Consiglio d’Europa, rapporto su situazione negli istituti di pena agensir.it, 5 dicembre 2018 Tra i problemi rilevati i suicidi in prigione. I Paesi dove i detenuti restano più a lungo in prigione sono la Turchia, quasi 30 mesi, il Portogallo (31) e la Romania (37). Dove si sta meno in carcere è la Svizzera (1 mese e 6 giorni), la Svezia e la Scozia. In tredici Paesi il soggiorno medio supera i 10 mesi (va notato che in questa sezione mancano i dati di alcuni Paesi, ad esempio la Russia). È il rapporto del Consiglio d’Europa “Prigioni in Europa 2005-2015” a tracciare il profilo della situazione carceraria nei 47 Paesi membri. Il problema del sovraffollamento carcerario è presente in 15 Paesi: dalla Repubblica Ceca, dove i detenuti sono 100,4 su 100 posti, alla Macedonia dove sono 138, passando per l’Italia, con 105 detenuti per 100 posti, ma anche ad esempio Austria, Slovenia, Portogallo Grecia, Albania, Ungheria vivono lo stesso problema. Quanto al dato sull’età media della popolazione carceraria, si va dall’Albania, che ha i detenuti più giovani (28 anni), alla Lettonia, (40 anni), preceduta dall’Italia, la Spagna, il Portogallo. La percentuale di donne in carcere è in generale molto bassa: resta al di sotto del 10% in 44 Paesi. Solo a Monaco, Liechtenstein e Andorra, sale rispettivamente al 10, 12 e 21%. Il dato sulle morti in carcere dice invece che su 10mila detenuti, ne muoiono 95 in Armenia, che è il Paese in cima a questa classifica, preceduto da Ucraina (65), Moldavia (62), Russia, (61) Serbia (59). A Cipro i suoi 44 detenuti morti nel 2015 sono stati tutti suicidi così come i 16 in Norvegia. Quanto invece al rapporto tra detenuti e agenti, c’è un rapporto uno a uno in Irlanda, Norvegia e Serbia, mentre poi il rapporto si sposta e aumenta il numero di detenuti per guardia carceraria fino a 4 a uno della Macedonia. Il dato sulla spesa quotidiana per detenuto, dice che a San Marino si spendono 480 euro al giorno, in Norvegia 348, in Svezia 345, nei Paesi Bassi 273, in Danimarca 191, in Italia 141. Chi spende meno per i detenuti sono l’Ucraina (2,7 euro al giorno), la Georgia (5,7) la Croazia (7,3). Sovraffollamento, nel 2015 il trend era in discesa di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 dicembre 2018 Pubblicati i dati della ricerca “Space” del Consiglio d’Europa. il Garante: “si certifica che provvedimenti adottati dopo la sentenza Torreggiani avevano dato i loro frutti”. La ricerca Space del Consiglio d’Europa ha registrato i dati sulla popolazione carceraria in tutta Europa dal 2005 al 2015. Il rapporto è stato preparato dall’Università di Losanna e cofinanziato dall’Unione europea e dal Consiglio d’Europa. C’è anche il profilo del nostro sistema penitenziario con numeri, rispetto a quelli attuali, decisamente positivi. Il Garante nazionale delle persone private della libertà, tramite un comunicato spiega che tale ricerca non fotografa l’attualità, “ma esamina tendenze complessive in modo da fornire ai Paesi membri uno strumento per indirizzare le politiche che essi poi autonomamente adotteranno”. Per questo motivo i dati hanno sempre uno scarto temporale rispetto al presente, tanto che quelli di oggi sono aggiornati a due anni fa. Per quanto riguarda l’Italia, la ricerca “certifica che provvedimenti adottati dopo la sentenza Torreggiani contro Italia per violazione dell’articolo 3 della Cedu - spiega il Garante, avevano dato i loro frutti, anche perché sostenuti da una cultura politica, giuridica e anche, quindi, sociale, che ha funzionato come supporto. Parallelamente - lo sappiamo da altri dati - nello stesso periodo considerato non vi è stato alcun aumento della criminalità”. Il Garante nazionale sottolinea che i dati aggiornati a oggi “che se non indicano un numero di persone detenute alto come nel periodo coperto da quella sentenza tuttavia ci dicono che siamo arrivati nuovamente al tetto di 60mila), mostrano invece che se si abbandona quella cultura e non si prendono provvedimenti di altro tipo, si corre il rischio di fare un brutto tuffo nel passato”. Dallo studio emerge che tra il 2005 e il 2015 l’Italia ha visto diminuire il numero di detenuti, grazie in particolare, ad alcune leggi, tra cui “una delle più importanti - spiega Marcelo Aebi, direttore della ricerca commissionata dal Consiglio d’Europa e l’Unione europea - è stata la n. 67 del 28 aprile 2014, che ha introdotto la messa alla prova”. Dallo studio emerge anche - sempre fino al 2015 - che è diminuito il numero dei decessi per ogni 10mila carcerati (41%) e quello dei suicidi, 17%, che tuttavia è invece aumentato del 40% tra coloro che sono in detenzione preventiva. Oggi, invece, i numeri sono aumentati, sfondando il tetto dei 60.000 detenuti e con un aumento dei suicidi. Il Garante nazionale spiega che dopo il comunicato sulla pubblicazione della ricerca, si sono scatenate subito molte polemiche: c’è chi tende ad affermare che tutto va bene perché lo certifica l’Europa e c’è chi tende a dire che i dati sono sbagliati o addirittura “fraudolenti”. “Questi detrattori, per inciso, conclude il Garante - sono gli stessi che nel 2015 mostravano alta considerazione proprio verso i dati Space - che essendo aggiornati a due anni prima non potevano includere un’analisi degli effetti dei nuovi decreti - per sostenere che i provvedimenti che si stavano adottando erano inutili. In casi come questi si ha la sensazione di un uso bassamente strumentale di dati scientifici. Sarebbe bene invece mostrare di sapere affrontare problemi complessi - quale è quello della risposta alla commissione di un reato - senza rincorrere un facile quanto effimero consenso”. Rischio ingorgo: tempi stretti per il Ddl anticorruzione di Manuela Perrone Il Sole 24 Ore, 5 dicembre 2018 La finestra per approvare il disegno di legge anticorruzione in Senato è stretta. Anzi, strettissima: due soli giorni, i113 e il 14 dicembre, come ha stabilito ieri la Conferenza dei capigruppo e comunicato il capogruppo della Lega, Massimiliano Romeo. Quarantotto ore in piena sessione di bilancio, slittata a lunedì. Una deroga possibile per i provvedimenti che non comportano oneri finanziari. “Sono due giorni e dovremo farceli bastare”, commentano dall’entourage del ministro dei Rapporti con il Parlamento, Riccardo Fraccaro. Ben consapevole, come il Guardasigilli Alfonso Bonafede, che anche un solo giorno di ritardo farebbe sballare l’intera tabella di marcia e mancare l’obiettivo dichiarato del M5S: varare definitivamente il provvedimento entro Natale. L’emendamento che cancella la norma sul peculato introdotta alla Camera (un salvacondotto per alcuni esponenti di primo piano della Lega) è stato presentato in commissione Giustizia conia firma del capogruppo del Movimento, Stefano Patuanelli. “Contiamo di approvarlo entro questa settimana”, afferma la senatrice Alessandra Riccardi. Che non teme slealtà da parte del Carroccio, nonostante i malumori sottotraccia: “La capigruppo ha deciso e non ci aspettiamo sorprese. È una normativa che l’Italia aspetta dai tempi di Mani Pulite. Combattere la corruzione significa combattere un reato che sfalsa l’economia. Vogliamo che sia in vigore da gennaio”. Dalla Lega il presidente della commissione Giustizia, Andrea Ostellari, conferma: “Oggi sono stati illustrati i circa 240 emendamenti. Noi nonne abbiamo presentato nessuno. Manteniamo la linea concordata per approvare il testo entro venerdì 14”. Se il patto di maggioranza tenesse senza incidenti di percorso, il Ddl dovrebbe dunque tornare alla Camera per il disco verde definitivo la settimana successiva. Un passaggio rapidissimo, nelle intenzioni dei Cinque Stelle. Che sanno però come dall’iter della manovra, che al Senato potrebbe raccogliere gli emendamenti più attesi (quelli su quota 100 e reddito di cittadinanza, ma anche su questo non c’è accordo), dipenda a cascata tutto l’incastro. Il rischio ingorgo c’è, ma nessuno si spinge a dirlo: Le incognite sono anche altre: a Montecitorio dovrebbe passare in via definitiva il decreto fiscale, nonostante l’auspicio di una terza lettura da parte di chi, nella Lega, confida ancora che possa recepire il saldo e stralcio delle cartelle esattoriali. “Si dovrebbe chiudere così”, sostiene però la presidente della commissione Finanze, Carla Ruocco. Subito dopo, intorno al 20-21, in Aula potrebbe arrivare il disegno di legge costituzionale Fraccaro sul referendum propositivo. Così come, al Senato, potrebbe giungere l’altro ddl costituzionale del M5S, quello sulla riduzione del numero dei parlamentari. Senza contare che in Parlamento dovranno sbarcare anche i due provvedimenti che il Consiglio dei ministri si appresta a licenziare in settimana: il decreto semplificazioni e il Ddl delega sugli appalti. Altri tasselli importanti che il Governo gialloverde mette sul tavolo del confronto con l’Ue per sventare la procedura d’infrazione. “Dosare bene sicurezza e diritti, è questa la sfida della politica” di Giulia Merlo Il Dubbio, 5 dicembre 2018 Intervista al presidente del Cnf Andrea Mascherin. Le manovre di breve respiro in materia di giustizia non servono. A lanciare l’avvertimento al Ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, è il presidente del Consiglio Nazionale Forense, Andrea Mascherin, in una lunga intervista all’Adnkronos. “Bisogna lavorare a manovre a lunghissima prospettiva, in tema di giustizia come di sanità, di infrastrutture o di tutela del patrimonio culturale e dell’ambiente”, ha detto Mascherin, che ha poi lanciato a tutto l’arco parlamentare l’ipotesi di “costituire una sorta di assemblea dell’economia che duri nel tempo” perché, “se si va avanti con manovre dal respiro corto e oggetto di conflittualità quotidiana tra maggioranza e opposizione, si andrà poco lontano”. Investimenti - Il