Sovraffollamento, sfondato il muro dei sessantamila di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 dicembre 2018 Continua a crescere il sovraffollamento, il trend non si arresta. Al 30 novembre, secondo i dati aggiornati dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, risultano 60.002 detenuti. Un risultato che fa registrare 9.419 detenuti oltre alla capienza regolamentare che risulta, ufficialmente, di 50.583 posti. Al 31 ottobre, invece, erano 9.187 i detenuti in più. Tutti gli istituti penitenziari risultano in sovraffollamento con picchi oltre il 120 percento, l’unica regione che si salva è il Trentino Alto Adige con 455 detenuti su 506 posti regolamentari. Ancor prima, a settembre, erano invece 8.653 i ristretti oltre i posti disponibili. I numeri del sovraffollamento risulterebbero addirittura maggiori se si sottraessero dai posti disponibili circa 5000 celle inagibili che, invece, vengono conteggiate nei 50.583 posti disponibili. Il sovraffollamento quindi è destinato ad aumentare nonostante che nel passato, grazie a diverse misure adottate dopo la sentenza Torreggiani, si sia ridimensionato. Di fronte all’emergenza, la politica, vecchia e nuova, risponde con la costruzione di nuove carceri che puntualmente non bastano mai. Motivo per il quale, il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt) sottolineò che costruire nuove carceri per risolvere il problema del sovraffollamento non è la strada giusta, perché “gli Stati europei che hanno lanciato ampi programmi di costruzione di nuovi istituti hanno infatti scoperto che la loro popolazione detenuta aumentava di concerto con la crescita della capienza penitenziaria”. Viceversa, “gli Stati che riescono a contenere il sovraffollamento sono quelli che hanno dato avvio a politiche che limitano drasticamente il ricorso alla detenzione”. A sorpresa aumentano nuovamente i bambini dietro le sbarre. Sono 45 le mamme detenute che hanno un totale di 55 figli al seguito, una ventina dei quali sono in carcere, mentre il resto dei piccoli sono negli Istituti a custodia attenuata che rientrano, però, sempre dentro il perimetro penitenziario. Anche in questo caso, la soluzione del guardasigilli è una sola: costruire più Icam e non rendere più fruibile la detenzione domiciliare come prevedeva la riforma originaria. I bimbi dietro le sbarre sono aumentati, visto che il mese precedente, al 31 ottobre, erano 42 le mamme detenute che avevano un totale di 50 figli al seguito. La legge prevede l’innalzamento del limite di età dei bambini che possono vivere in carcere con le loro madri da tre a sei anni. La norma contempla la custodia in istituti a Custodia Attenuata per detenute Madri (Icam) in sede esterna agli istituti penitenziari, con lo scopo di evitare a questi bambini un’infanzia dietro le sbarre. Ad oggi ce ne sono 5: Torino Lorusso e Cutugno, Milano San Vittore, Venezia Giudecca, Cagliari e Lauro (in Campania). Ne funzionano 4, perché l’Icam di Cagliari è tuttora priva di ospiti. A Firenze doveva essere aperta da tempo un Icam, ma oggi l’appartamento è inutilizzato e in stato decadente, nonostante che la regione abbia stanziato dei soldi. A ricordarlo è l’esponente fiorentino del partito radicale e presidente dell’Associazione Progetto Firenze Massimo Lensi: “Durante la visita di ieri (30 novembre ndr) nel carcere di Sollicciano, organizzata dalla Camera Penale di Firenze, abbiamo dovuto riscontrare che nel nido del carcere di Sollicciano erano presenti due bambini, rispettivamente di tre e sette mesi, detenuti insieme alle loro madri. Nonostante tutte le promesse - denuncia Lensi, gli sforzi e le pressioni di ogni genere per evitare il ripetersi di queste gravi situazioni, l’istituto per madri detenute (Icam) di Firenze attende da più nove anni di essere aperto. Nel frattempo, - sottolinea il presidente di Progetto Firenze - lo stabile individuato in via Pietro Fanfani per ospitare l’istituto rischia di deteriorarsi ulteriormente. Rivolgo un accorato appello a tutte le istituzioni competenti affinché questo problema si avvii velocemente a soluzione. È un problema - conclude - di civiltà giuridica e di umanità ed è grave che a Firenze dove tutto sarebbe pronto si indugi ancora”. Da 5 anni non c’erano tanti detenuti nelle carceri italiane di Manuela D’Alessandro agi.it, 4 dicembre 2018 Il 30 novembre è stata superata la soglia delle 60 mila presenze, gli stranieri sono un terzo. I reati sono sempre meno ma nelle carceri si è abbattuta di nuovo la soglia delle 60 mila presenze. Non accadeva dal 2013, quando la sentenza della Corte europea sul caso di Mino Torreggiani condannò l’Italia perché stipava i detenuti violando il principio della dignità umana e le impose di varare provvedimenti urgenti contro il sovraffollamento. Tanti reclusi piegati sulla loro ombra in cella hanno ottenuto risarcimenti dallo Stato in nome della battaglia vinta da quell’uomo che scontò la pena in due metri quadri. Ora ci risiamo. Le statistiche mensili del Ministero della Giustizia ci informano che il 30 novembre in gabbia si contavano 60.002 persone contro una capienza regolamentare (9 metri per singolo detenuto) di 50.583. Gli stranieri sono circa un terzo. Un’altra volta negli ultimi tre decenni era stata superata la soglia, e sempre in un momento in cui scoppiavano le prigioni. Era alla vigilia dell’ultimo provvedimento di indulto, nel 2006, che concesse uno scontro di tre anni per i reati commessi entro il maggio di quell’anno. Eppure, spiega Alessandra Naldi, garante per i detenuti del Comune di Milano, “Se si guardano i tassi di criminalità delle singole tipologie di reato, con qualche eccezione come la violenza sessuale che però ora si denuncia di più, sono tutti diminuiti”. E allora la spiegazione non può che essere una: si arresta di più. Anche perché, ipotizza Naldi, “c’è un controllo sul territorio molto più forte determinato anche dagli allarmi sicurezza che però non trovano riscontro nelle statistiche sul numero dei reati. Numeri che è necessario far conoscere all’opinione pubblica perché abbia meno paure”. Incontro tra Bonafede e il Partito Radicale di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 dicembre 2018 Si parlerà delle criticità irrisolte del sistema penitenziario. Oggi, alle ore 17, la delegazione del Partito Radicale composta da Rita Bernardini, Sergio D’Elia e Giuseppe Rossodivita, incontrerà il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede per parlare delle criticità irrisolte del sistema penitenziario. A tal proposito Rita Bernardini fa una radiografia delle nostre carceri, ricordando che le misure prese dallo Stato italiano dalla sentenza Torreggiani ad oggi, non sono state in grado di affrontare in modo strutturale il problema del sovraffollamento degli istituti penitenziari italiani. “Dopo un significativo calo iniziale che aveva portato il numero dei detenuti dai 65.704 al 31/ 12/ 2012 ai 52.164 al 31/ 12/ 2015, cioè a 13.540 - spiega l’esponente del Partito Radicale -, la popolazione detenuta ha ripreso ad aumentare negli ultimi tre anni passando dai 52.164 al 31/ 12/ 2015 ai 59.803 al 31/ 10/ 2018, cioè a + 7.639”. Rita Bernardini sottolinea come “questa inversione di tendenza è dovuta al fatto che i provvedimenti varati dai governi che si sono succeduti non hanno avuto quel carattere strutturale in grado di stabilizzare la popolazione detenuta” e aggiunge che quelli più efficaci “si devono soprattutto all’intervento delle Corti superiori, cioè dalle sentenze della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione”. L’esponente del Partito Radicale ricorda che la riforma organica dell’ordinamento penitenziario, che avrebbe potuto determinare, attraverso il ricorso alle pene e alle misure alternative al carcere, un deciso e strutturale cambio di passo anche ai fini di ridurre la recidiva, “non è stata varata dal governo Gentiloni a un soffio dalla sua definitiva approvazione, né, tantomeno, è stata ripresa dall’attuale governo Conte che l’ha fatta decadere non esercitando la delega”. Poi passa al sovraffollamento denunciando che “determina una sistematica violazione dei diritti fondamentali delle persone detenute che sono costrette a vivere in ambienti insalubri e fatiscenti, che non vedono riconosciuto il loro diritto alla salute (come nel caso Cirillo per il quale l’Italia è stata condannata), che trascorrono nell’ozio la maggior parte del tempo senza concrete responsabilizzanti possibilità di studio e di lavoro, che sono private financo degli affetti familiari non solo perché l’Italia è fra quei paesi europei che non consentono ai coniugi (o ai conviventi) di avere rapporti e incontri intimi, ma anche perché - aggiunge l’esponente del partito radicale - frequentemente i detenuti vengono ristretti in carceri situate a centinaia di chilometri di distanza dalla zona di residenza, il che impedisce persino di curare l’affettività con i figli minori”. Rita Bernardini, a proposito di affettività negata, ricorda che “ciascun detenuto in Italia, ha diritto a soli 10 minuti di telefonata a settimana che devono essere consumati in una sola volta”. Poi aggiunge che se sommassimo i detenuti che provengono da una storia di tossicodipendenza, o di disagio mentale, o di estrema povertà e sofferenza sociale, “copriremmo quasi la totalità della popolazione detenuta nelle carceri italiane”. Infine denuncia la mancata applicazione delle funzioni rieducative previste sia dalla Costituzione italiana che dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, indicando la carenza del personale educativo, ovvero il 2,17% rispetto al totale del personale operante negli istituti penitenziari. Questo cane è un leone. Questo naufragio è una crociera... di Glauco Giostra Il Dubbio, 4 dicembre 2018 Quasi cento anni fa nasceva a Canicattì l’Accademia del Parnaso. Quando fu deciso di inserire nello stemma un leone, si pose il problema di come realizzarlo, poiché, non essendoci ad Agrigento uno zincografo, ci si sarebbe dovuti recare a Palermo e, soprattutto, si sarebbero dovuti improntare denari. Il problema fu risolto con disinvoltura: poiché tra i vecchi cliché c’era un cane, lo si utilizzò come emblema, apponendo l’avvertenza: “Questo cane è un leone, a norma del decreto n. 34256 del 2 luglio 1925”. A distanza di un secolo, il circolo goliardico canicattinese torna quasi ogni giorno alla mente per l’incessante creatività con cui la politica ci ripropone l’arguto artificio: questo condono è una pace fiscale; questa licenza di uccidere il malintenzionato violatore di domicilio è una legittima difesa; questo drammatico cercare di sopravvivere è una pacchia; queste odissee di dolore e di morte sono crociere; questa incostituzionale immodificabilità della carcerazione è la certezza della pena; questo criminogeno e discriminatorio provvedimento è un decreto sicurezza. Beninteso, da sempre la politica fa affidamento su una sorta di prestidigitazione verbale per conquistare o per non perdere consensi. Una volta ci si affidava ad un certo esoterismo linguistico che teneva lontano il volgo, non in grado di comprendere “la convergenza delle parallele”. Poi è arrivato il tempo dell’edonismo disinvolto e della corruzione nascosta sotto il tappeto di un garantismo peloso. Poi il tempo delle magnifiche sorti e progressive: i problemi non c’erano e, se c’erano, erano tutti in via di provvidenziale risoluzione. Poi questo tempo d’oggi, in cui di fronte ad ogni problema si individua un capro espiatorio e si ostenta una muscolarità repressiva. Interpellato su quale sarebbe stata la riforma prioritaria qualora fosse stato nominato Primo ministro, il saggio cinese disse che avrebbe messo i nomi giusti alle cose: il più efficace antidoto contro la mistificazione politica e la necessaria premessa affinché il popolo abbia una reale possibilità di scelta. Naturalmente, sta anche a noi cittadini saper “battere - come insegnava Salvemini - con le nocche sull’intonaco delle parole per sentire quel che c’è dietro: il gesso, la pietra viva o il vuoto”. Ma proprio in ciò risiede la pericolosità della stagione presente, in cui si saldano due preoccupanti contingenze. Da un lato, la desertificazione culturale di quest’ultimo quarto di secolo ci ha privato degli strumenti per smascherare slogan e mistificazioni. Dall’altro, l’attuale retorica politica, a differenza delle precedenti, di cui alla lunga finivano per pagare il conto gli stessi imbonitori, sta deteriorando in maniera profonda la società - sempre più divisa, diffidente e ringhiosa - e il nostro Stato di diritto. Non vorremmo sentirci spiegare in un giorno non lontano: questo nostro sistema illiberale e autoritario è una democrazia. Decreto sicurezza, Mattarella firma. Allarme di Sindaci e Regioni di Carlo Lania Il Manifesto, 4 dicembre 2018 Già cominciate le espulsioni dai Centri di accoglienza. Previsti 50 mila nuovi irregolari. Tutti gli appelli lanciati perché non firmasse sono caduti nel vuoto. