Penitenziari che scoppiano e suicidi, l’ultimo girone della giustizia italiana di Maurizio Tortorella La Verità, 31 dicembre 2018 Le carceri italiane stanno tornando a scoppiare: allo scorso 30 novembre, i 60.002 detenuti presenti nei nostri 190 istituti penitenziari hanno a disposizione appena 45.983 posti effettivi. Lo denuncia un rapporto inviato dal Partito Radicale che è stato appena inviato al Consiglio d’Europa. L’allarme è grave. Ma nel rapporto si legge qualcosa di ancor più grave: è un interessante resoconto sul “Piano carceri”, che quasi sei anni fa veniva presentato dal governo di Enrico Letta come l’intervento salvifico che avrebbe risolto ogni problema di sovraffollamento. È un racconto sorprendente, che in un Paese normale dovrebbe accendere l’interesse della politica e dei giudici contabili (e magari anche della magistratura penale). Rita Bernardini e i radicali che firmano il rapporto ricordano infatti che secondo il “Piano carceri”, soprattutto nella sua versione celebrata in pompa magna all’inaugurazione dell’anno giudiziario del gennaio 2013 dal ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri, la situazione avrebbe dovuto migliorare drasticamente: in soli quattro anni, da lì alla fine del 2016, il ministro “tecnico” garantiva ci sarebbero stati 12.024 posti in più, e che si sarebbe passati dai 45.688 posti regolamentari esistenti in quel momento a ben 57.712. In effetti l’ambizioso Piano carceri, originariamente messo a punto nel 2008 dall’allora ministro della Giustizia Angelino Alfano e approvato inizialmente nel 2010 dal centrodestra berlusconiano con una previsione di spesa sui 675-680 milioni, prevedeva la costruzione di 11 nuovi istituti di pena e la creazione di 20 nuovi padiglioni nelle prigioni esistenti, per un totale di 18.000 nuovi posti. Poi il Piano era stato rimaneggiato e ricucinato più volte. In ogni sua versione, comunque, ha sempre prodotto molto fumo e poco arrosto. Nell’ultima edizione lanciata all’inizio del 2013 da Cancellieri, con una previsione di spesa di 468 milioni di euro, sulla carta il Piano carceri avrebbe dovuto realizzare quattro nuovi istituti penitenziari a Torino, Catania, Pordenone e Camerino, aggiungendo solo con quell’impegno 3.100 posti. Ma il Piano non si fermava lì: avrebbe dovuto creare anche 13 nuovi padiglioni negli istituti di pena esistenti, per altri 3.000 posti, e completare altri 16 padiglioni per 3.347 posti. Nei lavori rientravano anche interventi di recupero in nove altri istituti, per 1.212 posti; e ancora tre interventi di ristrutturazione per 1.665 posti. Insomma, in soli quattro anni la capienza sarebbe aumentata del 26,3%. Il risultato che si vede oggi, purtroppo, è molto più modesto. Soltanto la spesa non lo era, e non lo è stata. Con la loro denuncia, i radicali riaprono insomma una questione ingiustamente dimenticata: e non soltanto dalle cronache, ma anche dalla politica, se è vero che nel contratto del “governo del cambiamento” firmato all’inizio dello scorso giugno da Luigi Di Maio per il Movimento 5 stelle e da Matteo Salvini per la Lega si legge che, contro il sovraffollamento, bisogna “dare attuazione a un piano per l’edilizia penitenziaria che preveda la realizzazione di nuove strutture e l’ampliamento e l’ammodernamento delle attuali”. Insomma, esattamente quel che avrebbe dovuto fare il Piano carceri, e invece non ha mai fatto. Nessuno, nemmeno chi oggi è al governo, pare ricordare che appena sei anni fa il ministro della Giustizia Cancellieri garantiva efficienza e un calendario inderogabile: entro il 2013, prometteva la Guardasigilli, sarebbero stati ultimati 3.962 nuovi posti in carcere; a questi se ne sarebbero aggiunti 2.060 entro il 2014, altri 2.452 nel 2015, e infine 2.800 nel 2016. Quel totale di 12.024 posti in più, praticamente oltre un nuovo letto in più per ogni quattro esistenti, avrebbe risolto ogni problema. Promesse vane. Perché ancora oggi, secondo i dati forniti dallo stesso ministero della Giustizia, al 3o novembre 2018 i posti regolamentari delle nostre prigioni in realtà sono soltanto 50.583, cioè 7.129 in meno di quelli promessi nel “Piano carceri” all’inizio del 2013. Questo è avvenuto perché le nuove strutture entrate in funzione hanno compensato soltanto in parte le tantissime che, dal 2013 a oggi, sono state dismesse per carenza di manutenzione negli istituti. I Radicali, poi, denunciano che i posti effettivamente utilizzabili in realtà sono ancora meno rispetto a quelli dichiarati dall’ufficialità: e in effetti il 26 ottobre di quest’anno il presidente del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini, ha dichiarato pubblicamente che dai 50.583 posti “veri” dovrebbero esserne sottratti circa 4.600, inutilizzabili perché impegnati in ristrutturazioni o in lavori di varia natura. Quindi i 60.002 detenuti presenti oggi nelle 190 carceri italiane sono sistemati in appena 45.983 posti reali. Il sovraffollamento effettivo riguarda pertanto 14.019 reclusi, e arriva a una quota del 130,4%. Questo significa che in prigione, per ogni dieci posti, sono presenti più di 13 ospiti. Davvero un risultato niente male, per un investimento edilizio di quasi mezzo miliardo di euro in quattro anni! Per di più, già nel novembre 2015 il Piano carceri presentava serie anomalie: le gare d’appalto, per esempio, subivano ribassi anomali capaci di arrivare al 48% e addirittura al 54%, e quegli sconti comportavano il rischio evidente che i lavori non venissero ultimati. Tre anni fa Francesca Businarolo e Andrea Colletti, due deputati del M5S in Commissione Giustizia, denunciavano che il Piano carceri trascurava “la manutenzione ordinaria e così si crea una situazione esplosiva di sovraffollamento e disagio, che permette poi di distribuire appalti da centinaia di milioni in affidamento diretto, senza nessuna gara, con l’alibi della somma urgenza e con costi raddoppiati”. Negli ultimi anni, inoltre, gare e contratti sono quasi sempre stati avvolti da un’impenetrabile opacità perché, per ragioni di sicurezza, l’amministrazione li ha posti sotto segreto. Visti gli scarsi risultati del Piano, però, è lecito temere ci sia stato qualcosa d’irregolare: oggi, finalmente, qualcuno vuole indagare? Un parlamentare grillino nutriva qualche sospetto già nel maggio 2014: assieme ad altri deputati di opposizione chiedeva inutilmente l’istituzione di una commissione d’inchiesta. Quel parlamentare si chiamava Alfonso Bonafede, è l’attuale ministro della Giustizia. Oggi ha gli strumenti per scavare nel Piano carceri e per valutare quel che è accaduto dietro le quinte. Vuole battere un colpo, ministro? Suicidi in carcere di nuovo in crescita di Lorenzo Palmisciano contropiano.org, 31 dicembre 2018 Ultimi giorni dell’anno e, come sempre accade, impazzano bilanci di ogni genere: da quelli personali a quelli economico-politici, il passaggio dal trentuno dicembre al primo gennaio è sempre preso come occasione per tirare le somme dei dodici mesi appena trascorsi. Purtroppo, però, alcune di queste valutazioni “finali” non godono della attenzione che invece meriterebbero. Tra i “bilanci dimenticati” potremmo inserire ad esempio il numero di morti sul lavoro (700 dal primo gennaio, quasi due ogni giorno): un dramma che si rinnova quotidianamente, un’emergenza vera e propria che tuttavia continuiamo ad ignorare in favore di altre emergenze, magari create ad arte (per dirne una: i migranti). Un altro dei bilanci che probabilmente è più scomodo fare (cosa che ci porta, spesso, a rinunciarvi) riguarda le condizioni di vita e, purtroppo in molti casi, di morte, all’interno delle nostre carceri. Iniziamo dai numeri; per quanto fredde ed incapaci di raccontare le singole persone che, sommate una ad una, le compongono, le cifre sono il primo indicatore che può darci la misura della situazione. E i numeri ci dicono che il 2018 è stato un anno pessimo per quanto riguarda i suicidi in carcere: sono infatti 65 i detenuti che negli ultimi dodici mesi hanno deciso di togliersi la vita in cella, il dato peggiore dal 2011 ad oggi (quando i casi furono 66). La questione dei suicidi nei penitenziari, tra l’altro, va ben oltre il pur serio discorso riguardante le condizioni delle strutture stesse (sovraffollamento, condizioni igieniche a dir poco precarie etc). Questo perché per spingere una persona a suicidarsi, probabilmente è necessaria l’azione di una serie di fattori e di elementi - alcuni dei quali profondamente intimi, che vanno al di là delle difficili condizioni quotidiane tipiche degli istituti italiani. Lo racconta bene Susanna Marietti, coordinatrice di Antigone, in un articolo su suo blog per ilfattoquotidiano.it. C’è ad esempio il caso di un quarantasettenne finito in manette a settembre. L’accusa nei suoi confronti era di rapina impropria: aveva rubato delle merendine in un supermercato ed era recidivo per piccoli furti di questo genere. Pensare che nel paese della grande malavita organizzate, della corruzione dilagante e degli intrighi più oscuri che si possano immaginare, a finire in galera debba essere qualcuno che ruba merendine… fa venire i brividi. Un caso come questo ci racconta infatti tante delle contraddizioni del nostro paese: l’assenza quasi totale di pene alternative alla detenzione; la assoluta mancanza di supporti di carattere psicologico per i detenuti, privati di qualsiasi forma di umanità; la rinuncia, ormai acclarata e definitiva, alla “funzione riabilitativa” della pena carceraria; la tendenza, sempre più forte, a perseguire piccoli reati mentre la vera criminalità (che sia quella con la coppola o quella con la cravatta) tende sempre di più a farla franca. Purtroppo, il caso che abbiamo citato non è una rarità. Anzi. Le nostre carceri sono piene, sempre di più, di persone costrette alla detenzione per piccoli reati, per episodi di microcriminalità; ad affollare le nostre celle sono, sempre di più, gli ultimi, i poveri, gli emarginati, gli stranieri. Se ce ne fosse bisogno, insomma, l’ennesima prova dell’utilizzo classista del sistema carcerario. E d’altra parte con una popolazione