presidente del Cnf ha affrontato tutti i temi all’ordine del giorno in materia di giustizia, a partire dai 500 milioni di risorse previsti per il sistema giustizia dal Guardasigilli Bonafede. “Sono qualcosa - ha concesso Mascherin - ma sono pochi”. L’elenco delle necessità, del resto, è molto lunga: “Bisogna investire in personale amministrativo, organici, tecnologie, edilizia giudiziaria”. Insomma, inutile ragionare di migliorie al sistema, se prima non si investono risorse sufficienti: “Finché non si rende efficiente il meccanismo, interventi a costo zero sono annunci destinati al fallimento”. Decreto sicurezza - Dalla manovra economica al dl Sicurezza, Mascherin ha analizzato il contenuto del decreto al centro del dibattito e della polemica politica. “La legge presenta alcune criticità di costituzionalità, come rilevato anche dal Consiglio superiore della magistratura”, è il primo rilievo di carattere generale. “Detto questo, un approccio più rigoroso e severo è legittimo”, ha spiegato il presidente, “ma quando si alza la soglia della severità e del rigore bisogna parallelamente alzare le garanzie, e in questo caso specifico gli strumenti di integrazione”. In altre parole, a fronte degli strumenti di repressione, è necessario individuare strumenti che favoriscano l’individuazione di un punto di incontro culturale e di convivenza pacifica. Nel merito, “La prima parte, quella sul versante del rigore, c’è. Pertanto, serve un bilanciamento”, ha spiegato Mascherin, il quale però ha anche ricordato che norme complesse come quelle contenute nel decreto Sicurezza richiedono, prima di poter parlare dei loro effetti, uno “studio di impatto, che in questo caso non è ancora possibile”. Legittima difesa - La legittima difesa “non è la risposta all’esigenza di sicurezza dei cittadini”, ma piuttosto “il fallimento dello Stato che non è in grado di difendere il cittadino e lo arma, o comunque lo predispone culturalmente all’uso dell’arma”. Una bocciatura decisa, quella di Mascherin, alla proposta di legge in materia di legittima difesa. L’istituto è stato spesso citato, chiedendone la riforma, da parte del vicepremier Matteo Salvini. Mascherin ha ricordato che le proposte avanzate, in particolare quella che ipotizza di introdurre il “grave turbamento” tra le cause che giustificano la legittima difesa, “rischiano di complicare l’attività del giudice, prevedendo un’attenzione alla psiche umana, che non è mai semplice”. Poi, a smentire allarmismi mediatici ingiustificati, ha chiarito che, anche in caso di riforma della legittima difesa, “ci sarà sempre un’indagine a carico di chi ha esercitato la legittima difesa” e quindi “sarà sempre necessario un accertamento della dinamica dei fatti”. In caso contrario, avverte il presidente del Cnf, “se si creassero automatismi, si violerebbe il principio della separazione dei poteri perché si andrebbero a costruire leggi che si sostituiscono al libero convincimento del giudice”. La tesi di Mascherin è che “come il giudice con le sentenze non può andare oltre un certo limite e non può sostituirsi al legislatore; così il legislatore non può sostituirsi al giudice, ponendo degli automatismi”. Non solo, il presidente del Cnf adombra anche rischi di incostituzionalità, in caso dell’introduzione di automatismi: “Si verificherebbe la violazione del principio di uguaglianza, perché con gli automatismi si tratterebbero alla stessa maniera fatti diversi tra loro”. In sintesi, il presidente del Cnf rinvia considerazioni di dettagli a quando la riforma della legittima difesa assumerà contorni più strutturati: “Allora sarà necessario prevedere che il giudice possa muoversi caso concreto per caso concreto, senza automatismi”. Diritti umani - Andrea Mascherin ha infine ribadito l’importanza di non abdicare al rispetto dei diritti umani fondamentali sanciti dalla Costituzione, soprattutto quando sull’altro piatto della bilancia ci sono interessi di natura economica. Per farlo, ha citato due casi di cronaca internazionale che tutt’ora rimangono aperti: quello dei due marò in India e della morte ancora senza colpevoli del ricercatore Giulio Regeni, in Egitto. “Se sui diritti umani fondamentali prevalgono gli interessi economici di uno Stato, come è avvenuto per i marò e come probabilmente finora è accaduto per Giulio Regeni, se non si privilegia la tutela dei diritti umani rispetto a quella degli interessi economici, non si arriva alla verità”, ha ammonito il presidente del Consiglio Nazionale Forense. Proprio sul caso di Giulio Regeni, la rappresentanza istituzionale dell’avvocatura si è spesa in diverse occasioni, per chiedere con forza il rispetto del diritto: da ultimo, quando le autorità egiziane hanno arrestato la moglie del direttore dell’organizzazione di cui fanno parte i legali della famiglia di Giulio Regeni in Egitto. La Cassazione sul diritto alla socialità del detenuto in regime di 41bis di Alessio Scarcella quotidianogiuridico.it, 5 dicembre 2018 “Va valutato anche al momento della decisione del giudice”. In tema di detenzione in regime speciale di carcere duro, previsto dall’art. 41 bis, legge n. 354 del 1975, il diritto delle persone, sottoposte al predetto regime, di trascorrere all’aria aperta non più di due ore in gruppi non superiori alle quattro persone, presuppone che l’attualità del pregiudizio al diritto soggettivo del detenuto debba essere valutata tanto al momento della proposizione del reclamo al magistrato di sorveglianza quanto a quello della decisione sul merito di tale atto introduttivo del procedimento camerale, ciò al fine di consentire, in caso di fondatezza del reclamo, al giudice di ordinare all’amministrazione penitenziaria di porre rimedio alla violazione mediante specifiche prescrizioni suscettibili di esecuzione, eventualmente mediante lo specifico giudizio di ottemperanza previsto dall’art. 35-bis, commi 5, 6 e 7, ord. pen. (Cassazione penale, sezione I, sentenza 15 novembre 2018, n. 51627) Solo illecito amministrativo per il parcheggiatore abusivo di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 5 dicembre 2018 L’attività di parcheggiatore abusivo è sanzionata in via amministrativa. E il giudice non può dunque far scattare una misura di custodia. La Corte di cassazione, con la sentenza 54155, accoglie il ricorso contro la decisione di contestare la contravvenzione al foglio di via obbligatorio, prevista dal Codice antimafia (Dlgs 159/2011), esprimendo un giudizio di pericolosità, basato sulla sola attività di parcheggiatore abusivo svolta dal ricorrente. La Cassazione ricorda che il giudice penale può disapplicare il provvedimento amministrativo motivato solo da illazioni, congetture o meri sospetti e sulla astratta possibilità che vengano commessi delitti. L’ordine, la cui violazione ha come conseguenza un illecito penale, deve, infatti, essere fondato su indizi da cui desumere che il destinatario rientri tra le categorie di persone ritenute abitualmente pericolose (articolo 1 legge 1423/1956) secondo argomentazioni fondate su elementi di fatto. Tra questi non può rientrare il “lavoro” di parcheggiatore abusivo che non è un reato ma un illecito amministrativo, previsto dal Codice della strada (articolo 7, comma 15-bis. Né, come nel caso esaminato, il provvedimento del questore, può essere supportato da considerazioni circa l’eventuale reato di estorsione, conseguenza del “pretendere” denaro dagli automobilisti. Espressione che, in assenza di chiarimenti utili ad accreditare la tesi di una condotta marcatamente intimidatoria, non può essere interpretata come rientrante nel reato previsto dall’articolo 629 del Codice penale, quando potrebbe essere compresa nei confini della richiesta semplicemente insistente o petulante. L’asse portante del provvedimento del questore, per giustificare la pericolosità sociale, dunque non regge. E il provvedimento avrebbe dovuto essere disapplicato dai giudici di merito. La Cassazione annulla senza rinvio perché il fatto, privo del presupposto, non sussiste. Sull’attività di parcheggiatore abusivo, proprio ieri, è entrata in vigore una modifica introdotta dal decreto sicurezza: ora le sanzioni penali scattano solo in caso di recidiva (si veda il Sole 24 Ore del 4 dicembre). Torino: detenuto al 41 bis muore appena arrivato dal carcere di Parma di Erica Di Blasi La Repubblica, 5 dicembre 2018 L’uomo aveva 38 anni, aperta un’inchiesta per capire se fosse in condizioni compatibili col viaggio. Un detenuto è morto ieri pomeriggio mentre lo trasferivano da Parma a Torino in ambulanza. L’uomo è stato colto da un arresto cardiaco poco dopo il suo arrivo nel capoluogo piemontese. Poco prima di essere trasferito era stato dimesso dall’ospedale parmense. Sull’accaduto è stata aperta un’inchiesta. Il detenuto, Michele Pepe, 48 anni, era un esponente di spicco della camorra. Resta da capire se fosse o meno nelle condizioni di essere trasferito visti i suoi gravi problemi di obesità. Era in carcere con il regime del 41 bis. Nei prossimi giorni, per accertare la causa del decesso, sarà fatta l’autopsia. Parma: un Polo Universitario per i detenuti in regime di alta sicurezza Gazzetta di Parma, 5 dicembre 2018 Nascerà a Parma il “Polo Universitario Penitenziario (Pup)”, oggetto dell’accordo tra Università e Istituti Penitenziari di Parma presentato oggi in Ateneo. Il Pup è un contesto di studio istituito al fine di agevolare l’accesso dei detenuti ai corsi universitari e rimuovere gli ostacoli che ne possono rallentare il percorso di studi. Quello di Parma sarà il primo Polo Universitario Penitenziario ad accogliere detenuti in regime di alta sicurezza (1 e 3): sarà organizzata una vera e propria “Sezione Universitaria”, che ospiterà detenuti iscritti all’Università di Parma con spazi detentivi idonei allo studio. Sono