Il ministro della Giustizia: no ai taser in carcere di Maurizio Tortorella affaritaliani.it, 3 dicembre 2018 Il grillino Bonafede contrario “per ora” alla pistola elettronica. Ma il suo collega leghista, Salvini, l’ha annunciata più volte. Il taser, la pistola elettronica, verrà affidata non soltanto agli agenti della Polizia di Stato, ma anche a quelli della Polizia penitenziaria? Per ora il ministero della Giustizia dai quali la penitenziaria dipende, risponde con un “no”. A chiedere che lo strumento di autodifesa arrivasse nelle prigioni era stata Forza Italia alla Camera dei deputati, con un’interrogazione presentata alla Camera alla fine di novembre al ministro Alfonso Bonafede dalla deputata reggiana Benedetta Fiorini. L’iniziativa seguiva l’aggressione del comandante del carcere di Reggio Emilia da parte di un detenuto di religione islamica, seguito dall’incendio di una cella da parte di un recluso inneggiante all’Isis. La deputata Fiorini ricordava al ministro Bonafede che il taser in carcere era stata una delle promesse presentate con più forza in campagna elettorale dal vicepresidente del Consiglio Matteo Salvini. Il ministro dell’Interno aveva ripetuto il suo impegno anche ai primi di settembre, subito dopo un incidente avvenuto nel carcere di Prato, dove un detenuto sudamericano aveva aggredito quattro agenti. In quell’occasione, Salvini aveva assicurato che del taser avrebbe parlato al più presto con il collega Bonafede, dicendosi convinto che lo strumento fosse da adottare: “Lo usano anche in Vaticano” aveva detto Salvini “e non vedo l’ora che diventi uno strumento effettivo anche nelle nostre prigioni”. Ieri, però, il Guardasigilli ha scritto nella sua risposta che “l’Amministrazione penitenziaria (…) ha ritenuto di soprassedere, in questa prima fase, alla sperimentazione della pistola elettrica in ambito penitenziario, ferma restando la possibilità di valutare possibili proiezioni future dell’impiego di tale dispositivo anche in tale delicato contesto”. Nella casa circondariale di Reggio Emilia è stato aumentato il numero delle telecamere di sorveglianza e, come in tutta Italia, è stato diramato un protocollo interno per aumentare la sicurezza degli agenti di custodia. Il problema principale, ammette il ministro, è la carenza di organico. Bonafede ha annunciato in tempi brevi l’ingresso di nuovi agenti, oggi in formazione nelle scuole di Polizia. L’illusione di sicurezza dell’Italia con la pistola di Fabio Tonacci e Paolo G. Brera La Repubblica, 3 dicembre 2018 L’Italia che ha paura. L’Italia che fa paura. L’illusione della sicurezza, generata da una pistola nel comodino. Sono 4,5 milioni i cittadini che hanno scelto di armarsi. Ecco perché. L’illusione della sicurezza, generata da una pistola nel comodino e da un governo che spinge per allargare “l’ombrello” della legittima difesa. “Se entri in casa mia a rubare ti sparo, poi si vede”. Ma non è così, la realtà è più complessa della brutale sintesi che il ministro dell’Interno Matteo Salvini, e la Lega tutta, ancora in questi giorni dopo il caso del gommista Fredy Pacini, ripropone al Paese. Le indagini per omicidio, quando a morire è il ladro o l’aggressore, si faranno sempre e comunque. Ed, eventualmente, anche i processi. La politica, però, non può ignorare un dato oggettivo: il numero degli italiani a mano (legalmente) armata cresce di anno in anno. Nel 2017 le licenze sono diventate 1,4 milioni. Quelle per uso sportivo sono salite addirittura di 100mila unità in dodici mesi, arrivando a quota 584mila. Ed è in questa cifra che, al netto degli appassionati di tiro a volo, misura l’inquietudine. Pensionati e casalinghe vanno nei poligoni per imparare a sparare con pistole come la Glock calibro 9, quella con cui Luca Traini scatenò il suo personale far west a Macerata. Costa seicento euro in armeria, dodici euro una scatola con cinquanta proiettili. Ci vuole davvero poco. L’Italia non sa nemmeno quante armi possiede. Il Viminale non vuole rendere pubblico il censimento ufficiale di pistole, fucili, doppiette, carabine, in circolazione. “È un dato troppo sensibile”, ti rispondono, quando chiedi i dati. Siamo fermi alle ben poco rassicuranti stime del Censis, secondo cui nelle case di 4,5 milioni di italiani c’è almeno un’arma da fuoco. Eppure il numero assoluto dei reati diminuisce, compresi i furti (-9,5 per cento su base annua) e le rapine (-12,3 per cento). È lo Stato che ha l’onere della sicurezza pubblica, perché è un principio cardine del patto sociale. Quando i cittadini si armano non è mai un buon segnale. “Disapprovo il Far West, il fucile è chiuso a chiave” Oscar, tecnico informatico, vive a Gardone con Jessica, operaia: “Abbiamo una bambina piccola, lo Stato ti offre sempre meno protezione per cui ho preso un’arma; ma da qui a usarla ci vuole molto coraggio, e io sicuramente non lo avrei. L’arma sta al suo posto nell’armadio, e la bambina non sa dov’è: ha quasi 12 anni ma non mi fido, non si sa mai. Il fucile è chiuso a chiave e le munizioni sono lontane: non farei mai in tempo a usarlo. Lo tengo solo perché ti senti un po’ più protetto, con tutto quello che si sente in giro ho detto: e vabbé. Il porto d’armi lo avevo, ai tempi andavo a caccia ma non mi piaceva: meglio il tiro al piattello, così non faccio male a nessuno. Non sono un pistolero, e sparare in casa al primo che capita non mi pare giusto: in Italia non abbiamo quel tipo di cultura, dal niente diventerebbe troppo e rischiamo il Far West. Viviamo in una palazzina di sei appartamenti, se sento un vetro rotto vado a prendere mia figlia, mi chiudo in bagno e finisce lì: gli lascio fare quello che devono, così la mia vita è tutelata. Il fucile resta dov’è: l’eroe lo facciano altri”. “Per proteggere i miei disposto anche a sparare” Ezio, 48 anni, operaio di Marcheno Val Trompia, vive in una casa isolata: “Un anno e mezzo fa ho comprato il fucile. Ho due bambine di 6 e 10 anni, con tutto quello che succede in questo mondo ho paura e voglio difenderle. Nella nostra zona stanno aumentando le rapine e i furti, e prima o poi... La notte si sentono i rumori, devi sempre stare in guardia. Le bambine non sanno del fucile, è pericoloso e lo tengo ben nascosto. Mia moglie? Condivide: in casa dobbiamo poterci difendere. Siamo andati a sparare qualche volta al poligono, a Gardone. Ho il porto d’armi sportivo, ma il fucile lo tengo qui per difesa, chiuso ma pronto all’uso. E io la notte sono sempre in guardia. Ho l’allarme, ma qui continuano a esserci furti e io scatto al primo rumore. Ti seguono, ti controllano: devi sempre tenere gli occhi aperti. Se sento rumori prendo il fucile. È già successo: mi sono messo davanti alla porta, ho guardato fuori dalla finestra; non ho caricato, ma ero lì. Se entrano, sparo. Il coraggio di premere il grilletto lo avrei. E vale anche per il giardino: è la mia zona privata. Cercherei di mirare alle gambe, questo sì: è sempre brutto ammazzare una persona; però la paura e le premure sono per la mia famiglia. Se li vedo scappare, bene. Ma se avanzano sparo”. “Se mi aggrediscono ho una via d’uscita” Santina, impiegata di Sarezzo, vive con suo marito Renato e una gatta: “Tutto è cominciato quando abbiamo ereditato i fucili di mio padre: mio marito prese il porto d’armi per poterli tenere, poi ci siamo appassionati al tiro al piattello e l’ho preso anche io. Anche la pistola è sportiva: la usiamo al poligono, ma raramente. Però ci sono stati parecchi furti in zona, e avendola in casa ci sentiamo un po più sicuri. Usarla davvero? Non sono sicura che me la sentirei, tra possederla e sparare c’è una bella differenza. Abbiamo paura, sì, ma non siamo a quei livelli: è chiusa in un armadietto blindato in camera da letto, insieme ai fucili sportivi. Non dormiamo certo con la pistola sotto al cuscino, per capirci. E non penso che usciremmo dalla camera con la pistola in mano, se sentissimo un rumore. È vero che la persona che sbaglia non sono io che ti sparo ma sei tu che entri in casa mia, la logica è giusta, ma guai a far passare il messaggio che se ho un’arma posso farci quello che mi pare. Ci vuole moderazione e buon senso. Sei in casa mia? Non va bene, ma se non parti aggredendomi...ok, prendi quel poco che trovi e vattene senza farmi male. Ma se uno entra con cattive intenzioni, con la pistola senti almeno di avere una scappatoia”. Se la sicurezza diventa tema di sola polizia di Nadia Urbinati* La Repubblica, 3 dicembre 2018 La legge sulla sicurezza approvata dal Parlamento assegna larghissimo spazio all’immigrazione, facendone a tutti gli effetti un tema di ordine pubblico, di polizia. Regola la presenza dei migranti in maniera molto restrittiva, abrogando il permesso di soggiorno per motivi umanitari e togliendo la protezione a chi chiede asilo da trattamenti disumani e degradanti. Propone una lettura disumana della Costituzione, ed esce dall’alveo delle convenzioni internazionali sulla protezione dei diritti di bambini e ragazzi, che l’Italia ha sottoscritto (l’art. 10 della Costituzione dice che “La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali). Come ha scritto Chiara Saraceno su Repubblica, “dopo l’approvazione della nuova legge sulla sicurezza i figli di coloro che hanno ottenuto protezione umanitaria dovranno seguire il destino dei genitori, obbligati a lasciare i luoghi in cui avevano trovato accoglienza e progetti di inserimento”. Mario Morcone, rappresentante del Consiglio italiano per i rifugiati, ha spiegato che “richiedenti asilo e rifugiati non hanno commesso alcun reato. La Convenzione di Ginevra prevede esplicitamente che gli Stati non possano adottare sanzioni penali contro i rifugiati solamente per il loro ingresso o soggiorno irregolare”. La legge e la sua approvazione sollevano il problema del ruolo degli organi di controllo, in primis le corti e chi si occupa di sorvegliare affinché venga garantito al paese il governo della legge: al paese, ovvero a chi lo abita (cittadini e cittadini naturalizzati, immigrati residenti e ammessi, e rifugiati.) I diritti umani sono diritti della persona, non dei soli cittadini. Le democrazie si sono stabilizzate dopo la Seconda guerra mondiale e due decenni di dittature riconoscendo questo principio, che mette la legge sopra le maggioranze e i governi. Che maggioranza e governi ricevano la legittimità del consenso elettorale non è ragione sufficiente perché agiscano come l’opinione della maggioranza vuole. Il momento difficile nel quale si trova la nostra democrazia richiede una riflessione critica e competente sulla tensione che si manifesta tra “governo della legge” e “governo degli uomini”, per riprendere una terminologia classica molto chiara. Siamo di fronte, non solo in Italia, allo stravolgimento della maggioranza che da principio di decisione si fa potere diretto che stiracchia al massimo i limiti imposti dalla Costituzione. Questa è la faccia del populismo del XXI secolo, che può stare nei binari del governo della legge fino a quando il potere indipendente della giustizia esercita la sua funzione. A fianco di altre grandi questioni che la svolta populista globale rappresenta e determina, quello della trasformazione delle democrazie costituzionali in costituzionalizzazioni di una maggioranza è un problema spinoso, gravido di conseguenze che devono farci ponderare sul significato e l’estensione dell’antica massima per la quale la libertà si protegge limitando il “governo degli uomini”. Per fermare un treno che potrebbe deragliare, con danno per tutti, non solo per i rifugiati, non si deve dimenticare che nell’età costituzionale le dittature hanno iniziato con il togliere i diritti alle minoranze, aprendo la strada alla discrezionalità (diceva Mussolini che nella sua “concezione non esiste la divisione dei poteri”) che si è tradotta in governo di polizia per tutti. *Nadia Urbinati è docente nel Dipartimento di Scienze Politiche alla Columbia University. Studia