1997 quando il quartiere dell’Ultimo Lotto riceve il nefasto annuncio: Nanà, all’anagrafe Massimo Esposito, ventiquattrenne del gruppo le Brigate di via Popilia è venuto a mancare. La tragedia si è consumata nel carcere di Lecce dove si trovava ristretto da qualche giorno. Si parla di un arresto cardiocircolatorio che non convince chi ne ha riconosciuto la salma notando i numerosi lividi sul suo volto e sul suo corpo. L’autopsia verrà consegnata dopo oltre un anno a seguito di una denuncia per omissione di atti d’ufficio e omissione di soccorso sporta dai familiari di Nanà. “Per noi che eravamo appena 14enni - ricorda uno dei suoi amici che si sono riuniti lo scorso venerdì nella Casa degli Ultrà - lui era un fratello maggiore. Un esempio da seguire. Un modello per noi del quartiere, l’ultimo lotto di via Popilia. Non faceva distinzioni tra nessuno, ognuno per lui aveva pari dignità e doveva seguire le regole del vivere civile. Quando passava si fermava a parlare con noi e ci consigliava sempre di stare lontani dalla strada e di non frequentare determinati ambienti. Ancora oggi facciamo tesoro dei suoi insegnamenti. Quando è arrivata la notizia della sua morte il quartiere si è fermato. Tutti ci siamo chiesti cosa fosse successo. Era entrato nel carcere di Lecce per una tentata rapina e dopo qualche giorno ne è uscito cadavere. Le voci sono tante. Ci è stato detto che era stato picchiato dai detenuti. Siamo rimasti sorpresi perché se si è chiusi a chiave in una cella qualcuno deve aprirla per fare entrare gli aggressori. Questa fu una delle tante giustificazioni campate in aria che ci diedero all’epoca. Informazioni frammentarie che con il tempo abbiamo purtroppo potuto approfondire conoscendo da vicino il carcere e le sue dinamiche. Sappiamo che in alcune carceri le guardie adottano una strana politica per gestire i detenuti. Succede anche in Calabria dove esistono strutture “punitive” in cui scorrazzano le “squadrette” e si fa fatica a ricevere anche delle medicine. La verità su Massimino noi però l’abbiamo: c’è un ragazzo morto e i suoi lividi che parlano”. Parma: concerto in memoria di Fabrizio De André presso la Casa di Reclusione di Carla Chiappini Ristretti Orizzonti, 6 dicembre 2018 Lunedì 3 dicembre si è tenuto nel teatro della Casa di Reclusione di Parma un concerto in memoria di Fabrizio De André di cui ricorrerà a gennaio il ventennale della scomparsa. La Trasgressione Band di Milano ha suonato - per un caloroso pubblico di detenuti di Alta Sicurezza, studenti e volontari - alcune delle più note canzoni del cantautore genovese che sono state accompagnate da riflessioni, testimonianze e pensieri delle stesse persone ristrette. L’iniziativa è stata possibile grazie alla disponibilità della Direzione dell’Istituto e all’impegno dell’ Ufficio Educatori nonché del personale di Sorveglianza. Ornella Favero fondatrice di Ristretti Orizzonti e Angelo Aparo ideatore del Gruppo della Trasgressione hanno raccontato il loro lungo impegno nelle carceri, rispondendo alle sollecitazioni di Giada Paganini e Valentina Castignoli giovani volontarie dell’associazione “Verso Itaca Onlus”. Il concerto è stato sostenuto, infatti, dalle tre associazioni già citate: Ristretti Orizzonti, Gruppo della Trasgressione e Verso Itaca Onlus. Il testo che segue di Salvatore Cardillo ha dato l’avvio al momento musicale introducendo la canzone Disamistade con una riflessione sulla vendetta. Ad Agosto 2005 viene ucciso mio figlio maggiore, un dolore che non auguro a nessuno. Nell’immediato, a caldo, nutro solo propositi di vendetta, ma bontà vuole che sono detenuto con compagni di una certa età che avevano subito anche loro lutti in famiglia, iniziando faide che si portano appresso da 30 anni senza fine. Faranno di tutto, dopo mesi e mesi riescono a convincermi a rinunciare alla vendetta e a pensare ai figli restanti. Effettivamente non voglio che vengano coinvolti in un’altra faida, voglio che vivano senza paure. Ringrazierò sempre queste persone per i loro consigli, ma il vero capolavoro, il vero merito a questa mia resa è tutto e soltanto della mia compagna. Ha contribuito non poco a farmi allontanare in modo definitivo dalle logiche devianti; una specie di lavaggio del cervello. Cosa si fa per amore! Ho da scontare ancora tanti anni e mi dico “il tempo allevierà il mio dolore”; invece, ad un anno esatto, Agosto 2006, un colpo di fortuna. Grazie a sentenze favorevoli, sconto il mio debito e a una decorrenza in termini sul reato