intervenuti alla presentazione dell’accordo il Rettore Paolo Andrei, il Vice Capo Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Riccardo Turrini Vita, il Provveditore dell’Amministrazione penitenziaria per Emilia Romagna e Marche Gloria Manzelli, il Direttore degli Istituti Penitenziari di Parma Carlo Berdini, il Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Bologna Antonietta Fiorillo, la Delegata del Rettore per i rapporti tra Università e carcere Vincenza Pellegrino, la docente di Diritto Costituzionale dell’Ateneo Veronica Valenti e Annalisa Andreetti, Responsabile amministrativa dell’Ateneo per le attività negli Istituti Penitenziari. Il Pup di Parma si inserisce all’interno della rete dei 27 Poli già esistenti in altri atenei italiani che, seguendo l’esempio dell’Università di Torino, negli anni hanno avviato progetti analoghi per garantire il diritto allo studio universitario a studenti detenuti e oggi sono riuniti in una Conferenza nazionale (la Conferenza Nazionale dei Delegati dei Rettori per i Poli Universitari Penitenziari - Cnupp), istituita presso la Crui. La specificità del Polo Universitario di Parma è quella di accogliere studenti detenuti in regime di alta sicurezza, presentandosi quindi come una sfida particolare nel panorama nazionale. Oltre agli esami, alle sedute di laurea e agli incontri con i docenti, all’interno dell’Istituto Penitenziario si terranno incontri di orientamento e brevi cicli di lezioni in presenza di studenti detenuti e non, sempre nel pieno rispetto delle condizioni che permettano la sorveglianza. Per accompagnare gli studenti-detenuti nel percorso di studio e assisterli nell’espletamento di tutte le attività connesse alla carriera universitaria, è infine prevista la presenza di tutor, studenti iscritti all’Università alle lauree magistrali o a Corsi di Dottorato. L’Università di Parma ha individuato quale referente docente del polo universitario la prof.ssa Vincenza Pellegrino e quale referente amministrativo del progetto la dott.ssa Annalisa Andreetti. Questa mattina sono state illustrate anche le attività culturali congiunte di Ateneo e Istituti Penitenziari di Parma, alcune delle quali sono concluse o in corso mentre altre avranno luogo nei prossimi mesi. Tali iniziative hanno il fine di sensibilizzare docenti, studenti e cittadini rispetto alla realtà carceraria e alle attività di riflessione e formazione che vi si svolgono, in modo che il Polo Universitario Penitenziario possa esercitare una vera e propria funzione di collegamento tra città e carcere. Roma: la Sindaca Raggi “in arrivo altri 24 detenuti volontari del verde” Il Messaggero, 5 dicembre 2018 In arrivo altri 24 detenuti volontari del verde. Lo annuncia la sindaca Raggi su Facebook. “Un detenuto, dopo essere stato opportunamente formato, può partecipare al miglioramento della nostra comunità. L’inserimento lavorativo attraverso progetti di pubblica utilità svolge infatti un ruolo importante per la rieducazione e il reinserimento, contribuendo a trasmettere speranza per la costruzione di una nuova vita fuori dal carcere. In quest’ottica prosegue a pieno ritmo l’iniziativa “Mi riscatto per Roma”. Hanno terminato oggi il percorso di formazione e le esercitazioni di giardinaggio i 24 detenuti, volontari del verde, che si aggiungono a quelli già inseriti nel progetto. Un percorso reso possibile grazie alla sottoscrizione del protocollo d’intesa tra Roma Capitale, Ministero della Giustizia e Dipartimento Amministrazione Penitenziaria”. “I nuovi volontari saranno presto all’opera nei quartieri della Capitale per pulire e manutenere le aree verdi, affiancati dagli operatori del Servizio Giardini del Dipartimento Tutela Ambientale - prosegue Raggi - Nei mesi scorsi il precedente gruppo intervenuto a Colle Oppio e a Villa Ada, al Gianicolo e nella pineta di Castel Fusano, lungo la pista ciclabile di Ponte Milvio ed in molte aree verdi del IX Municipio”. Parma: reinserire i detenuti nella società attraverso il volontariato di Giovanna Triolo parmareport.it, 5 dicembre 2018 Un progetto nato dalla collaborazione fra Comune, Istituti Penitenziari e l’associazione Svoltare Onlus. Reinserire i detenuti nella società. È questo l’obiettivo del progetto nato dalla collaborazione tra Comune di Parma, Istituti Penitenziari e l’associazione di volontariato Svoltare Onlus. Una serie di attività laboratoriali rivolte a chi è in carcere. Il progetto avrà un costo annuo di 170 mila euro, di cui 100 mila messe a disposizione dal Comune e 70 mila dalla Regione. “Presentiamo un progetto per dare avvio ad attività di volontariato per detenuti con lavori socialmente utili, nell’ambito di un’ampia progettualità portata avanti dall’assessorato al welfare del Comune di Parma - ha spiegato l’assessore al welfare, Laura Rossi”. Il Sindaco, Federico Pizzarotti, ha ricordato come l’Amministrazione abbia accolto con slancio la proposta di sottoscrizione del protocollo per le finalità nobili che promuove in quanto permette ai detenuti di svolgere attività utili per la collettività. L’accordo fra Comune di Parma e Istituti Penitenziari rimarrà in vigore fino al 2020. I detenuti verranno coinvolti in attività di volontariato organizzate dal Comune, al fine di responsabilizzarli in azioni di utilità sociale e favorirne il reinserimento nella collettività. Rovigo: presentazione del libro “Basta dolore e odio, No Prison” Ristretti Orizzonti, 5 dicembre 2018 La sala convegni di Palazzo Roncale a Rovigo ospita venerdì 14 dicembre alle ore 17,30 la presentazione del libro “Basta dolore e odio, No Prison” dell’editore Apogeo, di cui ne discuteranno Livio Ferrari, direttore del Centro Francescano di Ascolto, e Giuseppe Mosconi, professore di sociologia del diritto all’Università di Padova, un volume che argomenta a più voci un secco no al carcere, quella gabbia per esseri umani istituzionalizzata in risposta a reali o supposte violazioni del contratto sociale. Il tutto nasce dal manifesto “No Prison”, scritto da Livio Ferrari e Massimo Pavarini, che vuole abbattere i muri di luoghi che producono dolore e morte nei confronti di donne e uomini che vi sono rinchiusi. Un manifesto di venti punti scritti per alimentare un percorso di liberazione, prima di tutto culturale, perché le carceri vanno chiuse, riducendo all’osso il numero di coloro che, in casi di reale pericolosità, vanno contenuti in luoghi di “non libertà”, il minimo indispensabile e comunque nel rispetto dei diritti delle persone coinvolte. Il carcere come sanzione, storicamente nato dalla fusione di filosofie liberali ed istanze economiche e di controllo della marginalità sociale, ha definitivamente dimostrato il completo fallimento delle sue finalità fondative, riducendosi, in massima parte, a mero strumento di contenimento di masse di soggetti precarizzati e disagiati, nonché a pretesto di retoriche di allarme sociale, strumentali a politiche di controllo e di organizzazione del consenso. “Troppi interessi - afferma Livio Ferrari - tengono in piedi questo carrozzone della cattiveria umana, mentre è fondamentale far soffiare il vento della pace anche dentro ai fallimenti e agli errori delle persone, per produrre tutta una serie di interventi che ripuliscano la storia degli esseri umani da secoli di odio e di sottomissione, che per molti, anche a loro insaputa, si è sedimentato nei cuori e nelle scelte conseguenti. Dobbiamo liberarci della patina patibolare nella quale, ad ogni occasione, siamo pronti a voler rinchiudere ogni autore di reato, motivati dall’idea vendicativa di ridare “male per male”. “No Prison” desidera diventare un punto di partenza per azioni socialmente riconcilianti verso un universo umano che crea e subisce dolore, per affermare il principio del cambiamento, della compensazione dei danni e della ricostruzione dei legami sociali, per promuovere una società che parli la lingua della pace”. Nel volume, oltre al manifesto “No Prison” scritto da Livio Ferrari e Massimo Pavarini, si trovano una serie di capitoli scritti da: Stefano Anastasia, Deborah H. Drake, Johannes Feest, Livio Ferrari, Ricardo Genelhu, Hedda Giertsen, Thomas Mathiesen, Giuseppe Mosconi, Massimo Pavarini, Gwenola Ricordeau, Vincenzo Ruggiero, Simone Santorso, Sebastian Scheerer, David Scott. Rimini: venerdì Mattarella al 50esimo della Comunità Papa Giovanni chiamamicitta.it, 5 dicembre 2018 L’Associazione Papa Giovanni XXIII, fondata da don Oreste Benzi, celebra 50 anni di vita. L’evento si terrà il 7 dicembre dalle ore 9.00 alle 12.30 a Rimini, città da cui tutto ebbe inizio nel 1968, presso il Palacongressi. Alla celebrazione sarà presente il Presidente della Repubblica. È confermata la partecipazione di 7000 persone tra ospiti, giovani studenti e appartenenti alla Comunità provenienti da tutta Italia e dall’estero. Per l’occasione verrà proiettato il film “Solo cose belle”, una commedia sulla vita in una casa famiglia della Papa Giovanni XXIII. Il Presidente Mattarella in casa famiglia. Il Presidente della Repubblica dapprima incontrerà una casa famiglia dell’associazione. Quindi andrà in visita privata alla casa parrocchiale della Grotta Rossa dove ha vissuto don Oreste Benzi, il fondatore della Comunità Papa Giovanni XXIII, morto nel 2007. Infine raggiungerà il Palacongressi della città romagnola dove potrà ascoltare quattro testimonianze: un ragazzo disabile accolto in casa famiglia, una ragazza liberata dalla schiavitù della prostituzione, una giovane impegnata all’estero nel corpo di pace dell’associazione ed un detenuto che espia la pena con misura alternativa al carcere. Giovanni Paolo Ramonda, successore di don Benzi alla guida dell’associazione, porterà i saluti a nome della Comunità. L’evento si concluderà con il saluto del Presidente Mattarella. La