le trasformazioni della rappresentanza e il populismo. Ha scritto “Articolo 1. Costituzione italiana” (Carocci, 2017) e “La sfida populista” (Fondazione Feltrinelli, 2018). Ingiusta detenzione. Petrilli: “su 2mila casi solo la metà risarciti” abruzzoweb.it, 3 dicembre 2018 “In Italia ogni anno ci sono mediamente duemila casi di errori giudiziari e ingiuste detenzioni di queste solo la metà vengono risarciti. Questi dati così alti evidenziano un uso abnorme della carcerazione preventiva e della lunghezza dei processi”. Lo scrive in un comunicato l’aquilano Giulio Petrilli, che continua la sua battaglia per ottenere il risarcimento per una ingiusta detenzione durata sei anni dopo l’accusa di essere tra gli organizzatori della banda armata Prima Linea. “Sul tema dei mancati risarcimenti - prosegue Petrilli - per ingiusta detenzione dopo la manifestazione i primi di ottobre scorso davanti il parlamento europeo a Strasburgo e i vari incontri con i parlamentari europei con i quali sto ragionando per predisporre una petizione efficace. Dopo questi eventi ho scritto qualche giorno fa una lettera all’alta commissaria dei diritti umani dell’Onu Michelle Bachelet ex Presidente del Cile. Le ho riferito un problema di violazione dei diritti umani che proprio ieri con grande tenacia il quotidiano il dubbio e il sito errori giudiziari.com stanno seguitando a portare avanti. La verità sui migliaia di casi di errori giudiziari e di ingiusta detenzione in Italia. Questi giornali hanno accertato che mille persone in media ogni anno vengono risarcite per ingiusta detenzione o per errore giudiziario (revisione del processo), dati del ministero dell’economia e presumibilmente altre mille e più, pur se assolte, non hanno avuto nessun risarcimento perché’ avrebbero con i loro comportamenti tratto in inganno gli inquirenti”. “Tra queste persone ci sono anch’io - ricorda Petrilli - per sei anni di carcere ingiusto (banda armata Prima Linea) e mai risarcito. Un incredibile comma, il primo dell’articolo 314 del codice di procedura penale che è da” inquisizione”, infatti introduce nell’ordinamento giudiziario il comportamento morale con le presunte “ cattive frequentazioni”. I due giornali hanno faticato molto per avere dati ufficiali, ma pur sempre parziali dai ministeri competenti quello della giustizia e dell’economia. Proprio ieri hanno reso conto dei dati pervenuti riuscendo, piano piano, a rompere il muro di silenzio. Dati che evidenziano un forte uso della carcerazione preventiva. L’inviolabilità della libertà personale è un caposaldo del diritto e del diritto internazionale. Dopo la manifestazione davanti Montecitorio e quella davanti la Cassazione e il parlamento europeo spero di andare presto a Ginevra nella sede della commissaria del consiglio dei diritti umani per esporre la questione”, conclude Petrilli. La legalità si imparerà (ancora) a scuola di Michele Damiani Italia Oggi, 3 dicembre 2018 Educare alla legalità sui banchi di scuola, con l’ausilio di professionisti qualificati, per convincere gli studenti che “senza rispetto delle regole non c’è spazio per la crescita sana di un paese”. L’impegno è stato assunto dalle istituzioni martedì 27 novembre, con il rinnovo della “Carta d’intenti” da parte di Miur, Ministero della giustizia, Csm, Anac, Anm e Direzione nazionale antimafia. Il rinnovo è dovuto proprio all’aggiunta del Csm e del Ministero della giustizia rispetto all’accordo siglato dal precedente governo. L’obiettivo della carta è quello di “educare le studentesse e gli studenti alla legalità, al rispetto dei diritti e dei doveri di ogni cittadino” oltre che “promuovere la loro partecipazione alla vita civile del paese e favorire il contrasto alla criminalità organizzata”, come si può leggere nella nota diffusa dal Miur. Saranno organizzati nelle scuole seminari e attività di educazione alla legalità e alla cittadinanza attiva sia per i giovani che per le famiglie. Previste anche campagne informative sugli strumenti a disposizione per la prevenzione e il contesto alla criminalità organizzata. Magistrati e professionisti entreranno a contatto diretto con gli studenti, coordinati da un comitato tecnico gestito dal Ministero dell’istruzione. Verranno realizzate anche campagne sui vari media, tradizionali e social, legate ai temi della legalità e della giustizia. Inoltre sarà data attenzione alle situazioni familiari più delicate, “offrendo una rete di supporto ai minori e ai nuclei familiari destinatari di provvedimenti giudiziari dei tribunali per i minorenni, per garantire concrete alternative di vita”. Una parte importante dell’accordo riguarda la condivisione del lavoro già fatto in questi anni sul piano dell’educazione alla giustizia dai vari uffici, in un’ottica di maggiore collaborazione tra i vari organi dello Stato. “Siamo in un momento storico”, parole del guardasigilli Alfonso Bonafede, “in cui tutte le istituzioni decidono di unirsi, di stare insieme per investire sul futuro di questo paese. La prima sfida è rilanciare un concetto di giustizia che parta sai banchi di scuola. Parlo della mia esperienza, ho conosciuto i primi magistrati in classe e so che questi incontri rimangono impressi nella mente dei ragazzi”. La lotta alla mafia, soprattutto in un’ottica di prevenzione, è uno dei punti caratterizzanti del programma: “gli studenti approfondiranno il tema del contrasto del crimine attraverso la cooperazione giudiziaria”, ha dichiarato il procuratore antimafia e antiterrorismo Federico Cafiero De Raho. Diritto all’oblio più veloce ma sui tempi resta l’incertezza di Marisa Marraffino Il Sole 24 Ore, 3 dicembre 2018 Essere dimenticati dai motori di ricerca che detengono i nostri dati è la nuova sfida degli utenti della Rete, che devono fare i conti con le pronunce - non univoche - dei tribunali nazionali. Il principio di certezza del diritto impone però l’individuazione di criteri precisi da applicare a ciascun caso concreto in modo da definire una volta per tutte i confini dell’attualità della notizia. Il fattore tempo - Il nodo da sciogliere riguarda - appunto - l’attualità della notizia o, in altre parole, quanto tempo deve trascorrere prima che scatti il diritto a vedere cancellate le informazioni personali dalla Rete o quanto meno alla deindicizzazione dai motori di ricerca. A marzo scorso il Tribunale di Milano (sentenza n.3578) ha affermato che quattro anni possono definirsi un ragionevole lasso di tempo dopo il quale l’utente può chiedere che la notizia venga confinata nell’archivio informatico della testata e non sia più reperibile attraverso semplici citazioni del proprio nome e cognome su motori di ricerca generalisti. E, a settembre, lo stesso tribunale (sentenza n. 7846) ha ribadito la necessità del ridimensionamento della visibilità degli utenti. Il diritto alla protezione dei dati personali, qualificato come fondamentale della persona, non è però assoluto dovendo essere bilanciato con altri diritti di pari grado come il diritto all’informazione e alla trasparenza. La questione è talmente controversa che la Corte di cassazione con l’ordinanza n. 28084 del 5 novembre scorso ha rimesso gli atti al presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni unite che potrebbero quindi essere chiamate a fare chiarezza. Il caso prende le mosse dalla richiesta di un utente che dopo 12 anni di carcere e un faticoso reinserimento sociale si era trovato nuovamente al centro dell’attenzione a causa di un articolo su un giornale locale che aveva ripreso la sua storia per una rubrica dedicata agli omicidi del passato. L’indicizzazione della notizia online aveva di fatto vanificato il suo percorso di recupero tanto da portarlo a chiedere giustizia fino all’ultimo grado di giudizio. Le regole Ue - Tecnicamente il diritto all’oblio è stato cristallizzato dall’articolo 17 del regolamento Ue 2016/679 (il cosiddetto Gdpr) che ha previsto espressamente la possibilità dell’utente di ottenere la cancellazione dei propri dati personali dal titolare del trattamento quando non sono più necessari rispetto alla finalità per la quale erano stati originariamente raccolti. Prima di allora il diritto all’oblio era stato frutto di interpretazioni giurisprudenziali che di volta in volta ne avevano esteso o ridotto la portata. La protezione garantita dal diritto europeo ai dati personali è stata progressivamente ampliata dalla giurisprudenza, traendo spunto dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri. La fasi della tutela - Se esiste un interesse, anche per pochi addetti ai lavori, a reperire la notizia, questa deve essere mantenuta negli archivi digitali, ma se è trascorso un sufficiente periodo di tempo dovrà non essere più indicizzata in modo da garantire all’interessato di poter continuare a svolgere la propria professione, senza dover subire in eterno il contraccolpo negativo della notizia che lo riguarda. I motori di ricerca - La recente giurisprudenza (si veda ad esempio la sentenza n.7846 del Tribunale di Milano) ha stretto quindi le maglie sulla duplice responsabilità del motore di ricerca. Da un lato, infatti, quest’ultimo ha un ruolo attivo nella programmazione del software che sceglie gli abbinamenti tra i termini, il rimando alle pagine sorgente ed il grado di visibilità attribuito alla notizia; in secondo luogo, spetta proprio al motore di ricerca ogni iniziativa che possa agire sulle pagine in cui la notizia è stata riprodotta. Spesso infatti non basta la semplice richiesta di deindicizzazione formulata dall’editore per ottenere l’effettiva eliminazione dei contenuti dai risultati di ricerca. È necessario quindi uno sforzo congiunto che tenga conto degli effetti del trascorrere del tempo o, comunque, del cambiamento delle situazioni che possono rendere illecita la pubblicazione di dati personali che erano stati legittimamente pubblicati all’epoca dei fatti. Abuso d’ufficio: prova del dolo intenzionale da elementi sintomatici di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 3 dicembre 2018 Cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 1 ottobre 2018 n. 43287. In tema di abuso d’ufficio, la prova del dolo intenzionale che qualifica la fattispecie non richiede l’accertamento dell’accordo collusivo con la persona che si intende favorire, ma ben può essere desunta anche da altri elementi, quali, ad esempio, la macroscopica illegittimità dell’atto compiuto, ovvero l’erronea interpretazione di una norma amministrativa, il cui risultato si discosti in termini del tutto irragionevoli dal senso giuridico comune, tanto da apparire frutto di una decisione arbitraria. Lo ha chiarito la Cassazione con la sentenza 43287/2018. Come è noto, nel reato di abuso d’ufficio (articolo 323 del Cp), si richiede il “dolo intenzionale”, nel senso che l’agente deve aver agito proprio per perseguire uno degli eventi tipici della fattispecie incriminatrice, ossia l’ingiusto profitto patrimoniale, per sé o per altri, ovvero l’altrui danno ingiusto. In altri termini, non è sufficiente che il soggetto attivo agisca con “dolo diretto”, cioè che si rappresenti l’evento come verificabile con elevato grado di probabilità, né che agisca con “dolo eventuale”, nel senso che accetti il rischio del suo verificarsi, ma è necessario che l’evento di danno o quello di vantaggio sia voluto e realizzato come obiettivo immediato e diretto della condotta, e non risulti semplicemente realizzato come risultato accessorio di questa. Venendo a fare discendere le conseguenze pratiche dalla rilevata costruzione dell’elemento soggettivo dell’abuso, va allora sottolineato che, secondo un ormai diffuso orientamento interpretativo (tra le tante, sezione VI, 29 aprile 2009, Artale), difetta il dolo intenzionale del reato (anche) quando l’agente, pur nella consapevolezza dell’illegittimità del proprio agire e dell’ingiusto vantaggio patrimoniale di natura privata in tal modo determinato, abbia inteso comunque