carceraria in costante aumento (siamo ormai oltre le 60mila unità), è difficile immaginare un cambio di tendenza, una maggiore attenzione nei confronti dei detenuti, un sistema capace di intercettare la disperazione che spesso attanaglia chi viene rinchiuso. In questo senso, l’associazione Antigone ha inviato ai componenti delle commissioni Giustizia di Camera e Senato una proposta di legge che, attraverso misure come il potenziamento dei contatti con amici e familiari (anche in forma privata) e la drastica limitazione del ricorso all’isolamento, mira a ridurre i casi di suicidi in carcere. Accogliere e rendere operativa questa proposta sarebbe un primo, piccolo passo. Sant’Egidio. Festa di Natale con 5.000 detenuti in 50 carceri italiane di Ezio Savasta Ristretti Orizzonti, 31 dicembre 2018 I pranzi di Natale della Comunità di Sant’Egidio che dal 1982, il 25 dicembre, accolgono i poveri attorno alla tavola della festa nella Basilica di Santa Maria in Trastevere, si realizzano anche in tante città in Italia, in Europa e in differenti paesi del mondo dove è presente Sant’Egidio. Ormai da più di 10 anni anche all’interno delle carceri il pranzo di Natale e tante feste con musiche e regali varcano le mura dei luoghi di pena per chi non può stare con le proprie famiglie in questi giorni speciali. I detenuti possono vivere così, questi giorni di festa, con gli amici volontari che incontrano durante l’anno e con tanti altri che per questa occasione varcano le soglie del carcere per incontrarli in amicizia. Quest’anno in Italia si è fatto festa in 50 Istituti penitenziari. Da Poggioreale a Marassi, da Regina Coeli a Novara, da Secondigliano a Chiavari, da Rebibbia a Gela, si è imbandita la tavola di Natale. Più di 4.000 detenuti, sono stati coinvolti ed altri 1.000 parteciperanno alle feste nei primi giorni di Gennaio. Nel Lazio e in Abruzzo sono quasi 3.000 i detenuti raggiunti. È un segno importante che dice ai chi è recluso e alla società civile che il mondo del carcere merita attenzione e solidarietà. Bonafede: “Con la Manovra via libera a 3mila assunzioni” di Giusy Staro lapresse.it, 31 dicembre 2018 Il Guardasigilli ha commentato il voto favorevole espresso dalla Camera. “Col voto della Camera si è chiusa la legge di bilancio. È stata una corsa contro il tempo perché far valere la voce degli italiani con l’Europa ha richiesto tempo e perseveranza. Ed è grazie a questa perseveranza che oggi siamo qui e possiamo dirvi che ciò che abbiamo promesso in campagna elettorale, ciò che sta scritto nel contratto di governo, adesso è scritto nero su bianco in una legge dello Stato”. Così il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, su Facebook. Il programma di assunzioni previsto dalla manovra - “In queste settimane - ha aggiunto - ho parlato spesso degli investimenti per riavviare la macchina della giustizia, una macchina che finora è andata avanti, nell’indifferenza dei governi, soltanto grazie ai magistrati, avvocati, cancellieri e tutti gli operatori che, nel ministero e in ogni sua articolazione, lavorano in un settore così importante. Con la manovra sono state destinate risorse per realizzare un programma assunzionale straordinario triennale che la giustizia italiana non ha mai visto”. Sbocchi occupazionali, i numeri - “E con grande orgoglio oggi lo posso elencare,” ha proseguito il ministro. “Assunzione di 3.000 unità di personale amministrativo giudiziario; assunzione di 360 magistrati già vincitori di concorso; aumento pianta organica ed assunzione di 600 nuovi magistrati; assunzione di 35 dirigenti per gli istituti penitenziari; creazione di 7 dirigenze speciali per gli istituti penali per minorenni; assunzione di 260 unità di personale civile per il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria; assunzione di 1.300 unità nella polizia penitenziaria entro il 2019”. La soddisfazione del ministro Bonafede “A questi risultati - ha sottolineato ancora il Guardasigilli - vanno aggiunti: 196 milioni di euro stanziati nel D.L. Sicurezza per la polizia penitenziaria; 44 milioni in più da spendere anche in favore delle strutture carcerarie; 56 milioni per finanziare le leggi di riforma della giustizia; 10 milioni in più per il fondo delle vittime di reati violenti. Ci metteremo a lavoro subito, già nei primi giorni del 2019: vogliamo una giustizia che sia vicina ai cittadini, che dia risposte, a cui dare fiducia per fare valere i propri diritti”. Il ministro si è inoltre detto entusiasta dei risultati raggiunti: “Ho l’onore di guidare una squadra di persone (sia la parte politica che quella tecnica) che hanno messo l’anima nel portare avanti un progetto così ambizioso che adesso è realtà. Ho l’onore di far parte di un governo che, per la prima volta, decide di dare al settore della giustizia l’importanza che merita. Un ringraziamento speciale a tutti coloro che hanno lavorato notte e giorno a questa manovra. Non era affatto facile ma ce l’abbiamo fatta”. Salvini: “Ora legittima difesa e autonomia regionale” di Marco Cremonesi Corriere della Sera, 31 dicembre 2018 Il vicepremier leghista e ministro dell’Interno: “Ora la legittima difesa, entro marzo le autonomie. Di Battista commissario? Ma lui gira il mondo ed è pagato, è geniale”. “Non vedo pericoli per il governo nei prossimi mesi”. Matteo Salvini è a Bormio con la figlia Mirta. E nel suo primo Capodanno di governo, a manovra finalmente approvata, nulla può perturbarne il buon umore. Proprio nulla? L’autonomia sembra un problema anche a parecchi leghisti. Sbagliano? “Oggi ho sentito Zaia e Fontana, non mi pare fossero in ansia. Ci sono altri governatori che bussano per l’autonomia, e questo è un bene”. Per una parte dei 5 stelle, le Autonomie sono un segno dell’egoismo del Nord. “Noi stiamo lavorando nei termini della Costituzione. Il 15 gennaio tutti i ministri finiranno il loro compito, inclusi quelli dei 5 stelle. Il 15 febbraio arriverà la proposta del governo e poi, dato che questo è un dialogo, ci saranno trattative regione per regione con Conte e il governo. È chiaro che la Lega è vicina ai governatori e ai sindaci: è la nostra ragione di esistenza. Ed è normale che tra i 5 stelle ci sia qualcuno meno convinto. Ma l’importante, come nel contratto di governo, è il mettere la prima pietra”. Cosa risponde a chi sbuffa per i tempi lunghi? “Francamente, se arriviamo entro marzo saranno passati 9 mesi dalla nascita del governo. Se mi avessero detto che avremmo avuto il superamento della Fornero, le norme sulla sicurezza, la riforma del codice degli appalti, non ci avrei creduto. E stiamo mettendo mano anche alla riforma della giustizia”. È più complicata quella o l’autonomia? “La riforma della giustizia. Sono decenni che se ne discute. La differenza positiva è che oggi sulla questione c’è meno ideologia. Non siamo più ai tempi di Berlusconi, non c’è più il muro contro muro”. A proposito... Il centrodestra con questa manovra è ufficialmente archiviato? “A livello locale governiamo insieme. Ma a livello nazionale Forza Italia fa quello che fa il Pd. Ciascuno fa le sue scelte, però mi pare che gli italiani abbiano dato una risposta chiara”. Sul blog dei 5 Stelle ieri si leggeva che contro di loro c’è stato “un vero e proprio terrorismo” mediatico e psicologico. È d’accordo? “La parola terrorismo non va usata, evoca i morti e non va bene. Detto questo è oggettivo che dal primo giugno, non eravamo ancora entrati in ufficio che per gran parte dell’informazione c’era un governo di incapaci litigiosi. Fortunatamente nel 2018 gli italiani hanno tanti modi di informarsi. Ma se uno avesse dovuto votare soltanto gli ospiti di Fabio Fazio, la Lega non sarebbe in Parlamento”. La manovra è proprio come l’avrebbe voluta lei? “Io sono felice perché nei tre anni 2019-2021 ci sono 20 miliardi per il superamento della Fornero. Quindi sentire le contestazioni di Forza Italia e del Pd non so se mi fa più ridere o arrabbiare”. Magari con qualche sovracuto in meno contro l’Europa la manovra avrebbe avuto più tempo per essere discussa dal Parlamento. “Io spero che questa sia l’ultima manovra con una lunga e complicata trattativa con Bruxelles, spero che quel potere di veto sia superato. Ma non tutto il male vien per nuocere. Grazie ai tempi supplementari siamo riusciti a raddoppiare il taglio dell’Imu sui capannoni, i 40mila corsi per gli insegnanti di sostegno e la pace fiscale”. La pace fiscale riguarda solo i redditi più bassi. “Prima non c’era, ora c’è. È l’inizio del percorso”. Primo dossier sul suo tavolo con l’anno nuovo? “La legittima difesa”. Il “Financial Times” ha indicato lei e il presidente francese Macron come i simboli dell’Europa che si confronterà alle prossime europee. La sfida è quella? “Mi ha un po’ stupito, come mi ha stupito il voto alto (7,5) sulla pagella dei ministri del “Corriere”. Io invito me stesso e tutti i miei parlamentari a rimanere umili e concreti. Però, nessun governo in Europa ha il consenso di quello italiano. Dopo sette mesi complicati, siamo al 60% dei consensi”. Prevede un’alleanza della Lega con il Ppe? “Per me, il grande nemico è la cosiddetta sinistra, che negli ultimi anni ha difeso soltanto le élite, i poteri forti, banche e finanza. L’obiettivo è far uscire la sinistra dalla stanza dei bottoni, le alleanze le decideranno gli elettori. Di certo, l’Italia chiederà un commissario che si occupi di economia o di lavoro o di agricoltura, non di filosofia”. Per esempio, Alessandro Di Battista? Il suo nome circola parecchio... “Lui sta girando il mondo ed è pagato per farlo. A modo suo, è geniale... Ma è presto, si parla dell’autunno prossimo. E in mezzo c’è il voto di 400 milioni di europei. Io penso a quello, il 9 gennaio sarò in Polonia, continuo a incontrare persone”. Sarà lei il candidato alla presidenza della Commissione dei sovranisti? “Io per il momento sto benissimo in quello che faccio, il ministro dell’Interno. Ma al di là della gratificazione personale, la soddisfazione grandissima è per un’Italia che è tornata in campo. Noi in Europa non avevamo mai toccato palla, si parlava solo dell’asse franco-tedesco”. Il momento più difficile di questi mesi? “Quello della nave Diciotti, indagini, accuse, minacce. Non è stato semplice scardinare il meccanismo di scafisti trafficanti e mafiosi, ha richiesto un po’ di coraggio”. Il tifo ha ucciso ancora. Esiste un problema di relazione tra le società e gli ultras? “Ci sono indagini in corso, non mi sostituisco ai magistrati. Se qualche società è connivente, pagherà. Io invito a non generalizzare, i tifosi sono presone perbene sia che vadano in tribuna sia che vadano in curva: il punto è la minoranza dei delinquenti che va sradicata”. Steve Bannon sta per tornare in Italia per lanciare la sua “scuola di sovranismo”. “Sono lieto del suo apprezzamento. Detto questo, noi siamo adulti e vaccinati. Ragioniamo da soli. Se no, che autonomisti e sovranisti saremmo?”