Papa Giovanni XXIII. La Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata da don Oreste Benzi, è formata da persone che condividono ogni giorno la propria vita con gli ultimi: persone con disabilità, bambini abbandonati, anziani soli, tossicodipendenti, prostitute, senza fissa dimora, profughi, mamme in difficoltà, carcerati. Opera attraverso 500 realtà di accoglienza in Italia ed in più di 40 paesi nei 5 continenti. La casa famiglia. La casa famiglia è l’intuizione più profonda di don Oreste Benzi. Si caratterizza per la presenza di un papà ed una mamma. Non operatori in strutture residenziali ma strutture affettive. Una vera famiglia, in cui si vive 24 ore su 24, 365 giorni all’anno. Non un’occupazione lavorativa ma una scelta di vita. Persone che aprono le porte di casa per dare una famiglia a chi non ce l’ha. In esse c’è posto per tutti: minori, disabili, anziani, italiani o stranieri e chiunque cerchi un punto fermo da cui ripartire, una famiglia in cui ritrovarsi. Oggi la Papa Giovanni XXIII conta 201 case famiglia in Italia, in cui sono accolte 1283 persone, e 50 case famiglia all’estero. La nascita della Comunità. Settembre 1968, Don Oreste Benzi, un sacerdote di Rimini, decide di organizzare sulle vette delle Dolomiti una vacanza speciale: un campeggio per ragazzi “spastici”- allora si diceva così - accompagnati da giovani volontari. Si tratta di una vera e propria rottura con l’assetto sociale: all’epoca non esisteva il concetto di “integrazione”, la disabilità era un tabù, una vergogna. Faceva paura. Nasce così la Comunità Papa Giovanni XXIII. Un gruppo di giovani desiderosi di vivere la giustizia attraverso la condivisione della vita direttamente con gli ultimi, guidati da un prete, Don Oreste Benzi, che si faceva interprete dell’impetuoso vento del Concilio Vaticano II, che aveva dato alla Chiesa un nuovo spirito dopo che per secoli si era basata sugli ordini religiosi costituiti da consacrati. Rieti: 17 detenuti ottengono la qualifica di “Operatore di panificio e pastificio” Il Messaggero, 5 dicembre 2018 Sono i detenuti della casa circondariale di Vaziai protagonisti dell’ultima iniziativa realizzata dall’Istituzione formativa di Rieti: 17 studenti hanno conseguito la qualifica professionale di operatore di panificio e pastificio dopo aver sostenuto l’esame e dopo mesi di orientamento, formazione, stage e accompagnamento in uscita. Da metà gennaio sono stati protagonisti del progetto POI - partecipazione, occupazione e integrazione, un percorso finanziato dalla Regione Lazio, grazie a cui sono stati formati per poter esercitare in futuro una professione nella lavorazione di pane, prodotti da forno, pizza e pasta. Una scommessa per offrire a chi ha sbagliato strada la possibilità di rimettersi in gioco, una concreta occasione di ampliare le opportunità occupazionali dei partecipanti, attraverso il conseguimento di una qualifica professionale immediatamente spendibile, in termini di avvio di rapporti di lavoro dipendente, di attività autonome o in cooperativa. “Sono molto soddisfatta del risultato conseguito dagli allievi dai loro insegnanti, dai tutor e dal personale amministrativo che ha seguito il progetto con determinazione, competenza e anche molto affetto - ha commentato la Presidente dell’Istituzione Formativa Licia Alonzi - L’opportunità è stata data a persone che stanno scontando una pena e forse non si aspettavano di poter fruire di una occasione per guardare al futuro con più ottimismo. Si nasce da una madre, ma si può “rinascere” se la persona che ha sbagliato, e alla quale viene offerta una opportunità, la sa cogliere”. L’attività è stata interamente realizzata all’interno del carcere, con un’opportuna pianificazione dei tempi e degli spazi di lavoro. La cucina, dotata di tutte le opportune attrezzature, è stata sede sia delle attività laboratoriali nella fase di formazione, sia dello stage, periodo durante il quale gli allievi sono stati seguiti da tutor aziendali, esperti nelle specifiche tipologie di prodotto, che li hanno supportati nella realizzazione di tutto il processo di lavoro, dall’impasto alla cottura. Offrire una reale possibilità di inclusione e risocializzazione, rappresenta dunque una concreta strategia per la riduzione e la prevenzione dello svantaggio sociale entro il quale si ascrive la popolazione dei detenuti. Genova: arte, letteratura e carcere, un convegno da oggi a venerdì di Elisa Bricco* Il Secolo XIX, 5 dicembre 2018 Il convegno “Da dietro le sbarre”, si tiene oggi e domani alla Scuola di Scienze Umanistiche, via Balbi 2, e venerdì in piazza Santa Sabina 2. L’esperienza della reclusione è una delle problematiche più sensibili nella società contemporanea: l’interrogazione sull’opportunità dell’incarcerazione come pena e sulle modalità del reinserimento sociale degli ex carcerati sono solo alcuni dei temi che affiorano nei media, molto meno conosciamo della realtà della detenzione e delle implicazioni personali e soggettive che comporta una tale esperienza, sia per i carcerati sia per coloro che lavorano all’interno delle carceri. L’esperienza della prigionia è oggetto di racconto sin dall’antichità - basti pensare al “De philosophiae consolatione” scritto da Boezio nel carcere di Pavia nel VI secolo - senza soluzione di continuità fino all’epoca contemporanea: da Silvio Pellico a Gramsci, Dostoevskij e Wilde per citare solo qualche nome illustre. Un primo sguardo panoramico sulla produzione letteraria e il carcere è stato pubblicato nel 1946 da Isidore Abramowitz, “The Great Prisoners”. Un convegno internazionale organizzato dal Dipartimento di Lingue e Culture Moderne dell’Università di Genova intende illustrare, da oggi a venerdì, la relazione tra la creazione artistica e letteraria e il carcere dall’Ottocento ai nostri giorni. Nei diversi interventi di sociologi, architetti, artisti e scrittori, critici e universitari, direttori di case circondariali, registi teatrali saranno prese in esame opere letterarie, di memorialistica o di finzione, ma anche cinematografiche, di arte visuale e le diverse iniziative culturali ideate e sviluppate all’interno delle carceri e all’esterno in collaborazione con esse si parlerà delle esperienze e degli scritti autobiografici di autori quali Luandino Vieira (Angola), José Craveirin (Mozambico), Zakaria Tamert (Siria), Nazim Hikmet (Turchia), Bori - slavPekic (Serbia), Vaclav Havel (Repubblica Ceca), e di altri autori brasiliani, francesi, olandesi, russi, tedeschi e italiani naturalmente. L’approccio tematico trasversale permetterà di proporre approfondimenti sulla realtà carceraria vissuta in prima persona sia dai carcerati sia dalle persone che lavorano in carcere. *L’autrice e docente all’Università di Genova Milano: tra i detenuti di San Vittore “Pereira, possiamo venire alla Scala?” di Annarita Briganti La Repubblica, 5 dicembre 2018 I detenuti in attesa di giudizio non possono fare le foto con Alexander Pereira, mentre quelli condannati sì. Benvenuti a San Vittore, dove venerdì va in scena l’altra Prima. Quella in tuta e scarpe da ginnastica, quella degli italiani che spiegano cosa stia succedendo alle persone di origini straniere, delle detenute che fanno ciao con la mano. Il Sovrintendente della Scala, austriaco, spiega il senso di Attila. “È un’opera sulla vendemmia”, afferma, e i quaranta presenti lo correggono in coro: “vendetta. Si dice vendetta”. “Verdi tifava per l’Italia, che soffre ma alla fine vince, come sempre. Il cast è eccezionale. La protagonista femminile non è giovane, ma neanche vecchia. Comunque, è un nome nuovo. Il regista, figlio di un fantino inglese, è uno dei migliori in giro. La regia televisiva è stata curata ancora di più degli altri anni”, aggiunge Pereira, che li aspetta alla Prima, seppure mediata, vista dalla “popolazione carceraria”, come chiamano i detenuti all’interno della struttura, grazie alla diretta su Rail, nella rotonda dove ci sono i cancelli di accesso ai raggi dal III al VI. “Quando cantano, si capisce quello che dicono?”, un uomo, seduto nelle prime file, si fa portavoce della preoccupazione di tutti, tranquillizzato dal Sovrintendente, che li rassicura sullo spettacolo che sta per andare in scena, con duecento persone sul palco e molta tecnologia. Un altro uomo lancia la proposta: “Perché non porta una delegazione di detenuti alla Scala?”