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha promulgato ieri il decreto sicurezza, convertito in legge dalla Camera la scorsa settimana, e che attende ora di essere pubblicato sulla Gazzetta ufficiale. Un atto scontato, che ha lasciato però l’amaro in bocca a quanti, tenuto conto della presenza nel decreto di misure a rischio di incostituzionalità, speravano in un estremo stop da parte del Quirinale. Così invece non è stato. Esulta Matteo Salvini, che con la firma del capo dello Stato porta a casa un provvedimento prezioso da sbandierare come un successo nella prossima campagna elettorale per le europee di maggio. “È necessario smontare le bufale che stanno circolando da giorni - ha detto il ministro degli Interni. Più diritti per i rifugiati e meno diritti per chi rifugiato non è”. Saranno anche bufale, come dice Salvini, fatto sta che a Nord come a Sud del Paese decine e decine di sindaci, governatori e assessori sono impegnati nel fare i conti con le conseguenze che il provvedimento provocherà nei territori. “Sarà un disastro e alla fine saranno i sindaci a restare con il cerino in mano”, aveva pronosticato a ottobre Matteo Biffoni, primo cittadino di Prato e responsabile immigrazione dell’Anci, l’associazione dei comuni italiani. Conseguenze che rischiano di essere pesanti non solo per i migranti, ma anche per il futuro di migliaia di italiani che oggi sono impiegati nel circuito dell’accoglienza e che domani potrebbero ritrovarsi senza più un lavoro. Sempre l’Anci ha calcolato in circa 50 mila i migranti che nel solo 2019 passeranno bruscamente da un percorso di integrazione a una situazione di irregolarità per effetto della nuova legge. E le espulsioni sono già cominciate. Alle 26 persone - tra le quali una donna incinta e un bambino di cinque mesi - che venerdì scorso sono state messe alla porta nel Cara di Isola di Capo Rizzuto, in Calabria, moltissime altre si preparano a fare la stessa fine. A Milano il Comune ha calcolato in 900 i migranti che nei prossimi mesi saranno costretti a lasciare i centri di accoglienza della città, e di questi 240 potrebbero ritrovarsi in mezzo alla strada già nei prossimi giorni. Non si sta parlando di “clandestini”, bensì di migranti regolari, spesso di famiglie con bambini in possesso di una protezione umanitaria cancellata dalle nuove norme e per questo, finito il periodo di accoglienza, destinate a lasciare l’unico luogo che hanno a disposizione. “Un follia che ci regala 900 nuovi senzatetto” commentava ieri l’assessore alle politiche sociali del Comune, Pierfrancesco Majorino. Una “follia” che in Toscana, stando ai calcoli dell’assessore all’Immigrazione della Regione, subiranno cinquemila degli undicimila migranti presenti nei Centri di accoglienza straordinaria e in quelli aderenti al circuito Sprar (il Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati, destinato a essere fortemente ridotto dalle nuove norme). Di questi, tremila solo come conseguenza dell’abolizione della protezione umanitaria. In Piemonte sono destinati a diventare irregolari almeno 5.000 dei 10.380 migranti accolti nei Cas mentre a Roma l’assessore alle Politiche sociali del Campidoglio, Laura Baldassarre, parla di 1.059 persone espulse dai centri di accoglienza. E l’elenco potrebbe continuare. Ma la prospettiva di migliaia di disperati costretti ne prossimo futuro a sopravvivere nelle strade è solo una parte del problema. Ad rendere la situazione ancor più pesante è l’articolo della legge che cancella il diritto per i richiedenti asilo ad iscriversi all’anagrafe del Comune in cui risiedono. Questo significa niente documenti e quindi vedersi preclusa la possibilità di avere un lavoro regolare, possedere una patente e, soprattutto, l’accesso al Servizio sanitario nazionale. Fatto quest’ultimo che ricadrà inevitabilmente sui singoli Comuni, che hanno già calcolato in 280 milioni di euro i nuovi costi sociali che dovranno affrontare. Come se non bastasse, un emendamento alla manovra di bilancio prevede che a partire dal 2019 il fondo di 30 milioni di euro finora vincolato alla spesa sanitaria per i migranti non iscritti al Servizio sanitario, possa essere usato dalle Regioni anche per altri scopi. Anche per questo il governatore del Lazio Nicola Zingaretti ha stabilito che le Asl della Regione continueranno ad erogare cure e assistenza “a tutte le persone, anche ai nuovi invisibili creati dal decreto”. Altro che legittima difesa! Meglio far scontare la pena di Bruno Tinti Italia Oggi, 4 dicembre 2018 Come è noto, la democrazia si fonda sul consenso: più consenso, più voti. I voti dipendono dalle promesse: devono essere appetibili. Per questo ogni agglomerato politico ha il suo brand che, secondo la definizione di Glossario Marketing, significa “segno distintivo sviluppato dall’azienda venditrice per identificare la propria offerta e differenziarla da quella dei concorrenti”. Se si analizza la situazione politica italiana sotto questo profilo, si capiscono bene le ragioni del successo, del declino e della decadenza dei partiti che sono ancora sulla scena. Il brand della Lega è ordine e sicurezza, quello dei Grillini è assistenzialismo, quello del Pd non esiste. Poiché l’assistenzialismo è desiderato dalla platea dei meno favoriti economicamente che, per fortuna, sono la minoranza della popolazione; mentre ordine e sicurezza sono requisiti indispensabili per il vivere civile di tutti; e poiché l’assenza di ogni programma ovviamente non crea consensi; ecco spiegate le ragioni dell’egemonia sempre crescente della Lega, del declino dei Grillini e dell’irrilevanza del Pd. L’ultimo aggiornamento del brand leghista sta nella “difesa è sempre legittima”. Che è proprio una stupidaggine, come confido di aver spiegato in più occasioni. Ma l’offerta potrebbe essere utilmente arricchita con una sostanziale riforma dell’ordinamento penitenziario. Intendo dire che Salvini potrebbe acquisire grandi consensi se cavalcasse slogan del tipo “i delinquenti in prigione”. Insomma, il “la pacchia è finita” potrebbe essere applicato ai condannati che scontano (si fa per dire) la pena fuori dal carcere. È noto a tutti che i delinquenti, condannati a pene inferiori a quattro anni di reclusione, in carcere non ci vanno: arresti domiciliari o affidamento in prova al servizio sociale. Ora, che esista una insanabile incoerenza tra l’auspicata pena di morte per i ladri sorpresi in flagranza di furto e la sostanziale impunità di cui godono all’esito di un lunghissimo e costosissimo processo è innegabile: quasi mai il furto in abitazione è punito con pene superiori a quattro anni e, quando pure capita, si sconta solo la parte che li supera e nemmeno per intero. E questo avviene per ogni reato e per ogni condanna. Insomma, nel nostro paese, un brutto delinquente (quattro anni di reclusione sono una pena importante) resta sostanzialmente libero di continuare a delinquere. E, attenzione, questo incredibile trattamento è garantito a tutti, incensurati come pregiudicati. Vero, proprio garantito no, perché il giudice di sorveglianza potrebbe non concedere questa misura alternativa alla detenzione (si chiama così); ma di fatto è concessa quasi sempre. L’impunità non finisce qui perché l’ordinamento penitenziario prevede, per tutti (assassini e violentatori inclusi), una durata convenzionale dell’anno di detenzione: non sono dodici mesi ma nove. Il che vuol dire che un delinquente condannato a dieci anni di galera ne farebbe in realtà sette e mezzo; ne farebbe perché, dopo tre e mezzo, arrivato a quattro ancora da scontare, godrebbe dell’affidamento in prova al servizio sociale. Insomma: dieci anni sono in realtà tre e mezzo, venti sono in realtà undici e perfino l’ergastolo può arrivare a sedici circa. Considerando che il 90% delle pene sta nei cinque/sei anni di reclusione, la conclusione è ovvia: in prigione ci si sta al massimo un anno, qualsiasi reato sia stato commesso. Ecco, il brand Lega avrebbe un grande successo se adottasse una riforma che impedisse simili assurdità. Sarebbe anche una riforma tecnicamente semplice: abolizione degli articoli da 47 a 52 dell’Ordinamento Penitenziario (prevedono le misure alternative alla detenzione) e obbligo per i giudici di sorveglianza di valutare la buona condotta (presupposto per godere dello sconto di pena di tre mesi per ogni anno) su base complessiva e non semestrale come avviene oggi. Per intenderci, il detenuto che partecipa a una rivolta carceraria e poi, nei sei mesi successivi, resta in infermeria e quindi non combina casini, ha comunque diritto allo sconto di pena di 45 giorni in relazione a questi sei mesi di quiete forzosa. Il che è irragionevole. Dove sta il problema? Cioè, perché ancora non si è proceduto? Due ragioni. Gli avvocati pianterebbero una grana micidiale: gli si abolirebbe l’intero volume d’affari coincidente con il giudizio di sorveglianza. Ed è un volume d’affari ricco: coincide con galera sì/galera no. E poi servirebbero soldi. Perché la vera ragione di questo buonismo assurdo sta nel fatto che non si vogliono spendere soldi per costruire carceri. È ovvio che, se si vuole tenere dentro i delinquenti, bisogna avere le prigioni dove metterli. E in Italia i posti/prigione sono 40 mila circa. Che dovrebbero essere almeno triplicati se tutti i condannati a quattro anni di galera li dovessero scontare davvero; e se la si smettesse di regalare sconti di pena a gente che non li merita nemmeno un po’. Niente soldi, niente carceri, delinquenti in libertà. E, soprattutto, consapevolezza dell’impunità: delinquere conviene, questo lo sanno tutti. Eccolo il brand di Salvini: niente assistenzialismo, niente abolizione della Fornero; invece investimenti sulla sicurezza, dunque carceri e personale di custodia. Che significherebbe consenso e, per quello che può valere, un paese a basso tasso di criminalità. Roba che, alla fi ne, finisco con votarlo pure io. I detenuti in regime di 41bis possono vedere la televisione anche di notte di Lucilla Amerio giurisprudenzapenale.com, 4 dicembre 2018 Sproporzionata, incongrua ed ingiustificata la disposizione che limita temporalmente al detenuto in regime di “carcere duro” di accendere la televisione in cella. Disapplicata la circolare D.A.P. nella parte qua. Tribunale di Sorveglianza di Roma, 2 ottobre 2018 (ud. 27 settembre 2018), n. 4164. Con la Sentenza in commento, il Tribunale di Sorveglianza di Roma si è pronunciato in ordine ad un peculiare aspetto del carcere duro, apparentemente di scarso rilievo, e tuttavia fondamentale se calato nel contesto di riferimento. Questa la vicenda, in breve. A fronte del rigetto, da parte del Magistrato di Sorveglianza, della richiesta del detenuto di poter mantenere accesa la televisione oltre le ore 24.00 in occasione delle olimpiadi e paraolimpiadi invernali, il Tribunale di Sorveglianza di Roma è stato chiamato a pronunciarsi in ordine a tale aspetto, strettamente riconducibile a quello più ampio, inerente la (possibilità di) tutelare il diritto all’informazione in capo al detenuto in regime di 41bis O.P. A giustificazione del proprio rigetto, il Giudice di prime cure aveva richiamato espressamente la circolare Dap n. 3676/6126 del 2.10.2017, in forza del cui art. 2 “la fruizione del televisore sarà consentita solo in orari stabiliti, con accensione alle ore 7.00 e spegnimento non oltre le ore 24.00 al fine di non disturbare il riposo degli altri detenuti”. E tuttavia, si imponeva, nel caso di specie, un più rigoroso accertamento, se non addirittura un “giudizio di proporzionalità”, avente ad oggetto, per un verso, la ratio del regime di 41 bis e, per altro verso, il diritto costituzionale ad informarsi ed informare, di cui agli artt. 2 e 21 Cost. In tal senso, il Tribunale di Sorveglianza ha rilevato che “sussiste il diritto del detenuto ad informarsi attraverso la visione, anche in orario notturno, di programmi televisivi, non solo sportivi ma anche di intrattenimento ovvero di contenuto politico, che spesso, come noto, vanno in onda in seconda serata”. Non solo: risolvendo quel “giudizio di proporzionalità” cui si accennava, il Tribunale ha ritenuto che il diritto di informazione non comporta alcuna lesione o pericolo per le finalità proprie del carcere duro; e ciò, in ragione delle limitazioni già in atto (tra le quali, in primis, la visione consentita solo di alcuni canali già pre-selezionati). Con il che, il divieto di vedere la TV in orario notturno “non risponde all’esigenza di evitare i contatti con organizzazioni criminali, assicurata attraverso la selezione dei canali e, conseguentemente, esso comprime il diritto all’informazione in modo incongruo ed ingiustificato rispetto all’obiettivo di prevenzione sopra esposto”. A fronte di tali ragioni, il Tribunale di sorveglianza ha accolto il reclamo proposto dal detenuto, disponendo disapplicarsi la circolare Dap n. 3676/6126 del 2.10.2017, nella parte in cui vieta la fruizione del televisore dalle ore 24.00 alle ore 7.00 ed ordinando di darne comunicazione al Ministero della Giustizia - D.A.P. di Roma - Direzione Generale dei detenuti, per opportuna conoscenza. Guida in stato di ebbrezza: particolare tenuità del fatto anche se il tasso di alcol è alto di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 4 dicembre 2018 Corte di cassazione - Sezione IV - Sentenza 3 dicembre 2018 n. 54018. L’alto tasso alcolemico nel sangue non basta ad escludere la non punibilità per la particolare tenuità del fatto. Perché sia negata l’applicazione dell’articolo 131-bis è necessario che il fatto illecito generi un concreto pericolo. La Corte di cassazione, con la sentenza 54018, accoglie il ricorso contro la condanna per guida in stato di ebbrezza, con l’aggravante di aver commesso il fatto in ora notturna. Alla base della condanna un paio di prove dell’alcol test, fatte verso le 2 e 30 del mattino, che avevano fatto registrare dei valori nettamente sopra la soglia minima. Da qui la condanna contestata. L’imputato aveva, in prima battuta, sostenuto la tesi, non troppo “originale”, dell’alcoltest difettoso. In subordine si era lamentato per il mancato riconoscimento dell’articolo 131-bis. Un occhio di “riguardo” - che scatta quando il fatto è particolarmente lieve - che i giudici non si erano sentiti di avere, in considerazione del notevole “sforamento” rispetto ai valori tollerati. Per la Cassazione però questo solo elemento non basta, ma è necessario guardare al caso singolo: al comportamento tenuto dalla persona in stato di ebrezza. La Suprema corte, chiarisce che “ai fini dell’apprezzamento circa l’applicabilità dell’articolo 131-bis del Codice penale, occorre accertare che il fatto illecito non abbia generato un contesto concretamente e significativamente pericoloso con riguardo ai beni indicati”. Il giudizio, dunque, non può prescindere dal comportamento tenuto nel frangente “incriminato”, tale da creare o meno dei rischi. Al reato di caporalato si può applicare solo la confisca del 2016 di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 4 dicembre 2018 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 3 dicembre 2018 n. 54024. Al caporalato si può applicare esclusivamente la confisca prevista per questo reato (articolo 603-bis2 del cp) e non per analogia una disposizione dettata da altra norma solo perché già esistente, ma senza alcuna pertinenza. Lo chiarisce la Cassazione con la sentenza n. 54024/18. La vicenda - La Corte ha esaminato un caso di omissione dei versamenti dei contributi previdenziali e assistenziali e ha precisato come non fosse applicabile la confisca per reati riguardanti minori (e cioè l’articolo 600-septies) perché la fattispecie era completamente differente e riguardava l’intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro prevista dell’articolo 603-bis2 del codice penale. Nel caso concreto quindi - si legge nella sentenza - il principio di diritto è quello secondo cui “i beni non possono essere confiscati sulla base della norma sanzionatoria di cui all’articolo 600-septies come erroneamente stabilito dal Tribunale, ma solo in ragione della specifica previsione dell’articolo 603-bis2 cp, e con esclusivo riferimento ai fatti a decorrere dal 4 novembre 2016, vale a dire dalla data di entrata in vigore di tale ipotesi di confisca, non potendo tale norma sanzionatoria essere applicata retroattivamente”. Conclusioni. I giudici, quindi, sulla scorta del principio nulla poena sine lege ex articolo 25 comma 2 della Costituzione hanno disposto l’annullamento dell’ordinanza con rinvio al Tribunale di Padova. Su reati elettorali e sospensione condizionale della pena. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 4 dicembre 2018 Reati elettorali - Condanna a pena detentiva - Sospensione condizionale della pena - Irrilevanza sulla privazione dei diritti di elettorato attivo o passivo. In tema di delitti elettorali esiste una stretta correlazione tra il bene offeso - che va individuato nella libera espressione del diritto di voto - e il permanere della privazione dell’elettorato attivo e passivo anche in caso di applicazione del beneficio della sospensione condizionale della pena detentiva. È infatti lo stesso bene tutelato con la condanna a pena detentiva che giustifica il permanere degli effetti della privazione dei diritti elettorali anche nel caso in cui venga sospesa la pena principale. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 21 novembre 2018 n. 52522. Elezioni - Reati elettorali - Sentenza di condanna pronunciata nei confronti di un candidato - Privazione dal diritto elettorale e di eleggibilità - Natura giuridica - Effetto extra penale della condanna - Conseguenze. L’irrilevanza della sospensione condizionale della pena sulla incandidabilità del condannato non costituisce un aspetto del trattamento sanzionatorio penale del reato elettorale e non è dunque pena accessoria, ma rappresenta un effetto extra penale della condanna che si traduce nel difetto di un requisito soggettivo per l’elettorato passivo. •Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 22 luglio 2013 n. 31499 Incompatibilità e ineleggibilità - Perdita dell’eleggibilità - Per sentenza penale - Sospensione condizionale della condanna - Irrilevanza. In ipotesi di incandidabilità alla carica di Consigliere regionale, conseguente a condanna penale per reato elettorale, non assume rilievo, ai fini del venir meno della causa di ineleggibilità, il fatto che la condanna sia stata soggetta a sospensione condizionale, beneficio esteso anche alle pene accessorie dall’art. 166 del Cp, attesa l’espressa previsione di deroga di tale regola di cui all’articolo 2, comma 2, del Dpr n. 223 del 1967, come sostituito dall’articolo 1 della legge n. 15 del 1992 per il quale la sospensione condizionale della pena non ha effetto ai fini della privazione del diritto di elettorato. • Corte di cassazione, sezione I civile, sentenza 1° dicembre 2011 n. 25732. Elezioni - Reati elettorali - Condanna sospesa condizionalmente - Sospensione automatica anche delle pene accessorie - Estensione anche a quelle previste dalla legge elettorale - Diverso regime previsto da quest’ultima - Irrilevanza. Poiché la regola posta dall’art. 166 c.p., a seguito delle modificazioni introdotte dalla l. n. 19 del 1990, secondo la quale la sospensione condizionale della pena si estende alle pene accessorie e tali devono considerarsi la sospensione dal diritto elettorale e dai pubblici uffici conseguente a condanne per reati elettorali previsti dal d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570 (testo unico delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle amministrazioni comunali), anche di queste ultime è sospesa l’esecuzione, una volta che sia stato concesso il beneficio in ordine alla pena principale, in quanto la circostanza che la legge sulle elezioni locali contiene l’opposto principio, del divieto di sospendere le predette pene accessorie, non incide sul principio generale per cui la legge posteriore prevale, in caso di difformità, su quella antecedente, anche se speciale. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 11 agosto 2010 n. 31708. Elezioni - Elettorato - Passivo - Ineleggibilità - Cause ostative all’elezione alla carica di sindaco - Condanna penale - Art. 58, comma 1, lettera c), d.lgs. n. 267 del 2000 - Sospensione condizionale della pena - Successiva concessione dell’indulto - Rilevanza ai fini del venir meno della causa di incandidabilità - Esclusione - Fondamento - Dubbi di legittimità costituzionale - Manifesta infondatezza. Qualora un candidato, eletto alla carica di Sindaco, sia successivamente dichiarato decaduto per aver subito in precedenza una condanna penale ostativa all’elezione - ai sensi dell’art. 58, comma 1, lett. c, d.lgs. 18 agosto 2000 n. 267 - non assumono rilievo, ai fini del venir meno della causa di incandidabilità, né il fatto che la condanna sia stata soggetta a sospensione condizionale (che l’art. 166 c.p. oggi estende anche alle pene accessorie), né che per la medesima sia stato concesso l’indulto di cui alla l. 31 luglio 2006 n. 241, poiché l’incandidabilità non è un aspetto del trattamento sanzionatorio penale del reato, ma si traduce nel difetto di un requisito soggettivo per l’elettorato passivo; né tale assetto risulta in contrasto con alcun parametro costituzionale, come già stabilito dalla Corte cost. con la sentenza n. 132 del 2001. • Corte di cassazione, sezione I civile, sentenza 27 maggio 2008 n. 13831. Milano: Alex e gli altri, una casa per i figli delle detenute di Viviana Daloiso Avvenire, 4 dicembre 2018 L’asilo, la scuola calcio, nonni e papà alla tavolata di Natale e l’orto condiviso. Oltre il carcere, ecco il modello che esiste già (e funziona) a Milano e a Roma. Alex corre dietro al suo camion nel corridoio di piastrelle lucide. Poi compare Maria, bellissima e trafelata: “È tardi, dobbiamo andare, la maestra ci aspetta!”. “Mamma, amion...” protesta lui. Giubbotto alla velocità della luce e giù dalle scale, per strada, in questo angolo tranquillo della periferia Sud di Milano, dove l’asilo è a un passo dalla chiesa, la chiesa a un passo dal campo da calcio, e il campo sotto la casa di Alex. Che sogna di diventare un campione, oltre che un autista di camion. La giornata di un bimbo di 3 anni comincia all’incirca così, nella normalità. E questo succede anche ad Alex, che ha una madre detenuta. Le proteste e le rivendicazioni avanzate dal mondo politico e dalle istituzioni di ogni ordine e grado nelle ultime settimane - dopo la vicenda terribile della donna che ha ucciso i suoi due bimbi a Rebibbia - circa la necessità che nessun bambino, mai, debba vivere in un carcere, sono già realtà in Italia: nelle case famiglia si può permettere ai piccoli di vivere una vita serena, senza separarsi dalle loro mamme. Ed esistono già, le case famiglia, però sono due. Solo due in tutta Italia. Al C.i.a.o. di Milano, con Alex, in questo momento vivono altri 5 bambini. La più piccola, Dora, ha un anno e un puzzle di treccine sulla testa. La più grande, Benedetta, dieci. A occuparsi di loro, e delle loro quattro “mamme speciali”, Andrea Tollis con sua moglie Elisabetta Fontana, rispettivamente direttore della casa e presidente dell’associazione. Una famiglia nella famiglia quella dei coniugi milanesi con i loro, di figli, due, che studiano qui al pomeriggio e considerano tutti gli altri fratelli e sorelle. Coi detenuti al C.i.a.o. si lavora dal 1995, quando il mondo del volontariato aveva già intuito la necessità di offrire un tetto, e un posto da cui ricominciare, per quelli in misura alternativa o appena usciti, magari con la possibilità di ricongiungersi coi propri cari. I primi appartamenti messi a disposizione dall’associazione erano ubicati in zona Porta Genova, a Milano. Poi, nel 2003, all’associazione viene concesso dalla parrocchia SS. Quattro Evangelisti l’ultimo piano della Casa della Gioventù. E lo spazio di un ex liceo, che viene ristrutturato grazie al contributo di Regione Lombardia e della Fondazione Moneta, ricavandone tre appartamenti, due stanze arredate con servizi comuni e l’ufficio della associazione. Al centro, il lungo corridoio dove oggi Alex costruisce le sue piste, e dove si festeggia tutti insieme, ci si rincorre, si litiga e poi si fa pace. Nel 2010 arriva un prima richiesta speciale dall’Ufficio di esecuzione penale esterna: c’è bisogno di un posto per una mamma ai domiciliari, coi sui due bimbi. “Da lì è cambiato tutto - spiega Andrea Tollis Abbiamo subito capito che questo spazio si prestava bene a quel tipo di esigenza, e che l’esigenza in questione era fondamentale e priva di risposte sul campo: permettere ai bambini di non scontare la pena delle proprie madri”. Già, la pena. Che cos’è e che cosa dovrebbe essere, in un Paese attento al rispetto dei diritti di tutti? “Premesso che qui non entriamo nel merito dei reati compiuti dalle mamme, il punto è che la pena- continua Tollis - non colpisce il singolo, ma un sacco di persone. E i bambini sono l’esempio più eclatante e scabroso di questa contraddizione”. L’Italia ci si è trovata davanti lo scorso settembre, all’improvviso, quando una mamma di origini tedesche ha ucciso i suoi due bimbi nel carcere di Roma. “Ma la verità è che mentre la pena arriva, con la condanna, il diritto dei bambini in Italia, che è stabilito da una legge (la 62 del 2011, ndr) e prevede che i piccoli, laddove sia possibile, stiano con le loro mamme ma non in carcere, ancora non è stato affrontato, né tanto meno risolto”. Il campo è chiaramente minato. Perché mentre 5 bambini a Milano - e altri a Roma, nella casa famiglia nata nel 2017 e intitolata a Leda Colombini - questo diritto se lo vedono riconosciuto, altri 62 vivono dietro le sbarre (una trentina dei quali negli Icam, gli Istituti a custodia attenuata per le madri detenute, che carceri non sono, ma spazi chiusi all’esterno e presidiati sì). E, ancora, perché il diritto riconosciuto a questi bambini e concretizzato da queste strutture resta incredibilmente al di fuori di ogni percorso o protocollo istituzionale prestabilito, in un limbo in cui pur collaborando con tutti- il Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria, i giudici di sorveglianza, i Tribunali dei minori, gli enti locali, le carceri e lo stesso Icam nel caso di Milano - la casa famiglia di fatto si gestisce (e si finanzia) da sola: “Con tutti i problemi che questo comporta, è evidente - continua Andrea. A cominciare dal fatto che mentre ci facciamo carico delle situazioni familiari intricate e problematiche dei nostri “ospiti”, dei percorsi di vita di questi piccoli, del reinserimento sociale delle loro mamme attraverso percorsi ad hoc, dobbiamo anche pensare alla sostenibilità di quello che facciamo, a formulare proposte accattivanti per ottenere sponsorizzazioni o finanziamenti”. Ed è solo la punta dell’iceberg, perché anche ottenere il riconoscimento formale di spazi e modalità operative richiede sforzi titanici nella foresta intricata della burocrazia che rimanda di ufficio in ufficio, di ente in apparato. Verrebbe da arrendersi. Ma poi ci sono Alex, Dora, Vittoria e gli altri, 27 piccoli passati di qui in 8 anni, con 22 mamme. “C’è la piscinetta che il parroco, don Luciano, ci ha permesso di sistemare qui sotto quest’estate vicino agli spazi dell’oratorio - spiega Elisabetta - e dove ogni giorno è stata una festa. C’è “il giorno al mese” di Ivan, il papà di Vittoria, che anche lui è in carcere e viene qui scortato da due agenti”. È un piccolo miracolo, quello di Ivan. I poliziotti si fermano fuori dalla stanza gioco, lui e Alessandra, la mamma di Vittoria (che a 6 anni ha vinto la sua battaglia con la leucemia), entrano con la loro piccola. E parlano, giocano, sognano di quando magari- chissà - potranno tentare d’essere una famiglia normale come in questo momento. La stanza ha le pareti sfumate di verde e rosa, i cavalli a dondolo di legno, le finestre affacciate sul campo da calcio da cui provengono le voci dei bambini. Vittoria è così felice. Ma c’è anche la spesa (che le mamme fanno da sole, al mattino), c’è il progetto dell’orto sociale al lunedì, la pizza tutti insieme, il tavolo sistemato lungo il corridoio a Natale con i nonni e gli zii che arrivano da lontano, le gite e i laboratori organizzati con gli altri bimbi dell’Icam grazie alla collaborazione con la Fondazione Rava. C’è la vita difficile di ogni giorno, con Maria che prova e riprova a ricostruirsi, Jenny (una delle operatrici di casa) che le parla, gli stendini del bucato tutti vicini e la scritta sul muro: “In questa casa... siamo reali. A volte sbagliamo, ci divertiamo, chiediamo scusa, ci abbracciamo, perdoniamo. Siamo una famiglia”. Milano: in carcere, una “traccia” di libertà di Andrea Di Franco* Corriere della Sera, 4 dicembre 2018 Progetto del Politecnico nella struttura di Bollate. In questo tempo di “rinascenza”, celebrata da tante nuove torri, magnifiche e abbaglianti, al cui piede una fitta comunità di consumatori afferma la propria identità, le vere “buone notizie” scorrono forse in sottofondo, ad un volume più basso. Cos’è una città, dopotutto? Qual è il lato migliore di queste speciali e magnetiche forme di convivenza umana? Vorrei dire: l’occasione del confronto tra chi, per scelta o per ventura, nella città si trova ad abitare. Se la città fosse davvero, nella sua più fertile ragion d’essere, “confronto” - con tutte le fatiche e gli attriti che confrontarsi e mettersi in questione comporta - ecco che allora i luoghi che più rappresentano questa innata attitudine dell’umana società sono quelli che nascono dal - e si rendono disponibili al - confronto. Qual è dunque la buona notizia? È quella che racconta di un’altra piccola, nuova traccia lasciata sul suolo della città, nata da un lavoro fatto insieme ai suoi abitanti e affidata alla cura di chi, lì, ci si ritrova. Si chiama “Traccia di Libertà” questo frammento di progetto, testimone di un confronto tanto necessario quanto difficile, posto in uno specialissimo luogo pubblico della nostra città. Perché questo luogo pubblico è il Carcere di Milano-Bollate. Nasce dal lavoro che una classe di studenti e docenti della Scuola di Architettura e del dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano (Chiara Merlini, Michele Moreno, il sottoscritto), sostenuti dal programma Polisocial, hanno costruito con i detenuti del Gruppo della Trasgressione, fondato da Angelo Aparo, bottega di riparazione di coscienze. Ma anche con gli artigiani che non si rassegnano alla chiusura di una fabbrica che hanno ribattezzato Rimaflow, e con i cittadini dell’associazione Civicum, che hanno un senso alto della nozione di responsabilità, e con la Direzione del carcere e gli agenti di Polizia Penitenziaria. Il luogo pubblico è un prato racchiuso nel cemento, dove figli e madri e padri si cercano e trovano il coraggio del confronto; la Traccia di libertà accoglie questi incontri. Una costruzione leggera ma radicata nel terreno, a forma di piccola casa rossa a metà tra un gioco e un ricordo, un albero che cresce dall’interno, buca il tetto, fa entrare sole e acqua; e lascia uscire qualche parola che prova ancora a raccontare una speranza di progetto. Queste sono le buone notizie di cui questa città ha davvero bisogno, che ci permettono di credere che, forse sì, la città è un posto in cui, nonostante tutto, si può abitare; perché pure qui si possono ancora ascoltare nuove parole. *Dipartimento di Architettura e Studi Urbani Politecnico di Milano Lecce: “Made in Carcere”, quelle officine artigiane per il recupero delle detenute di Luca Bergamin Corriere della Sera, 4 dicembre 2018 Diversamente utili. Per chi li compra ma soprattutto per chi li produce: e cioè persone detenute in diverse carceri italiane, da Lecce a Matera, o comunque persone “ai margini”. Sono i capi e i prodotti di artigianato realizzati col marchio Made in Carcere. Questa Officina Creativa inventata da Luciana Delle Donne, ex manager del settore bancario protagonista della prima stagione degli istituti creditizi online, si sta facendo apprezzare perché “recupera” persone che vivono negli istituti penitenziari attraverso il recupero di tessuti che non rientrano più nei normali cicli produttivi. “Produciamo manufatti diversamente utili, dalle borse agli accessori, allegri e colorati - racconta Luciana, donna dinamica e positiva che cinge tutti con la sua amicale e gioviale vitalità - confezionati da donne che si trovano ai margini della società e da ragazzi che hanno commesso crimini quando erano ancora poco più che bambini. Vogliamo provare a dare una seconda opportunità tanto alle persone quanto ai materiali. Le nostre stiliste e sarte sono donne condannate a una detenzione di lunga o media durata. Tutti