. Tutti gli errori giudiziari del 2018 di Ermes Antonucci Il Foglio, 31 dicembre 2018 Come spesso accade in Italia, questo è stato un altro anno costellato di flop giudiziari. Abbiamo analizzato gli ultimi dodici mesi e compilato una breve rassegna dei principali casi emersi. Si sta per concludere un altro anno, e come spesso accade in Italia, è stato un altro anno costellato di flop giudiziari. Abbiamo analizzato gli ultimi dodici mesi e compilato una breve rassegna dei principali casi emersi nel corso del 2018. Gennaio Gli ex vertici di Finmeccanica (oggi Leonardo) e di Agusta Westland, Giuseppe Orsi e Bruno Spagnolini, vengono assolti dalla Corte d’appello di Milano dall’accusa di corruzione internazionale per una commessa di elicotteri in India. A causa della vicenda, esplosa nel 2013, Orsi era finito in carcere per 80 giorni e Spagnolini ai domiciliari. A quasi tre anni di distanza dall’arresto, l’ex sindaco di Ischia, Giuseppe Ferrandino, viene assolto nell’ambito del processo Cpl-Concordia dall’accusa di corruzione per la metanizzazione dell’isola. L’inchiesta, che i pm napoletani Henry John Woodcock, Celeste Carrano e Giusy Loreto avevano affidato al Noe e in particolare al capitano Gianpaolo Scafarto (lo stesso del caso Consip), è costata a Ferrandino 22 giorni di carcere e tre mesi ai domiciliari. Il tribunale di Roma assolve, dopo dieci anni, l’immobiliarista Stefano Ricucci dall’accusa di bancarotta fraudolenta e dissipazione di capitale per il crac della società Magiste. Febbraio Il tribunale di Roma assolve l’ex capo della Protezione civile, Guido Bertolaso, accusato di corruzione per gli appalti di alcuni “grandi eventi” (condannati invece l’ex presidente del Consiglio per le Opere pubbliche, Angelo Balducci, e l’imprenditore Diego Anemone). “Cancellate le storie che mi hanno distrutto”, dichiara dopo l’assoluzione Bertolaso, che era stato persino accusato di aver ricevuto favori sessuali in cambio di appalti. L’ex ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola, viene assolto dal tribunale di Imperia dall’accusa di finanziamento illecito a singolo parlamentare per i lavori di ristrutturazione della residenza imperiese di famiglia. Per Scajola è il diciassettesimo proscioglimento. Marzo Il giudice dell’udienza preliminare proscioglie il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, in una tranche del processo Expo, dall’accusa di abuso d’ufficio per un affidamento senza gara. La Corte d’appello di Perugia dispone che Hashi Omar Hassan, il somalo che ha scontato quasi 17 anni di carcere per gli omicidi di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin prima di essere assolto definitivamente in un processo di revisione, dovrà ricevere tre milioni di euro di risarcimento per ingiusta carcerazione. Dopo otto anni, l’ex senatore Denis Verdini è assolto dal tribunale di Roma dall’accusa di far parte della cosiddetta associazione segreta “P3” (mentre viene condannato a un anno e sei mesi per finanziamento illecito). Aprile La Corte d’appello di Torino ribalta la sentenza di condanna di primo grado e assolve tutti gli imputati del processo per le morti da amianto alla Olivetti. Tra loro i fratelli Carlo e Franco De Benedetti, e l’ex ministro Corrado Passera. Il gip di Firenze archivia l’accusa di associazione a delinquere a carico dell’imprenditore Andrea Bulgarella, eliminando ogni aggravante relativa al metodo e alla finalità mafiosa. L’accusa cade anche per l’ex vicepresidente di Unicredit, Fabrizio Palenzona, e altre otto persone Maggio La Corte d’appello di Milano, ribaltando la sentenza di condanna di primo grado, assolve l’ex direttore del Tg4 Emilio Fede dall’accusa di concorso in bancarotta fraudolenta con Lele Mora. Giugno Il tribunale di Roma assolve l’ex presidente della Regione Abruzzo Gianni Chiodi, l’ex vicepresidente della Giunta Alfredo Castiglione e l’ex assessore all’Istruzione Paolo Gatti dalle accuse di peculato e truffa aggravata, nell’ambito del processo sulla cosiddetta “Rimborsopoli” abruzzese. Il gip di Palermo, accogliendo la richiesta della Dda del capoluogo siciliano, archivia l’indagine sulle Ong Golfo Azzurro e Sea Watch per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, escludendo legami tra le due organizzazioni e i trafficanti di esseri umani libici. Il gip di Benevento archivia il procedimento penale nei confronti del deputato (ed ex sottosegretario) Umberto Del Basso De Caro, accusato di concussione e voto di scambio. Luglio La procura di Roma chiede l’archiviazione per il regista Fausto Brizzi, indagato per violenza sessuale a seguito di denunce presentate da tre donne, perché “il fatto non sussiste”. Il gip di Milano archivia il procedimento nei confronti di Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, rispettivamente ex presidente ed ex amministratore delegato di Monte dei Paschi di Siena, accusati di aver ostacolato gli organi di vigilanza di Consob e Banca d’Italia. Si tratta di una tranche dell’indagine sulla contabilizzazione delle operazioni finanziarie sui derivati Alexandria e Santorini. Dopo sette anni e due condanne, la Corte di Cassazione assolve il manager Luca Ruffino dall’accusa di finanziamento illecito ai partiti nell’ambito dell’inchiesta Aler (l’azienda lombarda dell’edilizia popolare) su presunte irregolarità nella gestione degli appalti. Agosto Il gip di Trani archivia l’inchiesta per usura bancaria nei confronti di 62 persone, ex e attuali dirigenti di Unicredit (tra i quali il ministro delle Politiche europee Paolo Savona), Bnl, Mps, Banca Popolare di Bari e Banca d’Italia. Settembre Il tribunale di Milano assolve l’ex ad di Eni Paolo Scaroni, il manager Antonio Vella e il gruppo petrolifero italiano dall’accusa di corruzione internazionale per le presunte tangenti pagate in Algeria, tra il 2008 e il 2011, all’ex ministro dell’Energia del Paese africano e ai suoi collaboratori per ottenere appalti petroliferi. I giudici condannano solo Saipem: la controllante Eni non è mai stata messa al corrente di un’attività di corruttela. Il tribunale di Salerno assolve il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, e altri 21 imputati nel cosiddetto processo “Crescent”, legato all’opera di riqualificazione dell’area di Santa Teresa a Salerno. Il governatore era accusato di falso ideologico, abuso d’ufficio e reati urbanistici, e la procura aveva chiesto per lui una condanna a 2 anni e 10 mesi. La procura di Arezzo chiede l’archiviazione per Pier Luigi Boschi, padre dell’ex ministro Maria Elena Boschi, dall’accusa di falso in prospetto e ricorso abusivo al credito. Un anno dopo essere stato assolto dall’inchiesta che causò le sue dimissioni da ministro della Giustizia e, conseguentemente, la caduta del governo Prodi, l’attuale sindaco di Benevento Clemente Mastella viene assolto anche dall’accusa di malversazione per i contributi pubblici ricevuti dal giornale dell’Udeur. Finisce con un nulla di fatto il processo per la discarica di Bussi sul Tirino (Pescara). La Corte di Cassazione annulla le 10 condanne agli ex manager emesse dalla Corte d’Assise d’Appello dell’Aquila il 17 febbraio 2017: quattro degli imputati vengono assolti per non aver commesso il fatto, per altri sei la Corte dichiara prescritto anche il reato di disastro ambientale riconosciuto in appello. Ottobre Diventa definitiva la sentenza di assoluzione di primo grado per l’ex ministro Nicola Mancino nell’ambito del processo sulla trattativa Stato-mafia, in virtù della mancata impugnazione della procura. Il tribunale di Napoli assolve l’ex presidente della Regione Campania, Antonio Bassolino, dall’accusa di peculato in relazione alla gestione dei fondi destinati al contrasto del dissesto idrogeologico della regione. Per Bassolino si tratta della diciottesima assoluzione. Novembre La sindaca di Roma, Virginia Raggi, è assolta dall’accusa di falso per la nomina di Renato Marra, fratello del suo braccio destro Raffaele, alla direzione del dipartimento Turismo del Comune. Sempre nella Capitale, dopo quattro anni il tribunale assolve l’ex “ras” delle discariche, Manlio Cerroni, dalle accuse di associazione per delinquere finalizzata al traffico illecito di rifiuti e frode in pubbliche forniture. La Corte d’appello di Milano assolve per la terza volta il vicepresidente e ad di Pirelli, Marco Tronchetti Provera, dall’accusa di ricettazione nell’ambito del caso Kroll. Condannato in primo grado, Tronchetti era stato assolto due volte in appello, ma entrambe le sentenze erano state annullate dalla Cassazione. Dicembre La Corte d’appello di Firenze, ribaltando la sentenza di condanna di primo grado, assolve Lucia e Giovanni Aleotti, figli del patron del gruppo farmaceutico Menarini, dalle accuse di riciclaggio e corruzione. Al termine di una vicenda giudiziaria durata ben 17 anni, diventa definitiva l’assoluzione nei confronti di Rocco Loreto, ex senatore Ds ed ex sindaco di Castellaneta (Taranto). Loreto era finito in carcere nel 2001, su richiesta dell’allora sostituto procuratore a Potenza, Henry John Woodcock, che lo accusò di calunnia ai danni di un altro magistrato e di violenza privata nei confronti di un imprenditore. Macerata burning, alle radici dell’odio sovranista di Giovanni Tizian