di omicidio, vengo scarcerato!!! All’improvviso torno a casa, la paura mi prende perché è facile quando si è detenuti dire “se esco-quando esco, farò… non farò”. L’impatto con la realtà diventa, mio malgrado, esame della vita, devo scegliere il mio futuro; cosa farò? Mi farò prendere dall’impulsività, dalle tentazioni? La morte di mio figlio è troppo calda ma nonostante tutto riesco a dire basta!!! Intanto il processo di omicidio va avanti e dopo due mesi il P.M. chiede la mia condanna all’ergastolo; io, in accordo con la mia compagna, prometto che in caso di condanna mi costituirò! Alla fine di ottobre, il giorno della sentenza, mi reco in questura verso le 11.00 e verso le 15.00 arriva la conferma dell’ergastolo!!! Strano, ma sono sereno, questa mia decisione viene criticata ancora oggi, ma sono tanto maturo da fare spallucce: ho vinto io, vivo sereno e i miei figli vanno in giro senza guardarsi alle spalle, la mia compagna vive in Toscana, in attesa della mia libertà, lavora e dopo 11 anni mi è ancora vicina con piacere e con amore. Sono certo che senza il suo aiuto sarei caduto in tentazione; devo tutto a lei e non ultimo mi è stato anche offerto un lavoro, questo significa che c’è ancora qualcuno che crede in me, sentire la fiducia è per me un gesto che mi dà la forza per credere che c’è ancora un futuro. Paliano (Fr): progetto “Filatelia nelle carceri” di Anna Ammanniti tg24.info, 6 dicembre 2018 Con il protocollo d’intesa, il Ministero della Giustizia e il Ministero dello Sviluppo Economico, con Poste Italiane S.p.A., la Federazione fra le Società Filateliche Italiane e l’Unione Stampa Filatelica Italiana, hanno promosso e sviluppato un progetto formativo di carattere sociale denominato “Filatelia nelle carceri”. Il progetto formativo approda nella Casa di Reclusione di Paliano per la terza edizione, si tratta di un programma che permette ai detenuti di sviluppare un percorso educativo attraverso i francobolli. Il francobollo rappresenta quella finestra affacciata sul mondo, è un ponte che lascia un contatto con la vita fuori. Ieri mattina presso la Casa di Reclusione, la dott.ssa Nadia Cersosimo ha presentato l’evento filatelico che ha visto come protagonisti i detenuti, impegnati nella realizzazione di una cartolina e di un libro di fiabe. La direttrice del carcere Certosimo ha accolto gli ospiti, il Prefetto Ignazio Portelli, il sindaco Domenico Alfieri, il responsabile commerciale Italia della Filatelia Poste Italiane Enrico Menegazzo e la referente Filatelia filiale di Frosinone Tiziana Dentice, l’organizzatrice sul campo del progetto. L’evento ludico è stato ideato perché scrivere è comunicare e il progetto è un’ulteriore spinta per stimolare la creatività che in tanti non sanno ancora di possedere. Raccontare le favole è un mezzo per esprimere quelle sofferenze e quelle sensazioni e stati d’animo che resterebbero difficili raccontare a voce. Sono stati gli stessi detenuti a presentare il libro da loro scritto: “C’era una volta un castello che racconta”. Tra le ispirazioni il castello di Napoli che regna sulla città, il castello Ursino di Catania con la sua Santa Agata protettrice dalle calamità naturali e l’Abbazia di Monte Cassino. Ha aperto le letture delle fiabe Bruno con “Un sorriso”, il racconto della vita nelle carceri, il bisogno di tutte le persone di amare, di sorridere e di donare un sorriso, il bisogno dell’amore verso i figli e i bambini. Metti un paio di scarpette, i campioni mondiali della corsa e i bambini disabili e viene fuori il Piccolo Bolt. L’autore Luigi ha letto la sua fiaba ispirata al film di Enrico Montesano, il racconto incentrato sul mondo dei disabili. Daniele ha raccontato nella sua favola “Fede” il suo credo in Dio. Dio Creatore è vita e dà vita. “Gennarino, Stelletè e Briciola”, la fiaba di Gaetano in cui racconta che non ci vuole molto per fare del bene nella vita. Le favole sono state lette in anteprima da una bambina di 6 anni, Gioia che emozionata dai racconti ha voluto scrivere una fiaba tutta sua. Il palloncino Stiven, il racconto di un palloncino che vedendosi troppo gonfio si mise un bel giorno a dieta. Ma poi tanto sgonfio non poteva vivere, così si fece gonfiare per sbaglio con l’elio. Volò felice e contento in alto nel cielo. A fine evento c’è stato l’annullo postale speciale sulla cartolina. Isernia: gli “Onda d’urto” portano il rock tra le mura del carcere isnews.it, 6 dicembre 2018 Il 12 dicembre sarà una data significativa per i detenuti della