perseguire la soddisfazione di un interesse pubblico “di preminente rilievo” attribuito alla sua competenza. In questo caso, secondo tale prospettazione interpretativa, il “favoritismo privato” non è la ragione assorbente della condotta, ma, per la concomitanza con il fine pubblico concorrentemente perseguito, risulta “degradato” a elemento privo di valenza penale, con conseguente insussistenza del reato. La questione, come è ovvio, può porsi solo in caso di abuso finalizzato al “vantaggio patrimoniale altrui”. In tale situazione, in effetti, può porsi un problema di effettiva sussistenza del dolo intenzionale laddove, in uno con l’interesse del privato (di natura patrimoniale e non direttamente tutelato dalla normativa di settore), il pubblico ufficiale abbia concorrentemente agito per soddisfare l’interesse pubblico dell’amministrazione. Di guisa che la soddisfazione del primo finisca con il rappresentare un effetto indiretto della (o, comunque, uno strumento per la) soddisfazione del secondo. In questo caso, a ben vedere, non potrebbe affer­marsi sussistente il dolo intenzionale presupposto dall’articolo 323 del Cp, in quanto la condotta del pubblico uffi­ciale non sarebbe improntata dall’esclusiva finalità di favorire indebitamente il beneficiario dell’atto: in tale evenienza, l’azione illegittima, magari qualificata da quel particolare vizio che è l’eccesso o sviamento di potere, sarebbe censurabile solo in sedi diverse da quella penale, ma non integrerebbe un abuso rilevante ex articolo 323 del Cp. Con riguardo poi alla prova dell’intenzionalità del dolo, questa esige ovviamente il raggiungimento della certezza che la volontà dell’imputato sia stata orientata proprio a procurare il vantaggio patrimoniale o il danno ingiusti. Tale certezza non può provenire esclusivamente dal comportamento non iure tenuto dall’agente, ma deve trovare conferma anche in altri elementi sintomatici, che evidenzino l’effettiva ratio ispiratrice del comportamento, quali la specifica competenza professionale dell’agente, l’apparato motivazionale su cui riposa il provvedimento, il contesto e il tenore dei rapporti personali tra l’agente e il soggetto o i soggetti che dal provvedimento ricevono vantaggio patrimoniale o subiscono danno (cfr. puntualmente sezione VI, 25 gennaio 2013, Barla e altri). Inosservanza provvedimenti Autorità: applicabile solo se il fatto non è previsto come reato di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 3 dicembre 2018 Cassazione - Sezione I penale - Sentenza 8 ottobre 2018 n. 44957. L’articolo 650 del Cp costituisce una norma penale in bianco a carattere sussidiario, applicabile solo quando il fatto non sia previsto come reato da una specifica disposizione, ovvero allorché il provvedimento dell’autorità non sia munito di un proprio, specifico sistema di rimedi a tutela degli interessi coinvolti. Lo ha detto la Suprema corte con la sentenza dell’8 ottobre 2018 n. 44957. È principio consolidato quello secondo cui, in tema di inosservanza di provvedimento dell’autorità, la disposizione di cui all’articolo 650 del codice penale è norma di natura sussidiaria, che trova applicazione solo quando l’inosservanza del provvedimento dell’autorità non sia sanzionata da alcuna norma, penale o processuale o amministrativa (per tutte, sezione I, 19 aprile 2016, Azzarone). Pertanto, come puntualizzato nella sentenza massimata, per la configurabilità del reato è necessario che ricorrano le seguenti concorrenti condizioni: 1) l’inosservanza di un ordine specifico impartito a un soggetto determinato, in occasione di eventi o circostanze tali da far ritenere necessario che proprio quel soggetto ponga in essere una certa condotta per finalità di sicurezza o di ordine pubblico, oppure di igiene o di giustizia; 2) l’inosservanza di un ordine impartito con provvedimento adottato in relazione a situazioni non prefigurate da alcun testo di legge introduttivo di specifica e autonoma sanzione, applicabile in caso di violazione del suo contenuto obbligatorio; 3) l’emissione del provvedimento, motivato da ragioni di giustizia, di sicurezza, di ordine pubblico, di igiene, a tutela dell’interesse pubblico collettivo e non di soggetti privati (in termini, sezione I, 23 aprile 2014, Rasia). È la ragione per la quale, nella fattispecie, la Corte ha escluso il reato in una vicenda in cui il comportamento incriminato trovava già specifico meccanismo di tutela sanzionatoria di natura amministrativa nel regolamento comunale. Reato di evasione con il solo allontanamento volontario e arbitrario dal luogo di restrizione Il Sole 24 Ore, 3 dicembre 2018 Reati contro l’amministrazione della giustizia - Delitti contro l’autorità delle decisioni giudiziarie - Evasione - Arresti domiciliari - Volontà di tornare in carcere - Mancata comunicazione preventiva - Sussistenza del reato - Irrilevanza. Ai fini dell’integrazione del reato di evasione dagli arresti domiciliari è irrilevante la dichiarazione, resa dal soggetto che si sia volontariamente allontanato dal luogo di restrizione e che sia stato tratto in arresto nella pubblica via, di volersi recare alla stazione dei Carabinieri per essere ricondotto in carcere, senza preventiva comunicazione alla autorità preposta al controllo della misura. Tale condotta omissiva non consente infatti né di stabilire il momento di allontanamento dal luogo degli arresti né di escludere il dolo generico proprio del suddetto reato, consistente nella consapevolezza di violare la misura cautelare in atto mediante il semplice allontanamento dal proprio domicilio. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 22 novembre 2018 n. 52681. Reati contro l’amministrazione della giustizia - Delitti contro l’autorità delle decisioni giudiziarie - Evasione - Allontanamento dagli arresti domiciliari - Presentazione presso Forze di polizia per farsi condurre in carcere - Reato - Configurabilità - Fattispecie. Integra il reato di evasione previsto e punito dall’articolo 385 del codice penale qualsiasi condotta di volontario allontanamento dal luogo degli arresti domiciliari, in difetto di previa autorizzazione da parte della competente A.G., comportando la lesione dell’interesse protetto dalla norma incriminatrice al rispetto dell’autorità delle decisioni giudiziarie, non assumendo alcun rilievo, in senso contrario, né la durata o la distanza dello spostamento, né i motivi alla base della determinazione del soggetto agente. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 2 marzo 2016 n. 8614. Reati contro l’amministrazione della giustizia - Delitti contro l’autorità delle decisioni giudiziarie - Evasione - Misura coercitiva domiciliare cautelare - Reato istantaneo - Dolo generico - Allontanamento non autorizzato. La fattispecie criminosa della evasione da una misura coercitiva domiciliare cautelare o esecutiva (ma lo stesso è a dirsi anche per l’evasione da un istituto carcerario) costituisce un reato istantaneo punito a titolo di dolo generico. Ogni volontario e arbitrario “allontanamento” dal luogo di restrizione domestica realizza e perfeziona il reato di evasione, non richiedendosi a tal fine né che l’abbandono della dimora divenga definitivo, né che il comportamento del soggetto agente risulti privo di animus revertendi. Il reato si consuma con qualsiasi deliberato allontanamento non autorizzato dal luogo degli arresti domiciliari, non assumendo nessun rilievo la durata dell’allontanamento o assenza domestica, la distanza dello spostamento ovvero i motivi che abbiano indotto l’agente a eludere la vigilanza sullo stato custodiale. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 3 aprile 2015 n. 14037. Evasione -Art. 385 c.p. - Dolo generico - Arresti domiciliari - Aree di uso esclusivo - Parti integranti dell’abitazione - Limitazione - Pertinenze - Esclusione - Configurabilità del reato. In tema di evasione dagli arresti domiciliari, agli effetti dell’articolo 385 c.p., deve intendersi per abitazione il luogo in cui la persona conduce la propria vita domestica e privata con esclusione di ogni altra appartenenza (aree condominiali, dipendenze, giardini, cortili e spazi simili) che non sia di stretta pertinenza dell’abitazione e non ne costituisca parte integrante, al fine di agevolare i controlli di polizia sulla reperibilità dell’imputato, che devono avere il carattere della prontezza e della non aleatorietà. (Fattispecie in cui l’imputato, all’atto del controllo, si trovava in uno spazio condominiale esterno alla sua abitazione e proveniva da un altro appartamento). • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 2 febbraio 2015 n. 4830. Reati contro l’amministrazione della giustizia - Delitti contro l’autorità delle decisioni giudiziarie - Evasione - In genere - Soggetto agli arresti domiciliari - Trasferimento di residenza non autorizzato dagli organi di vigilanza - Configurabilità del reato - Sussistenza - Fattispecie. Integra il delitto di evasione dagli arresti domiciliari anche il mero trasferimento di residenza, laddove esso sia stato effettuato dal detenuto senza darne comunicazione e senza aver ottenuto la necessaria autorizzazione da parte degli organi di vigilanza. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 17 dicembre 2010, n. 44504. Marche: incontro con il Garante regionale per i diritti dei detenuti di Paolo Montanari pesaronotizie.com, 3 dicembre 2018 Casa di riposo per anziani “Padre Damiani”, con un intervento introduttivo del Garante per i diritti dei detenuti della regione Marche, Avv. Andrea Nobili, dal titolo “La situazione delle carceri marchigiane oggi”. L’iniziativa che consta di altri tre incontri nel mese di dicembre, è stata organizzata dall’Associazione Isaia, Associazione Bracciaperte e Csv Marche. L’accesso al corso è libero e gratuito. Per Andrea Nobili si sta attraversando un momento complicato per i nostri istituti penitenziari. Se è sempre più importante il volontariato, in questo momento non bisogna dimenticare i diritti fondamentali del carcerato: diritto alla salute, religione ecc.). La realtà marchigiana e soprattutto il carcere di Pesaro vivono una realtà complessa, perché vi sono detenuti di varie categorie e 50 carcerati per sex offender, gli unici nella regione. Oggi con la riforma del diritto penitenziario non si parla di sovraffollamento carcerario, che è tipico nel carcere di Villa Fastiggi, ma al posto di celle si parla di camere di pernottamento e di un provvedimento di svuota carceri che non risolverà le problematiche carcerarie marchigiane. In realtà vi è un fenomeno in contro tendenza con un aumento dei detenuti ben il 20% in più nelle Marche. Tutto ciò ha una influenza non solo da un punto di vista igienico-sanitario ma anche di costi perché ogni detenuto costa 300 euro al giorno. A Pesaro vi sarebbe un limite di 25 detenuti sex offender ma siamo arrivati a 50, in una struttura che è una casa circondariale, a differenza degli istituti di Fossombrone e Barcaglione di Ancona che sono case di reclusione per detenzioni più lunghe. E il regolamento giudiziario oggi è complesso e si può andare in carcere prima della sentenza e non dopo la sentenza definitiva. Attualmente nel carcere di Pesaro il 30% dei detenuti sono in attesa di giudizio. Da alcuni mesi i reati per 41 bis non sono più presenti nelle carceri marchigiane. A Pesaro la situazione carceraria è la più precaria con la maggior estensione di infiltramento terroristico, perché in un carcere che può contenere una popolazione di 146 detenuti, attualmente ve ne sono più di 200 e ai reati di droga, si aggiungono altre tipologia fino ai sex offender. D’altra parte il carcere italiano redime, ha una funzione educativa, visto che la recidiva è la più alta del mondo, il 70%? Non è forse corretta la definizione di Baumann “Le nostre carceri sono discariche sociali”? Se pensiamo che a Pesaro il 30% dei detenuti è legato al mondo della droga, dell’alcolismo