. “Vorrei, ma non spetta a me dare il permesso”, risponde Pereira, accolto da applausi nel percorso verso l’aula dove racconta la trama di Attila, mentre alle spalle si chiudono tre cancelli. Un detenuto mette la mano sul cuore quando lo vede passare, in un corridoio dipinto di rosa, che stride con la disperazione che alcuni di loro hanno nello sguardo. “Attila vi piacerà, è come un romanzo poliziesco. C’è una principessa che finge di innamorarsi del cattivo, ma vuole solo vendicarsi perché lui ha ucciso suo padre. Non è neanche troppo lungo”, dichiara Pereira e qualcuno dice: “Basta che non arrivi la Finanza”. Dopo un saluto agli allievi/detenuti del laboratorio di alfabetizzazione e di recupero anni scolastici, il Sovrintendente, camicia rosa come gli ambienti che stiamo per abbandonare, deve tornare alle cantanti che hanno paura di sprecare l’occasione della loro vita e all’adrenalina che caratterizza l’evento operistico più famoso del mondo, ma prima aggiunge: “Perché è importante la Prima a San Vittore? Perché tutti hanno sensibilità per la musica, la musica è un diritto di tutti e per una volta l’Opera è la cosa più importante del Paese”. Roma: le note del “Cammino della cometa” risuonano grazie al coro dei detenuti agensir.it, 5 dicembre 2018 Le note del “Cammino della cometa” risuonano quest’anno nel carcere di Rebibbia grazie ai detenuti del carcere romano che hanno aderito al laboratorio corale avviato lo scorso anno grazie all’Ufficio di coordinamento interventi in favore di detenuti ed ex detenuti del Comune di Roma e all’interesse del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Roma. Dal laboratorio è nato il coro “Carlo Gesualdo”. Venerdì 7 dicembre, alle 10, è in programma il terzo appuntamento della rassegna nel periodo d’Avvento in cammino verso il Natale. In questa occasione il musicista Paolo De Matthaeis assieme a suor Rita Del Grosso presenteranno gli eventi e le musiche affidate al Quartetto d’Archi della Cappella musicale Costantina e alla voce del baritono Edoardo Venditti. L’incontro fa da anteprima all’evento del 21 dicembre, sempre alle 10, dove è prevista la prima esibizione ufficiale del coro “Carlo Gesualdo principe di Venosa” formato dai detenuti. Per il consueto concerto natalizio verranno presentati celebri cori e musiche appartenenti alla tradizione classica e dei cori alpini, l’organico tutto maschile dei detenuti sarà arricchito dal coro della Cappella musicale Costantina e da una piccola orchestra che si misurerà cantando celebri brani di Vivaldi, Mozart e Bach. “Siamo riusciti a creare un gruppo armonioso, - afferma il direttore del coro, Paolo De Matthaeis. I ragazzi sanno leggere la musica, intonano e persino compongono; s’avverte la consapevolezza di leggere oltre le note, recuperando i valori e colmando rapidamente ogni lacuna. Ho visto crescere velocemente “un gusto” e una “sensibilità” rivolta verso la propria persona in ricerca continua di fiducia e riferimenti”. I due concerti si svolgono nel carcere di Rebibbia e non sono aperti al pubblico. “La giusta quantità di dolore”, di Giada Ceri recensione di Matteo Moca Il Foglio, 5 dicembre 2018 Seppure il sistema penitenziario rappresenti un tema molto presente nell’immaginario collettivo, assai più difficile è trovare delle narrazioni che riescano a restituirne la natura più profonda, esulando dai luoghi comuni che rimandano vanamente a un universo di paure, inquietudini e, perfino, orrore. C’era riuscito qualche anno fa Maurizio Torchio con “Cattivi, storia tragica di un ergastolano”, romanzo in grado di restituire il dolore e la povertà di una vita da trascorrere in reclusione, e ci riesce adesso Giada Ceri con il suo “La giusta quantità di dolore”, Ed. Exorma. Si tratta di un reportage narrativo composto da un susseguirsi di storie carcerarie, alcune frammentarie e solo accennate, altre più compiute, tutte costruite attraverso lo sguardo di un’autrice che si occupa da tempo di temi che riguardano le prigioni italiane e lungamente ha lavorato in ambito penitenziario. Il libro è diviso in cinque sezioni che spaziano dalle prospettive di chi viene formato per operare da “esterno” in quell’ambiente alla complessa questione dell’edilizia penitenziaria (con un interessante analisi della relazione tra il carcere, l’organismo segregativo per eccellenza, e la geografia della città), dalle riflessioni su una necessaria e sistematica riforma alla funzione indispensabile della cultura come ingrediente per la ricostruzione individuale e collettiva, fino a un capitolo, il conclusivo “Dentro l’Uroboro”, dedicato al rapporto tra carcere e salute. Ciò che attribuisce un valore letterario a questa narrazione è lo stile posato e calibrato della scrittura di Ceri, che senza alcuna pretesa di scientificità, ma con la parlare di qualcosa che ben conosce, realizza un memoir che trova un posto di rilievo tra quelle narrazioni ibride che si muovono a cavallo tra romanzo, autobiografia e saggistica. Nelle prime pagine Ceri scrive che la parola “carcere” deriva dall’aramaico “carcar”, che significa “sotterrare”: è infatti difficile non pensare a un mondo sommerso e a una realtà rimossa quando si ritrovano sulla pagina, talvolta amaramente ironica, altre poeticamente evocativa, gli incontri, gli spazi e gli avvenimenti di cui Ceri è protagonista e narratrice. “La giusta quantità di dolore” è un libro oggi necessario, aggettivo antipatico ma qui realmente calzante, perché, come scrive Luigi Manconi nella sua preziosa Introduzione, i tratti indistinti e sfumati delle figure che lo compongono sono in grado di testimoniare qualcosa di molto preciso: l’universo carcerario, con le sue storture e difficoltà, “non è una vicenda di alcuni, è una vicenda di tutti”. “Fondo alimentare a rischio” L’allarme degli enti caritativi di Viviana Daloiso Avvenire, 5 dicembre 2018 Vivere senza sapere cosa si mangerà l’indomani. Senza pane, o latte nel frigo, o pasta da servire in tavola per i propri figli. La povertà si misura con la fame prima che con la mancanza di lavoro. E questa povertà in Italia cresce, senza sosta, investendo oltre cinque milioni di persone (i dati sono dell’Istat). Non c’è molto da fare, per rispondere a questo grido di aiuto: serve cibo. Serve già oggi, domani, serve ogni giorno di questa settimana: derrate di sugo, olio, riso, tonno. Per acquistarli, farli arrivare negli empori e nelle mense davanti a cui a pranzo e cena si formano file di bisognosi, il terzo settore utilizza le eccedenze della filiera alimentare e i fondi messi a disposizione dal governo e dall’Europa. Che oggi, però, a fronte dell’aumento degli affamati rischiano invece di assottigliarsi vertiginosamente. I conti li stanno facendo in questi giorni gli enti caritativi impegnati sul territorio a fianco degli ultimi e riuniti nel Tavolo di coordinamento permanente sugli indigenti istituito al Ministero delle politiche agricole. Cinque milioni di euro i fondi stanziati per gli aiuti alimentari nel 2018 (che, a differenza del passato, non hanno registrato le tradizionali integrazioni durante l’anno da parte del governo gialloverde), contro i quasi 9 del 2017, i 10 del 2016, gli 11,5 del 2015. Un trend decrescente, che in queste ore è stato confermato alla Camera dalle prime votazioni sulla legge di Bilancio per il 2019, visto che l’emendamento presentato dal Pd con prima firmataria il capogruppo in Commissione Agricoltura Maria Chiara Gadda per un rifinanziamento di altri 5 milioni è stato bocciato. Dunque più affamati, più richiesta di cibo, e meno impegno per garantirlo. “Siamo molto preoccupati - spiega il presidente di Banco Alimentare, Andrea Giussani. C’è la netta sensazione che la povertà alimentare, quella più vera e drammatica, stia come scomparendo dalle priorità del governo rispetto al passato e questo ha conseguenze pesantissime, perché il bisogno che resta scoperto è questione di sopravvivenza per chi lo esprime”. Una povertà rimossa, quella della strada, come rimosse finora appaiono le competenze accumulate nel corso degli anni - e dei confronti coi vari governi - dal Tavolo indi- genti, che ancora non ha avuto un incontro formale col governo: “La buona notizia - aggiunge Bruno Izzi, responsabile Mense per la Comunità di Sant’Egidio - è che finalmente saremo ricevuti al ministero dell’Agricoltura settimana prossima. Per noi sarà l’occasione di sottolineare l’importanza strutturale del Fondo nazionale per gli indigenti, anche nell’ottica del dibattito a livello europeo, che proprio in questi giorni sta affrontando il nodo dei nuovi finanziamenti da stanziare ai Paesi per il settennio 2021/2027”. La lotta alla fame è da sempre tra gli obiettivi comunitari e proprio dall’Ue negli ultimi anni sono arrivati i fondi più consistenti per l’aiuto alimentare: 70 milioni all’anno circa, gestiti poi a livello centrale dall’Agea (l’Agenzia per le erogazioni in agricoltura) che attraverso bandi misurati sui panieri necessari ha distribuito gli aiuti agli enti caritativi. Anche su quel fronte nelle ultime settimane si era temuto un accordo al ribasso rispetto al passato: la Commissione europea nella sua proposta di Fondo sociale europeo plus ha destinato il 25% di 100 miliardi di euro per l’inclusione sociale, di cui il 2% (contro il quasi 4% del settennio 2014-2020) per l’assistenza alimentare o materiale di base. Lunedì 3 dicembre la commissione Occupazione e Affari sociali ha invece votato degli emendamenti che portano al 27% la prima quota e al 3% la seconda: “Un buon segnale anche questo - continua Izzi - ma l’importanza del Fondo nazionale è più che mai evidente anche per il futuro, se l’Europa dovesse tirare la cinghia”. Di attenzione del “governo del cambiamento” a non lasciare “senza garanzie minime di sopravvivenza i poveri mentre si decide come organizzare il reddito di cittadinanza” parla invece il responsabile Area nazionale di Caritas, Francesco Marsico: “Il punto è che, se è vero che ci troviamo in una fase di transizione rispetto alle strategie per rispondere alla povertà, è fondamentale tenere ferme quelle risposte che sul territorio già esistono e operano concretamento nel sostegno ai poverissimi. Indebolire le risorse disponibili è un errore che nessuno aveva fatto prima, nonostante ci fossero altri progetti e altre idee politiche su come procedere nell’affrontare l’emergenza”. E proprio sul fronte politico si potrà giocare ancora l’ultima battaglia sul Fondo nazionale per gli indigenti, col passaggio della legge di Bilancio al Senato: “La nostra speranza - spiega Gadda (Pd) - è che la richiesta di aumentare a 10 milioni lo stanziamento per il 2019 possa essere ancora accettata. È sconfortante vedere come si sia data priorità a stanziamenti anche consistenti (25 milioni di euro, ndr) per una nuova struttura a Palazzo Chigi, tanto per fare un esempio, e non si vogliano destinare soldi agli affamati”. Tagli ai giornali e politici social. Le peggiori intenzioni di Crimi di Daniela Preziosi Il Manifesto, 5 dicembre 2018 “Non siamo contro la stampa”. Duro scambio fra sottosegretario e cronisti parlamentari. Ma Mattarella e Napolitano sul pluralismo: serve un sostegno anche concreto. “Ero venuto con le migliori