Casa circondariale di Isernia. Grazie alla collaborazione tra la direzione dell’istituto e la rock band isernina Onda D’Urto, verrà infatti realizzato l’evento “Note d’autore” in favore dei detenuti, al fine di favorire la promozione ed il sostegno di iniziative culturali, nello specifico musicali, nonché la condivisione/integrazione con rappresentanti la Comunità esterna. “Tale iniziativa - scrive la dottoressa Capozza - riveste un significato eticamente importante in quanto consente di proporre al detenuto l’esempio del modello di riferimento moralmente valido del musicista come di colui che crede ed investe emotivamente in una passione e riesce a farne, con dedizione, sacrificio e costanza, un progetto di vita”. Agli Onda d’urto va il sentito ringraziamento della direzione, per aver voluto donare alla popolazione ristretta una importante significativa occasione di intrattenimento, socializzazione e crescita culturale. Lo speciale appuntamento sarà quindi per il 12 dicembre alle ore 16. Milano: “benvenuti InGalera”, ristorazione di qualità nel carcere di Bollate La Repubblica, 6 dicembre 2018 Ormai da tre anni nel carcere di Bollate si fa ristorazione di qualità e si organizzano cene benefiche per delle raccolte fondi: la prossima è venerdì 29 novembre alle 20. “Benvenuti InGalera noi possiamo dirlo tutte le sere e anche a pranzo”. La battuta di Silvia Polleri, presidente della cooperativa “Abc la sapienza in tavola”, riassume il senso della sfida fortunata che è partita 3 anni fa: mettere in piedi un ristorante con i detenuti del carcere di Bollate proprio all’interno del penitenziario di via Cristina Belgioioso 120. “La nostra non è un’ambizione di stranezza. L’obiettivo è ridurre la percentuale di recidiva tra la popolazione penitenziaria - spiega Polleri. In Italia è al 70%, a Bollate è sotto il 17%”. La cooperativa Abc ha messo a frutto la sua esperienza di 15 anni di catering in carcere e ha scelto una strada ambiziosa: fare ristorazione di qualità in un penitenziario, con la soddisfazione dei numerosi clienti che hanno riempito i tavoli in questi primi 3 anni. Lo testimoniano anche i diversi e prestigiosi eventi di fund raising come quello di venerdì 29 novembre, alle 20, che vede lo chef franciacortino Vittorio Fusati protagonista in cucina, con la brigata di InGalera, per una serata di “Effervescenti evasioni”, con un menù che sposa pesce e carne, e si accompagna con ottime bollicine, di diversa tipologia, della Franciacorta. Per sapere come partecipare alla cena di raccolta fondi e prenotare un posto, basta scrivere a ristoranteingalerabollate@gmail.com. Per conoscere il menù del periodo e l’ambiente del ristorante, aperto da martedì a sabato a pranzo e a cena, si può invece consultare il sito ingalera.it. Se cerchi la libertà la cyber-sorveglianza ti riguarda di Arturo Di Corinto Il Manifesto, 6 dicembre 2018 Da Assange a Khashoggi passando per le donne saudite ecco come i governi violano i diritti umani di chi fa informazione online. Secondo Turchia e Stati Uniti il giornalista arabo saudita Jamal Khashoggi è stato trucidato all’interno del suo consolato ad Istanbul per ordine della monarchia di Riyad. Il giornalista voleva lanciare un movimento online per denunciare gli abusi del principe ereditario Mohammed bin Salman ma fu scoperto grazie a un software spia dell’azienda israeliana Nso group. O almeno questo è quello che sostiene il suo collega e amico Omar Abdulaziz. E la stessa tesi è stata sostenuta anche da Snowden in un convegno del mese scorso. La notizia, riportata dal Corriere della Sera, è stata smentita dalla stessa azienda sul Times of Israel che ha più volte denunciato lo strapotere delle imprese israeliane di cybersecurity sotto controllo governativo. Per il Citizen Lab di Toronto non ci sono dubbi che i software spia di Nso Group siano stati usati per silenziare attivisti per i diritti umani in 45 paesi del mondo, dall’Egitto al Messico. Non sappiamo quali nuove rivelazioni ci attendono ancora nell’affaire Khashoggi, ma già oggi sappiamo che in Arabia Saudita le violazioni dei diritti umani di chi usa un computer per difenderli sono all’ordine del giorno, soprattutto contro le donne. Molte di loro sono state infatti arrestate per la partecipazione a campagne online contro il sistema patriarcale saudita che impedisce alle donne di affittare un appartamento o di avere un passaporto senza il permesso di un uomo. Secondo il Netizen Report di Global Voices, network di blogger e