e della ludopatia, possiamo comprendere che in gran parte vivono problemi psicologici e psichiatrici, con un consumo di stupefacenti tre volte superiore in carcere rispetto alla società. Le questioni religiose si sovrappongono a quelle psicologiche e il 50% della popolazione carceraria e a rischio di radicalizzazioni. Allora perché non utilizzare strutture alternative per educare, scolarizzare e aiutare al reinserimento lavorativo? In questo contesto con varie tipologie di carcerati vi è anche la presenza di una sezione femminile con 24 donne che vivono un isolamento ancora più forte di quello degli uomini. In gran parte sono donne Rom in attesa di giudizio. Allora perché non cercare di rieducarle? Pesaro e il suo carcere può essere come gli altri 4 carceri marchigiani palestra di delinquenza. A queste problematiche si aggiunge anche quella sanitaria, in particolare per la diffusione delle malattie infettive, che dipende dal sistema sanitario marchigiano.. Vi è poi il problema dell’alfabetizzazione che è sempre più crescente in contesti plurimi come quello del carcere pesarese. Salerno: due detenuti sulla sedia a rotelle abbandonati al loro destino cronachedellacampania.it, 3 dicembre 2018 Nessuna dignità per i detenuti salernitani. E nessuna eccezione per le persone diversamente abili. Al carcere di Fuorni infatti sono presenti due persone con gravi problemi di salute ma per loro nessuno sconto. Non di pena, sia chiaro. Ma di trattamento. Quello stesso trattamento che dovrebbe essere riservato a tutti, nonostante la struttura. Uno dei detenuti necessita di spostarsi in sedia a rotelle e di controlli costanti ma ad oggi poco e nulla viene fatto per lui, trattato al pari di tutti gli altri detenuti nonostante sia stata avanzata più volte richiesta di trovare una sistemazione più idonea alle sue condizioni di salute. Intanto, lo scorso 20 novembre, l’onorevole Rita Bernardini, insieme ad una delegazione del partito Radicale e accompagnati da Donato Salzano e Fiorinda Mirabile e altri avvocati fra i quali il Presidente della locale Camera Penale, Michele Sarno, hanno visitato il carcere di Salerno. In 366 posti deve farci entrare 500 detenuti, tanti erano il giorno della visita. 98 sono in attesa di primo giudizio, 52 attendono il giudizio d’appello e 27 sono ricorrenti in cassazione. I detenuti condannati definitivamente sono 242, mentre coloro che hanno un posizione mista sono 106. Gli stranieri presenti sono circa 72. Anche in merito alla questione sovraffollamento, la situazione non sembra affatto cambiata: 7 detenuti “sistemati” in letti a castello a due piani, “l’umidità si fa sentire, i materassi di gommapiuma sono bagnati perché, oltre alle perdite dalle tubature, quando piove entra l’acqua dalle finestre. Le mura delle celle sono sporche ed è usuale trovare fogli di giornale appiccicati alle pareti per coprire il sudiciume prodotto da precedenti, lontane detenzioni. Quanto al riscaldamento, il giorno della nostra visita coincideva con quello della prima prova in vista della stagione più fredda; risultato del test: termosifoni gelati… occorre evidentemente una più approfondita messa a punto considerata la vetustà delle caldaie che infatti ha richiesto nel tempo continue riparazioni”, ha reso noto l’ex parlamentare. Inoltre, su 500 detenuti, solo 113 lavorano (23%) e lo fanno per poche ore al giorno e per pochi mesi all’anno perché vige la rotazione per i lavori domestici in carcere, gli unici possibili a Salerno considerato che sono state dismesse tutte le lavorazioni. Se nelle sezioni del maschile qualcuno ha la possibilità almeno di studiare (c’è l’istituto alberghiero), nella sezione femminile, che ospita 41 donne, abbiamo trovato un’atmosfera tesissima: lì la scuola proprio non c’è e solo 6 detenute svolgono lavori domestici; manca l’acqua calda da un mese e non c’è la cucina cosicché i pasti (immangiabili a detta delle detenute) arrivano (freddi e incollati) dalle cucine del maschile. La situazione, dunque, resta ancora molto drammatica, senza contare i suicidi che si sono verificati in questi mesi e le aggressioni riscontrate. Velletri (Rm): protesta davanti al penitenziario “Il carcere uccide” ilmamilio.it, 3 dicembre 2018 Si è tenuto sabato pomeriggio, davanti al carcere di Velletri, una manifestazione di protesta. Obiettivo della manifestazione: il sistema carcerario e i suicidi in cella, l’ultimo in ordine di tempo ha riguardato un 40enne di Velletri. Esposto uno striscione: “Il carcere uccide”. Presenti un centinaio di persone, provenienti dai Castelli Romani, Latina e provincia e da Roma, tra questi anche alcuni familiari dei detenuti. Intonati alcuni slogan, ai quali i detenuti hanno risposto in segno di solidarietà. Il presidio si è svolto senza problemi. La protesta è avvenuta presso il bivio d’ingresso al Penitenziario situato sulla strada Cisternese. Presente Polizia Penitenziaria, Polizia celere di Roma, Polizia e Carabinieri di Velletri. Aumentati i controlli e il pattugliamento all’interno e all’esterno del carcere. Civitavecchia (Rm): domani convegno alla Pucci su “Carceri e Fedi” terzobinario.it, 3 dicembre 2018 Domani alle ore 16:30, presso l’aula Consiliare R. Pucci di Civitavecchia, si terrà un convegno su “Carceri e Fedi: percorsi spirituali, sociali e umani”. Il convegno è organizzato dalla chiesa evangelica battista di via dei Bastioni a Civitavecchia con il patrocinio del Comune, dell’ASL Roma4, della rivista specializzata nel dialogo interreligioso Confronti e finanziato con i fondi otto per mille dell’Ucebi - chiese evangeliche battiste in Italia. La chiesa evangelica battista è da anni impegnata nelle due carceri civitavecchiesi. Ha organizzato un corso di formazione per volontari carcerari; insieme all’ASL Roma4, l’ottica De Felici e l’otto per mille Battista ha sostenuto le spese per l’acquisto di occhiali ai detenuti; con il M° Marcello Silvestri ha avviato un percorso artistico-spirituale teso a permettere ai detenuti fare emergere e venire allo scoperto gli aspetti della propria interiorità; ha organizzato corsi di cucito e manualità nella sezione femminile; oltre al tradizionale lavoro pastorale in collaborazione con la chiesa Adi di via Gondar. Questa volta la chiesa battista ha voluto farsi tramite fra il carcere e la città, facendosi portatrice delle istanze sociali del carcere ai cittadini civitavecchiesi. Il carcere è un luogo unico anche per quanto riguarda la presenza e la convivenza delle diverse religioni. In questo convegno si cercherà di vedere come questo luogo di rieducazione sociale possa essere anche un luogo di sperimentazione del dialogo tra le religioni. Sarà possibile visitare la mostra delle opere dei detenuti, commentate dal M° Marcello Silvestri. Catanzaro: donato defibrillatore alla squadra di calcio dei detenuti cn24tv.it, 3 dicembre 2018 Finché c’è vita, la partita è tutta da giocare. Fuori come dentro il carcere. Questo il significato della commovente manifestazione svoltasi giovedì scorso alla Casa Circondariale di Catanzaro, nel corso della quale il direttivo ha donato alla squadra di calcio composta dai detenuti dell’istituto un defibrillatore semiautomatico, da destinare al campo sportivo interno. Qui vengono disputate le partite del torneo amatoriale della Lega nazionale dilettanti a cui è iscritta la squadra della struttura di Siano, che, per ovvi motivi, gioca sempre in casa. L’associazione Jenerosità è nata per ricordare Jessica Rosi, che ha perso la vita a soli trent’anni per un arresto cardiaco. Da qui l’idea di rendere “cardio-protetta” la città di Catanzaro donando alcuni defibrillatori in punti strategici, compreso il carcere, quel “quartiere chiuso” in cui molte persone praticano sport. La direttrice Angela Paravati ha sottolineato l’importanza del gesto, affermando: “Il dono in memoria di questa ragazza ha qui un valore doppio, perché ricorda ai detenuti che per quanto la loro situazione possa essere difficile da affrontare nella quotidianità, finché c’è vita c’è speranza, e quindi possibilità di cambiamento e di rinnovamento interiore”. Ha inoltre ringraziato Mario Sei, da anni volontario presso il carcere di Catanzaro, che ha messo in contatto l’associazione con l’istituto. Presente altresì la mamma di Jessica, Patrizia Maestrale, visibilmente commossa. Il responsabile dell’area sanitaria del carcere, dottor Antonio Tavano, tra l’altro anche medico del 118, si è soffermato sull’importanza dei primissimi interventi e con lui un altro medico dell’associazione, la dottoressa Catizone, ha spiegato il corretto uso del defibrillatore, apparecchio dotato di una voce che illustra le operazioni da compiere, guidando il soccorritore, che quindi non deve essere necessariamente un medico o un infermiere, ma può essere anche un semplice compagno di squadra. Non è mancato infine l’intervento di don Francesco Cristofari, da sempre impegnato nel sociale, che ha esortato i detenuti a vivere “ogni momento”, sul campo di calcio, nel carcere e nella vita, perché ogni momento, ogni “battito” è comunque un dono. Pescara: “Dalle sbarre alle stelle”, Flavio Insinna in scena con i detenuti maximitalia.it, 3 dicembre 2018 Il Teatro Stabile d’Abruzzo ha portato in scena, presso Teatro della Casa Circondariale di Pescara, lo spettacolo “Dalle sbarre alle stelle”, tratto dal libro Cento lettere, con la regia di Ariele Vincenti, e dieci detenuti della “Casa Circondariale” di Pescara sulla scena assieme all’attore e conduttore televisivo Flavio Insinna. “Dalle sbarre alle stelle” è il risultato di un percorso teatrale sostenuto dal Teatro Stabile d’Abruzzo con la direzione artistica di Simone Cristicchi, durato sette mesi e tenuto dal regista Ariele Vincenti, in collaborazione con il giornalista-regista Fabio Masi, in sinergia con il direttore, le assistenti sociali e le psicologhe della Casa circondariale di Pescara. “Come il libro Cento lettere - spiega il regista Ariele Vincenti - Dalle sbarre alle stelle, scritto dallo stesso Masi e dal detenuto Attilio Frasca, racconta la vita criminale di quest’ultimo, dai primi reati alla lunga carcerazione. Tutta la vicenda è intervallata dalle sue lettere e da quelle scritte da due suoi amici fraterni, anche loro reclusi, che da vari carceri italiani arrivano a casa di un altro loro amico, Massimo, interpretato da Flavio Insinna”. “Pur rimanendo fedele alla storia dell’autore narrante in prima persona - continua - il lavoro teatrale ha voluto universalizzarla, facendola diventare la voce narrante degli altri detenuti in scena. Il delirio di onnipotenza, la solitudine e la redenzione descritti nel libro, nello spettacolo vengono tradotti scenicamente da 10 attori detenuti, sempre in scena come un corpo unico, attraverso emozioni forti e intime che solo chi conosce la vita carceraria può arrivare a esprimere. Dalla spensieratezza dei bambini che giocano sui prati di borgata alle prime “marachelle”, dalla violenza allo stadio, ai reati “di strada” e non solo, fino all’inevitabile carcerazione, con tutto ciò che ne consegue.” Bari: l’infermiere-comico che parla ai detenuti “con l’ironia e il sorriso si aiuta tanta gente” di Samantha Dell’Edera borderline24.com, 3 dicembre 2018 Si chiama Francesco Di Gennaro, ha 62 anni ed è un infermiere che crede nella “comico-terapia”. Il suo libro “Infermiere di professione, comico per vocazione” sarà presentato nel carcere minorile il 7 dicembre alle 16. Come è nata la “comico terapia”? “Sono entrato nel Policlinico di Bari in qualità di ausiliario. Il mio compito era quello di fare le pulizie. In quei frangenti, tra una lavata e l’altra, notavo ansia, nervosismo, dubbi, tanta solitudine sia nei pazienti che nei loro famigliari. Essendo un tipo abbastanza ironico, ho cominciato a fermarmi vicino ai pazienti e a raccontare loro delle barzellette, a fare delle gag, delle battute, tanta ironia; ho notato subito che funzionava e non mi sono più