intenzioni, me ne vado con le peggiori. Ho sentito solo parole di accuse di illiberalità e fascismo velato al governo”, e sono “accuse gravi, inaccettabili”. A mezza mattina, nella solenne sala della Lupa della Camera, il sottosegretario all’editoria Vito Crimi è furibondo e accenna il gesto clamoroso di andare via. Fin lì è stato in prima fila ad ascoltare il primo panel di un ponderoso convegno organizzato dall’Associazione stampa parlamentare per i suoi cento anni. I tre storici convocati per una riflessione “sul giornalismo politico-parlamentare e sull’evoluzione dei rapporti con le istituzioni e le forze politiche” - Lucio Villari, Simona Colarizi, Valerio Castronovo, moderati da un decano dell’ Asp Giorgio Frasca Polara - non gli sono piaciute. Gli storici hanno ricordato il controllo della stampa che era per Mussolini un “obiettivo irrinunciabile” (Colarizi). Il sottosegretario sente un richiamo all’oggi e si arrabbia. “Ha la coda di paglia”, commenta Raffaele Lorusso, segretario della Federazione nazionale della stampa. Introducendo i lavori, poi, la vicepresidente dell’Asp Angela Bianchi ha messo le carte in tavola: “La stampa ha sempre dato fastidio, ma se un tempo eravamo considerati un male necessario oggi rischiamo di essere un male di cui fare a meno”. I politici preferiscono i social e dribblano le domande, è la disintermediazione bellezza. “Abbiamo dovuto protestare per l’ormai abituale convocazione fuori da palazzo Chigi - in piazza - semplicemente per raccogliere dichiarazioni di membri del governo”, conclude. I giornalisti trasformati in megafono e poi presi a male parole (“infimi sciacalli” per il vicepremier Di Maio, “puttane pennivendole” per l’ex deputato M5S Di Battista). Così la proposta made in 5 stelle di tagli al fondo per il pluralismo, già nella manovra, sembra una ritorsione. Sfumata alla camera, potrebbe ripresentarsi al senato. Crimi la difende e rilancia la sua proposta di riforma. Quando parlerà, dopo aver deciso di restare al convegno, spiegherà che non c’è nessun attacco alla stampa, bisogna distinguere fra “parole e interventi” (“Ma quando le parole violente vengono usate da chi ha una forza politica preponderante nel Paese, può avere un peso anche maggiore degli interventi di un singolo parlamentare”, replicherà Marco Di Fonzo, presidente dell’Asp). I giornali fanno politica, e questo non piace a Crimi. Per lui “il ruolo della stampa non è combattere la disintermediazione”. Quanto ai contributi per l’editoria “non c’entrano nulla con il principio della difesa del pluralismo nell’informazione”. Affermazione che andrebbe quantomeno discussa: il M5S ha scatenato una battaglia contro gli “editori non puri”, cioè quelli forti che hanno altri interessi oltre ai giornali, ma poi annuncia la mannaia sui deboli, i giornali più piccoli, in cooperativa, le testate locali. Crimi se la prende con Libero, per esempio, “da solo prende 5 milioni di contributi”. Ma sostenuto dallo stesso fondo è anche Avvenire, il giornale della Cei: sul quale proprio ieri campeggiava un’intervista al presidente Conte. (Anche il manifesto prende un contributo per la stampa in cooperativa). A smentire Crimi su tutti i fronti bastano però i messaggi delle più alte cariche dello stato al convegno. La presidente del senato Casellati parla di “indispensabile mediazione giornalistica”. Quanto al pluralismo dell’informazione, per il presidente Mattarella “è un valore fondamentale per la democrazia, che va difeso e concretamente attuato e sostenuto”. Anche il presidente emerito Napolitano parla di “tutela della libertà e dell’indipendenza e il pluralismo dell’informazione anche con appositi stanziamenti”. E persino il presidente della Camera Roberto Fico, presente, sembra pensarla diversamente dal sottosegretario quando sottolinea che “comunicazione e informazione devono restare distinte. Ognuna con una sua etica, ma sempre e comunque distinte. Troppo spesso invece vengono usate come sinonimi”. Detto da un esponente del partito della piattaforma Roussea suona come l’ennesima sottolineatura di una differenza in seno al movimento e, appunto, agli ultras della disintermediazione, tanto più che il ragionamento viene concluso con una richiesta di responsabilità nell’uso della rete. “E la responsabilità è proprio l’elemento caratterizzante del giornalismo”. Certo, un elemento che poi va praticato, ricordano i direttori impegnati in una tavola rotonda appunto su cosa resta del giornalismo ai tempi delle dirette Facebook. Resta “il mestiere” di saper resistere alle pressioni (Lucia Annunziata, Huffington post), la cara vecchia “schiena dritta” (Enrico Mentana, La7), “la difesa della centralità del parlamento” (Maurizio Molinari, la Stampa), e quello che fa la differenza dalla ripetizione della propaganda nel trattamento di una notizia: “cultura, conoscenza, preparazione” (Luigi Contu, Ansa). Qui siamo al punto: sacrosanto pretendere di fare domande, obbligatorio però farsene alcune, giornalisti ed editori. E questa non è un’altra storia, è la stessa. Migranti. Gli sbarchi si riducono ma l’ostilità aumenta di Andrea Federica de Cesco Corriere della Sera, 5 dicembre 2018 Vincenzo Cesareo, presidente della Fondazione Ismu: “Nel 2018 drammatizzazione e strumentalizzazione del fenomeno migratorio”. Nel corso del 2018 abbiamo vissuto un paradosso: a fronte di una drastica riduzione degli sbarchi (dell’80% ndr), c’è stata una drammatizzazione e strumentalizzazione del fenomeno migratorio, che si sta traducendo in un’aperta ostilità verso gli stranieri”. Vincenzo Cesareo, segretario generale della Fondazione Ismu (Iniziative e studi sulla multietnicità), ha aperto così la mattinata dedicata al ventiquattresimo rapporto dell’ente di ricerca scientifica indipendente, che dal 1993 è impegnato nello studio e nella diffusione di una corretta conoscenza dei fenomeni migratori. Il testo, edito da FrancoAngeli, è stato presentato ieri all’Università degli Studi di Milano, con il vicedirettore del Corriere Venanzio Postiglione in veste di moderatore e con il politologo Nicola Pasini ad aprire il dibattito. Il responsabile del settore Statistica della Fondazione Ismu Gian Carlo Blangiardo ha poi messo in luce alcuni dei numeri raccolti nel volume, a partire da quelli sulla presenza di stranieri in Italia: al primo gennaio scorso erano 6 milioni e 108 mila; considerando che la popolazione italiana conta 60 milioni e 484 mila residenti, ciò significa che è stata superata la soglia simbolica di uno straniero ogni 10 abitanti. “Rispetto al 2017 c’è stato un incremento del 2,5% degli stranieri presenti in Italia. Tale aumento è trascinato in particolare da quello dell’8,6% degli irregolari”, ha detto Blangiardo, che è a un passo dalla guida dell’Istat. Un altro tema centrale è la formazione dei giovani stranieri e l’intercultura come pratica educativa, su cui si è concentrata la responsabile Ismu del settore Educazione Mariagrazia Santagati, mentre il direttore generale della Cooperazione internazionale e dello sviluppo della Commissione europea Stefano Manservisi ha evidenziato l’importanza di facilitare gli investimenti privati nei Paesi africani e anche le rimesse dei migranti. Nello stesso contesto il Centro sportivo italiano di Milano ha ricevuto il riconoscimento della Fondazione Cariplo e della Fondazione Ismu 2018 per il progetto “Sport Inside”, che promuove i percorsi d’integrazione sociale e di inserimento per i giovani stranieri che chiedono la protezione internazionale. Migranti. Unione europea: nessuna redistribuzione obbligatoria dei richiedenti asilo di Emanuele Bonini La Stampa, 5 dicembre 2018 La Commissione europea abbandona definitivamente l’idea del meccanismo forzato. Migranti, indietro tutta. La Commissione europea accantona definitivamente l’idea di un meccanismo obbligatorio di redistribuzione dei richiedenti asilo tra gli Stati membri. La discussione politica sulle quote “si è del tutto esaurita”, e non si procederà più in tal senso, riconosce il commissario per l’Immigrazione, Dimitris Avramopoulos. L’esecutivo comunitario prende atto dell’impossibilità di un accordo tra i governi nazionali e decide di andare avanti, per approvare solo ciò che crea consenso. Un duro colpo per Grecia e Italia, lasciate da sole a fare i conti con gli sbarchi. Per la Commissione “è tempo di essere pragmatici”. Lo scontro sulle quote non deve fermare l’agenda dei lavori, e Bruxelles propone di approvare, entro inizio 2019, cinque delle nove riforme in cantiere: requisiti per la protezione, condizioni di accoglienza, Agenzia Ue per l’asilo, raccolta di impronte digitali (Eurodac) e reinsediamento. Dunque niente riforma del regolamento di Dublino, base giuridica del sistema comune di asilo. Di tutto questo si parlerà domani in occasione del consiglio Affari interni senza il vicepremier Matteo Salvini, a Roma per lavorare alla manovra Migranti. La follia di Moria di Marta Serafini Corriere della Sera, 5 dicembre 2018 “Moria ha due anime. Una di queste rimarrà per sempre dentro di me”. Mahamadou ha 24 anni. È alto, i muscoli sotto la felpa blu sono delineati. Viene dalla Repubblica democratica del Congo. Ha lo sguardo fisso, quasi dolce. Poi un lampo, all’improvviso, gli attraversa la mente. I suoi occhi iniziano a muoversi veloci in una danza senza senso. Le pupille si dilatano e i pensieri si annodano quasi fossero filo spinato che penetra nella carne. Il corpo inizia ad avere spasmi. Mahamadou (il nome è di fantasia) letteralmente rivive le torture che ha subito. Sente l’odore del suo stesso sangue. E rivede i suoi carnefici, come se fossero lì nella stanza con lui. Uomini che parlavano la sua lingua lo hanno costretto a fare del male alle persone a lui care, lo hanno piegato a terra fino a fargli mangiare le