attivisti dedicato alla protezione della libertà d’espressione online, una di loro, Eman Al-Nafjan, autrice del blog Saudiwoman, è agli arresti da maggio con altri attivisti e senza la possibilità di vedere un avvocato. Lo stesso è accaduto a Samar Badawi, sorella del blogger Raif Badawi condannato nel 2014 a 10 anni di prigione e mille scudisciate per “reato di apostasia” commesso attraverso il proprio blog. Amnesty International ha denunciato di avere ricevuto testimonianze di torture e abusi sessuali nella prigione di Dhahban dove sono imprigionati sia al-Nafjan che Badawi. Anche Israa Al-Ghomgham e il marito Mousa Al-Hashim, sono stati arrestati per aver usato la rete e difendere i diritti umani delle minoranze religiose a causa dell’Articolo 6 della legge saudita sul Cybercrime avendo postato foto e video di proteste di piazza: l’uomo rischia la pena di morte. Nel rapporto 2018 di Reporters senza frontiere si spiega come siano stati 63 i giornalisti ammazzati quest’anno, 13 i citizen journalist e 4 stringer. Quattordici solo in Afghanisan. Sono invece 333 gli operatori dell’informazione imprigionati nel mondo. Nei paesi democratici le cose non vanno meglio. Julian Assange, l’hacker che attraverso Wikileaks ha denunciato l’uccisione di giornalisti e civili iracheni da parte di soldati Usa, è rinchiuso nell’ambasciata ecuadoriana di Londra per sfuggire alla richiesta americana di processarlo per spionaggio: ci si era rifugiato per sfuggire a un’ordine di cattura svedese legato a un reato mai provato. Sotto stretta sorveglianza della polizia inglese, non può più uscire perché verrebbe estradato e giustiziato negli Usa. Un’indagine delle Nazioni Unite ha chiarito che la “detenzione” di Assange è arbitraria, illegale, e che suoi diritti umani e la sua libertà sono stati violati. Ma anche quelli di tutti noi. Come ha detto lo scrittore Bryan Leon: “La guerra per la libertà di espressione e la libertà di stampa è ora a una congiuntura sanguinosa. Proteggiamo questi informatori o ne subiremo le conseguenze”. Per sempre. Le regole della Ue su intelligenza artificiale e sistema giudiziario di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 dicembre 2018 Adottata dalla Cepej la Carta europea che stabilisce i principi etici. L’utilizzo dell’intelligenza artificiale nel sistema giudiziario oramai sta diventando una realtà, per questo motivo c’è bisogno di una regolamentazione attraverso dei principi etici. Per la prima volta la Commissione europea per l’efficienza della giustizia (Cepej) del Consiglio d’Europa ha adottato la carta europea che stabilisce i principi etici relativi al suo utilizzo. È il primo strumento europeo che stabilisce cinque principi sostanziali e metodologici che si applicano al trattamento automatizzato di decisioni e dati giudiziari, basati su tecniche, appunto, di intelligenza artificiale (Ia). La Cepej sottolinea che l’uso di strumenti e servizi di IA nei sistemi giudiziari è inteso a migliorare l’efficienza e la qualità della giustizia e merita di essere incoraggiata. Tuttavia, deve essere fatto in modo responsabile, rispettando i diritti fondamentali delle persone sanciti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dalla Convenzione n. 108 del Consiglio d’Europa sulla protezione dei dati personali, nonché i principi della carta etica. Tra questi principi, il rispetto dei diritti umani e alla non discriminazione è di fondamentale importanza. Tale principio è espressamente sancito a causa della capacità di determinati operazioni - in particolare in materia penale - per rivelare la discriminazione esistente aggregando o classificando i dati relativi a persone o gruppi di persone. Gli attori pubblici e privati devono quindi garantire che queste applicazioni non riproducano o aggravano questa discriminazione e non conducono a analisi o pratiche deterministiche. Vengono inoltre prese in considerazione alcune sfide qualitative relative alla metodologia di analisi e al trattamento automatizzato delle decisioni giudiziarie. È indicato un principio di qualità e sicurezza: dovrebbe essere possibile elaborare i dati mediante l’apprendimento automatico sulla base di originali certificati e l’integrità di questi dati dovrebbe essere garantita in tutte le fasi del trattamento. La creazione di équipe multidisciplinari, composte da giudici, scienze sociali e ricercatori informatici, è fortemente raccomandata, sia in fase di stesura e direzione, sia nell’applicazione delle soluzioni proposte. Anche