fermato. Così è nata la mia comico terapia, era il settembre del 1982. Ora ho 62 anni e lavoro sempre al Policlinico. Nell’89 ho iniziato il corso da infermiere professionale e nel 94 quello da capo sala; ho espletato entrambe le mansioni, ma non ho mai smesso di somministrare la comico terapia, nonostante fossero aumentate le responsabilità; da quel giorno diciamo che è nata una piccola rivoluzione, sia in me che nei posti dove lavoravo, nei reparti, negli ambulatori, dovunque io andassi, sparavo quelli che ho definito “proiettili dell’amore, diritti al cuore di pazienti e famigliari”. Quali benefici ha notato nella comico terapia? “I benefici sono tanti: elimina il trauma della degenza, ci sono vantaggi a livello gastro intestinale e respiratorio, si potenzia il sistema immunitario, si velocizzano le guarigioni. Il paziente e i famigliari trascorrono una degenza serena e questo fa bene anche a noi operatori sanitari”. Come mai ha deciso di presentare il suo lavoro nelle carceri? “Ad un certo punto, nel 2010 è uscito il mio libro “Infermiere di professione, comico per vocazione”, ho cominciato a presentarlo negli ospedali e nei corsi di laurea delle professioni sanitarie di tutta Italia. Notando tanta violenza nella società, mi sono detto: “perché non raccontare questa storia anche in altri ambiti che non siano la sanità” e così ho iniziato a girare le scuole, le università, le chiese, le case di riposo, i bar, le discoteche, i centri commerciali. Di colpo, mi è venuta la voglia di andare nelle carceri e così ho iniziato, proprio dal minorile di Bari, tre anni fa, il mio percorso, che mi ha portato in 28 carceri italiane. Al Fornelli questo è il terzo anno”. Che obiettivo si è prefissato? “Io vorrei umanizzare la sanità e la società attraverso l’ironia e il sorriso. Penso a quegli operatori sanitari che umiliano e picchiano gli anziani nelle case protette, a coloro che mobbizzano pazienti e famigliari, alle maestre e ai maestri che picchiano i bambini negli asili nido, a tutte le piaghe della nostra società e della nostra sanità che cerco di eliminare con il sorriso, l’ironia e la mia personale comico terapia, che spiegherò il 7 ai giovani detenuti del carcere minorile di Bari. Con me ci saranno due cantanti con un repertorio napoletano che mi hanno già accompagnato in alcune carceri, Lino Ciliberti e Enzo Primavera. Un impegno duro ma bello, che mi ha massacrato economicamente ma reso felice moralmente, fino a quando potrò espletarlo, continuerò, sia nella sanità che nella società”. Dalla pena di morte al Caso Regeni: gli affari legati alle armi prevalgono sui diritti umani La Repubblica, 3 dicembre 2018 La nota dell’Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere e Politiche di Sicurezza e Difesa (O.P.A.L.) all’indomani del decreto “migrazione e sicurezza” votato con la questione di fiducia. Pochi giorni fa - dice un documento diffuso dall’Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere e Politiche di Sicurezza e Difesae (O.P.A.L.) - il Governo italiano ha deciso di porre la questione di fiducia sul decreto “migrazione e sicurezza”. Lo ha fatto per impedire un più ampio dibattito, che sarebbe stato doveroso per norme che introducono (reintroducono?) il confino tra le misure di polizia (perché tale è il cosiddetto “daspo urbano”); o che renderanno legale detenere i cittadini migranti fino a sei mesi nei “centri di rimpatrio: cittadini per i quali la concessione della cittadinanza e la possibilità della sua revoca dipenderanno da atti puramente arbitrari. Nonostante il parere negativo del Consiglio Superiore della Magistratura - prosegue la nota dell’O.P.A.L. - e tra gli applausi della maggioranza alla Camera, il governo impone come via per gestire i flussi migratori un atteggiamento discriminatorio, di sopraffazione e repressivo, puntando sull’intervento poliziesco in tutte le questioni sociali più difficili. Non è ancora chiaro se verrà tolta la protezione anche ai rifugiati su cui pende o che rischiano di subire una condanna a morte nel proprio paese d’origine. L’elenco delle condanne a morte. L’Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere e le Politiche di Sicurezza ricorda che i Paesi dove nel 2017 si sono eseguite condanne a morte sono la Repubblica Popolare Cinese (il numero delle esecuzioni non viene reso noto, ma è probabile che sia nell’ordine delle migliaia), la Repubblica Islamica dell’Iran (507 condanne eseguite lo scorso anno), il Regno dell’Arabia Saudita (146), la Repubblica d’Iraq (125), la Repubblica Islamica del Pakistan (60), la Repubblica Araba d’Egitto (35), la Repubblica federale di Somalia (24), gli Stati Uniti d’America (23), il Regno Hascemita di Giordania (15), la Repubblica di Singapore (8), lo Stato di Kuwait (7), la Repubblica Popolare di Bangladesh (6), lo Stato della Palestina (6), la Repubblica Islamica di Afghanistan (5), il Regno Federale di Malesia (4), lo Stato del Giappone (4), la Repubblica del Sudan del Sud (4), il Regno del Bahrein (3), la Repubblica di Bielorussia (2), la Repubblica Unita dello Yemen (2), gli Emirati Arabi Uniti (1), la Repubblica Popolare Democratica di Corea, la Repubblica Socialista del Vietnam. Oltre a questi 23 paesi, oggi la pena di morte rimane ancora in vigore in altri 33 paesi. Le condanne a morte nel mondo. Secondo il rapporto di Amnesty International, in Vietnam e in Bielorussia i dati sull’applicazione della pena di morte sono considerati “segreto di Stato”; che Singapore consente solo un accesso ristretto ai dati; e che le notizie di sentenze capitali probabilmente eseguite in Siria e Libia nel 2017 non sono controllabili a causa della situazione di conflitto. Anche per l’Egitto, le autorità sono scarsamente trasparenti riguardo all’esecuzione delle condanne a morte. Le esportazioni italiane nei Paesi dove c’è la pena capitale. Il nostro Paese - si legge ancora nel documento O.P.A.L. - intrattiene relazioni, talvolta economicamente anche molto rilevanti, con quasi tutti i paesi in cui si eseguono ancora condanne a morte, e di alcuni ospita consistenti comunità di cittadini espatriati. Il nostro governo autorizza le esportazioni delle armi prodotte in Italia in quasi tutti i paesi che praticano la condanne a morte. Per considerare solo le ultime due Relazioni sull’export militare al Parlamento, compaiono tra i primi venticinque paesi acquirenti di armi militari prodotte in Italia gli Stati Uniti, il Pakistan, l’Iraq, l’Arabia Saudita, il Kuwait, gli Emirati Arabi Uniti, il Bangladesh, la Malesia, Singapore. Le armi italiane esportate nel Qatar nel 2017. Nel 2017 il maggior importatore di armi italiane è stato il Qatar, che mantiene la pena capitale per reati come l’omicidio, i crimini contro lo Stato, il traffico di droga, gli abusi sessuali su un parente, il proselitismo religioso e inoltre - per i soli musulmani, secondo la Sharia - l’adulterio. I tribunali qatarini continuano a comminare sentenze capitali (soprattutto contro stranieri), e attualmente almeno 11 condannati attendono l’esecuzione nel ‘braccio della mort’, anche se dal 2003 non vi sono state più esecuzioni. Ma il primato lo ebbe nel 2016 il Kuwait. Al contrario il Kuwait, principale acquirente di armamento italiano nel 2016, pratica attivamente la pena di morte (7 esecuzioni nel 2017, 36 detenuti nel braccio della morte), a cui possono andare soggetti anche minorenni (la maggiore età di 16 anni è in vigore dal 2017), nonostante il Kuwait abbia firmato la Convenzione sui Diritti dell’infanzia e la Carta araba dei diritti umani, che espressamente lo escludono. Sia il Qatar che il Kuwait hanno votato contro la moratoria delle esecuzioni capitali nel 2014, nel 2016 e nel 2017. Affari nostrani dove la gente è impiccata o decapitata. Esportiamo armi - dice ancora la nota dell’O.P.A.L. - in Paesi che fucilano, impiccano, decapitano, avvelenano o sottopongono a folgorazione elettrica i condannati, paesi che dunque infrangono la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948), la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (1953) e le ripetute moratorie sulle esecuzioni capitali approvate dall’Assemblea dell’Onu, documenti che alcuni di questi paesi hanno perfino firmato e ratificato. Il nostro Paese mantiene contingenti militari, presta assistenza militare, addestra corpi speciali, e persino partecipa a programmi di cosiddetta Justice Sector Reform in paesi che mantengono la condanna a morte (come il Libano) o continuano a praticare esecuzioni capitali, come l’Afghanistan. Il caso “armi all’Egitto” e il “caso Regeni”. Per quanto riguarda l’Egitto - prosegue il documento - Paese in cui negli ultimi tre anni sono state comminate oltre mille sentenze capitali e almeno 35 sono state le esecuzioni (la metà per terrorismo), nonché 13.000 civili sono stati giudicati da tribunali militari dopo la salita al potere del gen. Al-Sisi, il governo italiano ha ripreso a fornire armamento militare e ‘civil’ (vale a dire a polizie e corpi speciali) a ritmo sostenuto, come ha recentemente confermato Giorgio Beretta, analista di OPAL, a “il manifesto”. Anzi, si è arrivati alla sponsorizzazione governativa delle aziende italiane del comparto difesa (Beretta, Fincantieri, Iveco, Leonardo, Telegi, Tesy-lab) che parteciperanno all’imminente Egypt Defence Expo, in programma al Cairo dal 3 al 5 di dicembre. Tutto ciò mentre il tribunale di Roma denuncia di non aver ricevuto in due anni e mezzo alcuna vera collaborazione dalla giustizia egiziana nel caso Regeni, avviando proprie indagini su nove agenti egiziani sospettati delle torture e dalla morte del giovane ricercatore italiano, e il presidente della Camera Roberto Fico annuncia - per la stessa ragione - la rottura delle relazioni con il parlamento egiziano. Cos’è l’Osservatorio Permanente sulle Armi. ‘ un’associazione - componente della Rete Italiana per il Disarmo - attiva dal 2004, promossa da diverse realtà dell’associazionismo bresciano e nazionale (Collegio Missioni Africane - Missionari Comboniani, Associazione Brescia Solidale, Commissione Giustizia e Pace - Diocesi di Brescia, Ufficio Missionario Diocesano della Diocesi di Brescia, Associazione per l’Ambasciata della Democrazia Locale di Zavidovici onlus, Camera del Lavoro Territoriale di Brescia “Cdlt”, Pax Christi, Centro Saveriano Animazione Missionaria dei Missionari Saveriani, Servizio Volontario Internazionale- S.V.I.) e da singoli aderenti, per diffondere la cultura della pace ed offrire alla società civile informazioni di carattere scientifico sulla produzione e il commercio delle armi e approfondimenti sull’attività legislativa di settore. Un luogo indipendente di ricerca, monitoraggio, analisi e di informazione al pubblico, nazionale ed estero, sulla produzione e il commercio nazionale e internazionale delle armi con particolare attenzione alla produzione delle “armi leggere e di piccolo calibro” specificatamente in Lombardia. Migranti. A centinaia in strada, senza dimora. Pure i bimbi di Domenico Marino Avvenire, 3 dicembre 2018 Sant’Egidio: “A Catania stanno facendo dimissioni a tutto spiano, anche di donne vulnerabili con bambini piccoli o con problemi psichici. Sono una marea, arrivano anche da altri Cas siciliani”. No, non sono uscite programmate né fisiologiche dai Cara. Se non è già emergenza, manca poco. Segnalazioni di allontanamenti dai centri di accoglienza arrivano da varie città. Situazione analoga a quella di Isola di Capo Rizzuto, nel Crotonese, già segnalata ieri da Avvenire, è vissuta nel Cara di Mineo, come segnala Walter Cerreti della Comunità di Sant’Egidio di Catania. “Sono stati mandati via in 50 con la protezione umanitaria. E sono solo i primi. Stanno consegnando i permessi di soggiorno e se ne devono andare. Così la città si sta riempiendo di gente che vive per strada. Ce ne accorgiamo la sera quando portiamo la cena ai senza dimora. Sono una marea. Vengono anche da altri Cas