L’Espresso, 31 dicembre 2018 La tentata strage del neofascita-leghista Luca Traini è il simbolo di un Paese in cui il desiderio di vendetta prevale su quello di giustizia. Un Paese in cui il ministro dell’Interno soffia quotidianamente sul fuoco della rabbia sociale. Dove non mancano soldati pronti a immolarsi per una nazione di soli uomini bianchi. A un mese dalle elezioni politiche, il 3 febbraio 2018, per le strade di Macerata si scatena la furia di Luca Traini. “Il Lupo”, così è conosciuto in città, ha 28 anni. Quel giorno dall’auto spara a raffica con la sua Glock, acquistata per l’occasione. Conduce la sua azione con un obiettivo specifico: colpire uomini e donne straniere, meglio se africani, come africano era l’aguzzino di Pamela Mastropietro, l’adolescente uccisa da Innocenti Oseghale, lo spacciatore nigeriano che poi ha mutilato il corpo della giovane per disfarsene e non lasciare tracce. È questo il fatto di cronaca che trasforma Luca Traini in giustiziere della patria. La sua è stata un’azione di guerra nel centro di Macerata. Guerra allo straniero. Una guerra che quotidianamente si combatte con parole impregnate di odio, rabbia, razzismo. E che a Macerata hanno trovato il pretesto ideale e il militare impavido per tramutarsi in azione. La tentata strage compiuta da Traini é il momento in cui la narrazione sovranità e neofascista si saldano nel gesto criminale venduto dall’autore come prodotto di una vendetta di un singolo. In realtà la caccia allo straniero messa in pratica dal Lupo è molto di più. La mancata strage di Macerata e la politica dell’odio. La tragedia di Genova. Il governo gialloverde. Il campione Ronaldo. Gli esperimenti col Dna. Abbiamo scelto alcuni avvenimenti simbolo che hanno segnato questi ultimi dodici mesi. Ora tocca a voi: segnalateci i vostri fatti e diteci perché Il processo ha stabilito la colpevolezza di Traini, i giudici lo hanno condannato a 12 anni. Ma c’è un filo nerissimo che lega i fatti di Macerata con il cinismo xenofobo che scorre ormai sulla superficie di un Paese indifferente. Questo legame solo apparentemente invisibile non può essere processato nelle aule di un tribunale, avrebbe bisogno di essere contrastato sul piano politico. Perché è materia politica. Un mese dopo l’azione di Traini, gli italiani sono andati a votare. Il governo in carica è figlio di quelle elezioni. Uomo forte di questo governo è senza ombra di dubbio Matteo Salvini. Vicepremier, ministro dell’Interno, capo di una forza politica che i sondaggi danno in continua crescita. Salvini ha sdoganato il fascismo che covava nella pancia del Paese. Ha liberato le peggiori pulsioni canalizzandole verso nemici concreti, ben visibili: immigrati e istituzioni europee( queste sicuramente colpevoli di altrettanto cinismo nei confronti delle fasce deboli delle società). Salvini è cresciuto politicamente nel mito del secessionismo, dopo la fine politica di Umberto Bossi, ha trasformato il partito in forza sovranista, altro non è che il rappresentante massimo dei nazionalisti moderni. Ha legittimato movimenti politici che guardano al ventennio di Mussolini come un’ epoca grandiosa. Prendendo in prestito non di rado i motti del Duce. Non sveliamo niente di nuovo. Ma per capire Macerata è necessario ribadirlo. Del resto è la storia di Traini a rivelarcelo. Militante neofascista, poi leghista nella sezione cittadina, infine giustiziere fai da te. La storia politica di Traini segue l’evoluzione della nuova Lega di Matteo Salvini, una calamita strepitosa per chi ha sempre militato nell’estrema destra e oggi trova rappresentanza in Parlamento. La Lega a destra copia la retorica sovranista, di partiti neofascisti come Forza nuova, loro sono sovranisti dalla nascita e ne portano il vessillo da quando sono nati. Ha preso a piene mani dai programmi dei movimenti di quell’area politica. Forza Nuova è da 15 anni che esprime concetti oggi predicati da Salvini. Si può dire che le battaglie di Roberto Fiore, il leader neofascista ed ex terrorista nero, hanno trovato cittadinanza grazie alla Lega. L’immigrato è il nemico, per la Lega e per Forza Nuova. Un nemico quindi da discriminare, umiliare, sacrificare nel nome del consenso. Se questo è il clima dei nostri tempi - l’eredità che il 2018 lascia all’anno nuovo alle porte - non deve sorprendere il fatto che il cosiddetto decreto Salvini sulla Sicurezza abbia avuto il via libera anche dei grillini. Decreto discriminatorio, che restringe il campo dei diritti, una sorta di manifesto della razza dei tempi moderni in cui c’è l’uomo bianco che decide della vita e della sorte di chi emigra disperato dalla propria terra. Macerata, dunque, non è stato altro che un frammento di ciò che potrà accadere in futuro quando la Lega, grazie al complice silenzio grillino, farà approvare la legge sulla legittima difesa. Avremo molti uomini bianchi, arrabbiati, fomentati da slogan irresponsabili generati dalla “Bestia” social dello staff di Salvini, e armati. Missisipi burnig, appunto, ma a casa nostra. Toghe alle urne. Avvocati, è scontro sui “signori del voto” di Leandro Del Gaudio Il Mattino, 31 dicembre 2018 Come una slavina, decine di commenti in favore di chi ha sollevato il problema. Parliamo della questione della candidabilità degli avvocati, all’indomani dell’intervento della Cassazione che pone limiti alla carriera degli aspiranti consiglieri: no al terzo mandato consecutivo, necessario assicurare turnazione e ricambio generazionale. Un punto sul quale il dibattito è aperto, all’indomani della presentazione delle liste (a Napoli i termini scadevano sabato mattina) in vista delle elezioni per il rinnovo del Consiglio dell’ordine degli avvocati per il prossimo 28 gennaio. Sono due le voci che hanno sollevato il caso: quelle della penalista Barbara Berardi che ha deciso di uscire dalla lista “Evoluzione forense”, in disaccordo con la scelta del suo leader, l’avvocato Armando Rossi (già presidente del Consiglio) di confermare la sua candidatura; e quella del penalista Mario Papa, in passato presidente nazionale Aiga, che si dice “meravigliato per il silenzio assordante delle grandi figure del mondo forense campano, di fronte al tentativo di sovvertire dei principi di civiltà ribaditi di recente dal supremo organo giudicante. Insomma - aggiunge - chi ha fatto due mandati consecutivi non può stare lì ad usare il pallottoliere, ma deve fare un passo indietro e lasciare spazio agli altri”. Diversa è stata in questi giorni la posizione enunciata da alcuni esponenti di vertice del Consiglio dell’Ordine degli avvocati. Sia Maurizio Bianco che Armando Rossi - rispettivamente presidente e past president - hanno infatti confermato la propria candidatura. E lo hanno fatto, regolamento alla mano (articolo tre, comma 4, legge 113/17), sul punto in cui la legge assicura che “dei mandati inferiori ai due anni non si tiene conto”. Un principio al quale fanno riferimento diversi seniores che ripropongono la propria candidatura, dal momento che a Napoli si è votato meno di due anni fa. Spiega il consigliere Alfredo Sorge, candidato nella lista “Evoluzione forense”, che fa capo ad Armando Rossi: “Nel caso di Armando Rossi, a mio parere, non vi sono problemi di interpretazione della legge, in quanto, prima di ogni cosa, sussiste il dato di diritto positivo, ovvero il testo della legge, che non può mai essere sovvertito da qualsivoglia interpretazione. Ragion per cui, semplicemente applicando la legge esistente, Armando Rossi, che non ha effettuato due mandati biennali ostativi, è perfettamente eleggibile (Rossi ha fatto un primo mandato 2010/2011 inferiore ai due anni, sia pure di poco, che non si considera ai sensi dell’articolo 3 comma 4 legge 113/17. Un secondo mandato 2012/2013 che è stato prorogato per legge, mentre il mandato in corso 2017/2018 pure non si considera perché di durata inferiore ai due anni”. Eppure il caso resta aperto, a giudicare dagli interventi in favore dell’endorsement della Berardi: scendono in campo, sulla piattaforma infuocata di Facebook, decine di avvocati, docenti universitari, semplici lettori. Ecco qualche esempio: “La coerenza della collega Berardi dimostra che non tutto è perduto”, scrive l’avvocato Peppe Riccio; dello stesso avviso, una consigliera dell’Ordine che “apprezza la coerenza della collega, come merce rarissima”; stessa stima confermata dalla penalista Carla Maruzzelli (“ho letto che ti sei ritirata dalla lista di Armando, hai tutta la mia stima”); da parte dell’avvocato Salvatore Lucignano (“una scelta che sia di esempio e di monito, anche perché i cavilli di cui stiamo leggendo in queste ore non fanno onore al foro di Napoli”); del consigliere Giuseppe Scarpa (“conoscendo bene Barbara, era un gesto che mi aspettavo”); dell’avvocato Massimo Di Palma Caccioppoli (“preoccupante che sia l’unica voce fuori dal caro”), del penalista Gennaro De Falco (“per questo la voto”), e di tanti altri esponenti del mondo forense cittadino. Mentre torna sulla bagarre di sabato mattina in Tribunale, per il deposito delle candidature, l’avvocato Roberta Foglia Manzillo: “Sono veramente stupefatta per i toni raggiunti che confermano un clima rovente. La lista della quale faccio parte “Coesione forense”, ha deciso di porsi come punto di mediazione, va tutelato il decoro della nostra professione, all’insegna della coesione attorno agli stessi principi”. Anticorruzione, il modello 231 evita le nuove sanzioni di Stefano Crociata Il Sole 24 Ore, 31 dicembre 2018 Le super sanzioni che possono portare anche al blocco dello studio, dalla legge anti-corruzione, possono essere scongiurate anche con un adeguato modello organizzativo previsto dal decreto legislativo 231 del 2001. Il decreto 231 è quello che ha introdotto un’autonoma e distinta responsabilità parapenale a carico di società e altri enti collettivi (studi compresi) i cui esponenti abbiano commesso determinati reati, tra i quali primeggiano quelli contro la Pa. Le sanzioni sono particolarmente severe e contemplano oltre alla confisca di beni, sanzioni pecuniarie e minacciose sanzioni interdittive