vengono retribuiti”. Made in Carcere sforna anche biscotti vegani chiamati Scappatelle, ha inaugurato una Maison all’interno dell’istituto penitenziario di Lecce - la prima in Italia dietro le sbarre, arredata con divani e tappeti - e sta per aprire nella prigione di Matera un laboratorio in cui si lavoreranno cuoio e pelle. “Quello che conta è connettere l’inclusione sociale all’impatto ambientale, non solo attraverso la formazione e il lavoro ma soprattutto - prosegue Delle Donne - contaminando le persone esterne affinché si generi sensibilità nei confronti dei detenuti e della natura del Pianeta, nel segno unificante della bellezza”. L’Officina Creativa di Luciana opera nei carceri di Lecce, Trani, Matera, in quello minorile di Bari, e nella veste di sartoria sociale all’interno della Casa delle Culture di Bari che aiuta i migranti nel loro inserimento. II prossimo progetto riguarda l’allestimento di una falegnameria che creerà puzzle in legno per grandi e piccini, mentre è già realtà la creazione di gadget destinate ad alcune grandi catene di supermercati. Napoli: un centro revisione auto nel carcere di Secondigliano, detenuti al lavoro Il Mattino, 4 dicembre 2018 Un centro autorizzato per le revisioni di autovetture e veicoli stradali fino a 3,5 tonnellate sarà realizzato nel carcere di Napoli Secondigliano. E vi lavoreranno i detenuti, dopo un’ adeguata formazione da parte di operatori del Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti. Lo prevede un protocollo d’intesa che coinvolgerà il Ministero della Giustizia e il Mit e che sarà siglato mercoledì prossimo, alle 11, nella stessa casa circondariale, alla presenza del guardasigilli Alfonso Bonafede. Sempre nell’ottica di favorire il lavoro dei detenuti, sarà firmata anche un’ altra intesa, “Mi riscatto per Napoli”, che segue analoghi accordi sottoscritti con i Comuni di Roma e Palermo. Promossa dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, coinvolge il Comune di Napoli, la direzione dell’istituto partenopeo, l’ufficio interdistrettuale dell’esecuzione penale esterna e il tribunale di sorveglianza ed è finalizzato a valorizzare l’inclusione sociale dei detenuti ammessi al lavoro all’esterno in lavori di pubblica utilità. Insieme al ministro Bonafede, interverranno il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca, il sindaco di Napoli Luigi de Magistris, il capo del Dap Francesco Basentini, il presidente del tribunale di sorveglianza Adriana Pangia, il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Giuseppe Martone e il direttore di Secondigliano Giulia Russo. Benevento: a Morcone la Guantánamo del Sud. Il sindaco “è una bomba sociale” di Teresa Ferragamo sanniopage.com, 4 dicembre 2018 C’è una Guantánamo che nessuno conosce e che spunta come un iceberg nel mezzo di un deserto di sassi. A Morcone, 5.000 abitanti su 100 km quadrati, negli anni 80 a qualcuno venne in mente di costruire un carcere di massima sicurezza che avrebbe dovuto ospitare 25 detenuti con reati gravi e crimini terribili alle spalle. I calcinacci a terra, le pareti scrostate, le porte blindate arrugginite sono l’immagine del tempo trascorso. Come la sterpaglia che assedia i muri di cinta e i cortili interni. Entrarci provoca un senso d’inquietudine e angoscia, è come fare un biglietto di sola andata per l’inferno. Le celle anguste erano destinate ad ospitare una persona. Attraverso questo quasi-lager mai entrato in funzione puoi immaginare tutta la dannazione di una vita senza orizzonte. La struttura bassa, con un impianto a croce, blindata, è delimitata da una cinta muraria alta tra i 6 e gli 8 metri, che avrebbe dovuto isolare detenuti e secondini dal paese arroccato sulla montagna come un presepe, a separare simbolicamente il bene dal male: quel mostro di cemento armato sta ancora lì nonostante sia una creatura del secolo scorso, come il muro di Berlino. Quel penitenziario ha assorbito in 30 anni quasi 10 milioni di euro di finanziamenti, ma resta una cattedrale nel deserto di sassi ai piedi di Morcone. Costantino Fortunato, sindaco fino al 4 marzo scorso, annusa l’affare e mette in piedi un progetto che assegna a quella struttura una destinazione d’uso diversa. In piena emergenza migranti, pensa di farne un Centro di prima accoglienza. Riesce ad ottenere 4 milioni di euro di finanziamento. Ma il mostro va adeguato, la sua struttura modificata per quanto possibile. Così si lavora per rimuovere le barriere da girone dei dannati: le stanze ora potrebbero ospitare fino a tre persone, i cortili per l’ora d’aria vengono resi più accessibili con corridoi d’acciaio agevolmente percorribili, ma modificarne l’architettura da lager è praticamente impossibile. Nella visione di Fortunato, l’ex supercarcere dovrebbe ospitare 127 migranti, ma i posti letto programmati sono 200. Lo stato di avanzamento dei lavori è fermo, per il momento, al 30 per cento e dei 4 milioni di euro ne sono già stati spesi 1 milione e 700 mila. I lavori hanno subito una battuta d’arresto, perché Luigino Ciarlo, il nuovo sindaco, considera quel progetto una ‘bomba sociale pronta ad esplodere in un comune di sole 5000 anime”. “Il punto non è l’accoglienza in sé, ma la gestione dell’accoglienza”, spiega. “Non siamo contrari ad accogliere nella nostra comunità i migranti, ma pensiamo che imprigionarli in una struttura penitenziaria ne renderebbe impossibile l’integrazione. Lì dentro sarebbero sepolti vivi. Commetteremmo un delitto contro l’umanità, perciò stiamo provando ad opporci con tutte le nostre forze”. Questa mattina, a visitare la struttura è arrivato da Bruxelles, l’europarlamentare Massimo Paolucci: “Mi colpisce il fatto che si sia pensato di stipare 127 extracomunitari in una struttura detentiva destinata ad ospitare 25 detenuti, come se i migranti fossero figli di un dio minore, un lezzo di carne umana da tenere sotto chiave”. “La prima cosa da fare è abbattere quel muro, niente ha un impatto sulle civiltà paragonabile a quello della costruzione dei muri. Innalzare alte difese tra uomini è pericoloso, alimenta disuguaglianze, ingiustizie ed errori. Così quella struttura diventerebbe una trappola piena di dolore e di odio. Bisogna anzitutto rompere quelle mura e poi rendere l’ambiente più umano, altrimenti ci scoppia una bomba sociale tra le mani”, spiega ancora il sindaco Ciarlo. Devi percorrere strade sterrate, uliveti e arbusti prima di immergerti nella natura un tempo destinata a inghiottire i reclusi più reietti. Una posizione studiata per assicurare l’isolamento, in grado di fare da barriera con il resto del mondo. È qui che sarebbero costretti a trascinare le loro giornate i 127 (o forse 200) extracomunitari di questo che sarebbe uno dei più grandi centri di prima accoglienza d’Italia. Colpisce il fatto che negli stessi anni in cui Riace assurgeva a modello di integrazione nel mondo, a Morcone si puntava sulla disintegrazione. In Libia, i migranti intercettati dal regime vengono rinchiusi e ammassati in grandi centri di detenzione. Quello che potrebbe succedere qui, dove in una struttura detentiva alienante dove il cielo lo vedi a scacchi, si murerebbero vivi quasi 200 migranti. L’idea del sindaco, invece, è quella di farne una Cittadella della Solidarietà, per l’accoglienza e la cura di diverse esperienze di fragilità. “Mi sembra la strada giusta. Di certo più umana”, chiosa Paolucci - “Va aperto un confronto con Regione e Governo per convertirlo in una struttura che metta insieme accoglienza e integrazione, per evitare che i migranti siano anime perdute e vaganti in spazi alienanti”. Nei prossimi giorni si programmeranno una serie di incontri per estirpare il rischio inferno che potrebbe cambiare il volto e il destino di un paese. Bari: il Centro per i rimpatri come un lager di Mauro Denigris Corriere del Mezzogiorno, 4 dicembre 2018 Il Cpr di Bari Palese, come denunciato già in passato dal sindacato di polizia Coisp, è una “bomba ad orologeria”. Sia dal punto di vista della sicurezza sia sotto il profilo igienico-ambientale. Sventato un tentativo di evasione, in due restano feriti. Più che un centro di permanenza per i migranti irregolari in attesa dei rimpatri sembra quasi un lager. Una prigione dalla quale i “detenuti” cercano di fuggire ad ogni occasione. Il Cpr di Bari Palese, come denunciato già in passato dal sindacato di polizia Coisp, è una “bomba ad orologeria”. Sia dal punto di vista della sicurezza sia sotto il profilo igienico-ambientale. La situazione, già difficile da tempo, sembra diventata esplosiva nelle ultime settimane, culminate con un tentativo di evasione poche notti fa. Un gruppo di cinque nigeriani, secondo quanto raccontato da una persona che lavora all’interno del centro ma preferisce conservare l’anonimato, ha aggredito due dipendenti, tra cui una donna, riuscendo a sottrarre le chiavi di alcuni moduli e cercando di liberare altri migranti. Solo l’intervento dei due poliziotti in turno ha evitato che il piano andasse a buon fine. I dipendenti, assunti dalla cooperativa “Badia Grande” di Trapani, avrebbero riportato ferite guaribili in una settimana, ma il caso pare non sia stato denunciato. I disordini per evitare i rimpatri da parte dei migranti, che hanno lo status di “trattenuti o ospiti” ma di fatto sono privati della libertà personale, sono però all’ordine del giorno. Sono frequenti le minacce nei confronti dei poliziotti e degli operatori, le intemperanze, i gesti di ribellione (per esempio lo sversamento di acqua e urina nei corridoi) e persino gli atti di autolesionismo. “Il problema - denuncia il segretario provinciale del Coisp, Eustacchio Calabrese - è che la maggioranza degli ospiti rinchiusi nei moduli ha gravi problemi psichici derivati dall’abuso di sostanze stupefacenti. La struttura pare non disponga dei medicinali specifici per il trattamento della disintossicazione. Mancano medicinali, siringhe e, in alcuni casi, a causa della mancanza di garze, i pochi addetti hanno dovuto far ricorso persino a della carta igienica per curare ferite. Tutto questo è anche umanamente inaccettabile. Inoltre, ci segnalano come non vengano garantiti pasti a sufficienza e spesso manchi l’acqua calda”. Per questi motivi Calabrese ha scritto non solo alla prefettura, ente competente sui Cpr, ma anche al ministro dell’Interno Matteo Salvini. Chiedendo, se non altro, di rafforzare la presenza delle forze dell’ordine nel centro. Al momento due agenti devono controllare circa 90 migranti. L’aspetto igienico e sanitario è, come detto, l’altra emergenza. Non a caso pochi giorni fa è stato segnalato un caso di scabbia che ha colpito una dipendente (la quale ha poi trasmesso l’infezione al marito e alla figlia). Il medico responsabile della struttura, Giuseppe Masiello, ha chiesto una disinfestazione e sanificazione degli ambienti, degli indumenti e dei materassi, oltre che di sottoporre a profilassi i dipendenti e i migranti. Non si sa però se gli interventi siano stati effettuati. Ma la scabbia non è l’unica patologia. Non mancano i casi di epatite e altre infezioni. Pare, del resto, che i materassi siano usati più volte, per diversi ospiti, senza essere sanificati, che gli effetti personali dei migranti siano stoccati in un magazzino umido e senza finestre che potrebbe favorire il diffondersi di virus e batteri e che il personale non utilizzi camici, guanti e mascherine per la somministrazione del cibo ma sempre lo stesso giubbino multitasche indossato anche per altre attività. Non stupisce la presenza di blatte, persino in infermeria e, in un caso, addirittura di larve di insetti all’interno dei contenitori per il latte. Il rischio epidemia, insomma, non è affatto da escludersi. A segnalare le “gravi criticità” non solo nel Cpr di Bari ma anche nel centro analogo di Brindisi Restinco è stato del resto poco più di un mese fa anche il garante nazionale per i detenuti, Mauro Palma. Da allora non pare sia stato fatto nulla. Anche perché la risposta del capo del Dipartimento Immigrazione, Gerarda Pantalone, fu chiara: “Il Viminale è costantemente impegnato a migliorare i Cpr e mantenere standard di vivibilità nel rispetto dei diritti della persona e della sua dignità. Ogni sforzo compiuto, con significativi oneri, viene spesso vanificato dai continui e violenti comportamenti degli ospiti in danno dei locali e degli arredi”. Torino: il diritto alla salute vale anche per i detenuti torinoggi.it, 4 dicembre 2018 Il “caso” del Cpr di corso Brunelleschi presentato a Palazzo Lascaris. Il rapporto “Uscita di emergenza”, sul Centro di Permanenza per il Rimpatrio degli stranieri, è stato messo a punto da un gruppo di studenti e docenti di diritto. La tutela della salute è irrinunciabile, anche per i detenuti. Da questo assunto è partito il progetto “Uscita di emergenza”, nato con l’obiettivo di misurare la qualità della tutela della salute all’interno del centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Torino. Lo studio è stato condotto da un gruppo di studenti e docenti nell’ambito del programma di educazione clinica legale Hrmlc (Human Rights and Migration Law Clinic), realizzato in collaborazione tra lo Iuc (International University College di Torino) e i Dipartimenti di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Torino e dell’Università degli studi del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro” di Alessandria. Il rapporto è stato presentato a Palazzo Lascaris alla presenza di Giorgio Bertola, componente dell’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale, che ha sottolineato come il diritto alla salute sia un diritto fondamentale appannaggio di tutti, che va tutelato sempre, sia attraverso gli strumenti normativi sia con azioni capillari di monitoraggio e ascolto. A moderare i lavori il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Piemonte, Bruno Mellano, che ha organizzato l’iniziativa in collaborazione con la Garante dei detenuti della Città di Torino, Monica Gallo. “I Garanti sono chiamati ad intervenire sulle dinamiche che investono la libertà ed i diritti delle persone trattenute nel Cpr sulla base di una sanzione amministrativa - sottolinea Mellano - con la consapevolezza dell’eccezionalità e delicatezza della situazione. All’interno di un progetto nazionale abbiamo anche cominciato un monitoraggio dei rimpatri forzati: si tratta di un compito difficile e gravoso, anche umanamente. La permanenza e l’espulsione dal Cpr rappresenta comunque il fallimento di un progetto individuale di integrazione, con tutte le ricadute e gli strascichi immaginabili. La dimensione della salute può rappresentare una chiave di interpretazione della problematica illuminante: si arriva a scambiare la salute per la libertà”. Il progetto è durato un anno; studenti e docenti, grazie anche all’intervento del garante regionale, a settembre 2017 hanno visitato il Cpr “Brunelleschi”, hanno potuto effettuare una serie di interviste ad operatori e ospiti e raccogliere informazioni e dati statistici, dai quali è emerso che la tutela della salute dei trattenuti è priva di un disciplina organica e che la politica sanitaria all’interno dei centri è caratterizzata da una forte dose di informalità, e non garantisce la continuità terapeutica, non solo per chi proviene