sue feci, lo hanno violentato e lo hanno massacrato in tutti i modi possibili. Non è stato un incubo. Glielo hanno fatto per davvero. Mahamadou oggi ha quadro psichiatrico grave che può essere trattato solo con psicofarmaci, ha contratto l’Epatite C. È da solo, senza famiglia e senza parenti. E ora non riesce più a vivere. A Mitilini, vicino al porto principale dell’isola greca di Lesvos, Alessandro Barberio, psichiatra, ha appena finito di visitare i pazienti. Nel suo studio, sopra la scrivania campeggia un poster di “Casablanca”. “L’ho lasciato lì da quando è servito a stabilire un dialogo con un uomo che era totalmente traumatizzato”. Barberio, originario di Trieste e di scuola basagliana, si è preso un periodo di aspettativa per lavorare con Medici Senza Frontiere. Da gennaio, in questi mesi ha seguito in media cinque casi al giorno. “I più gravi sono per lo più uomini, provenienti dall’Africa che hanno un passato di torture e violenza sessuale ripetuta”, spiega. Toccare l’intoccabile, come diceva Sigmund Freud, secondo Barberio “siamo di fronte a una sorta di trauma collettivo che rischia di travolgerci se non lo affrontiamo”. Sintomi severi di disturbo post traumatico da stress, sintomi psicotici come allucinazioni uditive, visive, associate a paranoia, persecutorietà, confusione, disorientamento e tentativi di suicidio precedenti. L’elenco delle patologie dei pazienti di Moria è lungo. Ed è “sicuramente influenzato dal luogo in cui vivono”. Il peggiore hotspot di Europa. L’inferno che preoccupa l’Alto Commissariato per i rifugiati. Tantissime le definizioni e le etichette che in questi anni di “emergenza migranti” sono state affibbiate ad un posto che, ironia della sorte, porta lo stesso nome delle miniere create da J.R.R. Tolkien nel “Signore degli Anelli”. Una prigione, un limbo. Moria oggi è diventata la terza città di Lesvos. Nel solo 2018 ci sono arrivati quasi 14 mila migranti. La porta d’Europa - Ai giornalisti, per entrare a Moria, serve il permesso alle autorità greche. “Siete arrivati nella giornata peggiore”, dice un’impiegata truccata e gentilissima all’ingresso. Da più di 24 ore sta piovendo. Il tragitto fino all’ufficio del vice comandante del campo Dimitri Vafeas è breve. Tutto intorno, gabbie, filo spinato. Vafeas snocciola i numeri: 6.680 migranti per 3.100 posti (ma la stima delle ong è di 9.000). Dati, percentuali e statistiche. Un bagno ogni 40 persone (ma c’è chi, come il Greek refugees council, parla di 1 ogni 72), 1 doccia ogni 50 (e c’è chi sostiene siano 1 ogni 84). Qui ci sono persone da tutto il mondo: afghani (i più numerosi al momento), iracheni, siriani, africani. Ci sono arrivi da Haiti, dalle Fiji e perfino dal Tibet. Ogni giorno ci sono almeno 50-80 nuove registrazioni. “Mentre da voi italiani gli sbarchi calano, qua non si sono mai fermati, anzi”, dice. Dopo il 2016, anno di accordo tra Bruxelles e Ankara, Lesvos e Moria, da porta di ingresso in Europa e dunque di passaggio, si sono trasformate in un enorme centro di registrazione dove i migranti rimangono bloccati anche anni, in attesa di sapere se la loro richiesta di asilo possa iniziare il suo iter. “I problemi sono tanti, è vero: sono solo 18 le guardie assegnate al controllo del campo. Ma cosa devo dire? Facciamo del nostro meglio con quello che abbiamo”, scuote la testa il vicecomandante prima di tornarsene in ufficio. Nel campo teoricamente sarebbe vietato fare fotografie, riprendere e parlare con i migranti. Ma se lo fai, nessuno ti dice niente. Ferite e cicatrici - “Attention, attention aux fils, attenzione ai fili”. Il cielo è ancora gonfio di cattive promesse. Oji e Asad (i nomi sono di fantasia), entrambi poco più che ventenni, sbucano fuori da una tenda malconcia. Hanno piazzato una lamiera davanti all’ingresso della loro baracca per evitare che la pioggia bagni del tutto il materasso su cui dormono. Per terra, tre cartoni ormai marci. Tutto intorno una ragnatela di cavi elettrici che da un momento all’altro potrebbero andare in corto circuito. Arroccato su una collina il campo, ex base militare costruita dopo la dittatura dei colonnelli, è grande 48mila metri quadrati. Un inferno di baracche e container. Incendi, rivolte, stupri, violenze, droga. A Moria, come nelle peggiori carceri del mondo, non manca niente. L’anno scorso la famiglia di un egiziano morto ha fatto causa alle autorità greche accusandole di non aver chiamato i soccorsi dopo che lui era rimasto intossicato dal monossido di carbonio di una stufa. Oji e Asad vengono dal Camerun. Sono partiti insieme, sono arrivati in aereo con il visto turistico fino a Istanbul, poi in autobus fino Smirne. Da lì hanno pagato uno smuggler, un trafficante, per attraversare il mare. Durante la traversata verso Lesvos sono rimasti in acqua otto ore. “Il gommone era mezzo sgonfio, abbiamo chiamato aiuto e sono venuti a prenderci”. Sulle braccia hanno delle cicatrici profonde. Solchi più chiari che segnano la pelle nera. Si sono tagliati con le lamette che hanno comprato fuori dal campo. Oji e Asad non hanno mai visto uno psicologo. Pezzi di carta - La fila per il pasto si allunga, così come quella davanti all’ufficio del Ric, il registration identification center, dove si rinnovano i permessi. Tutti aspettano l’agognato “blue stamp”, il via libera per partire alla volta di Atene e poter iniziare le procedure per l’asilo. “Ehi ma nemmeno oggi”. Isaac (il nome è di fantasia), viene dalla Sierra Leone. È a Moria da più di un anno. E, niente, il suo permesso non arriva. Si dispera, inizia ad agitarsi. Poi prende il foglio che ha in mano e lo fa in mille pezzi. Un gruppo di bambini, intanto si lancia su e giù da una discesa di cemento bagnata usando una cassetta di plastica come slittino. A Moria i minori non hanno una scuola da frequentare o un futuro da preparare e per loro non sono previste attività. “A breve riusciremo ad aprire una zona ricreativa, qui davvero c’è tantissimo da fare. Soprattutto dobbiamo dare dignità a queste persone”, dice Patric Mansour del site management support del Norwegian Refugee Council con gli occhi stanchi e il sorriso tirato. Difficile riuscire a vedere uno spiraglio. Di recente il governo greco ha annunciato che trasferirà 6 mila persone sulla terra ferma entro la fine dell’anno, riportando il campo alla sua capienza originaria. Ma, Inshallah, Moria ancora aspetta. Incubi tra gli ulivi - Fuori dalle reti, su una collina fangosa, si staglia “Olive Grove”, come viene chiamato l’accampamento di centinaia di tende, piantate spontaneamente. Per lo più qui si trovano famiglie provenienti dal Medio Oriente o dall’Asia. Per fare il fuoco si tagliano gli ulivi del campo vicino. Si cucina il pranzo in pentole luride. Una bambina di nemmeno tre anni con indosso un impermeabile bianco con le fragole disegnate sopra gioca con un elastico per i capelli. “Se passi di qui di notte, senti le grida e i pianti”, dice piano Diane Nicholls, volontaria di una ong irlandese. Ahmed (il nome è di fantasia), 7 anni, da Mosul, ha cercato di appendersi al ventilatore con una corda. È arrivato qui sei mesi fa con il padre, dopo che la madre è morta in un raid in Iraq. Ismail, 8 anni, anche lui testimone degli orrori della campagna contro Isis è salito su un container e voleva buttarsi di sotto. Lo hanno tirato giù appena in tempo. Enuresi secondaria (la pipì a letto anche nei bambini che hanno già il controllo della vescica), incubi, attacchi di ansia, episodi di autolesionismo a partire dai cinque anni. Anche per i minori, dopo i traumi subiti in patria, il viaggio, l’arrivo a Moria, i rumori e la violenza di un luogo così affollato riaccendono l’interruttore dell’orrore. “L’altro giorno qua era festa nazionale, sono passate le pattuglie aeree acrobatiche e i bambini hanno iniziato a piangere tutti. Credevano fossero riprese le bombe”, spiega Carola Buscemi, pediatra di Medici Senza Frontiere. Buchi nella rete - Moria, la fortezza coi buchi nella rete. Ai migranti è concesso circolare sull’isola. Ma non possono lasciarla. Hanno a disposizione 90 euro al mese in contanti ma non possono lavorare. E sull’isola, soprattutto di inverno. non c’è granché da fare. I più intraprendenti frequentano i corsi organizzati dalle ong. Canto, inglese, disegno. Qualcuno si spinge in chiesa a pregare. La maggior parte però, per ripararsi dal freddo, trascorre il tempo nei bar “refugees friendly”. Ma c’è anche chi - spiega Tristan, dalla Costa d’Avorio - ha deciso di vietare l’ingresso agli stranieri, soprattutto ai neri. E così ogni sera, quando arriva il traghetto per Atene, in tanti provano a saltare la rete. Il sole sta tramontando dietro le nuvole ancora gonfie. Sull’autobus da Mitilini, mentre la pioggia dà tregua per qualche minuto, i vetri si appannano. Un uomo e una donna si stringono. Lei è di Homs, in Siria, lui egiziano. Si sono conosciuti a Lesvos. Lei è rimasta vedova durante il viaggio. Lui le sfiora la guancia. E lei si passa una mano sul collo di pelliccia sintetica del suo giaccone. Sorride e tiene gli occhi bassi. È notte ormai, quando qualcuno accende un fuoco fuori dal campo di Moria. Vicino c’è un muro. Sopra, con uno spray nero, ci hanno scritto “Movement of Freedom”. Davanti, ci hanno piazzata una rete. Cannabis terapeutica, la Regione Lombardia apre alla produzione Corriere della Sera, 5 dicembre 2018 Anche la Lombardia potrà coltivare cannabis terapeutica. Ieri il consiglio regionale ha approvato all’unanimità (con parere favorevole della giunta) una mozione presentata dai Radicali. “L’obiettivo - spiega Michele Usuelli di +Europa - è estendere la produzione a scopo terapeutico in Lombardia, aumentando così il numero degli istituti autorizzati in aggiunta allo Stabilimento chimico farmaceutico di Firenze, in relazione alla