come il blocco dell’attività, il commissariamento, il divieto di contrattare con la Pa, l’esclusione da finanziamenti e sussidi, il divieto di pubblicizzare beni o servizi. La recente legge anticorruzione, oltre a inserire nel “catalogo reati 231” il delitto di “traffico di influenze illecite”, ha intensificatele sanzioni interdittive: la loro durata minima, per i reati più gravi commessi da una figura apicale, è stata quadruplicata, raggiungendo i quattro anni. Gli studi professionali. Tra gli enti interessati figurano anche gli studi professionali, fino a oggi non particolarmente avvezzi - per le limitate dimensioni strutturali, la loro dibattuta inclusione trai destinatari del Dlgs 231 e, soprattutto, l’esigenza di contenimento dei costi - a ricorrere alle misure organizzative interne di prevenzione di eventi criminosi. Ma sono motivazioni davvero e sempre valide? Oltre ai professionisti intenzionati a cogliere le opportunità di crescita, possono ingrandirsi anche gli studi associati e le società tra professionisti. Nelle strutture più ampie, ai professionisti possono affiancarsi anche soci non professionisti, dipendenti e collaboratori. E ancora: proliferano gli studi multidisciplinari, destinati a offrire una estesa gamma di servizi integrati o complementari, costituendo talvolta distinte entità giuridiche per ciascuno dei settori di attività. Sono tutte realtà che presentano esigenze di coordinamento e organizzative, oltre a problematiche legate alle dinamiche interne e ai processi decisionali. Giunge quindi il momento di assumere un direttore generale o un amministratore, eventualmente prescelto tra gli associati. Non occorre, tuttavia, che lo studio abbia raggiunto tali dimensioni per poter incorrere nella responsabilità amministrativa disciplinata dal Dlgs 231. Cassazione e giurisprudenza di merito hanno infatti ormai dissipato gran parte dei dubbi circa l’applicabilità della norma agli studi professionali, laddove sia netta la loro distinzione con i soggetti per essi operanti. A conferma, basti richiamare il recente sequestro preventivo operato nei confronti di uno studio legale assodato di Milano per il concorso nel reato di riciclaggio di un suo avvocato che aveva aiutato un cliente ad occultare i proventi di evasione fiscale. Il modello organizzativo - Peraltro, non scarseggiano tra i reati presupposto della “responsabilità 231”, quelli riconducibili ai professionisti, come quelli contro la Pa, i reati colposi in materia di sicurezza sul lavoro, le violazioni al diritto d’autore, i reati informatici, il riciclaggio. Non è arduo, poi, dimostrare che l’illecito penale di un professionista sia stato posto in essere nell’interesse o svantaggio dello studio di appartenenza, avendo questo come finalità il perseguimento di un profitto economico rappresentato dal corrispettivo versato dai clienti per lo svolgimento delle prestazioni professionali. Escludendo gli studi individuali non strutturati e le piccole realtà organizzative, per gli altri si tratta di valutare l’opportunità di adottare un modello di organizzazione e gestione su misura, idoneo a prevenire la commissione di reati inclusi nel “catalogo 231”, che li schermi dal severo arsenale sanzionatorio o ne attenui l’impatto. Detenuti: proposizione di impugnazioni direttamente all’autorità penitenziaria Il Sole 24 Ore, 31 dicembre 2018 Impugnazioni - Detenuti - Modalità di proposizione ex art. 123 c.p.p. - Valore integrativo rispetto alle forme ordinarie di presentazione previste per l’imputato. La facoltà riconosciuta al detenuto di presentare impugnazioni (nonché dichiarazioni e richieste) direttamente all’amministrazione penitenziaria, secondo la disciplina contenuta nell’art. 123 c.p.p., non preclude la possibilità di ricorrere alle forme ordinarie di proposizione delle impugnazioni di cui all’art. 582 c.p.p., dovendosi pertanto sottolineare il carattere integrativo e non sostitutivo della norma di cui all’art. 123 c.p.p. rispetto alle forme ordinarie di cui al libro IX del codice di rito. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 14 dicembre 2018 n. 56417. Atti processuali - Dichiarazioni e richieste - Soggetti detenuti o internati - Facoltà di proposizione diretta all’amministrazione penitenziaria - Ratio. La disposizione di cui all’art. 123 c.p.p. amplia e non limita la facoltà riconosciuta al detenuto o internato per l’esecuzione di misure cautelari rispetto alla formulazione di impugnazioni, dichiarazioni e richieste secondo le forme ordinarie, nel senso che essa soddisfa lo scopo di impedire che lo stato detentivo possa tradursi in una menomazione processuale per il detenuto, in relazione alle difficoltà a esercitare i suoi diritti nelle forme ordinarie. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 14 dicembre 2018 n. 56417. Atti processuali - Disposizioni generali - Dichiarazioni e richieste - Di detenuti o internati - Richiesta di essere sentito a norma dell’art. 666, comma quarto, cod. proc. pen. - Errata indicazione dell’autorità giudiziaria competente da parte del detenuto - Obbligo di comunicazione all’autorità competente gravante sull’amministrazione penitenziaria - Conseguenze - Fattispecie. La richiesta del detenuto di essere sentito dall’autorità giudiziaria in relazione a un procedimento pendente nei suoi confronti, iscritta presso l’Ufficio matricola del luogo di detenzione, deve considerarsi presentata al magistrato competente anche in caso di errata indicazione dello stesso da parte dell’istante, atteso il disposto dell’art. 123, cod. proc. pen.,dal quale è desumibile un preciso onere a carico dell’amministrazione penitenziaria, con la conseguenza che, l’omessa audizione dell’interessato, nei procedimenti disciplinati dall’art. 666 cod. proc. pen., pure quando segue a una inesattezza attribuibile a quest’ultimo, determina la nullità del successivo provvedimento. (Fattispecie in tema di procedimento di sorveglianza). • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 23 dicembre 2014 n. 53530. Atti processuali - Disposizioni generali - Dichiarazioni e richieste - Di detenuti o internati - Efficacia immediata come se fosse direttamente ricevuta da autorità giudiziaria - Sussistenza - Fattispecie. La ratio della norma contenuta nell’art. 123 c.p.p. è quella di impedire che lo status detentionis si traduca in una menomazione processuale per l’imputato per la difficoltà a esercitare, nelle forme ordinarie, i diritti riconosciuti dall’ordinamento, accordando al soggetto detenuto o internato la facoltà di presentare impugnazioni, dichiarazioni e richieste direttamente all’amministrazione penitenziaria o a un ufficiale di p.g., con efficacia corrispondente alla presentazione diretta all’autorità giudiziaria. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 23 gennaio 2014 n. 3147. Atti processuali - Detenuti e internati - Dichiarazioni e richieste - Atto ricevuto dal direttore carcerario - Immediata efficacia. Le dichiarazioni e le richieste connesse a diritti o facoltà riconosciuti, nell’ambito del procedimento, all’imputato in stato detentivo ed effettuate con atto ricevuto dal direttore dello stabilimento di custodia hanno immediata efficacia, a norma dell’art. 123 cod. proc. pen., come se fossero direttamente ricevute dall’autorità giudiziaria destinataria. (In applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto illegittimo il provvedimento con il quale il giudice del merito, ponendo riferimento alla data di deposito presso la cancelleria e non a quella, tempestiva, di presentazione presso l’ufficio del direttore del carcere, aveva rigettato richiesta di giudizio abbreviato ritenendola avanzata oltre il termine di decadenza stabilito dall’art. 458 cod. proc. pen.). • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 23 gennaio 2014 n. 3147. Il perimetro delle misure premiali per la “gestione precoce” delle crisi d’impresa di Claudio Ceradini Il Sole 24 Ore, 31 dicembre 2018 Il parere della commissione permanente giustizia sul decreto attuativo di riforma della disciplina di crisi ed insolvenza interviene, invitando il Governo a precisare il perimetro di contenimento degli effetti penali della crisi, anche sulle misure premiali, concepite come incentivo alla gestione precoce della crisi e quindi riconosciute ai soli debitori che tempestivamente ricorrano a uno degli strumenti codificati di composizione. Entro sei mesi dal verificarsi di talune circostanze, il debitore deve aver fatto ricorso a una delle procedure previste dal nuovo codice, incluse quelle di allerta. Si tratta di debiti per retribuzioni scaduti da più di sessanta giorni, di debiti nei confronti di fornitori scaduti da più di centoventi giorni e superiori al non scaduto e del superamento nel bilancio, o comunque per tre mesi, degli indici di cui all’articolo 13, funzionali alla identificazione dei fondati indizi di crisi. L’impostazione è apprezzabile per oggettività, anche se spesso il dato dello scaduto conclama una condizione di crisi già consolidata e prossima all’insolvenza che dovrebbe, perlomeno nelle intenzioni, divergere dalle elaborazioni informative più sofisticate richiamate dall’articolo 13, che quella condizione sarebbero chiamate ad anticipare. Si tratterà quindi di capire come i tre indici convivano. Le misure premiali - Con riferimento alla natura delle misure premiali, l’attuale testo del decreto prevede benefici in termini di responsabilità personale del debitore, di riduzione di sanzioni e interessi sul debito tributario, ed infine processuali. Il debitore tempestivo beneficerebbe della non punibilità per i reati di bancarotta e ricorso abusivo al credito se il danno cagionato è di speciale tenuità, o della riduzione sino alla metà della pena ove il valore dell’attivo superi il quinto dei debiti. Sul punto il parere della commissione invita a prevedere un limite massimo del danno (2 milioni di euro) e a precisare come il quinto debba riferire ai creditori chirografari. Lo “sconto” tributario - Modesti invece gli effetti in termini di riduzione degli oneri sul debito