dall’esterno ma anche per chi arriva dal carcere e ha già in corso un programma di cura. Il progetto di ricerca ha avuto durata annuale e accanto ad approfondimenti giuridici si è avvalsa anche dell’opportunità di una visita alla struttura del Cpr, grazie all’intervento del Garante regionale ed alla disponibilità del Prefetto di Torino. Inoltre, la ricerca mette in luce come la condizione di grave afflizione in cui versano molti trattenuti li induca spesso a fare abuso di farmaci, e la concreta improbabilità di essere rilasciati dal Centro a seguito di un provvedimento giudiziario di non convalida o non proroga del trattenimento li esponga alla tentazione dell’autolesionismo, sacrificando il proprio benessere e utilizzando il corpo come arma di negoziazione per la liberazione. Ivrea (To): la biblioteca del carcere sistemata dai detenuti e nasce un’amicizia La Sentinella del Canavese, 4 dicembre 2018 Piccole cose belle che merita raccontare. Nel carcere di Ivrea, nonostante le lamentele che si susseguono ormai da tempo sulle pessime condizioni della struttura, qualcuno trova il coraggio e la voglia di tirarsi su le maniche e contribuire a mettere a posto alcuni spazi. È quello che hanno fatto due volenterosi detenuti - Fabrizio Uzzo e Marco Giovara - che hanno messo mani e cervelli nella biblioteca carceraria, portando a termine da fine settembre a oggi, una completa ristrutturazione dello spazio e della disposizione e catalogazione dei libri. “Mi annoiavo molto, così ho deciso di offrirmi volontario nella biblioteca, che sapevo essere rimasta scoperta - spiega in una lettera Fabrizio Uzzo -. Mi sono messo a leggere e leggere, ho divorato pile di libri. Poi, sul finire dell’estate mi ha raggiunto Marco Giovara. È subito nata una profonda amicizia e la condivisione della passione per la lettura”. Da quel momento non si sono più fermati: idee, progetti, lavori, catalogazione. E molte ore passate assieme nei locali, per valorizzarli e invogliare altri detenuti ad appassionarsi alla lettura. “Un ringraziamento particolare - continua nella lettera Uzzo - alla nostra Occhi Belli, assistente sociale del Sert che lavora nel nostro carcere. Lei è stata gentile, comprensiva e ci ha invogliato a portare avanti il nostro progetto”. Così i libri hanno ripreso vita e ora la struttura della casa circondariale può vantare una biblioteca di tutto rispetto: “Attività come queste vanno incoraggiate - commenta Luca Vonella, direttore del laboratorio teatrale del carcere, a stretto contatto con i detenuti ormai da molti anni - perché fanno bene sia ai detenuti che a chiunque lavori con loro”. Nella lettera un ringraziamento particolare da parte di Giovara e Uzzo è stato dedicato proprio alla direttrice del carcere, Assuntina Di Rienzo: “Lei e alcuni membri della polizia penitenziaria ci hanno aiutati e supportati in questa piccola grande impresa”. Roma: metti un monaco a Rebibbia di Giovanni Gagliardi La Repubblica, 4 dicembre 2018 Aiutare i detenuti a ritrovare la calma. Come se il carcere fosse un ashram. È la scommessa di un maestro zen. “Il carcere può diventare un periodo di ritiro spirituale”. Quello che potrebbe sembrare un paradosso è un netto cambio di prospettiva che fra le mura del penitenziario romano di Rebibbia è riuscito a realizzare Dario Doshin Girolami, monaco e maestro buddista, fondatore del centro Zen l’Arco di Roma che da dieci anni, insieme ad alcuni collaboratori, insegna ai detenuti l’antica tecnica della meditazione. “Ma attenzione - tiene subito a precisare - non è una fuga dalla realtà, anzi attraverso la meditazione si ha la possibilità di incontrare pienamente se stessi e affrontare i propri errori, le ansie e le paure guardandole da una angolazione diversa e sotto una nuova luce”. E la riuscita è stata così buona che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha proposto al maestro di tenere corsi anche per il personale di Lazio, Abruzzo e Molise. A Dario Girolami, classe 1967, l’idea è venuta mentre era al San Francisco Zen Center, dove ha iniziato a praticare nel 1986. “Ero interessato all’esperienza dei detenuti Usa che sono riusciti a trasformare la loro detenzione in un periodo di ritiro spirituale”. Cosa che ha certo contribuito a un calo della recidiva criminale del 20%. Ma portare questo programma qui in Italia non è stato facile: “A lungo le istituzioni mi hanno detto no, perché lo presentavo come un corso di buddismo. Poi dieci anni fa la svolta: è bastato chiamarlo mindfulness e “magicamente” si è aperta la porta del carcere”. Ma questo era solo l’inizio, perché poi bisognava affrontare i diretti interessati, ovvero i detenuti. “Al primo corso - dice Girolami sorridendo dietro i suoi occhiali rotondi - ci hanno dato serial killer, pluriomicidi, ergastolani. In totale erano 12. Ed è andato bene. Poi abbiamo allargato la possibilità di fare il corso a tutti i detenuti”. E gli effetti benefici non si sono fatti attendere: “Vedi persone con tatuaggi e cicatrici che sembrano pirati. In realtà sono fragilissimi e a causa degli attacchi di panico e di ansia assumono farmaci. Ma alcuni hanno smesso addirittura di prenderli”. Il monaco spiega che grazie alla meditazione è possibile non solo eliminare i sintomi ma andare alla radice e affrontare ciò che li causa grazie ad una progressiva presa di coscienza che avviene attraverso la meditazione: “Quando i detenuti mettono a fuoco il loro vissuto, c’è una fortissima auto-condanna. A quel punto diventa importante mostrare loro che hanno un valore che non è stato visto, riconosciuto e coltivato”. Un altro aspetto importante che alimenta il meccanismo di ansia-depressione è quello che Girolami chiama “la mente che va fuori”, cioè il pensiero ossessivo dei detenuti per la famiglia, i figli, gli affari lasciati fuori dal carcere: “La meditazione li aiuta a dimorare nel momento presente tranquillizzandoli e mostrando che la soluzione è affrontare le difficoltà (e la detenzione) un istante alla volta”. Il passo successivo è la cosiddetta “alfabetizzazione emotiva”: “Bisogna aiutare queste persone a riconoscere e a dare un nome alle loro emozioni: rabbia, odio, paura. E poi a gestirle, perché altrimenti la mente tende ad andare verso emozioni negative. A quel punto occorre insegnare loro a riconoscere amore, benevolenza, compassione, cose di cui sono assolutamente capaci se aiutati e guidati”. E il cambiamento nelle persone che hanno seguito il corso c’è stato. Come conclude Girolami: “Medici, psicologi, la direzione dell’Istituto hanno visto e certificato che persone aggressive e incapaci di gestire la loro rabbia si sono tranquillizzate e hanno iniziato ad avere una diversa relazione con gli altri, favorendo anche la vita collettiva”. Roma: il carcere è un’astronave, un laboratorio radio a Regina Coeli di Marzia Coronati napolimonitor.it, 4 dicembre 2018 A Roma esiste un vecchio adagio, che recita così: “A via della Lungara ce so’ tre gradini, chi nun salisce queli, nun è romano né trasteverino”. Ma il tempo è passato, e oggi non è più così. “Intanto bisogna di’ che i tre scalini, quelli che te fanno diventa’ romano, nun ce stanno più. Una volta che entri, gli scalini da fa’ so’ molti di più”. P. è uno degli studenti del corso di radiofonia a cui ho partecipato nella primavera 2018 all’interno di Regina Coeli, Roma. Due formatori radiofonici, io e Andrea, alcuni operatori sociali della cooperativa Pid, un numero variabile di partecipanti: una squadra affiatata che per cinque mesi, una volta a settimana, si è incontrata nei locali della biblioteca del carcere trasteverino. P. ha uno sguardo da bambino, un corpo adolescenziale, una voce roca a rasoio. Ha già trent’anni, undici trascorsi tra le mura di un carcere. In galera si è sposato, ha preso il diploma di terza media, ha avuto notizie dei due figli che crescevano. E sempre in galera sta affrontando un divorzio. P. non è più in attesa di giudizio, già lo sa che ha di fronte altri quattro anni, ma si trova ancora nella casa circondariale di Trastevere, formalmente preposta per accogliere solo i detenuti non ancora giudicati prima del trasferimento a Rebibbia, l’altro carcere romano, o in altre galere dello stato destinate ai “definitivi”. Il suo caso non è raro, assistiamo infatti a un nuovo sovraffollamento delle carceri e a Regina Coeli, oltre ai giudicati, ci sono persone sane che vengono detenute nel reparto dedicato ai malati, mentre aumentano le sistemazioni nelle temute “terze brande”, il terzo piano dei letti a castello nel quale non si respira, non si riesce a riposare e spesso si cade rovinosamente. Secondo i dati dell’ultimo rapporto dell’associazione Antigone, pubblicato ad aprile 2018, dal 2015 i detenuti nelle carceri italiane hanno ripreso ad aumentare di circa seicento unità ogni tre mesi e oggi il tasso di sovraffollamento, che tiene conto della capienza ufficiale, è del centoquindici per cento. Ma il dato più significativo è che circa la metà dei cinquantotto mila detenuti in tutto il suolo nazionale, dopo qualche mese di libertà, rientrano dentro. È la storia di P. Quando gli chiedo di parlare del carcere P. fa spallucce. “Ma che palle ‘na radio che parla de carcere, ma chi l’ascolta! Parliamo de calcio o de qualcos’altro”. Nei giorni successivi prende le misure, pondera quel che può dire e non dire, forse inizia a sentirsi a suo agio, almeno un poco. “Non è che non ne voglio parla’, ma se nun ce sei stato, se nun lo vivi, non puoi capi’”. P. è cresciuto a via Bravetta, nel famigerato Residence Roma: più di seicento famiglie stipate in cinque palazzine fatiscenti, di proprietà del noto costruttore Mezzaroma. In accordo con il Comune, nel ghetto all’inizio vivevano solo le famiglie in attesa di un alloggio popolare, “accomodate” in questo orrido albergo senza stelle. Guardiola all’ingresso, interfono per parlare con gli interni, cambio della biancheria settimanale: servizi appaltati a cooperative “amiche” e pagati dal Comune, mentre l’assegnazione delle case si allontanava ogni giorno di più. Negli anni, la manutenzione delle palazzine è svanita nel nulla, accanto alle famiglie si sono insediati nuovi inquilini, casi di disagio di ogni risma, spacciatori, richiedenti asilo, latitanti, senzatetto. Quando hanno sgomberato il Residence Roma, nel 2006, ero lì per documentare le operazioni. Passai diversi giorni tra gli edifici ridotti a scheletri, maleodoranti, senza corrente, con perdite d’acqua ovunque. Tornai a casa con la scabbia, mentre i più fortunati venivano trasferiti, dopo decenni di attesa, in appartamenti di edilizia popolare in quartieri fuori dal raccordo anulare. Per tutti gli altri era rimasta la strada. P. quell’anno già non c’era, mi ha detto. Ha vissuto nel residence fino a pochi mesi prima. Faccio mentalmente qualche calcolo, forse era già dentro da poche settimane. Aveva diciotto anni, un figlio nato pochi mesi prima da una fidanzata quattordicenne. P. è uno dei pochi ragazzi cresciuti nel Residence Roma che ce l’avrebbe potuta fare, forse, se non fosse accaduto quel maledetto incidente. Un talento innato per il pallone; si allenava tutti i giorni, anche quando, da adolescente, avrebbe voluto mollare, farsi di cocaina con gli amici a ogni ora, andarsene in giro a far casino. Ma il mister lo riacciuffava sempre. “Me veniva a prende, me portava agli allenamenti, la sera dopo le trasferte andavo a cena da lui, mangiavo seduto insieme a suo figlio. È stato il padre che non c’ho mai avuto”. Poi il miracolo, la chiamata dal Chievo, la possibilità di giocare in serie A. P. si prepara a partire, ma pochi giorni prima cade con il motorino, si rompe femore e bacino. E tutto va a rotoli in poche settimane. Un “impiccio” di troppo. Finisce dentro, con una condanna di sette anni. “Ma forse nun ero fatto pè quella vita. Manco il capitano della mia squadra, ho voluto fare. Quando il mister mi ha dato la fascetta, gliel’ho ridata indietro”. P. è un lago di diffidenza e rassegnazione, ma ha una voce potente, da speaker di professione. Lo incitiamo a parlare al microfono, a raccontarsi, a provare a insegnarci qualcosa. “Non so fa’ niente”. Nel tempo scopro che nei pochi mesi di libertà tra la prima e la seconda carcerazione ha trovato un lavoro, ha insegnato a suo figlio a giocare di sinistro, ha ripreso a giocare, ha avuto un’altra bambina dalla stessa fidanzata. Poi di nuovo i soliti giri, i soliti affari, ed è finito un’altra volta dentro. Tra le mura della cella decide che non accadrà mai più, si mette a studiare, ottiene la licenza media. “Ma tanto quello che impari qui dentro nun serve a un cazzo, quando sei fuori”. Perché non serve? Ne parliamo in cerchio, seduti sulle sedie di plastica della sala biblioteca di Regina Coeli. C. è il primo a parlare: “Nun serve perché fuori c’è il pregiudizio, sanno che sei stato dentro e non ti vogliono”. C. ha venti anni, è dentro per la prima volta. “Pensi cosi perché ancora nun sei uscito - ribatte P. -, ma nun è così, te lo giuro. Io quando ero fuori ho trovato lavoro su internet. È stato facile. Me so’ messo a lavora’ in un ristorante. Ma dopo un mese de mazzo tanto me so’ portato a casa ottocento euro. Secondo te so’ meglio quelli o è meglio guadagna’ tremila euro in un giorno, co’ poca fatica?”. C. lo ascolta, ma lo sguardo è appannato, probabilmente per quegli psicofarmaci per dormire. Anche lui era abituato alla bella vita. Tanto denaro, procurato in poche ore. “La mia casa era come il negozio di un bangla, pieno de roba da beve e da magna’. Le pulizie me le facevano certe amiche, le pagavo con l’erba o con il fumo”. Cubano di origine e romano nel cuore, C. vive a Tor Bella Monaca ormai da molti anni. Vuole sapere dove viviamo noi. Al Pigneto, risponde il mio collega. “Che schifo er Pigneto - mi dice a un orecchio -, è pieno di zozzoni”. Gli chiedo di spiegarsi meglio. “Quelli strafatti coi cani, buttati per terra. Noi a Tor Bella a quelli così glie menamo”. I primi giorni di laboratorio C. è entusiasta. Ride, canta, si esibisce al microfono. Dopo due mesi il suo umore cambia, non vuole più partecipare, perde il sorriso. “Qualche settimana fa è morto mio nonno, cioè, il padre del mio patrigno. Ce so’ cresciuto, con lui, ero il suo nipote preferito, perché ero quello che andava meglio a scuola. Mo’ è morto. E io non so’ riuscito a versa’ neanche una lacrima. Manco una. Quando so’ entrato dentro, i primi giorni, pensavo sempre a quello che stava fuori, alla mia ragazza, ai miei amici. Poi ho iniziato a sta’ male. Ho chiesto consiglio a chi ha più esperienza di me. “Lascia perdere quello che è fuori, non ci pensare, cancellalo”, mi hanno detto. Così ho iniziato a tagliare, una cosa alla volta. Prima la mia ragazza: ho troncato la storia. All’inizio ci so’ stato male, ma poi mi so’ sentito più leggero. Piano piano, ho staccato con tutto il mondo di fuori. Ora? Me sento un sassolino. Un sassolino”. Contenzione mentale - Anche l’umore di MJ è altalenante. Di religione rastafariana, alto, snello, sempre ordinato, un sorriso meraviglioso elargito con prudenza. Il primo giorno di corso racconta che nel suo paese, in Mali, la mattina appena ci si sveglia si possono scambiare solo parole di gioia e serenità. “Non si raccontano sogni brutti, non si parla di problemi, non ci si lamenta. Non si può, non è un buon segno, porta male”. Un giorno MJ è molto silenzioso, non interviene, rimane seduto con la grossa testa rasta ciondolante e lo sguardo perso nel nulla. Facciamo una prova di diretta radio, si parla di salute dietro le sbarre. MJ d’un tratto si anima, con una mano prende il microfono, con l’altra cerca qualcosa in tasca. Tira fuori una pasticca dentro un cartoccio di cellofan. “Mi hanno riempito di questa roba, qui dentro! Ma io non la voglio più. Mi fa schifo! La tengo con me e la scambio con il tabacco. Non ne posso più di queste finte cure! Non ci fanno star bene!”