il principio di trasparenza delle metodologie e delle tecniche utilizzate nel trattamento delle decisioni giudiziarie è di grande importanza. L’accento è posto sull’accessibilità e sulla comprensione delle tecniche di elaborazione dei dati e viene inoltre incoraggiato un sistema di certificazione, da rinnovare regolarmente. Inoltre, viene sottolineata la necessità di non affidarsi ciecamente alle scelte fatte da un algoritmo. In particolare, il giudice dovrebbe essere in grado di tornare in qualsiasi momento alle decisioni giudiziarie e ai dati che sono stati utilizzati per produrre un risultato e continuare ad avere la possibilità di discostarsene, tenendo conto delle specificità del caso in questione. Ogni utente deve essere informato, in un linguaggio chiaro e comprensibile, delle soluzioni proposte dagli strumenti di intelligenza artificiale, delle varie opzioni possibili e del diritto di fornire consulenza legale e ricorso dinanzi a un tribunale. La Cepej spera che questi principi diventino un punto di riferimento concreto per i professionisti della giustizia, le istituzioni e gli attori politici che devono affrontare la sfida di integrare nuove tecnologie basate sull’intelligenza artificiale nelle politiche pubbliche o nel loro lavoro quotidiano. Inoltre, in termini pratici, questi principi forniscono una base importante per il confronto nel valutare le caratteristiche delle diverse applicazioni dell’IA, la cui integrazione nel sistema giudiziario al livello di tribunale è in via di espansione. La Cepej è a disposizione degli Stati membri, delle istituzioni giudiziarie e dei rappresentanti delle professioni legali per assisterli nell’attuazione dei principi della Carta. “IBordercontrol”, ai confini europei arriva il poliziotto virtuale di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 6 dicembre 2018 Un robot per interrogare e selezionare i migranti. I primi paesi a testare il sistema che si chiama “IBordercontrol” saranno l’Ungheria, la Grecia e la Lettonia. Poi seguiranno gli Usa, per bloccare i flussi dal Messico. La notizia è stata data all’inizio di novembre dalla rivista New Scientist, ma bastava consultare il sito web dell’Ue per sapere che l’Europa userà l’intelligenza artificiale per blindare le sue frontiere. È questo il senso del progetto iBorderCtrl, una sorta di poliziotto virtuale che controllerà chi intende attraversare i confini europei. Non è fantascienza: la sperimentazione è in fase operativa e i primi paesi che ne testeranno a brevissimo l’efficacia sono Grecia, Lettonia e Ungheria. Nell’agosto 2019 verranno tirate le somme. I tecnici lo definiscono un sistema “smart” cioè intelligente, capace di riconoscere eventuali false dichiarazioni date alle frontiere. Il modo nel quale potrebbero essere individuati coloro che non hanno i requisiti (migranti illegali o persone sospettate di terrorismo) è basato sul riconoscimento facciale. In una prima fase su un applicazione in rete devono essere caricate foto del passaporto, del visto e anche del denaro che si ha a disposizione. A qul punto arriva il poliziotto virtuale che utilizzando dati, precedentemente impostati, riguardanti lingua, genere e etnia del viaggiatore, porrà le classiche domande: “Da dove venite”, “quanto vi fermate”. Il tutto con l’ausilio di una web cam. È così che l’intelligenza artificiale valuterà le espressioni del dichiarante (anche minime) per capire se mente. In un secondo momento, al varco di frontiera, la vera polizia sarà dotata di congegni mobili che valuteranno le informazioni raccolte e secondo la valutazione effettuata nella prima fase deciderà chi può fare il suo ingresso in Europa. È chiaro che un sistema del genere non può che sollevare molti interrogativi. In primo luogo diversi scienziati ritengono la fase iniziale della sperimentazione del software troppo limitata (avrebbe riguardato solo un campione di 30 persone). A ciò hanno ribattuto gli autori di questo sistema che fanno riferimento alla scuola di informatica, matematica e tecnologia digitale della Manchester Metropolitan University. Secondo questi ricercatori iBordercontrol sarebbe in grado di svelare le bugie nella misura del 75% con la possibilità di raggiungere l’ 85%. Non si tratta di un tentativo isolato, anche l’Università dell’Arizona sta lavorando sulla stessa strada, l’idea è quella di installare un sistema di controllo simile al confine tra Messico e Stati Uniti proprio dove sono in arrivo migliaia di migranti provenienti