della Sicilia orientale. Stanno facendo dimissioni a tutto spiano, anche di donne vulnerabili con bambini piccoli o con problemi psichici”. Ad Aversa c’è la fila davanti allo sportello dell’Ufficio immigrazione diocesano, come racconta il responsabile Roger Adjicoudé. Decine gli immigrati fatti uscire dai Cas della provincia di Caserta. Anche a Rieti e Latina i centri stanno applicando il decreto sicurezza, su invito delle prefetture. Molti uomini e donne per strada mentre altri hanno raggiunto Roma dove, almeno per ora, la situazione appare meno drammatica. A Crotone (la foto sopra è dal quotidiano on line Il Crotonese)ci sono i due volti del dramma: da un lato l’allontanamento di migranti - d’ogni età, situazione familiare e quadro clinico - dal Centro d’accoglienza richiedenti asilo più grande d’Italia e tra i più grandi d’Europa coi suoi 1.216 posti. Dall’altro la risposta fondamentale di Caritas, Croce Rossa, cooperative e altre realtà laiche e cattoliche. Assieme alla giovane africana incinta di tre mesi messa al cancello venerdì pomeriggio col marito e la figlia di cinque mesi, in libera uscita due donne vittime di tratta, un paio di ragazzi con problemi psichiatrici e molti altri. Sono 24 ma altri subiranno la stessa sorte nei prossimi giorni: cento, forse il doppio, e forse già domani. Alcuni giovani che avevano inscenato un sit-in nel Cara rifiutando di abbandonare la struttura, sono stati trasportati in pullman alla stazione ferroviaria, e scaricati lì. In base a quanto stabilisce il “decreto sicurezza” d’altronde i destinatari di questi provvedimenti, pur avendo diritto a stare in Italia, dopo il primo periodo nei Cara non possono beneficiare di quello all’accoglienza di secondo livello nel sistema Sprar. La famigliola, venerdì accolta dalla Croce Rossa, nei prossimi giorni troverà casa in una parrocchia. Ancora da definire la destinazione per le donne vittime di tratta, per ora accolte sempre da Cri. Il giovane con problemi psichiatrici seri è stato preso in cura dalla cooperativa “Agorà”. In prima linea c’è il direttore della Caritas diocesana, don Rino Le Pera: “Si ritrovano in mezzo alla strada, dovendo sopravvivere in qualche maniera. Invisibili, non clandestini”, sottolinea don Rino il quale si sente impotente perché al di là dell’assistenza garantita con la mensa dei poveri e il camper di strada che ogni notte gira per Crotone e l’hinterland offrendo aiuto, la Caritas non riesce a fare di più. Oltre alla parrocchia che accoglierà la famiglia, altre hanno messo a disposizione locali. Ma non basta, soprattutto nel lungo periodo. Il vescovo di Crotone-Santa Severina, Domenico Graziani, ha invitato a rispondere al problema “con il Vangelo in mano”. Secondo la Lega crotonese invece non c’è stata nessuna espulsione. “In esecuzione a una normativa antecedente al “decreto Salvini” - spiega il segretario locale Giancarlo Cerrelli - 24 migranti nigeriani (e non saranno i soli) dopo la permanenza per alcuni giorni nell’hub regionale di Isola Capo Rizzuto per l’espletamento dell’istruttoria volta ad ottenere il permesso di soggiorno, ottenutolo “per motivi umanitari” e non avendo motivo ulteriore di permanere, sono stati invitati a lasciare la struttura”. (Ma così non si tutela certo la sicurezza n.d.r.) Tra gli immigrati regolari buttati in mezzo alla strada: “Ora siamo senza futuro” di Francesca Paci La Stampa, 3 dicembre 2018 Al Cara di Isola Capo Rizzuto sono cominciate le espulsioni previste dal decreto sicurezza. Entro due settimane 200 persone con permesso umanitario saranno allontanate dal centro. Il giorno dopo le prime 24 espulsioni del decreto sicurezza il silenzio avvolge il Cara di Isola Capo Rizzuto. In serata un paio di migranti tornano a piedi lungo la statale buia ma s’infilano svelti oltre le grate d’accesso. In attesa dei grandi numeri - circa 200 persone con il permesso umanitario saranno costrette a lasciare il Centro nelle prossime due settimane, un migliaio in tutta la Calabria - l’attenzione si è spostata a una quindicina di km da qui, stazione di Crotone, il caseggiato dismesso delle Ferrovie dello Stato dove la Croce Rossa Italiana ha sistemato un piccolo gruppo di quelli che venerdì, scesi dal pullman, sono stati inghiottiti dalla notte, regolari sul piano legale ma fantasmi. L’odissea - C’è la famiglia con la mamma incinta e l’altro bimbo piccolo, per cui i crotonesi vengono a turno a donare giocattoli o pannolini, e ci sono due giovani donne segnate dalla schiavitù sessuale. “Sono arrivata in Italia a settembre del 2017 e per la prima volta da quando è morto mio marito ho trovato qualcuno che mi ha trattato bene”, racconta una di loro, Mariam, 40 anni. Siede su un divanetto chiusa come un pugno, la tuta di ciniglia, le parole atone, la passività della rassegnazione vera: “Vengo da un piccolo villaggio della Costa d’Avorio vicino alla frontiera, mio marito faceva il commerciate e io crescevo i nostri tre figli, il minore di 5 anni e il più grande di diciotto. Quando lui è rimasto vittima di un incidente stradale, a maggio del 2015, si sono presentati ai funerali alcuni uomini che dicevano di far parte della sua stessa associazione e volevano i documenti e i soldi. Io non ne sapevo nulla, non so se fosse roba politica, è vero che da un po’ di tempo ricevevamo strane telefonate... Sono tornati, hanno chiamato a ripetizione, minacce, lettere, poi sono venuti in cinque, tutti incappucciati, hanno messo la casa sottosopra e hanno ucciso il mio ragazzo. Volevo morire anche io, c’erano gli altri bambini, io pregavo il Signore e la Madonna ma pensavo solo a suicidarmi. Ero vedova, orfana”. La promessa - “All’inizio dell’estate di 3 anni fa - continua Mariam - è comparso un uomo che giurava di potermi aiutare, prometteva cure e lavoro. Mi ha portato in un albergo e la mia vita è finita, da allora non so più nulla della mia famiglia. So invece come si sta per ore in un furgone blindato appiccicata a delle sconosciute, so come si viene offerta e venduta in strada da quei carcerieri nigeriani, so come funziona la prostituzione nelle case chiuse del Niger e dell’Algeria, so il dolore per cui nulla può neppure il Pater nostro. Non sapevo invece cosa fosse la Libia. A un certo punto i militari algerini ci hanno scaricati tutti nel deserto, tre giorni di marcia forzata fino all’ultimo mercato, il confine libico. Sono rimasta quattro mesi in quella prigione femminile, credo fosse Zintan. Lì non dovevamo lavorare per i clienti ma ogni notte venivano i soldati e ci obbligavano a cose che non so ripetere. Una sera ci hanno legate e caricate su un camion, non capivo nulla perché non parlo arabo ma qualcuna diceva di aver sentito che eravamo troppe. Stavo male, ricordo il mare, il gommone riempito fino a scoppiare, i libici con le pistole, “jalla Italia”. Dopo tante ore siamo stati soccorsi da una barca grande, eravamo più di cento, ci hanno portati a Catania ma io sono stata trasferita subito qui a Crotone, avevo le gambe interamente ustionate dal carburante. E finalmente mi hanno trattato bene. Ho chiesto a tutti i volontari che ho incontrato di cercare notizie dei miei figli, io ho paura di farlo per via di quegli uomini. Nel Cara ho studiato l’italiano, avevo capito che sarebbe arrivata l’integrazione”. Senza lacrime Mariam non ha bisogno di piangere per dire la sua fragilità. Altri, espulsi come lei venerdì, sono malati, uno ha problemi psichiatrici. E per adesso sono pochi. Il presidente della Croce Rossa di Crotone, Francesco Parisi, fa la spola con la Caritas e le altre associazioni, segue i minori non accompagnati (per i quali l’incognita è in agguato al compimento della maggiore età). Ammette che il peggio deve arrivare: “Temo che gli effetti di questo decreto non si vedano ancora nella sua totalità, il paradosso è che porterà a un aumento esponenziale delle persone in mezzo alla strada”. Spiega come il problema si ponga proprio per le Mariam, i migranti in attesa di entrare nel sistema Sprar per cominciare il programma di protezione vero e proprio, un lavoro, la casa, un ruolo. Si calcola che solo nell’ultimo anno siano stati concessi 20 mila permessi umanitari, i meno spendibili. L’allarme dei sindaci risuona da nord a sud della penisola: un esercito di migranti regolari sarà presto in strada e, allo scadere della protezione, si aggiungerà verosimilmente ai cinquecentomila irregolari già in Italia. Mariam assorbe, sobbalza ai rumori forti, aspetta. Migranti. L’irragionevole strategia della chiusura di Maurizio Ambrosini* Avvenire, 3 dicembre 2018 Non passa giorno senza che il Governo, e segnatamente il ministro dell’Interno, intervenga su qualche tema connesso all’immigrazione. E il messaggio, alla fine, è sempre lo stesso: linea dura, condanna politico-mediatica degli “umanitari”, chiusure senza appelli. L’accoglienza di una cinquantina di africani con un corridoio umanitario gestito dal Viminale (e non solo concordato con esso) è una buona notizia, ma non cambia l’impostazione. Sul campo rappresentato dalle nostre città e dai nostri paesi, l’ultima uscita in ordine di tempo è stata la chiusura della tendopoli romana allestita dal centro Baobab. La penultima era stata la versione finale del cosiddetto decreto sicurezza: meno protezione umanitaria, meno fondi e meno servizi per l’accoglienza, più soldi per le espulsioni, raddoppio del tempo di trattenimento (da 90 a 180 giorni) nei Centri di permanenza per il rimpatrio (ex Cie), aumento dei posti rispetto agli 880 attuali. Pare che a molti italiani piaccia, anche se quelli che non ci stanno hanno cominciato a organizzarsi e far sentire la loro voce. La sensatezza di queste misure va valutata anzitutto da un punto di vista pragmatico, di ragionevolezza, domandandosi se sono efficaci e se hanno probabilità di raggiungere degli scopi socialmente desiderabili. Dobbiamo allora confrontare i fini asseriti con i mezzi previsti per raggiungerli e con le difficoltà prevedibili. Il primo fine dichiarato è quello di ridurre l’incidenza dell’immigrazione non autorizzata e del numero delle persone arrivate in Italia in cerca di asilo. Il secondo è quello di innalzare la sicurezza dei cittadini, contrastando il degrado e l’illegalità: termini spesso sovrapposti e confusi. Ora, è facilmente prevedibile che la stretta sulla protezione umanitaria sia destinata ad aumentare il numero delle persone che non otterranno un permesso per risiedere in Italia, ricevendo un ordine di espulsione. Come probabilmente gran parte dei residenti nella tendopoli romana. Ma il decreto di espulsione non è una bacchetta magica che fa scomparire le persone. Per rimpatriare gli immigrati non autorizzati, una volta identificati e stabilito con certezza da dove provengono, servono degli accordi con i governi dei Paesi di origine. Altrimenti il rimpatrio è pressoché impossibile. Malgrado varie trasferte in Africa di diversi esponenti governativi, i risultati finora sono stati nulli: non ne hanno ancora firmato uno. In secondo luogo, il governo ha portato a 1,5 milioni i fondi per le espulsioni, sottraendoli alle spese per l’integrazione co-finanziate dalla Ue. Se si calcola prudenzialmente un costo di 1.000 euro per espulsione, calcolando il trattenimento, il viaggio, la missione della scorta, si può prevedere di espellere 1.500 malcapitati. Gli altri rimarranno in Italia. Il risultato pressoché certo delle nuove norme sarà un aumento delle persone allo sbando nelle nostre città, senza tetto né legge. Qualche governo locale infatti ha cominciato ad accorgersene. Pure gli investimenti nei centri per il rimpatrio serviranno a poco: anche riportando a 2.000 posti la capienza, e utilizzando altre strutture ancora da individuare, sarà sempre trattenuta una modesta frazione dei potenziali destinatari. Fra l’altro al tempo dei governi Berlusconi-Maroni il tempo di trattenimento era stato portato a 18 mesi, ma gli espulsi alla fine erano meno della