. Io non ne so niente. Percepisco la depressione dal ciabattare nei corridoi, dalle pupille ferme, dall’incuria di certi detenuti, ma non so chi fornisce le medicine, quali e quante si possono elargire, non so come si ottiene una terapia e chi se ne occupa. Faccio tesoro di quanto mi hanno insegnato i ragazzi del corso: solo chi sta dentro può capire. Così mi rivolgo a Vincenzo Saulino. Psicologo, presidente del Forum nazionale del diritto alla salute delle persone ristrette, Saulino presta servizio nel Sert (Servizio per le tossicodipendenze) all’interno del carcere di Rebibbia: otto ore al giorno dei suoi ultimi quarant’anni trascorse tra le mura di una galera. Per darmi un’idea della funzione contenitiva della psichiatria in carcere, mirata principalmente a ridurre la conflittualità del detenuto, Saulino mi mette di fronte a un solo dato: “I manicomi sono stati chiusi nel 1978, gli Opg, gli ospedali psichiatrici giudiziari, solo nel 2015. A Rebibbia campeggia ancora una scritta sopra una sezione: “Minorati mentali”. Lecce: i detenuti si reinventano scrittori, va in scena il Collettivo Rosa dei Venti corrieresalentino.it, 4 dicembre 2018 “Chi di noi può dire di non aver mai fatto un colloquio con la propria ombra? Chi può dire di essere riuscito ad abbracciarla o a dimenticarne la voce dopo averla combattuta? Quell’ombra è il cortocircuito che ci connota, lo specchio in cui si affacciano le nostre età, la memoria, tutto quello che l’ha nutrita. Perché esiste qualcosa, in ciascuno di noi, che ci induce a essere in un certo modo, a fare certe scelte, a prendere certe vie, ed è il daimon, il demone custode che riceviamo come compagno prima della nascita, secondo il mito di Er raccontato da Platone. Il daimon è la nostra vocazione profonda, quel senso di chiamata che spesso non capiamo o non riusciamo a riconoscere”. Il Collettivo Rosa dei Venti torna in scena portandolo in dono in un cerchio di storie paradigmatiche che sono in parte un diario spaginato e, soprattutto, il tentativo di dialogare con i daimon che abitano le nostre ombre, alla stregua dei luoghi - i paradisi perduti, la casa, i quartieri d’infanzia, la scuola, il carcere - in cui siamo rimasti sospesi su un senso di destino. Un analogo incantesimo genera l’innamoramento per una destinazione - l’Itaca di Ulisse - o per una persona - Beatrice per Dante. La voce del demone custode, proprio come quella delle anime gemelle che scegliamo al primo sguardo, è fatale. Di questa fatalità raccontano gli autori del Collettivo Rosa dei Venti, protagonisti del Terzo Studio Vide Cor Meum, scritto e teatralizzato dai lettori detenuti partecipanti al Laboratorio stabile di Scrittura e Lettura Mondo Scritto a cura della scrittrice e giornalista Luisa Ruggio, coadiuvata nella ricerca fotografica da Veronica Garra, in collaborazione con la Direzione della Casa Circondariale. Lo studio andrà in scena nel Teatro del Carcere di Lecce “Borgo San Nicola” mercoledì 5 dicembre 2018, alle ore 15, e include un dibattito con il pubblico al termine della prova aperta. È il frutto delle attività avviate dal 2017 nella Biblioteca della sezione maschile del carcere. “La tua differenza non ha bisogno di mura a sua garanzia; la garanzia è stata data all’inizio dall’immagine che hai nel cuore e che ti accompagna lungo tutta la vita. Gli scrittori, in particolare, sembrano refrattari alle biografie. Henry James bruciò i diari in un falò in giardino. Lo stesso fece Dickens. A ventinove anni Freud aveva già distrutto i suoi. C’è qualcosa in noi che non vuole esporre, nero su bianco, i fatti, per timore che li si prendano per la verità, la sola verità. Qualcosa in noi non vuole essere spiato troppo da vicino, non vuole svelare l’ispirazione di tutta una vita. Qualcosa in noi vuole difendere l’opera della vita, vuole proteggere le cose realizzate, in qualunque sfera si siano verificate, dal contesto in cui si sono verificate” (James Hillman, “Il codice dell’anima”). Che cos’è questo qualcosa? Ecco la domanda che muove la ricerca laboratoriale vissuta dal Collettivo Rosa dei Venti, fondato nel 2016 dalla scrittrice Luisa Ruggio insieme a sedici lettori detenuti nella sezione maschile del carcere di Lecce, coadiuvata nella ricerca fotografica da Veronica Garra, nella fase di stesura del Terzo Studio Vide Cor Meum | Dialoghi dell’ombra. Gli inuit (piccolo popolo dell’Artico) hanno una lingua a sé per parlare dell’altra anima, del demone custode o dell’ombra. Questo misterioso daimon che da secoli feconda tutte le nostre fiabe, le poesie e la letteratura è la voce profonda che ci domina. Il Collettivo Rosa dei Venti è un progetto in favore dei lettori e autori in formazione detenuti nel Carcere di Lecce “Borgo San Nicola”, fondato nel 2016 da 16 lettori detenuti insieme alla scrittrice Luisa Ruggio. Opera nella piccola biblioteca della sezione maschile della Casa Circondariale, abitata dal Collettivo: è quella una delle tre zone franche del carcere, un presidio di bellezza necessario per restare umani, vissuto e nutrito dalle attività laboratoriali che il Collettivo ha avviato e svolge quattro giorni a settimana, dal lunedì al venerdì. Nell’ambito del progetto La Rosa dei Venti dedicato a questa biblioteca di comunità invisibile e periferica della città di Lecce, il Collettivo ha dato vita al Laboratorio Stabile di Lettura e Scrittura Creativa Mondo Scritto, che si svolge nella biblioteca e nella sala cinema della sezione maschile ed è inteso come una Scuola Vagabonda fatta di libri viventi e storie da salvare e raccontare. Lettura, Scrittura, Cineforum, Training del narratore, sono alcuni dei viaggi intrapresi dal Collettivo Rosa dei Venti che, il 18 dicembre 2016 (in replica il 22 gennaio 2018), ha esordito nel teatro del carcere presentando agli studenti di alcuni istituti scolastici del Salento il Primo Studio “Corpo Scritto - reading teatralizzato sul tema del ritratto dell’Altro”. Nel 2018 il Collettivo ha firmato e prodotto il Secondo Studio “Mittente/Destinatario”, una riflessione sulla lettera d’amore e sulla parola scritta, in seguito al quale è stata avviata la convenzione tra il carcere di Lecce e il Polo Biblio-museale del Salento per il reinserimento lavorativo dei detenuti nel ruolo di bibliotecari della nuova sezione della storica Biblioteca Bernardini. “Vide Cor Meum” è il Terzo Studio del Collettivo Rosa dei Venti che attualmente sta lavorando alla stesura di un libro/diario di bordo. A pensarci bene, il carcere di Lecce può essere considerato un altro borgo del Salento, poiché - come molti piccoli centri rurali dell’entroterra - conta mille anime. Eppure questo “borgo”, alla periferia della città, malgrado gli sforzi che puntano a farne un carcere sociale, resta invisibile agli occhi della comunità che continua a considerare il penitenziario una discarica sociale. L’obiettivo del Collettivo Rosa dei Venti è creare un ponte dove il dentro ed il fuori possano di nuovo generare un senso di partecipazione ed inclusione, rieducando la comunità a riconsiderare le storie delle persone private della libertà in seguito ad una condanna. Nono sono numeri. Sono Francesco, Nicola, Domenico, Maurizio, Massimiliano, Luigi, Cosimo, Alessio, Simone, Gianluca, Arjan, Mario, Salvatore, Fiodor, Felice. I più anziani del gruppo hanno 50 e 60 anni, gli altri hanno età che vanno dai 25 ai 35/40. “Le mille e una notte del condannato”, autore Luigi. Tratto da “Vide Cor Meum” Metà Luglio 2004, giornate così calde da toglierti il respiro. Nell’Aula Bunker si stava celebrando l’ultima udienza del mio processo, in silenzio ecclesiastico pendevo dalle labbra dell’avvocato che stava sostenendo la sua tesi difensiva. Aggrappato alle sbarre della gabbia, ascoltavo senza osservare. Un’ora, due ore, tre ore. Finisce il primo avvocato: Signor Presidente mi associo alla richiesta del mio collega e invoco l’assoluzione. Così iniziò anche il secondo avvocato, tre ore di arringa. Verso le tre e mezzo il Presidente si ritira per deliberare. L’attesa, l’ansia, il caldo. Verso le sette di sera, la scorta, su suggerimento del cancelliere, decise di riportarmi in carcere dove avrei potuto aspettare tranquillo il momento di tornare per la lettura della sentenza. Tornato in cella, mio fratello aveva già preparato la cena, il caldo e l’ansia avevano già saziato la mia fame e così mi sedetti vicino alla finestra perché anche il sonno mi aveva abbandonato. Accompagnato dal canto stonato dei grilli e dalle sigarette arrivai a notte fonda, verso le tre sentii i passi avvicinarsi alla mia cella: Preparati che devi andare in tribunale per la sentenza. Attraversai Lecce deserta nella notte, un silenzio assordante nelle orecchie, nell’aula del tribunale non c’era nessuno eccetto i miei avvocati, l’accusa con i suoi agenti di scorta ed io con la mia. Il suono di un campanello preannunciò l’arrivo dei giudici togati e popolari, il presidente si avvicinò al microfono: In nome del popolo italiano la Corte dichiara l’imputato colpevole e lo condanna alla pena dell’ergastolo. “La notte ritrovo le parole di mio padre”, autore Arian. Tratto da “Vide Cor Meum” Non è importante se sei un bambino o un adulto, le conseguenze sono sempre uguali. Una condanna è sempre una condanna, o ti chiudono i genitori nel bagno di casa o la maestra ti mette in punizione davanti a tutta la classe a tenere il peso del corpo su un piede solo, o lo Stato ti mette in carcere. Negli occhi e nel cuore delle persone vivi solo in un modo, o da buono o da cattivo. La sera quando chiudono le porte sento la presenza di mio padre. La sua ombra è insieme a me, non mi abbandona. Durante il giorno in sezione mi confronto con molte persone, persone che mi vogliono bene o persone con due facce, persone che ti rovinano per un pacco di caffè, per invidia o per nessun motivo. E la notte penso alle parole di mio padre. Quando a 16 anni ho commesso il mio primo reato, papà mi portò al bar sotto casa per parlarmi, mi disse: Figlio mio, vedo che hai fatto una scelta, ti darò tre consigli e non li dimenticare mai. Primo: qualsiasi cosa tu faccia nella vita, fallo da solo, se lo fai solo non è mai successo. Secondo: se presti i soldi a un amico o li metti in banca, non sono più tuoi. Terzo: un uomo ha sempre bisogno di un amico e l’amico è sempre il più grande figlio di puttana. Sant’Angelo dei Lombardi (Av): “Innocenti evasioni”, in scena lo spettacolo dei detenuti orticalab.it, 4 dicembre 2018 “Innocenti evasioni”: uno spettacolo organizzato dai detenuti della Casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi che oggi hanno preso parte alla Manifestazione ludico-ricreativa. Gli stessi si sono esibiti con volontà ed emozione attraverso momenti di lettura di poesie, prodotte da loro, alternati a momenti canori. Erano presenti circa 70 detenuti e alcuni parenti che hanno assistito alla rappresentazione dei propri cari. Un evento voluto e promosso da Samuele Ciambriello, Garante Campano delle persone private della loro libertà personale che evidenzia l’importanza di questi momenti di condivisione e aggregazione sostenendo “la musica ha una funzione educativa, una funzione terapeutica che ci rende solidali e aiuta a risollevarci dalle difficoltà e problematiche quotidiane. Questi sono momenti di notevole importanza perché incitano alla socializzazione, maturano le emozioni e sono terapeutici. Infatti li ritengo fondamentali perché “musicoterapici”. Per lo stesso motivo ho promosso altre iniziative analoghe, un concerto presso il carcere di Benevento l’11 Dicembre e un altro è stata programmata per il 13 Dicembre nel carcere di Salerno”. Erano, inoltre, presenti alla Manifestazione il Direttore della Casa di reclusione Paolo Pastena, il Comandante Giovanni Salvati e l’ispettrice Pasqualina Solito. Ospite d’onore il cantante Maurizio. Palermo: una partita a calcio con papà in carcere, i detenuti giocano con i figli palermotoday.it, 4 dicembre 2018 Doppia iniziativa: all’Ucciardone e al Pagliarelli. Un progetto unico in Italia e in Europa, quella della Onlus Bambinisenzasbarre, che si batte per il diritto dei piccoli a mantenere la relazione genitoriale anche in carcere. L’intervista alla presidente Lia Sacerdote. Porte aperte al carcere Ucciardone e al Pagliarelli per “La partita con papà”: i figli degli ospiti della casa circondariale hanno incontrato i genitori per giocare a pallone. Si tratta dell’iniziativa ideata curata dall’associazione Bambinisenzasbarre, impegnata nella tutela dei bambini figli di persone detenute, offrendo sostegno psicopedagogico. Sabato è toccato all’Ucciardone, oggi al Pagliarelli. Quest’anno sono state organizzate 58 partite in altrettante carceri e città, da Milano a Palermo, con circa 2.900 bambini e 1.400 detenuti. In Italia ci sono 100 mila bambini che hanno il papà o la mamma in carcere. Migliaia di bambini che per questo sono emarginati, rischiano di sentirsi diversi, crescono sperimentando l’assenza e tante domande dalle difficili risposte. Per loro e per i loro diritti è impegnata da quasi vent’anni la Onlus Bambinisenzasbarre, che - tra le altre attività - ha avviato questo progetto di solidarietà a tutt’oggi unico in Italia e in Europa che permette a genitori detenuti e figli di poter giocare una partita a calcio in carcere. Giunta ormai alla quarta edizione consecutiva, “La partita con papà” rappresenta un momento eccezionale di incontro tra bambini e genitori e al tempo stesso è l’occasione per promuovere sensibilità su un tema importante come quello dell’inclusione sociale e delle pari opportunità per tutti i bambini, anche per i figli dei detenuti. “Il calcio fa parte della nostra cultura e quello di poter giocare una partita è uno dei desideri che bambini e papà esprimono più spesso: “Dopo, quando saremo fuori, giocheremo a calcio”, racconta a Today, Lia Sacerdote, presidente di Bambinisenzasbarre, nata nel 2000 all’interno di una rete internazionale di cui fanno parte 17 paesi, che si batte per il mantenimento della relazione genitoriale, focalizzando la propria attenzione sui figli dei detenuti perché “i bambini proprio sono un po’ il paradosso di questa situazione: in carcere di fatto ci vanno gli adulti ma ci entrano anche i bambini, che lo subiscono”. “È un diritto dei bambini poter mantenere la relazione genitoriale anche in carcere. La separazione dai genitori è formativa, fa parte di un percorso autonomo di crescita ma quando c’è un genitore in carcere ciò non avviene, perché quella è una separazione coatta. Ci sono ad esempio papà che entrano in carcere quando il figlio sta appena nascendo e continueranno a vederlo soltanto