tributario. Non sembrano decisivi ed efficaci il contenimento al tasso legale degli interessi maturati nel corso della procedura di allerta, la riduzione al minimo delle sanzioni se la domanda di accesso a una delle procedure di regolamentazione della crisi sia depositata entro il termine di pagamento che ne consentirebbe l’applicazione in misura ridotta e la riduzione alla metà di interessi e sanzioni quando il debito trattato con uno degli strumenti codificati sia stato precedentemente oggetto della procedura di composizione assistita. Lo schema non prevede, purtroppo, la semplificazione dell’accesso alla rateazione straordinaria in centoventi mesi di cui all’articolo 19, comma 1-quinquies, Dpr 602/1973, da più parti auspicata in quanto foriera di un alleggerimento finanziario che molto spesso nella soluzione della crisi pesa più della riduzione dell’onere. Dal punto di vista processuale, il debitore tempestivo potrà beneficiare del raddoppio dei termini della proroga della fase prenotativa del concordato o della richiesta di omologa di accordo di ristrutturazione del debito, e della riduzione al 20% della soddisfazione offerta ai creditori chirografari che escluda le proposte concorrenti. Sassari: detenuto 37enne ritrovato morto in cella, la Procura indaga di Nadia Cossu La Nuova Sardegna, 31 dicembre 2018 Era uscito per un permesso la mattina della vigilia di Natale, di sera è tornato in carcere, nella sua cella di Bancali e il giorno dopo gli agenti di polizia penitenziaria lo hanno trovato morto. I fratelli e la compagna di Omar Tavera, algherese di 37 anni, si sono rivolti agli avvocati Antonio Mameli e Francesco Sasso per capire cosa, il 25 dicembre, sia accaduto al loro caro all’interno dell’istituto penitenziario alla periferia di Sassari. L’ipotesi più plausibile, al momento, è quella di un’overdose ma bisognerà attendere i risultati degli esami tossicologici per avere certezze sulle cause. E proprio per far luce su questa morte la Procura della Repubblica ha aperto un’inchiesta. Il pubblico ministero Mario Leo ha ipotizzato il reato previsto dall’articolo 586 del codice penale, ossia “morte o lesioni come conseguenza di altro delitto”. Reato che si configura “quando da un fatto preveduto come delitto doloso - recita l’articolo - deriva, quale conseguenza non voluta dal colpevole, la morte o la lesione di una persona”. Il sostituto procuratore Leo ha affidato al medico legale Salvatore Lorenzoni l’incarico di eseguire l’autopsia per accertare la causa della morte. L’esame è stato concluso venerdì mattina ed entro novanta giorni sarà depositata la relazione scritta. La salma è stata quindi restituita ai familiari e ieri pomeriggio, nella Cattedrale di Santa Maria ad Alghero sono stati celebrati i funerali. Omar Tavera ha avuto un passato turbolento e una serie di precedenti penali per reati vari contro la persona, il patrimonio e in materia di stupefacenti. Nel 2009 era stato arrestato anche per tentato omicidio. Il fatto era accaduto nel quartiere della Pietraia, dove era stata segnalata alle forze dell’ordine una violenta lite tra due persone. Alcuni testimoni avevano raccontato ai poliziotti che un uomo era stato aggredito da Tavera (suo conoscente) mentre rientrava a casa. Per la precisione Tavera si sarebbe presentato davanti al suo portone armato di roncola e dopo averlo minacciato di morte, lo avrebbe aggredito lanciandogli addosso un casco da motociclista per tentare poi di colpirlo all’altezza del torace con la roncola e più tardi con un badile. Nel 2011 era stato invece condannato a due anni e tre mesi di reclusione: era stato arrestato qualche giorno prima di Natale con l’accusa di tentata rapina impropria. I carabinieri lo avevano fermato dopo la segnalazione di una guardia giurata che aveva cercato di bloccare un ladro in un negozio di articoli sportivi. Tavera però era riuscito a scappare e i militari lo avevano trovato poco dopo dietro il portone di un condominio. Nel 2015, invece, era stato arrestato perché doveva espiare la pena residua di 2 anni, 5 mesi e 28 giorni di reclusione per guida senza patente. Lucca: il caso San Giorgio davanti al ministro di Barbara Antoni Il Tirreno, 31 dicembre 2018 Il senatore dem Marcucci presenterà un’interrogazione sulla sezione ristrutturata con fondi statali e mai usata. Centodieci detenuti ospiti, per metà italiani e per metà stranieri, “un sovraffollamento parziale”. Troppo poche le occasioni per i reclusi di svolgere attività durante le giornate in carcere: anche questa pressione quotidiana può essere fra le cause di risse e scontri a vario titolo fra i detenuti. Ecco perché gli spazi ricreativi, per i detenuti del San Giorgio sono fondamentali: c’è un’intera sezione ristrutturata e inutilizzata. All’uscita della sua visita annuale al carcere San Giorgio - effettuata ieri mattina con il consigliere regionale del suo schieramento Stefano Baccelli, e caduta in un momento di particolare tensione nel carcere per la morte naturale di un detenuto e le agitazioni tra i reclusi che sono scoppiate - il senatore dem Andrea Marcucci traccia un’analisi della situazione nel carcere lucchese. “La magistratura sta seguendo il caso del del detenuto deceduto - dice Marcucci. Non ci permettiamo di entrare nel merito. Sappiamo soltanto che l’uomo aveva problemi di salute”. Marcucci non nasconde la preoccupazione per gli incidenti che si sono svolti nel carcere successivamente: battiture di ferri (in particolare dopo la morte del detenuto, avvenuta il 26 dicembre), ma anche di risse, con molte probabilità, per quanto si apprende, non collegate al decesso ma scoppiate fra detenuti per altri motivi. Marcucci annuncia che porterà all’attenzione del parlamento il caso della sezione inutilizzata del San Giorgio, il padiglione 8 visitato giusto ieri. “Presenterò un’interrogazione parlamentare al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Il recupero è stato fatto con fondi statali: il ministro si deve fare carico della situazione e mettere il carcere in condizione di usare la sezione. Chiedo che anche il garante dei detenuti e i comuni di Lucca e Viareggio monitorino la situazione”, spiega alla fine della visita. Il padiglione è stato ristrutturato e completamente arredato grazie a fondi statali per circa 900.000 euro: ma da quando i lavori sono stati completati (circa un anno fa), il grande spazio destinato ad attività di recupero e formazione dei detenuti, finora non è stato mai usato, perché mancano attività e personale. “In prima istanza il problema del San Giorgio è la struttura - afferma Baccelli -, ne hanno convenuto anche la vice direttrice e gli agenti che abbiamo incontrato. Ho proposto, per le attività complementari, di coinvolgere il volontariato lucchese, ma deve essere il ministero a dire cosa vuol fare nel padiglione 8. Vi si potrebbero svolgere corsi di teatro, attività culturali e socializzanti: potremmo provare a coinvolgere strutture del territorio, ma il ministero deve intervenire per inserire nuove unità di personale che consentano di tenere aperta la struttura”. “Credo - conclude Baccelli - che il San Giorgio, bene culturale inadeguato e non efficacemente adeguabile per un istituto penitenziario sicuro e moderno, se destinato ad altre funzioni, ad esempio ricettive, sarebbe valorizzabile per lo sviluppo turistico di qualità del centro storico”. Taranto: “cari parlamentari e consiglieri regionali, fateci entrare in galera” tarantobuonasera.it, 31 dicembre 2018 L’appello dell’Associazione Marco Pannella. “Quest’anno per la prima volta non potremo passare il Natale e il Capodanno in carcere”. L’Associazione Marco Pannella lancia un appello a parlamentari e consiglieri regionali. “Da sempre, fino alla scorsa legislatura, come esponenti radicali abbiamo visitato le carceri, i cara, cpr e hotspot, proseguendo una tradizione inaugurata da Marco Pannella negli anni 70, quando per primo dalla sua prima legislatura entrò in galera per trascorrere persino i suoi Natali e Capodanni nelle carceri non solo per effettuare una visita ispettiva come facoltà parlamentare consente, ma anche per vivere in comunione con la comunità penitenziaria, con gli ultimi, i momenti più difficili. E chiedevamo noi a parlamentari e consiglieri regionali di accompagnarci, per far vivere anche a loro quei momenti, e perché potessero riportare in interrogazioni il risultato di quelle visite. Ci siamo andati con tutti, di tutti i partiti, di tutte le liste - sottolineano dall’Associazione Marco Pannella. Anche il più forcaiolo dei giustizialisti abbandona la corda dopo un caffè in cella preparato da un detenuto durante una chiacchierata con loro e i radicali. E anche il più nazionalista si abbandona all’umanità di uno straniero che soffre guardandolo negli occhi. Quest’anno per la prima volta non potremo passare il Natale e il Capodanno in carcere. Perché con il nuovo governo il nuovo capo del Dap nominato dal guardasigilli Bonafede ci ha negato i permessi speciali che fino ad ora come radicali avevamo per visitare le carceri. La facoltà rimane solo per i parlamentari, consiglieri regionali e loro assistenti. Per questo ci rivolgiamo a loro affinché ci diano la possibilità di accompagnarli in galera o al Cpr come loro assistenti, l’unico modo che ci resta per poter entrare. Solo con loro potremo adesso varcare le soglie della galera e dei luoghi di accoglienza e respingimento per i migranti, verificarne le condizioni, portare un po’ di speranza a quella comunità e arricchirci della sua umanità. A tutti i parlamentari e consiglieri regionali - è l’appello dell’associazione - chiediamo in questi giorni di festa di contattarci e organizzare insieme le visite nei luoghi di detenzione. noi che siamo persone libere, fateci entrare in galera per trascorrere la fine dell’anno con chi non lo è. Sarà un nuovo anno anche per voi”. Trapani: la parlamentare Occhionero in visita alla Casa circondariale trapanioggi.it, 31 dicembre 2018 La deputata di LeU ha visitato i reparti parlando anche con i detenuti. Visita ispettiva alla Casa Circondariale “Pietro