crescente domanda, ai costi ma anche ai rischi che corrono i pazienti per reperire la cannabis medica all’estero”. E aggiunge: “Abbiamo mandato un segnale forte a livello nazionale e ci siamo comportati davvero da terza Camera dello Stato”. La Regione dovrà aderire al tavolo di lavoro avviato dal Comune di Milano e dalle università per promuovere un progetto pilota da presentare al ministero della Salute per creare un polo di ricerca e di produzione di cannabis a uso medico in zone strategiche della città come, ad esempio, il Policlinico e di identificare i soggetti idonei a garantire la produzione indoor. Egitto. Caso Regeni, ecco gli 007 indagati da Roma. “Fu un sequestro” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 5 dicembre 2018 Il provvedimento contro i 5 agenti egiziani. Domani i genitori di Giulio alla Camera. Il generale Sabir Tareq, il maggiore Magdi Abdlaal Sharif, il capitano Osan Helmy con il suo stretto collaboratore Mhamoud Najem e il colonnello Ather Kamal. Eccoli i nomi dei primi indagati per il caso Regeni. Sono tutti alti ufficiali del Dipartimento di sicurezza nazionale e dell’Ufficio investigativo del Cairo. Nei loro confronti il procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone e il pm Sergio Colaiocco ipotizzano, per ora, il reato di concorso in sequestro di persona. La svolta, che certifica la diversità di vedute tra Roma e Il Cairo, arriva dopo 33 mesi dal gennaio 2016: giorno in cui il 28enne friuliano, che al Cairo svolgeva ricerche per conto dell’Università di Cambridge sulla galassia del sindacato dei tassisti e degli ambulanti (la più temuta incubatrice di dissenso per il dittatore Al Sisi), scomparve nel nulla. Proprio il 25 gennaio, quarto anniversario delle proteste di piazza che rovesciarono il regime di Mubarak facendo salire al potere Al Sisi. Giulio Regeni venne visto avviarsi verso la metro di Dokki, a due passi da casa sua, e da quel momento la famiglia ne perse le tracce. Fino al giorno dell’annuncio che il suo cadavere era stato ritrovato sul ciglio della strada che porta al carcere di massima sicurezza. Prima bugia: in quel punto lo spesso strato di polvere non era stato nè smosso, nè tantomeno macchiato di sangue. Ne seguirono altre. Assieme agli annunci di arresti e a promesse, vanificate, di collaborazione. Ros Sco e magistrti ancora aspettano le registrazioni delle videocamere della Metro. Ma sono giunti a seri convincimenti. Il primo è che Giulio Regeni fosse sorvegliato dagli 007 egiziani da settimane. L’11 dicembre 2015 era stato fotografato a un’assemblea sindacale. Cosa che lo aveva turbato. Dal 15 dicembre l’agente della Ns Mhamoud Najem, stretto collaboratore del colonnello Helmy, avrebbe tentato (invano) di avere una copia del passaporto del giovane dal suo portiere e dal suo coinquilino. La seconda certezza è che la soffiata che gli è costata la vita c’era già stata prima di Natale. Il leader del sindacato degli ambulanti, Mohamed Abdallah, aveva spifferato agli 007 il sospetto che fosse una spia, interpretando in quella chiave il finanziamento da 10 mila sterline della Fondazione Antipode di cui parlava Giulio. Abdallah si era fatto consegnare il bando del finanziamento su ordine di Sharif. Poi il ragazzo rientra in Italia. Ma al ritorno riprende subito l’attività contro di lui. Il 7 gennaio incontra Abdallah. Ignora che il sindacalista ha con sé un macchinario per videoregistrarlo, su richiesta degli 007. È presente anche il generale Tareq. Giulio capisce solo che il leader degli ambulanti è più interessato ai soldi che al destino del movimento. Non immagina che dopo l’incontro, Abdallah chiami il colonnello Kamal. E questi la National Security. L’attività degli 007 si intensifica. Il 22 Giulio viene pedinato. E il 25 rapito e torturato. La madre dirà: “L’ho riconosciuto solo dalla punta del naso”. Oggi, assieme al marito, sarà dal presidente della Camera, Roberto Fico che ribadisce “pieno sostegno ai magistrati”. Si attende la reazione diplomatica del Cairo. Ieri il vicepremier Matteo Salvini ha detto: “Farò di tutto per avere buoni rapporti economici, culturali, commerciali e sociali con un paese amico, però da italiano aspetto nomi e cognomi”. Turchia. Confermata condanna al leader curdo Demirtas di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 5 dicembre 2018 Un tribunale di Istanbul ha confermato in appello la condanna per “propaganda terroristica” a favore del Pkk nei confronti dell’ex leader del filo-curdo Hdp Selahattin Demirtas e dell’ex deputato dello stesso partito Sirri Sureyya Onder. In primo grado, Demirtas era stato condannato a 4 anni e 8 mesi e Onder a 3 anni e mezzo di prigione. La scorsa settimana, un’altra corte aveva respinto la richiesta di scarcerazione presentata da Demirtas dopo che la Corte europea dei diritti umani e l’Ue ne avevano sollecitato la fine della detenzione preventiva, che dura da oltre due anni. L’ex candidato alla presidenza della Turchia, che si è sempre dichiarato innocente, è imputato in numerosi altri processi e rischia condanne a oltre cento anni di carcere con accuse analoghe. Insieme a Demirtas è stata confermata la condanna a 3 anni e 6 mesi per il parlamentare Sirri Surreya Onder. I due erano finiti sul banco degli imputati con l’accusa di “propaganda a favore di organizzazione terroristica” per un comizio del 2013 in cui, secondo l’accusa, avevano “magnificato la figura di Abdullah Ocalan”, il leader dell’organizzazione terroristica Pkk in carcere dal 1999. Nel processo principale che lo vede imputato Demirtas rischia fino a 142 anni di carcere con accuse di terrorismo. Il leader curdo si trova in carcere dal 4 novembre 2016. Cannabis, il Messico verso la legalizzazione di Hassan Bassi Il Manifesto, 5 dicembre 2018 Il Paese si avvia ad essere la terza nazione dopo Uruguay e Canada, a permettere la produzione, il commercio ed il consumo. Secondo la proposta i maggiorenni potranno richiedere un permesso per seminare, coltivare, raccogliere, preparare e trasformare fino a 20 piante destinate all’uso personale. Il 1° dicembre si è insediato il nuovo governo messicano sotto la guida del Presidente Andrés M. López Obradorin, e di cui fa parte la senatrice Olga Sánchez Cordero prima donna nella storia messicana ad essere nominata a capo della Secretaría de Gobernación ovvero del Ministero dell’Interno. Olga Cordero aveva presentato al Senato, ad inizio novembre un progetto di legge di regolamentazione della cannabis, promosso già in campagna elettorale, ma reso ancora più urgente dai pronunciamenti della Corte Costituzionale messicana. Alla fine dello scorso ottobre infatti la Corte si era pronunciata per la quinta volta a favore del diritto fondamentale per un adulto alla libertà dello sviluppo della propria personalità, libera da proibizioni insensate, come quella di essere perseguito per uso e coltivazione personale di marijuana. Questa pronuncia ha di fatto dichiarato incostituzionali le norme proibizioniste vigenti nel paese, ed imposto ai tribunali di assolvere gli imputati per i reati di uso e coltivazione a scopo personale. “Non siamo favorevoli alla liberalizzazione totale delle droghe, ma siamo a favore della libertà e dei diritti, (…) all’autodeterminazione, e per liberare coloro che sono sotto la minaccia del crimine organizzato”, queste sono le parole usate dalla senatrice nel presentare la proposta al Parlamento e che ha aggiunto: “Non vogliamo più morti, non importa che siano poliziotti, militari o narcotrafficanti, non vogliamo più vittime collaterali, non vogliamo famiglie in lutto, non vogliamo più sangue che sporchi il nostro paese quando avremmo potuto evitarlo”. Il Messico è infatti uno dei paesi più martoriati dalle guerre causate dal narcotraffico e solo lo scorso anno gli omicidi sono stati 31.000 secondo l’Istituto Nazionale di Statistica messicano, mentre da quando l’esercito è stato impegnato nella “guerra alla droga” 12 anni fa, i morti sarebbero 235.00. Numeri da guerra civile. La legge sulla legalizzazione della cannabis sarà il primo passo per una nuova politica sulle droghe, che affronti il tema fuori dall’ottica repressiva e proibizionista, ma dal punto di vista dei diritti umani e della tutela della salute. Promotore nel 2012 insieme con Guatamela e Colombia dell’appuntamento speciale dell’Onu sulle droghe Ungass 2016, durante il quale anche il Presidente Peña Nieto aveva preso posizione seppure con cautela e qualche indecisione iniziale contro “i limiti del paradigma proibizionista”, il Messico si avvia così ad essere la terza nazione dopo Uruguay e Canada, a legalizzare la produzione, il commercio ed il consumo di cannabis. Secondo la proposta i maggiorenni potranno richiedere un permesso per seminare, coltivare, raccogliere, preparare e trasformare fino a 20 piante di cannabis destinate al consumo personale con una produzione che non superi i 480 grammi all’anno, e non vi sarà alcun divieto di fumare negli spazi pubblici. Per la commercializzazione sono previste delle licenze per coltivazione, conservazione, trasporto e vendita a negozi specializzati, mentre rimane vietata la pubblicizzazione, la vendita o cessione ai minorenni. Rimane anche l’indicazione di divieto di guida di veicoli sotto l’effetto della cannabis. Con l’approvazione della legge si potrà attraversare il continente nord americano sulla costa ovest dal Canada al Messico senza mai uscire da una giurisdizione che abbia legalizzato la marijuana. E chissà che questo non rappresenti il primo passo della previsione espressa dall’ex Presidente della Repubblica Vincente Fox che ha dichiarato: “Tutte le droghe, inclusa la cocaina, l’eroina e la metanfetamina saranno legali in Messico entro 10 anni. La marijuana è un primo passo, ma il processo è irreversibile”.