restando in carcere, avendo per anni questo unico tipo di relazione. I bambini vengono emarginati, spesso non raccontano la loro storia, la vivono come un segreto che però vorrebbero raccontare”, dice Sacerdote, sottolineando da un lato la “grande difficoltà che queste persone incontrano nel continuare a fare il padre o la madre anche durante la separazione operata dal carcere” e dall’altro che i bambini figli di detenuti “non sono diversi dagli altri”. “Questo per noi è fondamentale”, ribadisce. Senza “buonismi” né “assistenzialismo”, quando varcano la soglia del carcere i bambini trovano grazie alla onlus “personale specializzato ad accoglierli, in grado di rispondere ad esempio alle tante domande che hanno, senza però sostituirsi ai genitori, per aiutarli nei momenti di spaesamento, soprattutto all’inizio - spiega - I bambini sono l’anello più debole e hanno bisogno di attenzione. Un sistema totale come il carcere deve attrezzarsi per poterli accogliere e considerare la loro presenza. È una trasformazione culturale, il carcere non si può cancellare ma si può riconsiderarlo all’interno del contesto sociale”. “La partita con papà” risponde proprio a queste esigenze. Le porte del carcere si aprono ai bambini per permettere loro di poter trascorrere una giornata “speciale” insieme ai papà, giocando insieme: quello che fuori è la normalità, in carcere diventa un momento eccezionale. Organizzata dalla Onlus in collaborazione con il ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, è nata nel 2015 con appena 12 istituti, coinvolgendo 500 bambini e 250 papà detenuti. Dietro, ricorda Sacerdote, “c’è un grande lavoro da parte degli istituti” e possono partecipare “tutti i papà-detenuti perché tutti i figli dei detenuti sono uguali”. Quest’anno in uno degli istituti ci sarà anche una squadra composta da bambine per giocare insieme ai papà e sempre da quest’anno è stata creata la “tessera del tifoso”, il cui ricavato contribuirà alla realizzazione delle partite su tutto il territorio nazionale. Bambinisenzasbarre lavora anche con le detenute. Ad esempio, sono attivi dei laboratori per lavori di gruppo per realizzare degli “oggetti-messaggi”, oggetti di stoffa creati a mano da far avere ai propri figli fuori dal carcere. “Ho assistito alle consegne di questi oggetti-messaggio, è toccante, è come se vedessero lì la mamma”, dice Sacerdote. Lo scorso 20 novembre la Onlus ha sottoscritto il rinnovo del Protocollo d’intesa-Carta dei figli di genitori detenuti, con il Ministro di Giustizia, Alfonso Bonafede, l’Autorità garante per l’Infanzia e l’adolescenza, Filomena Albano. La Carta promuove l’attuazione concreta della Convenzione Onu sulla tutela dei diritti dei bambini e adolescenti, agevolando e sostenendo i minori nei rapporti con il genitore detenuto e indicando forme adeguate per la loro accoglienza in carcere. Anonimi senza lutto di Mariangela Mianiti Il Manifesto, 4 dicembre 2018 Una intervista con Cristina Cattaneo, docente di Medicina legale e direttrice di Labonof che dal 1995 identifica i morti in mare. Ne ha scritto nel volume “Naufraghi senza volto”. È arrivato all’improvviso nel giugno scorso, come un’urgenza. E così, in due mesi, Cristina Cattaneo ha scritto Naufraghi senza volto (Raffaello Cortina Editore, pp. 198, euro 14), un libro necessario perché, parlando di che cosa significa dare un nome ai morti nel Mediterraneo, immerge lettore e lettrici nella questione epocale delle migrazioni e dei diritti umani negati con cui l’Europa dovrà fare i conti, prima o poi. Docente ordinaria di Medicina Legale presso l’Università di Milano, 54 anni, incontriamo Cristina Cattaneo nel suo studio da cui dirige anche Labanof, laboratorio di antropologia e odontologia forense. Creato nel 1995 per far conoscere il problema dei morti senza nome, Labanof si è battuto affinché venisse creato il Registro dei cadaveri non identificati ed è diventato un punto di riferimento per procure, centri antiviolenza, archeologi. Qui si stabiliscono cause ed epoca di un decesso, si identificano vittime di disastri di massa, si lavora anche sui vivi verificando età di richiedenti asilo, segni di maltrattamenti, torture, violenze. Con i fenomeni migratori, Cattaneo e i suoi colleghi hanno cominciato a lavorare sulle identità di chi è morto cercando di arrivare sulle coste italiane. Il libro si concentra in particolare su tre naufragi: quelli del 3 e 11 ottobre 2013 al largo di Lampedusa dove morirono 366 persone, quello del 18 aprile 2015, la più grave tragedia umanitaria del Mediterraneo dove annegarono circa mille persone. Attorno a quel “circa” ruota l’essenza di Naufraghi senza nome. Lo chiamano il Barcone, è un vecchio peschereccio di 22 metri. Avrebbe potuto portare 30 persone, i libici ve ne stiparono centinaia. Affondò e nessuno sopravvisse. Tra fine giugno e novembre 2015 furono recuperati 169 corpi che vennero esaminati da Cattaneo e colleghi nella struttura allestita apposta dalla Marina Militare nella base di Melilli (Siracusa), ma la gran parte del carico umano che stava marcendo dentro lo scafo si riuscì a recuperare, con fatica, l’1 luglio 2016. Esaminare un corpo rimasto sott’acqua pochi mesi è molto diverso dall’analizzare resti sommersi per oltre un anno. I primi sono abbastanza integri. I secondi si possono trovare a pezzi o in poltiglia. Anche il lavoro e le emozioni di un medico legale cambiano. “Cercare di identificare un corpo - dice Cattaneo - significa entrare nella sua intimità. Nel nostro lavoro, ciò che crea empatia sono gli oggetti che troviamo sui cadaveri più che i volti. Ogni morto porta con sé la propria storia, cose semplici che sono un simbolico della sua soggettività e mostrano la sua vita, la sua storia, gli ultimi gesti prima di partire o morire. Li trovi e vedi che sono uguali ai nostri. Nel portafogli di un ragazzo del Gambia abbiamo trovato un passaporto, la tessera di una biblioteca locale, la carta dello studente e un certificato di donatore di sangue. Cucita dentro la giacca di un adolescente del Mali c’era una pagella in francese e chissà con quali aspettative l’aveva portata con sé. Ma ciò che mi ha colpito di più è stato un fagottino ricavato da una maglietta all’altezza dell’ombelico. L’aveva addosso un ragazzo eritreo di circa 20 anni e conteneva terra. Aveva portato con sé, come fanno molti suoi connazionali, un po’ di terra del suo paese”. Quando, grazie all’Ufficio del commissario straordinario del governo per le persone scomparse (istituito con la legge n. 278 del 2012 e l’unico del genere in Europa), si decise di partire con l’identificazione dei morti, Cattaneo scrive che si trovò di fronte a reazioni disparate, fra cui chi diceva “Ma a chi vuoi che importi cercare queste persone? Buttate una corona in mare e lasciate perdere”. A costoro Cattaneo risponde così: “E se la persona scomparsa fosse vostra figlia? Non c’è niente di peggio per un genitore non sapere se il proprio figlio scomparso è morto o no. Identificare i morti può sembrare un lusso, ma per un vivo sapere che fine ha fatto un proprio familiare diventa una salvaguardia della salute mentale e dei diritti ed è stato dimostrato che questa perdita, definita ambigua, può portare a depressione, alcolismo. Poi ci sono i diritti dei vivi. Un bambino che era rimasto in Somalia è diventato adottabile dallo zio solo dopo che il corpo della madre è stato identificato fra i naufraghi. Dare un nome ai morti è una spesa che serve per un investimento culturale e civico”. A Melilli Cattaneo e i suoi colleghi hanno lavorato in varie fasi e per molti mesi supportati da militari, vigili del fuoco, colleghi di 12 università. Lì si trova ancora il Barcone. Lì Cattaneo ha visto la parte migliore dell’Italia. “Ho vissuto i primi 12 anni della mia vita in Canada e, come tutti gli emigranti, sono sempre stata innamorata dell’Italia dove ho voluto lavorare perché abbiamo qualità eclettiche e siamo bravi in certe cose, mentre altre non funzionano. Quello che ho vissuto soprattutto a Melilli è stato uno spiraglio di luce in un periodo europeo cupissimo. Ho visto gente con volontà enorme e tanto coraggio: la Marina Militare che ha organizzato tutto in modo impeccabile, giovanissimi Vigili del Fuoco che hanno superato con uno slancio commovente la ripugnanza di estrarre per la prima volta corpi in disfacimento, l’odore della decomposizione, ossa sparse ovunque. È stato un esempio di efficienza e altruismo che nessun altro in Europa ha fatto”. “I morti a Lampedusa - continua Cattaneo - sono 366, la metà è stata identificata quasi subito, per gli altri corpi si sono presentati 70 parenti e li abbiamo identificati quasi tutti. Sul Barcone abbiamo contezza di 528 corpi assemblati e sepolti con un numero dopo i prelievi in Sicilia, ma nessuno è ancora stato identificato. Sono stati fatti i prelievi genetici per quelli che avevano addosso dei documenti permettendoci di cercare le famiglie nei paesi d’origine. Si riuscirà a sapere quanti erano esattamente forse fra un anno e mezzo, quando finiremo di esaminare le 25mila ossa sparse che abbiamo recuperato e che sono a Labanof. Ognuno di noi ha 206 ossa. Di un bambino abbiamo trovato solo un dente da latte, poi ci sono 325 crani recuperati in posizioni diverse rispetto ai corpi. Secondo me rappresentano 325 persone in più, ma non possiamo dirlo perché servirebbero ulteriori esami e per farlo abbiamo bisogno di soldi”. “Il mio terrore - termina Cattaneo - ed è il motivo per cui ho scritto questo libro, è che fra 50 anni non ci sia più idea di quello che succedeva e di chi moriva nel 2018. Vorrei che il Barcone diventasse un simbolo al centro di un museo, o di un film, o di una mostra itinerante che faccia vedere ai nostri ragazzi chi erano le persone che vi sono morte, in che spazi sono state stipate, che cosa avevano in tasca. Melilli e il Barcone hanno un materiale e una storia fondamentali per capire che cosa significa imbarcarsi e morire in un naufragio mentre si scappa da guerre, dittature, torture, fame. Mostrarlo sarebbe una grande lezione di educazione civica”. Chi salva i migranti sulla strada di Daniela Fassini Avvenire, 4 dicembre 2018 Migliaia di invisibili dopo il caso di Crotone. Un gruppo di parrocchiani ospiterà la famiglia allontanata Funziona la rete tra Caritas, associazioni e prefetture. Tanti presepi viventi, proprio come Yousuf e Faith. Tanti madri, padri e figli. Uomini e donne sole. Tutti improvvisamente senza tetto né tutela. Decine di migliaia, 40mila per il momento (sono quelli che godevano della protezione umanitaria) molti di più nei prossimi mesi. Perché ci saranno anche quelli a cui verrà rifiutata ogni forma di protezione. È l’effetto del decreto sicurezza firmato Salvini e promulgato ieri dal presidente della Repubblica. Una nuova legge che metterà a dura prova il sistema dell’ospitalità. Buoni samaritani in campo - Ora hanno una casa. Il “presepe vivente” di Crotone, padre, madre incinta di tre mesi e piccola bimba, cacciati dal Cara, ha già trovato un tetto sopra la testa e un letto su cui riposare. Merito di un gruppo di parrocchiani della provincia di Crotone che, senza farsi pubblicità, ha contattato la Caritas cittadina (come spieghiamo nel box a fianco, ndr) e si è attrezzata per dare soluzione immediata al problema creato dalla norma. Ha funzionato, qui come in altri casi, il silenzioso gioco di squadra delle istituzioni: Prefetture, terzo settore, enti locali. Il territorio c’è dunque, più forte delle asprezze provocate dalla politica nazionale. L’accoglienza gratuita delle Caritas, di Migrantes e Sant’Egidio, che si è già messa in moto per assistere gli ultimi e gli invisibili. Ma anche quella più laica, dei cittadini che non si arrendono ai muri e ai respingimenti. Come la famiglia di Maria Caterina di Palermo che dopo aver letto la storia di Yousuf e Faith ha scritto ad Avvenire per offrire la propria disponibilità ad ospitarli. Oppure come le famiglie di Torino che, “pur non avendo ancora ricevuto alcuna comunicazione ufficiale dalla prefettura - racconta Sergio Durando di Migrantes - stanno già pensando come fare per continuare ad ospitare quei migranti che sono già entrati nei loro cuori”. “La circolare diffusa dal Viminale alle prefetture è spiazzante - sottolinea Oliviero Forti di Caritas - perché non dice cosa sarà di queste persone che fino a poche ore fa avevano una casa, studiavano l’italiano e avevano magari anche un lavoro. Per il momento cerchiamo di rispondere alle loro urgenze, intanto a gennaio abbiamo già convocato un’assemblea generale di tutte le Caritas per mettere a punto un sistema”. La difesa del Viminale - Se per Asgi, l’associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, il decreto produrrà l’effetto di una “bomba sociale”, secondo il ministero dell’Interno si tratta solo di “bufale” che vanno “smontate”. Sono previsti “più diritti per i veri rifugiati e meno sprechi” segnala il Viminale, sottolineando che il testo “non è retroattivo. Chi ha il permesso per motivi umanitari e si trova già nello Sprar potrà rimanervi fino alla fine del progetto di integrazione”. Il capo di gabinetto del ministero, Matteo Piantedosi, precisa le attese del governo sulla nuova accoglienza. “Stimiamo che tra un anno o due, quando ci sarà la piena attuazione della legge, avremo un numero complessivo di persone titolari di permesso di asilo e protezione internazionale maggiore di quello di adesso per quanto riguarda lo Sprar”. Ma le polemiche sugli effetti creati nel sistema dell’accoglienza non si fermano. “Nella nuova norma c’è una profonda ostilità - aggiunge Gianfranco Schiavone, vice presidente Asgi - non solo avremo nuovi “clandestinizzati” ma anche un numero non irrilevante di persone che avranno un titolo di protezione (quello speciale, ndr) ma nello stesso tempo saranno private di ogni assistenza”. Anche di quella sanitaria. Un emendamento alla manovra ha fatto saltare infatti il vincolo sui fondi per curare i migranti. Oltre 30 milioni finora vincolati a garantire l’assistenza sanitaria agli stranieri non iscritti al Servizio sanitario nazionale che dal 2019 confluiscono “nella quota indistinta del fabbisogno standard nazionale”. Intanto, sia pur senza clamori, è già scattata la caccia al ‘clandestino’. Controlli straordinari alla stazione Termini di Roma hanno portato alla denuncia a piede libero, fra l’altro, di tre nordafricani che, per evitare il controllo e l’identificazione, hanno opposto resistenza ai carabinieri e 7 cittadini stranieri sorpresi a permanere, senza motivo, all’interno della stazione. Altre 5 persone sono state denunciate per l’inosservanza del foglio di via emesso nei loro confronti. “Il nostro Paese è capace di tirar fuori energie inaspettate anche dalle situazioni più complicate” conclude senza dubbi il responsabile immigrazione di Caritas, Oliviero Forti. Christine e Gal, con loro le lezioni di pace dalla Toscana sbarcano all’Onu di Marco Gasperetti Corriere della Sera, 4 dicembre 2018 Una è palestinese e vive al di là del muro, a Betlemme. L’altra è un’israeliana di Tel Aviv e vive al di qua. Studiano insieme a Rondine (Arezzo) e imparano che “il nemico è un inganno”. Le due nemiche si affrontano con un sorriso nel giardino dell’antico borgo