dall’Honduras, Guatemala e San Salvador. Le critiche però non sono solo di carattere “tecnico” (il riconoscimento delle micro-espressioni viene considerato da gran parte della comunità scientifica una pseudoscienza) ma riguardano anche le implicazioni politiche e legali. Sul sito dell’Ue si legge: “Più di 700 milioni di persone entrano nell’UE ogni anno, un numero che sta rapidamente aumentando. L’enorme volume di viaggiatori e veicoli sta accumulando pressione sulle frontiere esterne, rendendo sempre più difficile per il personale di frontiera mantenere rigorosi protocolli di sicurezza”. L’uso della tecnologia alla frontiera dunque ha lo scopo di limitare i flussi. Il progetto dunque si concentra solo su una fase di chiusura e non tiene conto di chi rimarrebbe fuori. Samuel Singler studioso di relazioni internazionali al St Antony’s College di Oxford ha stigmatizzato iBorderctrl definendolo uno strumento per quella che chiama “crimmigrazione”, la criminalizzazione dell’immigrazione. Secondo Singler l’uso della tecnologia sostituirebbe gli accordi tra Stati bypassando le decisioni politiche, sollevando i governi da scelte democratiche. In più si teme che possa diventare una tendenza generalizzata, propedeutica ad una applicazione anche in altri campi della vita delle persone travalicando le questioni di sicurezza alle frontiere. Comunque sia la Ue sta puntando forte su questa tecnologia, prova ne è la misura del finanziamento che si aggira sui 4milioni e mezzo di euro e fa parte del più vasto programma Horizon 2020, varato dalla Commissione europea per supportare la ricerca all’interno del vecchio continente. I nuovi lager dei centri per migranti di Ugo Mattei Il Fatto Quotidiano, 6 dicembre 2018 I Cpr sono incostituzionali e vanno chiusi: è un sistema giuridico parallelo, simile all’apartheid. Bisogna fare subito ricorso alla Corte. Diversi esponenti del Pd, incluso e non di rado Marco Minniti predecessore di Matteo Salvini al Viminale, si stracciano le vesti sul decreto Sicurezza che di quest’ultimo è triste vessillo. In realtà le radici della barbarie risalgono a una legge ben precedente, la cosiddetta Turco-Napolitano (1998), che per prima ha introdotto nel nostro diritto positivo l’idea di uno status di illegalità determinante la perdita della libertà personale. Quella breccia in uno dei capisaldi della civiltà giuridica liberale - per cui la libertà può perdersi soltanto a seguito di un fatto di reato, ossia di un comportamento, vale a dire azione dolosa (solo eccezionalmente colposa) lesiva di un bene giuridico protetto dall’ordinamento (vita, salute, proprietà) ha prodotto nel nostro sistema un vero tonfo giuridico, costruendo anche in Italia per i poveri migranti che chiedono aiuto un sistema giuridico parallelo, simile all’apartheid. Incredibilmente, anche in ragione della giurisprudenza della Corte di Strasburgo che legittimala detenzione amministrativa dei migranti, l’apartheid esiste in Europa. Uno dei tratti caratteristici, forse il più odioso di questo regime, su cui è bene riflettere nell’ottantesimo anniversario delle leggi razziali, è la chiusura della giurisdizione per il gruppo sociale sotto attacco, novità introdotta non da Salvini ma da Minniti, il quale ha tolto la possibilità per i richiedenti asilo di appellare le decisioni di diniego. Ho partecipato ieri alla presentazione di un rapporto della Clinica legale su migrazioni e diritti umani, redatto da cinque studenti di atenei piemontesi, intitolato Uscita di emergenza. La Tutela della salute dei trattenuti nel Cpr di Torino e ho provato vergogna come insegnante di Diritto italiano di fronte a giovani che hanno toccato con mano il degrado legale e umano prodotto dai Centri di permanenza per i rimpatri. Qui gli “ospiti” (così ipocritamente sono chiamati gli internati), la cui detenzione ora Salvini ha esteso a sei mesi, ricorrono a ogni espediente spesso autolesionistico (ad esempio, ingoiando lamette da barba) pur di abbandonare la struttura ed essere ricoverati. Non di rado questi sventurati cercano perfino di essere trasferiti in carcere, dove la salute dei detenuti è garantita meglio di quella degli ospiti! Per farla breve, oggi perfino il carcere è più desiderabile del Cpr per questi innocenti. Ancora imbarazzo mi ha creato la banalità del male che il Rapporto evidenziava fra gli operatori di questi lager. Insomma, l’orrore dell’apartheid, detenzione di polizia di innocenti, motivata d a ragioni etniche o razziali, è stato