metà degli immigrati così lungamente trattenuti. Qui entrano in scena soluzioni precarie, e sotto vari aspetti inadeguate, come quella del Centro Baobab. Se le istituzioni pubbliche centrali producono persone senza protezione e quelle locali non se ne fanno carico, le persone comunque rimangono: hanno un corpo e cercano delle risposte ai loro bisogni. Mancando le risposte istituzionali, sorgono quelle informali. Per fortuna, viene da dire. Sgomberando gli accampamenti abusivi senza offrire alternative si genera soltanto più degrado. Chi pensa che gli immigrati così trattati finiscano per cedere e tornare mestamente in patria, da sconfitti, dimostra di non conoscerli. Rimarranno, più disperati, arrabbiati, depressi. Più problematici per la società. Le chiusure e gli sgomberi dunque possono servire alla propaganda, non alla costruzione di soluzioni serie e ragionevoli al problema complesso di governare l’immigrazione. *Ordinario di Sociologia, Università di Milano, e Cnel Migranti. Centomila schiavi isolati nei campi, a 14 anni i figli non sanno leggere di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 3 dicembre 2018 I dossier di Caritas e Cgil: il 30% vive senza bagno. Al Nord arrivano i primi caporali. Jerry Maslo fu il primo ed è rimasto un simbolo. Molti svaniscono come fantasmi dalla nostra cattiva coscienza: i dodici migranti schiantati su un pulmino dei caporali ad agosto, i sindacalisti solitari e coraggiosi come Soumaila Sacko, l’albanese ribelle Hyso Telaray, i cento polacchi spariti in sei anni nel Tavoliere di Puglia, gli italiani resi stranieri in patria dalla miseria e ammazzati dalla fatica come Paola Clemente. Il rosso del sangue si mischia al rosso dei pomodori, sostiene don Francesco Soddu. Troppo spesso, in certe campagne, in certi ghetti: “Un unicum che sembra legare indissolubilmente l’esistenza di queste persone, la loro vita e la loro morte, alla terra e ai suoi frutti”, aggiunge il direttore di Caritas italiana che in queste crepe della nostra convivenza, nei campi dove ci si spezza la schiena per due euro l’ora senza diritti né tutele, è andata a scavare con i suoi volontari ottenendo risultati su cui vale la pena riflettere. Il 71 per cento dei braccianti immigrati non iscritto all’anagrafe, il 70 per cento senza contratto, il 36 per cento senza acqua potabile, il 30 senza servizi igienici, una stima di diciotto o ventimila accampati negli slum del Sud, l’89 per cento incapace di esprimersi nella nostra lingua: sono solo alcuni dei numeri dolenti raccontati da “Vite sottocosto”, il secondo Rapporto Presidio dell’organismo pastorale della Cei. Numeri che, incrociati a quelli dell’Osservatorio Placido Rizzotto della Cgil (tra i 70 e i 100 mila lavoratori stranieri occupati in forma “para-schiavistica” nel nostro settore agroalimentare), formano il perimetro di una vasta questione nella quale la vergogna del caporalato è soltanto un lato, il più facile da approcciare: prendersela con quattro criminali non costa molto, altro è attaccare i meccanismi della grande distribuzione e della filiera produttiva illegale che, assieme alla cattiva accoglienza, compongono il quadro. Prigioni di plastica - Un quadro significativo perché esteso da Nord a Sud. I volontari hanno contattato 4.954 lavoratori di 47 nazionalità grazie all’appoggio di tredici diocesi e all’impegno di un gruppo di studiosi coordinato da Piera Campanella: dai 385 immigrati intercettati a Saluzzo, in Piemonte, ai 1.083 di Ragusa in Sicilia, passando per i presidi di Foggia e Caserta, Latina e Cerignola, Melfi e Oppido Mamertina. Un mondo ricurvo sulla terra e su se stesso. Le serre di Ragusa sono prigioni, “distese prepotenti di plastica”, dimensioni di lavoro-dormitorio che inglobano il migrante isolandolo dal mondo. Vincenzo La Monica, uno dei volontari del progetto siciliano, racconta il trucco dell’aeroplanino che vale più d’un trattato di sociologia: siccome i braccianti sono irraggiungibili dentro i poderi dei padroncini e hanno troppa paura per uscirne, “noi li contattiamo piegando i nostri volantini come aeroplani di carta e glieli lanciamo oltre la recinzione”. Ulteriore accortezza contro i capoccia: un testo in italiano, “vi diamo vestiti e coperte”, e sotto uno in arabo e in romeno, “vi diamo anche assistenza legale”. Un compagno di Vincenzo spiega che “qui c’è più che altro l’idea che i lavoratori siano di tua proprietà e quindi hai il possesso delle donne e degli uomini”. Il sociologo Leonardo Palmisano racconta questo universo concentrazionario dove spesso si dorme in capannoni accanto al veleno dei bidoni di fertilizzanti: “Casolari, abitazioni diroccate, baracche, rimesse per gli attrezzi (...) delineano una sorta di topografia dello sfruttamento (...). Il datore di lavoro è in grado di assicurarsi oltre alle prestazioni di lavoro agricolo, anche, indirettamente, funzioni di guardiania dei locali aziendali da parte della stessa manodopera”. Ultimi contro penultimi, come sempre. La prima immigrazione tunisina, sindacalizzata, combatte una feroce lotta contro i nuovi arrivati, romeni, spesso rom, disposti a diventare in silenzio nuovi servi della gleba, con le famiglie al seguito, i bambini senza scuola abbandonati in baracca tutto il giorno, le ragazze costrette a corvée sessuali. Vincenzo ha ancora negli occhi Laura, 14 anni, che non sa leggere perché deve badare ai quattro fratellini, ma ha imparato a memoria, solo ascoltandola, la sua parte in “Pinocchio e il paese dei farlocchi” che i volontari portano in scena. Il riscatto può stare in un lampo di fantasia. I caporali al Nord - Ci sono i blitz, la legge del 2016 contro i caporali serve, eccome. Ma il contagio arriva fino all’altro capo d’Italia, con il disastro di Saluzzo, “le condizioni disumane” dei migranti prima accampati nel Foro Boario, poi nell’ex caserma Filippi dentro un progetto di prima accoglienza stagionale (il Pas). Non basta. Giovani maliani e gambiani saliti quassù per la raccolta di pesche e mele continuano a vivere in strada, a svendere il proprio lavoro ai primi caporali che iniziano a vedersi anche quassù. Mancano “politiche nazionali e regionali” per regolare il reclutamento della manodopera e l’incontro tra domanda e offerta in agricoltura. I migranti irregolari sono i più vulnerabili. Oliviero Forti, responsabile dell’ufficio immigrazione Caritas, è convinto che il decreto Salvini appena convertito in legge peggiorerà le cose, “aumenterà l’illegalità”. Di sicuro chi è senza permesso di soggiorno è disposto a tutto, la massa che esce in questi giorni dai Cas e dai Cara la ritroveremo sfruttata nelle campagne la prossima estate. La vulnerabilità sale a Nord come la linea della palma di Sciascia. Volendo scovare i famosi “invisibili” che turbano sonni e sondaggi, al governo basterebbe seguirla, o seguire le tappe dei volontari Caritas: ma la nostra agricoltura finirebbe in ginocchio senza schiavi, più facile per tutti lasciare inginocchiati tra le zolle gli schiavi del terzo millennio. Russia. Gulag, dimenticare è più comodo di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 3 dicembre 2018 Sta passando nel silenzio pressoché assoluto il centesimo anniversario della nascita e il decimo della morte di Alexander Solgenitsin. Ci immergiamo sempre con ardore nella ritualità retorica delle ricorrenze e delle commemorazioni, ma sta passando nel silenzio pressoché assoluto il centesimo anniversario della nascita e il decimo della morte di Alexander Solgenitsin. La memoria del Gulag (e i rumorosi custodi della memoria, che fine hanno fatto?) si è dissolta nel nulla. Il Gulag patito e descritto da Solgenitsin, è stato uno dei pilastri della storia del Novecento. Milioni di persone sono state sterminate in quel ghiaccio. Milioni di persone vi hanno conosciuto deportazione e persecuzione. Milioni di persone hanno creduto, con la forza di una fede religiosa, nell’idea comunista e nei regimi che del Gulag sono stati gli artefici. Migliaia di intellettuali al di qua del Muro beninteso, nella parte che si voleva migliore della cultura e dell’arte novecentesche, ne hanno celebrato le gesta aggrappandosi all’integrità di una speranza per nascondere i crimini che ne erano derivati. E ora il nulla, il silenzio, l’imbarazzo. La sconsolante incapacità di fare i conti con se stessi, come se la complicità con la grande macchina della persecuzione narrata da Solgenitsin non avesse mai avuto luogo. L’oblio, per occultare il senso di vergogna. Nel cuore degli anni Settanta la lettura di “Arcipelago Gulag” fu per me sconvolgente e definitiva. Ma se chiedevo ai miei coetanei incontrati in una battaglia comune chi di loro avesse letto la tragedia scritta da Solgenitsin, la risposta era sempre quella: nessuno. Nessuno, o quasi, recensì in Italia quel libro. O al massimo si discettava sulle sue non eccelse qualità letterarie. Qualcuno, con spirito che si voleva beffardo, intratteneva briosamente gli ospiti dei soliti salotti culturali sulla “noia” di Solgenitsin: come se si potesse definire “noioso” “Se questo è un uomo” di Primo Levi. In Francia, l’altro Paese europeo al di qua del Muro a forte presenza intellettuale comunista, tutto il ceto culturale di sinistra venne violentemente scosso da un libro che non poteva lasciare tutto come prima. In Italia invece si attaccò Carlo Ripa di Meana perché organizzava a Venezia la Biennale del dissenso, e nei vertici culturali del Pci l’esilio di Solgenitsin venne bollato come colpa dell’esiliato, non dei carnefici. Ecco le ragioni del silenzio: si cancellano le tracce del passato, si rivendica una innocenza che suona falsa. Dimenticare, è più comodo. Ucraina. L’Europa distratta su Kiev di Paolo Mieli Corriere della Sera, 3 dicembre 2018 Rifiutando (inizialmente) l’incontro con Putin al G20 in Argentina, Trump ha attirato l’attenzione del mondo sul sequestro di tre navi ucraine da parte di Mosca. Può darsi che Donald Trump abbia rifiutato l’incontro con Vladimir Putin al summit argentino del G20 perché il suo ex avvocato personale Michael Cohen minaccia rivelazioni sul Russiagate al procuratore Robert Mueller e in questo contesto il presidente americano non voleva mostrarsi sorridente al fianco dell’autocrate russo (salvo poi concedersi in extremis per qualche minuto). Però in quel modo almeno ha attirato l’attenzione del mondo intero sul clamoroso sequestro di tre navi della Marina di Kiev da parte dei russi e sull’incredibile arresto di ventiquattro marinai che erano colpevoli soltanto di trovarsi su quelle imbarcazioni entrate nel mare di Azov. Poco importa poi se il presidente ucraino Petro Poroshenko ha approfittato dell’incidente per varare misure abnormi quali la proclamazione della legge marziale o la chiusura ai russi delle frontiere del suo Paese (prima vittima un ballerino del Bolshoi, Andrei Merkuriev). L’Ucraina il prossimo 31 marzo dovrà affrontare una delicata tornata elettorale e Poroshenko è dato in svantaggio: ovvio che cerchi di sfruttare al meglio l’occasione offertagli da Putin per un richiamo al senso dell’onore dei suoi compatrioti. Quel che è davvero grave è che Putin prosegua nella politica inaugurata con l’annessione della Crimea (2014), proseguita con la guerra nel Donbass a cui si è aggiunta la costruzione di un ponte sullo stretto di Kerch destinata anch’essa ad agevolare la progressiva annessione delle terre e dei mari ucraini. Poroshenko non è il personaggio ideale per scaldare i cuori degli occidentali, neanche quelli più maldisposti nei confronti di Putin. Non è né liberale, né lungimirante. Nel maggio 2016 il Comitato per la sicurezza ucraina, massimo organo investigativo di Kiev, decise, per conto del presidente, di indagare quasi trecento giornalisti (293 per l’esattezza) che nei due anni precedenti avevano firmato reportage dal Donbass. Li si accusava di “collaborazione con i terroristi secessionisti”. Il loro elenco, con relativi numeri di telefono