Cerulli” di Trapani da parte della parlamentare nazionale Giuseppina Occhionero, eletta alla Camera dei Deputati nella circoscrizione Molise e appartenente al gruppo Liberi e Uguali. Accompagnata dal comandante di reparto della Polizia Penitenziaria del carcere trapanese, il commissario capo Giuseppe Romano, la deputata ha visitato, per circa quattro ore, alcuni reparti detentivi e si è anche soffermata a parlare con i detenuti che hanno avuto modo di esprimersi evidenziando anche le problematiche della loro vita carceraria e personale, spesso legate - queste ultime - alla lontananza dai familiari. “A fine visita - si legge nella nota stampa diffusa dalla Casa Circondariale - l’onorevole Occhionero ha sottolineato come nell’Istituto si respiri un clima sereno, grazie all’impegno e alla professionalità della Polizia Penitenziaria e del direttore”, Renato Persico. Un atteggiamento non solo professionale ma anche umano i cui contorni sono noti anche all’esterno della struttura carceraria trapanese che - come altre analoghe realtà nazionali - si trova a dover fare i conti con le esigenze di sicurezza, da una parte, e quelle di rieducazione dei detenuti dall’altra pur a fronte di oggettive carenze nell’organico della Polizia Penitenziaria. Carenze più volte segnalate sia dalla Direzione della Casa Circondariale sia dai sindacati e che non hanno, fino a questo momento, trovato completa risoluzione. In questa direzione “Giuseppina Occhionero - si legge sempre nella nota stampa - si è impegnata ad intervenire al più presto presso il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria affinché vengano assegnate a Trapani nuove e fresche risorse della Polizia Penitenziaria la cui carenza di organico, tangibile e preoccupante, si aggira intorno alle 60 unità”. Eboli (Sa): incontro migranti-detenuti, la speranza nasce all’Icatt di Filippo Folliero La Città di Salerno, 31 dicembre 2018 “Why can we be friends? The color of your skin don’t matter to me”. “Perché non possiamo essere amici? il colore della tua pelle non m’importa”, è quello che cantavano nel 1975 i War, gruppo statunitense in voga negli anni 70 che con queste semplici frasi snocciolava un concetto che purtroppo nella società di oggi ancora si fa difficoltà ad abbracciare, ovvero quello dell’uguaglianza tra tutti gli individui e dell’integrazione sociale. Proprio in merito a questi temi, nella giornata di venerdì la casa di reclusione dell’Icatt di Eboli ha fatto da scenario all’evento “Non Persone”, organizzato dall’avvocato Paola De Vita nell’ambito del laboratorio trattamentale “Mi rispetto, se ti rispetto”, che ha permesso ai detenuti dell’Icatt di confrontarsi con i giovani migranti dello Sprar di Eboli-Santa Cecilia, che ospita fino a 25 ragazzi, e della comunità alloggio “Obiettivo Futuro”, gestita dalla cooperativa Aries Onlus di Battipaglia, che ospita minori stranieri non accompagnati con percorsi di inserimento scolastico-lavorativo e regolarizzazione di documenti. Tanti ragazzi provenienti da varie parti del mondo (Bangladesh, Pakistan, Gambia) hanno raccontato la loro esperienza e il loro difficoltoso viaggio per raggiungere l’Italia. A collegare tutti gli attori protagonisti di giornata, il documentario “Non Persone”, della giovane regista ebolitana Giulia Monaco, che ha raccontato attraverso immagini forti la dura realtà della rotta balcanica, un viaggio che in tanti compiono per cercare fortuna partendo dai paesi dell’est Europa e di cui purtroppo si hanno poche notizie. “Il mio viaggio mi ha fatto capire quanto siamo fortunati ad essere nati nella “parte giusta del mondo”, a differenza dei ragazzi incontrati che vivono in condizioni che portano a depersonalizzare l’individuo”, spiega la regista ebolitana che per l’occasione ha allestito anche una contestuale mostra fotografica realizzata con i suoi scatti, dall’emblematico titolo “Belgrade - I am a person too”. Il carcere a custodia attenuata, gestito dalla direttrice Rita Romano, non è nuovo a questo genere di iniziative e anche stavolta i detenuti sono stati affascinati, incuriositi ed emozionati dalle storie raccontate dai giovani Sobuj, ragazzo del Bangladesh e Oumar, ragazzo della Guinea, ospiti della comunità battipagliese, che hanno raccontato la loro traversata fino in Libia per poi comprare da lì il biglietto per l’Italia, il paese delle opportunità, il paese dei loro sogni dove “c’è tutto ciò di cui c’è bisogno”, come raccontano gli stessi ragazzi, ancora minorenni al momento del viaggio e costretti ad abbandonare le famiglie per ritagliarsi un futuro migliore. Ai due “battipagliesi” si è unito anche il racconto dell’esperienza di Tijan Bojang, proveniente dal Gambia e oggi diventato mediatore culturale della struttura ebolitana di Santa Cecilia per essersi distinto nei suoi 4 anni in Italia per le sue capacità. A chiudere la giornata, i giovani stranieri dello Sprar di Eboli hanno donato a ciascun ospite dell’Icatt una candela in segno di augurio, accompagnata da messaggi di speranza. Cagliari: ora i detenuti adottano i cani randagi di Nicola Pinna La Stampa, 31 dicembre 2018 Andrea è un detenuto albanese e questo progetto lo sintetizza con una metafora apparentemente brutale: “Noi siamo come quei cuccioli rinchiusi in un canile. Dietro le sbarre viviamo esattamente come loro. Ma se il sostegno di un educatore può portare un cane a iniziare una nuova vita, allora vuol dire che c’è una speranza anche per noi”. L’idea di fondo è proprio questa. E l’aiuto dei cani sembra essere un metodo innovativo. Nel penitenziario di massima sicurezza di Cagliari inizia un progetto che in Italia non ha precedenti: i detenuti potranno vivere fianco a fianco con i cani. Se ne prenderanno cura giorno e notte e insieme faranno un percorso di vita e di recupero. Lungo, evidentemente, quanto la condanna. “Sarà un’occasione strepitosa per creare nuovi rapporti affettivi - riflette con entusiasmo il direttore Marco Porcu. In un luogo in cui le relazioni sono limitate dalla pena, cani e detenuti potranno costruire un legame che di certo sarò di aiuto. Non solo per il reinserimento sociale, ma anche per la creazione di una nuova opportunità di lavoro per chi si appresta a tornare in libertà. Chi sarà selezionato per ottenere un cucciolo in affidamento seguirà anche un corso e così diventerà istruttore cinofilo”. Nel grande giardino del penitenziario di Uta, dove sono rinchiusi anche mafiosi e altri personaggi di spicco della criminalità organizzata, ci sarà uno spazio tutto dedicato ai cani. E per i detenuti sarà un’opportunità preziosa anche per passare qualche ora in più all’aria aperta e per avere un impegno fisso, quasi un lavoro, nelle giornate che dietro alle sbarre diventano interminabili. “Per chi si ritrova da solo all’interno di una cella questa è una strada per il riscatto - dice ancora il direttore del penitenziario - È come se un detenuto potesse costruire una relazione che finora qui non era possibile. Quello tra i detenuti e gli animali, tra l’altro, è un legame solitamente molto forte e non è un caso che alcuni chiedano di incontrare il proprio cane durante il colloquio con i familiari”. Il progetto “Usciamo dalle gabbie” è un esperimento (con precedenti negli Stati Uniti) e si basa su una prova (ben riuscita) fatta a Cagliari nel corso degli ultimi tre anni scolastici. “Oltre alle lezioni classiche abbiamo ospitato degli istruttori cinofili che hanno spiegato ai carcerati come si educa un cane, come si costruisce un rapporto di fiducia e di scambio di sentimenti - racconta Claudia Zito, che all’interno del penitenziario sardo fa da cinque anni la docente di italiano - L’esperienza è stata esaltante, i ragazzi hanno stretto subito un rapporto bellissimo con i cuccioli che sono stati ospitati. L’educatore ha mostrato loro come è possibile recuperare anche animali che dopo aver subito violenza reagiscono con aggressività. E questa è stata una sorta di metafora che ai detenuti ha trasmetto grande ottimismo e molta fiducia”. Alessandro, uno di quelli che hanno seguito le lezioni, di fronte agli insegnanti è stato molto chiaro: “Ve lo dico senza offesa, io vorrei che fosse un educatore di cani ad aiutarmi nel mio percorso di reinserimento”. Ovviamente non sarà così, ma il progetto, che otterrà un finanziamento della Regione per 170 mila euro, consentirà ai detenuti anche di avere un’occasione di lavoro al termine della condanna. “Per questo sarebbe bello che venisse esteso anche ad altre strutture penitenziarie italiane - commenta Anna Maria Busia, avvocato e consigliere regionale che ha inserito il progetto nella legge finanziaria - Per di più questo progetto consentirà di dare una nuova vita a tanti cuccioli che ora vivono in un canile: andranno a vivere in carcere, ma per loro significherà avere un padrone amorevole e un spazio di libertà all’aria aperta”. Addio all’anno dominato dalla democrazia dell’indignazione di Juan Luis Cebriàn* La Stampa, 31 dicembre 2018 L’anno che sta per concludersi ci lascia un mondo peggiore rispetto al suo inizio: diffusione del terrorismo, guerra commerciale, trionfo del populismo, polarizzazione dell’opinione pubblica, demagogia e tendenze autoritarie. La paura della globalizazzione detta l’agenda politica del mondo occidentale, esalta i nazionalismi e diffonde le proteste. La democrazia rappresentativa perde prestigio tra i cittadini e sempre più persone accusano il sistema di essere la causa di tutti i mali che le affliggono e l’ostacolo alla realizzazione delle loro aspettative. Siamo di fronte alla democrazia dell’indignazione, che è anche quella dell’ignoranza. Un fenomeno che il mondo ha già vissuto quasi un secolo fa come conseguenza della crisi finanziaria degli Anni Trenta. Le politiche economiche ortodosse, con i tagli alla spesa sociale, i richiami all’austerità e l’aumento delle disuguaglianze, hanno portato alla scissione tra i liberali e il socialismo democratico, portando alla deriva di queste opposizioni rivoluzionarie e per contro alimentando utopie xenofobe e fasciste. L’Europa e le Americhe sono ora