digerito dalla nostra “coscienza civile”. Eppure la Costituzione recita all’articolo 13: “Non è ammessa forma alcuna di detenzione... né qualsiasi altra restrizione della libertà personale se non per atto motivato dall’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”. Ai sensi di questa norma (e di parecchie altre) la questione è chiarissima. I Cpr sono incostituzionali e vanno chiusi. Purtroppo il regime di apartheid preclude agli internati in questi campi di concentramento di adire la Corte costituzionale, perché nessun ricorso incidentale è ragionevolmente possibile. Che fare? Resta nel nostro diritto la possibilità di ricorso diretto alla Corte da parte di Regioni che volessero davvero provare a contrastare il degrado costituzionale di cui il decreto Salvini costituisce l’ultimo atto. Anni fa feci con Lucarelli un simile appello a Vendola, allora presidente della Puglia, per far dichiarare incostituzionale il tentativo di Berlusconi di disfare l’esito referendario. Vincemmo. Voglio ora mettermi di nuovo a disposizione. Ci sarà uno fra i governatori del Pd, giustamente critico per il razzismo di Salvini, che voglia dar seguito all’indignazione con un atto concreto? Come le scorsa volta lavoreremo gratis. Ancora per la Puglia di Emiliano? Migranti. Dopo 18 anni lo Sprar rischia di scomparire. Per gli ospiti futuro irregolare di Adriana Pollice Il Manifesto, 6 dicembre 2018 Le strutture degli Sprar hanno circa 36mila posti letto su scala nazionale e circa 15mila operatori. Sessa Aurunca è un piccolo centro di circa 21mila abitanti del casertano, il primo in Campania a ospitare uno Sprar: Assopace Aurunca Onlus apre i battenti nel 2001 e da allora è considerato un modello da seguire. Alle soglie dei 18 anni di attività, rischia di sparire: il decreto Sicurezza, convertito in legge la scorsa settimana, potrebbe decretarne la fine. “Possiamo ospitare fino a 60 persone - racconta il responsabile della struttura, Michele Calenzo - ma abbiamo scelto di fermarci intorno a 20 perché la zona non è ricca e cerchiamo di non pesare troppo in termini di inserimento lavorativo”. Lo Sprar fitta tre appartamenti, ognuno destinato a un singolo nucleo familiare, più un’abitazione per sei persone, due per stanza. “Attualmente con noi c’è una famiglia del Congo, hanno tre figli: la più grande ha quattro anni e va all’asilo, poi due gemelli di un anno e mezzo, rischiano di finire per strada grazie alla legge voluta da Matteo Salvini”. Il padre lavora in agricoltura ma in nero e perciò non riuscirà a convertire il permesso umanitario in permesso di lavoro: “È impiegato in una piccola azienda - spiega Calenzo, si trova bene ma purtroppo non c’è stata la possibilità di regolarizzarlo. Aveva fatto domanda di rinnovo del permesso di soggiorno prima dell’approvazione della nuova legge e su questo presupposto stiamo provando a opporci per vie legali ma è difficile. Non abbiamo strumenti per impedire di farli finire per strada”. Grazie al Decreto sicurezza la situazione è questa: hanno una carta d’identità ma per affittare casa o stipulare un contratto di lavoro regolari hanno bisogno di un permesso di soggiorno in corso, che non avranno più perché non possono stipulare un contratto di lavoro. Le alternative sono due: finire nell’irregolarità oppure tornare in Congo. “Si tratta di una coppia che è stata almeno un paio d’anni in Libia prima di arrivare in Italia - prosegue Calenzo -, un anno a Padova e dal 2016 a Sessa Aurunca. Mancano dal loro paese da più di sei anni, erano andati via spinti da guerre ed epidemie, dove dovrebbero tornare? Se avessero avuto la possibilità di rinnovare il permesso umanitario ci sarebbe stato il tempo per aiutarli a regolarizzare la posizione lavorativa”. lo Sprar fornisce agli ospiti un buono per fare la spesa così si cucinano da soli nell’appartamento, poi hanno 15 euro di pocket money a settimana e un contributo extra per il vestiario, fanno corsi di italiano per poter prendere la licenzia media ma chi vuole continua. I minori vanno a scuola, gli adulti fanno corsi di inserimento al lavoro che a Sessa ruota intorno alle aziende agricole: pesche d’estate, ulivi, viti e mele d’inverno. “Abbiamo contatti con le aziende più grandi. Non finiscono schiavi nei campi, la maggior parte ottiene un contratto di 7 o 8 mesi e poi prendono la disoccupazione”. Lavorano i commercianti, sono contenti i presidi che hanno nuovi alunni, l’università Orientale manda gli studenti a fare tirocinio come insegnanti. Cosa