in quel tratto di Toscana dove Leonardo costruì ponti e l’Arno sembra una grande strada d’acqua che supera i confini. Christine, 23 anni, è una palestinese che vive al di là del muro, a Betlemme. Gal, 27 anni, è un’israeliana di Tel Aviv, che vive al di qua. Da un anno abitano e studiano, insieme a un’altra ventina di giovani “nemici” a Rondine, una minuscola e deliziosa frazione di Arezzo, tra le colline toscane e un’ansa del grande fiume. “Siamo qui per confrontarci, discutere, aprire i nostri orizzonti culturali - spiega Christine, una laurea in business administration - e soprattutto per far diventare realtà un sogno: essere edificatrici di pace nei nostri Paesi, abbattere mura e barriere, costruire ponti culturali”. Già, perché di discussioni ce ne sono state tra le due giovani. Adesso sono diventate amiche? “Non è questo il problema. A noi interessa moltissimo - risponde Gal, laurea in Comunicazione e diplomazia popolare e master in scienze politiche - fare insieme qualcosa di importante. E per lavorare bisogna conoscersi, capire il modo diverso di valutare i problemi, le difformità di pensiero. Ci siamo fatte un sacco di domande, ci siamo interrogate, abbiamo cercati di intenderci”. Ogni due o tre giorni per Gal e Christine c’è qualcosa da discutere e spesso l’oggetto della disquisizione è un dramma, come i razzi che volano a Gaza e i raid aerei. “Entrambe pensiamo che il conflitto e la violenza non siano una soluzione - spiegano le due ragazze - anche se abbiamo diverse valutazioni sui fatti e i nostri punti di vista sono spesso divergenti. Però vogliamo abbattere il muro virtuale dell’incomprensione e trasformare quello vero, che divide Israele e Palestina, in un souvenir, come accaduto a Berlino. Ecco perché siamo qui”. Quel “qui” è la Cittadella della Pace, Rondine appunto, che ha appena ricevuto un invito dalla rappresentanza italiana alle Nazioni Unite a essere presente al Palazzo di Vetro in occasione del settantesimo anniversario della Dichiarazione dei diritti dell’Uomo. “Abbiamo invitato a venire con noi duecento Rondini d’oro, ovvero i ragazzi-nemici che da ogni parte del mondo hanno partecipato ai nostri corsi formativi”, spiega Franco Vaccari, presidente e fondatore dell’Associazione Rondine per la Pace, l’onlus che ha creato l’iniziativa unica al mondo. A New York lanceranno un appello nel quale si chiede all’Onu di provvedere alla formazione di nuovi leader globali di pace, di estendere a tutti gli Stati l’insegnamento e l’educazione ai diritti umani nei sistemi d’istruzione nazionali e di donare borse di studio per la formazione dei nuovi leader di pace. In vent’anni (il progetto Rondine nasce nel 1998 con lo studentato internazionale) Franco - laurea in Psicologia, alla guida nel lontano 1977 di un gruppo di giovani cattolici che s’ispiravano a Don Milani, La Pira, Balducci ma anche allo psichiatra Basaglia - ne ha visti di nemici confrontarsi nel borgo medievale che con i suoi amici aveva strappato alla rovina. Ricorda: “Eravamo ragazzi pieni di sogni. Iniziammo fondando una comunità di famiglia per giovani poveri. Poi arrivarono i disabili, gli anziani, i malati mentali, gli emarginati, i carcerati in semilibertà. Infine i primi immigrati e rifugiati”. La svolta nel 1995 con la guerra in Cecenia. “Ci chiamarono con nostra grande sorpresa - continua Franco - a fare i mediatori di pace. Sei mesi di lavoro segreto. Poi arrivò l’idea di creare lo studentato qui a Rondine. Ci presero per matti. “Se trovate un russo che vuol dormire con un ceceno fate pure”, ci dissero”. E invece li trovarono davvero russi e ceceni disposti a dormire insieme. Anche se dopo un po’ furono i ceceni ad abbandonare lo studentato perché, dissero, non se la sentivano di lavare i loro panni insieme a quelli dei russi. Poi ecco il miracolo. “Altri russi e ceceni arrivano da noi - racconta il presidente di Rondine - e iniziano a discutere, a capirsi a fraternizzare. Come Ilia che, manager di un’azienda russa, assume il ceceno conosciuto in Italia. Gli fanno mobbing e lui decide di licenziarsi, ma chiama l’amico-nemico e insieme fondano una nuova azienda che supera nel business quella vecchia”. A Rondine sono arrivati tanti ragazzi diventati portatori di pace. Come Tony, un ragazzo della Serra Leone, che nel borgo aretino è riuscito a superare l’odio nei confronti di chi aveva ucciso i suoi amici e parenti, e ha avuto il coraggio una volta tornato a casa, di andare dalla tribù nemica a raccontare la sua esperienza di pace. “Il nostro - spiega il direttore generale di Rondine, Ida Linzalone - è un metodo per la trasformazione del conflitto una pedagogia del dialogo, un percorso per far capire che forse il nemico in realtà non è mai esistito. Abbiamo iniziato da un borgo e ora ci ritroviamo all’Onu”. Un giorno a Ilez, ragazzo del Caucaso, venne in mente una strana domanda. Si chiese per quale motivo tutti i suoi amici erano morti imbracciando il fucile mentre lui era lì a parlare con i nemici. La risposta arrivò tempo dopo con poche parole: “Il nemico è un inganno”. Mentre Franco ricorda, Christine e Gal tornano a sfidarsi con un sorriso. Tra poco torneranno a casa. “Ma speriamo di vederci di nuovo. Forse a Natale, magari a Betlemme”, dicono. E intanto annunciano un nuovo progetto. “Stiamo lavorando a un progetto per studenti universitari israeliani e palestinesi.Tanti di loro - spiegano - hanno vissuto questi problemi sulla loro pelle. Insegneremo loro a parlare, a discutere, a scrutare le loro anime leggere”. E a far capire loro che il nemico è davvero un inganno. Danimarca. Detenuti stranieri confinati all’Isola di Lindhom di Giulia Garofalo euronews.com, 4 dicembre 2018 Copenhagen risponde alle richieste della popolazione locale della zona con il carcere più grande della Danimarca di garantire una maggiore sicurezza dei suoi cittadini. Sarà cosi l’Isola di Lindholm, a un chilometro dalla terraferma, la destinazione che le autorità danesi hanno assegnato agli stranieri che commettono reati, a chi è privo di permesso di soggiorno. Finirà in questo carcere anche chi è entrato illegalmente nel Paese, non ha ricevuto il diritto d’asilo e ha commesso reati. I detenuti saranno isolati temporaneamente in questa struttura in mezzo al mare, in attesa di essere espulsi. La misura fa parte del “pacchetto di bilancio-sicurezza” che il Governo conservatore ha concordato con l’estrema destra. I criminali stranieri in Danimarca saranno imprigionati nella remota isola di Lindholmm prima di essere deportati. Venezuela. Detenuti politici in balia di situazione di crisi perenne di Samuel Bregolin osservatoriodiritti.it, 4 dicembre 2018 Mentre il Venezuela subisce un’inflazione da record, l’economia è in crisi e sempre più venezuelani emigrano, peggiora anche la situazione dei detenuti. Soprattutto per chi è accusato di crimini politici, a volte vittime di tortura. La Commissione interamericana insiste con Maduro per entrare nel paese, ma ad oggi mancano risposte. Il corpo di Fernando Albán è stato ritrovato senza vita lo scorso 8 ottobre, sfracellato sull’asfalto della centrale Plaza Venezuela a Caracas, dopo un volo di dieci piani dalla sede del Servicio Bolivariano de Inteligencia (Sebin), i servizi segreti venezuelani. Fernando Albán, consigliere del partito di opposizione Primero justicia (Pj), era accusato di aver partecipato all’attacco con droni contro Nicolas Maduro dello scorso agosto. Secondo la versione ufficiale del governo, riportata anche dalla CNN, durante gli interrogatori che si svolgevano al decimo piano della sede del Sebin, Fernando avrebbe chiesto di andare al bagno e da lì si sarebbe suicidato lanciandosi dalla finestra. Secondo l’opposizione, invece, Fernando Albán è stato barbaramente ucciso dal regime di Maduro, defenestrato dal decimo piano dagli agenti del Sebin. La morte di Albán apre la discussione sulle condizioni di detenzione dei detenuti politici e sui mezzi utilizzati durante gli interrogatori. Bastonate, scariche elettriche, sacchetti di plastica in testa, inalazione forzata di pesticidi, denti rotti col calcio della pistola: i racconti e le leggende che girano attorno ai metodi della polizia bolivariana fanno temere che nel paese siano in corso gravi casi di torture e violazioni dei diritti umani. In reazione alle sollecitazioni e denunce ricevute, la Commissione interamericana per i diritti umani (Cidh) ha raddoppiato la pressione e lo scorso 4 ottobre ha chiesto nuovamente al governo di Maduro di entrare nel paese per monitorare le condizioni di detenzione nelle prigioni nazionali, in particolare dei reclusi per cause politiche. L’accesso alla Commissione interamericana viene negato da oltre 7 anni e il timore è che le condizioni reali di detenzione siano peggiori di quanto emerge dalle denunce. Con la crisi economica, l’inflazione che continua a correre, lo Stato in fallimento e la crisi migratoria, le condizioni di detenzione di chi si oppone al governo di Nicolas Maduro peggiorano. L’Osservatorio venezuelano delle prigioni (Ovp) denuncia puntualmente i numerosi casi di malnutrizione. Secondo l’Ovp, i detenuti delle carceri venezuelane ricevono un’alimentazione a base quasi esclusivamente di riso, servito anche una sola volta al giorno. La malnutrizione, la mancanza di proteine e amminoacidi essenziali, assieme alle cattive condizioni igieniche, hanno sviluppato malattie dell’apparato digestivo e della pelle e sono in aumento i casi di tubercolosi e paludismo. L’Osservatorio venezuelano delle prigioni denuncia anche la totale mancanza di assistenza medica all’interno delle carceri. I trattamenti peggiori sono riservati ai prigionieri politici. Secondo l’ultimo report della ong venezuelana Foro Penal, che da più di 15 anni offre assistenza giuridica gratuita alle vittime di detenzioni arbitrarie, in Venezuela ci sono 248 prigionieri politici, di cui due adolescenti. Foro Penal sottolinea che altre 7.498 persone sono sotto processo penale, con accuse politiche e sotto misure cautelari. Quella messa a punto dalle forze dell’ordine venezuelane, più che una ricerca dei colpevoli sembra essere una strategia della paura volta a terrorizzare l’intera popolazione. Alfredo Romero, avvocato difensore dei diritti umani e direttore di Foro Penal, denomina questa strategia della “porta girevole”. In questo metodo si scarcera un certo numero di detenuti mentre allo stesso tempo un numero uguale o superiore viene arrestato. Il numero di detenuti si mantiene sempre attorno agli stessi livelli, sottolinea Alfredo Romero nell’ultimo rapporto di Foro Penal, ma le persone detenute non sono le stesse. In totale, dal 2014 ad oggi sono 12.406 i cittadini venezuelani che hanno subito un periodo più o meno lungo di detenzione per ragioni politiche. Questo metodo genera un generalizzato effetto intimidatorio verso la popolazione dissidente, reale o eventuale. Alfredo Romero e Foro Penal denunciano le gravi violazioni alla Costituzione venezuelana, particolarmente dell’articolo 43, sul diritto inalienabile alla vita. Tra i centri di detenzione peggiori, quello che suscita più terrore per la sua triste fama è quello posto nel sottosuolo della sede del Servicio Bolivariano de Inteligencia (Sebin), in Plaza Venezuela, a Caracas. Lo stesso edificio dove ha trovato la morte Fernando Albán. Lì, 5 piani sotto al suolo, esiste un centro di detenzione e tortura conosciuto come “La Tumba”, come rivela il quotidiano d’inchiesta francese Mediapart, che ha potuto intervistare alcuni ex prigionieri. Costruito originariamente per ospitare gli uffici della metropolitana di Caracas, è stato successivamente trasformato in una prigione e centro di reclusione del Sebin. Pensato inizialmente per essere un parcheggio, qui sono state costruite sette celle di massima sicurezza. Secondo le ricostruzioni dei familiari dei detenuti, le celle hanno dimensioni simili a quelle di un armadio, 3 metri di larghezza per 2 di lunghezza, senza finestre né bagno. Qui i detenuti sono sottoposti in continuazione a tortura psicologica: la luce dei neon può rimanere accesa anche per più di 24 ore, per far sì che i detenuti perdano la nozione del tempo. L’unica ventilazione è quella proveniente dall’impianto di climatizzazione dell’edificio e le temperature delle celle sono gelide, gli unici oggetti personali consentiti sono una bibbia, un rosario e delle foto. Tutto questo genera un acuto senso di depressione nei prigionieri. È quanto emerge dall’inchiesta della giornalista venezuelana Mariana Atencio pubblicata su Univision Noticias. Lorent Saleh, 30 anni, è uno dei pochi testimoni diretti delle condizioni di detenzione nel centro di tortura. Nel 2014, Lorent era stato accusato dalle autorità venezuelane di realizzare allenamenti paramilitari e di pianificare attentati contro lo Stato. Arrestato, passò 4 anni nel sottosuolo di Plaza Venezuela, prima di essere liberato ed estradato in Spagna. Lorent ha dichiarato alla stampa: “Quando mi hanno arrestato, fui sottoposto per un lungo periodo di tempo a una forma di tortura bianca. Fui obbligato a fare uno sciopero della fame solo per avere un orologio e sapere che ora era. La pressione era tale che tentai il suicidio tagliandomi le vene e da allora mi impedirono di utilizzare vestiti e un guardiano dormiva nella cella con me. Ad oggi, nessuna delle accuse nei miei confronti ha potuto essere dimostrata”. Cina. Detenuto per 33 anni, è morto il monaco eroe del Tibet libero di Andrea Bonazza ilprimatonazionale.it, 4 dicembre 2018 È morto all’età di 85 anni Palden Gyatso, il monaco tibetano considerato il paladino del Tibet. Gyatso aveva trascorso una lunga detenzione nelle prigioni cinesi dove, fra campi di rieducazione e laogai, aveva trascorso ben 33 anni della sua vita, interamente dedicata alla libertà del suo popolo. Il monaco tibetano è venuto a mancare mentre era ricoverato in un ospedale di McLeod Ganj, quartiere di Dharamsala, la città indiana del Dalai Lama, dove risiede anche l’amministrazione centrale tibetana in esilio. Dopo la sua liberazione dalle carceri cinesi, Gyatso viveva in un monastero di Kirti. Fino ai suoi ultimi giorni di vita, aveva continuato la sua personale lotta per la libertà del popolo tibetano e in generale del Tibet dalla Cina capital-comunista. Palden Gyatso ha trascorso ben 33 anni prigionia e tortura per non aver mai rinnegato il Dalai Lama. Il monaco aveva raccontato le sue tragiche esperienze in un libro autobiografico, pubblicato in Italia con il titolo di “Il fuoco sotto la neve”, poi divenuto un film nel 2008. “Ho 85 anni, ho vissuto una vita lunga e piena di benedizioni”, aveva commentato ad asianews.it Gyatso era solito ripetere negli ultimi tempi: “Sono felice di aver vissuto una vita lunga e piena di benedizioni. Persino il carcere è stato una benedizione, perché ho visto tanti amici morire davanti a me mentre io sono sopravvissuto. Sono sopravvissuto a torture e carestie”. Il suo primo arresto avvenne nel 1959 dopo l’occupazione del Tibet dalla Cina con l’accusa di aver protestato contro l’occupazione del suo Paese. In cella rimase per un terzo di secolo, tra i lagoai e i campi di lavoro dove subì numerose torture per non aver mai rinunciato all’identità e alla sovranità del popolo tibetano.