e indirizzi, venne pubblicato sul sito del consigliere personale del ministro dell’Interno esponendoli a violenze. E fu uno scandalo. In quello stesso 2016 l’Ucraina mise al bando per cinque anni l’allora ottantacinquenne Michail Gorbaciov (grazie al quale Kiev aveva ottenuto l’indipendenza) dopo che in un’intervista al Sunday Times l’ultimo capo dell’Urss aveva dichiarato che se fosse stato al posto di Putin si sarebbe comportato come lui. E anche in questi giorni il presidente ucraino ha esagerato chiedendo alle navi della Nato di andare in suo soccorso con il rischio di far esplodere una guerra con Mosca. Ma il conflitto tra Russia e Ucraina è fatto anche di esagerazioni verbali e di piccolezze. La cantante ucraina Susana Jamaladinova (in arte Jamala) vinse nel 2016, alla Globe Arena di Stoccolma, l’”Eurovision song contest” con la canzone “1944” dedicata alla deportazione staliniana dei duecentocinquantamila tatari musulmani di Crimea. Sconfitto, nonostante fosse risultato vincente al televoto, il cantante russo Sergey Lazarev, elegantemente si complimentò con la vincitrice. Invece la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, ne fece un caso politico e dichiarò guerra a Jamala. Su tutto il territorio russo. Da parte sua l’Europa ha approfittato di queste esagerazioni e scaramucce per far apparire quella ucraina come una questione che si faceva di giorno in giorno “minore”. Tanto sapeva che Poroshenko sarebbe stato costretto in ogni caso a ringraziarla come ha fatto nell’intervista a Lorenzo Cremonesi pubblicata sabato scorso su questo giornale. Anche se, poche righe dopo quello che ha definito il proprio “apprezzamento”, lo stesso Poroshenko si è contraddetto accusando gli occidentali di restarsene “in silenzio” al cospetto dei comportamenti sempre più aggressivi di Putin. Comportamenti di fronte ai quali prese di posizione come quella della Ue (“L’Unione continua a seguire da vicino la situazione ed è determinata ad agire in modo appropriato in accordo con i partner”) sembrano davvero straordinariamente reticenti. L’Unione appare animata - quantomeno in alcune sue parti tra cui si segnala l’Italia gialloverde - dall’unico desiderio di ritirare le sanzioni alla Russia. Del resto la Ue è stata fin dall’inizio assai poco generosa nei confronti dell’Ucraina. George Soros notava nel 2015 che l’ammontare del denaro destinato alla Grecia era all’epoca almeno dieci volte più grande di quello speso per l’Ucraina, “un Paese che non chiede altro che di avanzare nelle riforme”. Un paradosso: c’era un Paese che voleva essere un alleato dell’Europa e veniva trascurato; e ce n’era un altro che si comportava da “suddito riluttante dell’Europa” che, “detto con franchezza, riceveva decisamente troppo”. La nuova Ucraina nata con la rivoluzione di piazza Maidan, proseguiva Soros, “sarebbe una grande risorsa per l’Europa, investirvi varrebbe veramente la pena”. Ma ciò non veniva capito e “questa totale incomprensione metteva a rischio la sopravvivenza stessa dell’Ucraina, il migliore alleato dell’Europa, di fronte alla pressione della Russia putiniana”. Qualche tempo dopo, un pensatore liberale, Timothy Garton Ash scrisse una “lettera aperta agli europei” in cui li invitava ad essere meno esitanti nei confronti delle rivoluzioni democratiche. “Fatevi un esame di coscienza e cercate di non essere affetti da qualcuno dei radicati pregiudizi che gli europei occidentali nutrono verso l’altra metà del continente, etichettato per secoli come remoto, esotico, misterioso, tenebroso e così via”, li (ci) esortava Garton Ash. Per poi domandare: “Siete restii ad appoggiare il movimento arancione solo perché è sostenuto dagli americani?”. Era lui stesso il primo ad ammettere che “ad una domanda posta in termini così brutali” la maggioranza degli interlocutori avrebbe risposto di no. Ma, osservava, la reazione istintiva dei simpatizzanti di sinistra o degli eurogollisti - all’insegna del “se gli americani la sostengono significa che c’è qualcosa che non va” - è “stupida”. E allora? Se non ci va che gli americani prendano le redini della situazione in Ucraina “perché”, chiedeva Garton Ash, “non lo facciamo noi?”. Noi europei? Figuriamoci. Da allora non abbiamo fatto che voltare la testa dall’altra parte e discettare su quanto le sanzioni alla Russia fossero “inutili” o addirittura “controproducenti”. E adesso questo genere di discettazioni il governo italiano le fa a voce alta, vantandosi per di più di aver dato un apporto decisivo all’attenuazione della presa di posizione ufficiale della Ue. Con ciò regalando a Trump l’opportunità di essere l’unico a levare la voce e compiere un simbolico gesto di denuncia della grave violazione del diritto compiuta da Putin. “Ecco come e perché Boko Haram terrorizza la Nigeria” di Emanuela Zuccalà Avvenire, 3 dicembre 2018 L’esperto dell’Ispi Alessio Iocchi spiega perché né l’esercito locale né la mobilitazione internazionale riescono a debellare il movimento jihadista in Nigeria. Il 22 ottobre l’emittente americana Hbo ha lanciato il documentario Stolen Daughters (“Figlie rubate”), per dare voce alle vittime del rapimento che ha rivelato al mondo l’efferatezza del gruppo terroristico nigeriano Boko Haram. Erano 276 le studentesse rapite nell’aprile 2014 a Chibok, nello Stato del Borno: nonostante la mobilitazione internazionale con la campagna “Bring Back Our Girls”, 112 sono tuttora prigioniere o disperse. Come la 15enne Leah Sharibu, catturata lo scorso febbraio durante un altro blitz in una scuola nello Stato nigeriano di Yobe: l’unica, fra 110 ragazze prese a forza, la cui sorte resta ignota. Leah è cristiana e rifiuta di abbandonare la sua religione: per lei si sono mobilitati i vescovi della Nigeria. Il suo volto sta diventando il simbolo del terrore che dal 2009 domina il Nordest della Nigeria. Perché, nonostante i proclami del presidente Muhammadu Buhari, Boko Haram è tutt’altro che sconfitto. Negli Stati di Yobe, Adamawa e soprattutto nel Borno, il bilancio è da guerra civile: 30mila morti, 1,9 milioni di sfollati interni, 200mila rifugiati in Niger, Camerun e Ciad, dove i jihadisti hanno sconfinato travolgendo il bacino del Lago Ciad. Con quasi 8 milioni di persone bisognose d’assistenza umanitaria, la crisi nel Paese più popoloso d’Africa, nonché primo produttore di petrolio, è per numeri la più grave nel continente dopo quella in Repubblica Democratica del Congo. “Sebbene sia stato cacciato dalle principali città, Boko Haram detiene ancora basi nella foresta di Sambisa nel Borno, nelle province di Marte e Abadam, sui monti Mandara al confine con il Camerun e sul Lago Ciad in Niger” spiega l’analista dell’Ispi Alessio Iocchi, del dipartimento Asia Africa Mediterraneo dell’Università di Napoli l’Orientale, studioso di Boko Haram, di ritorno dal Niger in vista di una pubblicazione sul tema. “Oggi i jihadisti attivi sarebbero tra mille e duemila, divisi in fazioni senza un capo né un coordinamento, tanto che nemmeno rivendicano gli attentati”. Quali sono queste fazioni? “C’è quella di Abubakar Shekau, il leader subentrato al fondatore Mohammed Yusuf dopo il suo assassinio in carcere nel 2009: invasato religioso, è stato ripudiato dall’Isis. La sua è la frangia con più uomini e armi, in cerca di attentati clamorosi, ma ormai senza più legittimità sociale né religiosa. C’è poi il gruppo Ansaru, appoggiato da Al Qaeda, autore dell’attacco del 2011 alla base Onu nella capitale Abuja, con 23 morti e oltre 100 feriti. A Isis è invece affiliato il 27enne Abu Musab al Barnawi, figlio del fondatore: molto attivo sui media, opera più come guerriglia che con azioni eclatanti, ma è lui a tenere davvero in scacco gli eserciti nell’area”. È la frammentazione a rendere Boko Haram difficile da indagare e definire? “Anche. I servizi di sicurezza nigeriani lo considerano un franchising, cioè una sigla cui chiunque può affiliarsi. Non c’è una mente unitaria né una sede centrale: le fazioni si auto-organizzano e operano tramite contatti informali. È un’organizzazione talmente sciolta che si fatica a denominarla un’associazione terroristica classica, come Al Qaeda o Isis, anche perché i jihadisti nigeriani non hanno un processo unitario di reclutamento. Non si chiamano nemmeno Boko Haram, che è invece un insulto (in lingua hausa “l’educazione occidentale è proibita”) coniato da studiosi salafiti locali per prenderne le distanze. Il vero nome è “Gruppo della gente della Sunna per la propaganda religiosa e il jihad”“. Come avviene il reclutamento? “Quando comandava il fondatore Yusuf, era su base volontaria: i 6 milioni di abitanti del Borno sono in maggioranza musulmani, terreno fertile per rivendicazioni dell’Islam politico, tanto più che nell’area i movimenti salafiti crescevano fin dagli anni ‘60. La partecipazione ideologica è proseguita con la leadership di Ansaru: non dimentichiamo che nel Nordest della Nigeria lo Stato è assente, dal punto di vista sia strutturale sia simbolico. Ma negli ultimi due anni, con la supremazia di Shekau, la mobilitazione è diventata coercitiva, con i rapimenti in stile Chibok”. Perché l’esercito nigeriano non riesce a tener testa ai terroristi? “Pesa il fattore etnico: molti militari provengono da altre aree del Paese, non parlano le lingue locali e da molti sono visti come esercito d’occupazione. Ricordiamo che Amnesty International ha documentato gli abusi commessi dai militari sui civili nel Borno. Inoltre l’esercito è disorganizzato, tanto che molte armi donate da Usa, Cina e Russia sono finite direttamente nelle mani di Boko Haram. Ma è indubbio che ci sia anche una volontà di capitalizzare il fenomeno da parte di certi attori politici locali, in primo luogo i presidenti di Niger e Ciad, che dal 2015 partecipano a un’azione militare congiunta contro i terroristi”. Che previsioni per il futuro avanzate voi analisti? “È una dinamica di conflitto che non si risolverà a breve poiché legata a problemi strutturali del Nordest della Nigeria, che nessun politico sembra interessato a risolvere. Cercano di mettere una toppa e far sì che non si degeneri in troppo sangue. Parlano già di ricostruzione del Borno ma è uno specchietto per le allodole: ai bandi hanno partecipato pochissime aziende legate al potere, e la maggior parte delle città restano in macerie”. C’è un legame fra questa crisi e l’immigrazione in Europa? “Nel Nordest della Nigeria la gente è troppo povera per avventurarsi lungo le rotte sahariane, sebbene sia vero che la pressione demografica scatenata dal conflitto destabilizzi tutta la fascia saheliana, molto importante in questo frangente storico. Però finora c’è un solo personaggio legato a Boko Haram che sia sbarcato sulle nostre coste: il nigerino Ibrahim Harun, passato da Al Qaeda in Afghanistan alla Nigeria dei giovani jihadisti. Proprio da qui è sfuggito all’arresto prendendo la rotta sahariana, per essere fermato a Lampedusa nel 2011 ed estradato negli Stati Uniti. Un unico caso, dunque”. Egitto. Scarcerato il blogger Wael Abbas ma la procura fa ricorso di Riccardo Noury Corriere della Sera, 3 dicembre 2018 Il 1° dicembre un tribunale del Cairo ha ordinato il rilascio in libertà vigilata del noto attivista e blogger, Wael Abbas. La procura egiziana ha tuttavia annunciato ricorso e si attende una decisione in merito. Spietato critico di ogni governo da Mubarak in poi e vincitore di premi giornalistici internazionali, Abbas era stato arrestato il 23 maggio con l’accusa di aver diffuso, tramite il suo blog, “notizie, informazioni e dichiarazioni false allo scopo di arrecare disturbo alla pace pubblica e causare sfiducia nelle istituzioni dello stato”. Wael, oggi 43enne, è stato un pioniere tra i blogger egiziani. Il suo “Risveglio egiziano” ha avuto un ruolo importante nel promuovere l’attivismo e nel denunciare le violazioni dei diritti umani da parte del governo. Il suo profilo Twitter ieri risultava ancora bloccato.