succederà con il prossimo bando del Viminale? “Finora gli Sprar coprivano circa 36mila posti letto su scala nazionale con circa 15mila operatori impiegati - prosegue, probabilmente scenderemo intorno agli 8mila posti letto con una drastica riduzione del personale occupato. Ci sarà una ricaduta negativa anche per i consulenti. A Sessa Aurunca l’emigrazione è forte, le scuole rischiavano di perdere classi. La comunità ha accolto la struttura con molto affetto, la diffidenza è cominciata da un anno grazie alla propaganda leghista. Speravamo che il presidente Mattarella lunedì non firmasse la legge, adesso non ci resta che fare rete per resistere”. Danimarca. I migranti “indesiderati” confinati su un’isola deserta Corriere della Sera, 6 dicembre 2018 La proposta del Partito popolare: allontanare i richiedenti asilo respinti o delinquenti. La ministra per l’immigrazione Stojberg: “Non li vogliamo e se ne accorgeranno”. La Danimarca vuole confinare su un’isola remota, al largo della costa, i migranti “indesiderati”: richiedenti asilo che sono stati respinti e che hanno commesso crimini. Lo ha annunciato il governo del Paese. Indesiderati - Situata a circa un miglio e mezzo dalla costa, l’isola di Lindholm - che attualmente ospita laboratori, stalle e crematorio di un centro per la ricerca di malattie contagiose degli animali - ospiterà anche coloro che non possono rimanere in Danimarca ma che non possono essere espulsi per motivi legali e si trovano dunque in una sorta di limbo giuridico. “Sono indesiderati in Danimarca e lo sentiranno”, ha scritto su Facebook il ministro per l’immigrazione, Inger Stojberg, 45 anni, stella in ascesa dello schieramento di centrodestra che governa la Danimarca dal 2015. Il Partito anti immigrati - La misura, fortemente criticata dall’opposizione, fa parte dell’accordo di coalizione del governo che include il Partito Popolare Danese (Dansk Folkeparti), dalle posizioni fortemente anti-immigrazione. L’accordo stanzia circa 115 milioni di dollari in quattro anni per le strutture destinate agli immigrati, che dovrebbero aprire sull’isola nel 2021. La formazione politica ha festeggiato l’annuncio pubblicando un cartone animato sui social media in cui si vede un uomo dalla pelle scura, vestito con abiti da musulmano, che viene scaricato su un’isola deserta. “Gli stranieri criminali - si legge nel testo che accompagna il video - non hanno motivo di stare in Danimarca. Finché non riusciremo a liberarcene, li trasferiremo sull’isola di Lindholm”. Le norme - Anche in Danimarca, come in gran parte dell’Europa, l’ondata migratoria da Africa e Medio Oriente ha innescato una reazione populista. I richiedenti asilo con precedenti penali non sono autorizzati a lavorare in Danimarca. Per quanto riguarda il trattamento, i richiedenti asilo rifiutati, che non possono essere espulsi e che non sono autorizzati a lavorare, ricevono sistemazioni (dove non possono preparare i propri pasti) cibo e una franchigia di circa $ 1,20 al giorno, che viene trattenuta se non riescono a cooperare con le autorità. Il rap è russo, ma suona meglio in carcere di Michela Iaccarino Il Fatto Quotidiano, 6 dicembre 2018 “Se gli Usa abbandonano il trattato sui missili a medio raggio, le conseguenze saranno pericolose per l’Europa”, ha detto Valery Gherasimov, capo dello Stato maggiore russo. Putin ripete di nuovo: “Se gli Usa abbandonano il trattato, la Russia sarà costretta a rispondere”. E riarmarsi. Un ultimatum dopo l’altro ai tg russi della nuova Guerra Fredda. Isteria nazionalizzata all’ora di cena a Vesti Nedeli (Notizie della settimana), la trasmissione di Dimitry Kislev, direttore del colosso mediatico cremliniano. Lo chiamano “propagandista capo” ed è anche per questo che nessuno si aspettava che cominciasse, all’improvviso, durante il tg, a rappare. “Ci dicono che il rap è nato in America”, ma è russo e “il precursore è Majakovskij”. Dopo questo annuncio, il sempre gelido e luciferino Kislev, ha cominciato a cantare le poesie del futurista per parlare agli spettatori degli ultimi nemici della società tradizionale slava: i nuovi cattivi maestri della gioventù russa, quelli che con le loro canzoni mettono in dubbio governo, società e censura. In Russia i rapper cominciano a fare più domande dei giornalisti e, uno dopo l’altro, stanno finendo tutti in carcere, in una girandola di rime e manette. L’ultima irruzione dell’Fsb, servizio di sicurezza russo, c’è stata sabato scorso al concerto dei IC3Peak a Novosibirsk.