teatro di uno sradicamento rispetto alla loro stessa storia, mentre cresce l’influenza della Cina e la Russia si riarma approfittando della loro debolezza. Nel vecchio continente la Brexit è diventata il paradigma di tutte le minacce. Le forze che minacciano l’Unione non provengono da un nemico esterno ma dal suo stesso nucleo. I partiti oligarchici e le politiche a breve termine hanno finito per aprire spazi alle posizioni estremiste, specialmente a destra. In Francia, in Germania, in Italia, ora in Spagna, crescono di giorno in giorno le voci contro l’immigrazione e, promettendo soluzioni impossibili, suscitano tensioni e accrescono il disincanto. In Europa orientale si riaccende l’autoritarismo, reso di moda dalle “democrature” di Ankara e Mosca, prossime a diventare vere dittature. In Polonia, in Ungheria, nella Repubblica Ceca o in Slovacchia, anche in Romania, che celebra il centenario dell’unità nazionale, le deboli istituzioni emergenti non sono in grado di difendere l’indipendenza e la separazione dei poteri. Nel frattempo, qualsiasi sforzo riformista sembra destinato a fallire. Il multilateralismo perisce e governi soccombono alla dittatura dei mercati, incapaci di regolarli. Gli Stati Uniti d’America hanno archiviato la loro antica leadership. Lasciano la Storia in balia dei nuovi mandarini e preferiscono buttare via migliaia di milioni di dollari per rinforzare muri impossibili, che non possono fermare l’immigrazione clandestina di chi non ha nulla da perdere, piuttosto che investirli nei paesi d’origine per cercare di offrire un futuro agli abitanti. Nel nostro mondo il denaro si sposta a una velocità vertiginosa da una latitudine all’altra, senza barriere o restrizioni, mentre i diseredati non hanno libertà di movimento, anche se a quanto pare la schiavitù è stata abolita da secoli. L’Europa dei lumi e il nuovo continente che aveva illuminato aspirano a diventare fortezze. Incapaci di guidare i popoli, sono determinati a difendersene: la terra è un luogo più insicuro, minacciato da fenomeni naturali spesso causati dall’intervento umano. Speriamo che la capacità di alcuni governanti ci consenta di evitare il rischio che una scintilla fortuita possa accendere un gigantesco falò con conseguenze imprevedibili. Con tutti i suoi difetti la democrazia rappresentativa rimane il male minore, l’unico regime che sia riuscito a concepire l’immaginazione umana per governare in libertà. Contempla non solo la regola della maggioranza, ma anche il rispetto per le minoranze, la separazione dei poteri e la sottomissione alle leggi. Anche il riconoscimento e la difesa dei diritti umani, compresi quelli di chi osa attraversare il Mediterraneo in cerca di rifugio o alla ricerca di una vita migliore. La speranza che prevalga e trionfi è il mio auspicio per il nuovo anno. Poiché non c’è nulla di scritto nella vita dei popoli, spetta a loro stessi emendarsi degli errori e seguire i sogni. *Traduzione di Carla Reschia Il vecchio mondo si è perso nei conflitti di Sergio Romano Corriere della Sera, 31 dicembre 2018 L’ordine mondiale è sempre stato una generosa speranza, vittima di molteplici delusioni. Ma vi sono stati momenti, nella storia degli ultimi settanta anni, in cui sembrava possibile che gli Stati fossero destinati a progredire, anche se con grande lentezza, verso nobili obiettivi: autodeterminazione dei popoli, governi e parlamenti eletti dai cittadini, una economia di mercato corretta da una crescente sensibilità per le classi sociali meno fortunate, una particolare attenzione ai Paesi sottosviluppati e ai loro abitanti più bisognosi, una prudente sorveglianza degli effetti che la crescente industrializzazione stava infliggendo alla salute del pianeta, una organizzazione internazionale capace di comporre le controversie e impedire il ricorso alle armi. Oggi e ormai da qualche anno la bussola del mondo sembra essere impazzita. Vi sono aree in cui si vive con le armi al piede e altre in cui si combatte ormai da qualche decennio. Vi sono larghe zone del mondo in cui l’economia è diventata sempre più finanziaria e quindi speculativa, con il risultato di un crescente divario fra il reddito dei ricchi e quello dei poveri. Vi sono regimi politici che oscillano tra irrazionali manifestazioni di rabbia popolare e l’ascesa di autocrati che rifiutano il controllo democratico e conquistano il potere per conservarlo indefinitamente. Ogni scoperta scientifica o innovazione tecnologica rischia di essere utilizzata per scopi dannosi e inconfessabili. Dopo un lungo periodo in cui sembrava che la fede avesse imparato a dialogare con la ragione siamo tornati a guerre in cui il fanatismo religioso raddoppia il tasso di crudeltà e di ferocia dei combattenti. Non è sorprendente quindi che questo riepilogo dei principali avvenimenti del 2018 contenga un numero preoccupante di crisi e conflitti. La suddivisione fra eventi importanti, sopravvalutati e sottovalutati riflette convinzioni personali ed è quindi molto discutibile. Ho considerato importanti gli avvenimenti che mi sembrano destinati ad avere effetti e conseguenze di un certo rilievo. Ho definito sottovalutate le vicende che a mio avviso potrebbero avere ricadute di cui non tutti sembrano essere consapevoli. E ho definito sopravvalutate quelle che sembrano importanti e che sono invece destinate a essere rapidamente dimenticate. Confesso infine di avere dato particolare rilievo agli eventi che concernono gli Stati Uniti e l’Europa. Le vicende americane mi sembrano particolarmente decisive perché l’uomo scelto dai suoi connazionali per la Casa Bianca nel novembre del 2016 riunisce nella sua persona tutti gli aspetti meno positivi del grande Paese nordamericano: l’inclinazione all’uso della forza, l’unilateralismo, il protezionismo, l’isolazionismo e un senso di superiorità morale che rasenta la xenofobia per divenire, in alcune circostanze, razzismo. Sono caratteristiche incompatibili con la leadership globale esercitata dall’America negli ultimi decenni e sembrano preannunciare un lungo, tumultuoso declino. Ho dato evidenza alle notizie europee perché l’Unione attraversa una fase piena di contraddizioni. L’uscita della Gran Bretagna danneggerà il Regno Unito molto più di quanto danneggi l’Ue, ma potrebbe preannunciare altre secessioni. Il suo rapido allargamento dopo la fine della Guerra fredda, ha dimostrato quale attrazione l’Unione eserciti sui Paesi provati da una lunga dominazione comunista. Ma ci ha dato compagni di viaggio che non condividono le nostre esperienze e i nostri ideali. L’Ue è minacciata dai partiti che detestano il “sistema”, ma in alcune vicende (fra cui il negoziato con la Gran Bretagna, la lotta contro il riscaldamento climatico e la difesa del multilateralismo commerciale), si sta dimostrando, nonostante qualche sbavatura, coerente e fedele ai principi per cui è stata creata. Spero che di queste considerazioni terranno conto gli elettori quando voteranno per il rinnovo del Parlamento europeo nel maggio del 2019. Diminuiranno le guerre non i conflitti dell’economia di Romano Prodi Il Mattino, 31 dicembre 2018 Non so quanto ci si indovini ma, nell’ultimo giorno dell’anno, è quasi obbligatorio cercare di prevedere come sarà il prossimo. Se non altro per prepararsi in anticipo a riflettere sulle cose che poi accadranno. Voglio prima di tutto partire con una nota di ottimismo controcorrente: con ogni probabilità non vi saranno conflitti mondiali e, forse, assisteremo ad una diminuzione di quelli regionali, che pure hanno portato tragedie devastanti negli ultimi anni. Non si può certo parlare di pace in Medio Oriente ma, almeno, stiamo assistendo ad una attenuazione delle tragedie in Iraq e Siria e si apre perfino qualche spiraglio nel conflitto. Una guerra che, pur trascurata dai media occidentali, ha provocato morti e sofferenze che hanno ben pochi termini di confronto. Nulla di nuovo invece nelle eterne tensioni fra Sciiti e Sunniti e fra israeliani e palestinesi, come non vi saranno progressi sostanziali nella lotta contro il terrorismo che, addirittura, non cesserà di espandersi ulteriormente in Africa e, soprattutto, nel Sahel, rendendo ancora più difficili le possibilità di progresso economico di questa regione. Riguardo ai conflitti che più toccano l’Italia il quadro è contrastante: non possiamo che essere felici per lo scoppio della pace fra Etiopia ed Eritrea dopo vent’anni di conflitti ma siamo nel contempo costretti a constatare come i sette anni della guerra di Libia sembrano prolungarsi anche nel 2019, con le conseguenze negative riguardo ai fenomeni migratori verso il nostro Paese. Se i conflitti armati possono avere qualche tregua, la guerra per la supremazia fra Stati Uniti e Cina si intensificherà, puntando non solo sulle tariffe ma operando soprattutto nel campo scientifico e tecnologico. I prossimi scontri riguarderanno in primo luogo le Università e le imprese più avanzate, con reciproche ritorsioni sulle loro attività e sui loro ricercatori. In questo campo ne vedremo di tutti i colori, così come si intensificheranno le tensioni nei confronti dei nuovi dominatori dell’economia mondiale, come Google, Apple, Alibaba, Facebook, Alipay, Tencent, Amazon e gli altri pochi colossi che, accumulando risorse senza precedenti, stanno sconvolgendo la distribuzione della ricchezza in tutto il pianeta, contribuendo in modo sostanziale a frammentare il mondo del lavoro e ad acuire la distanza fra ricchi e poveri. Credo proprio che, nel prossimo anno, le reazioni di fronte a questo processo aumenteranno di dimensione e di intensità, mentre non vedo ancora arrivare la necessaria rivoluzione nel campo ambientale. I vertici di Parigi e di Wroclaw hanno inondato il mondo di parole e di espressioni di buona volontà che non si sono tradotte e non si tradurranno in impegni vincolanti. In mancanza di un’autorità mondiale in grado di imporre nuovi comportamenti, l’inquinamento continuerà infatti a progredire così come continuerà ad aumentare il numero delle centrali elettriche alimentate a carbone. Il 2019 sarà anche l’anno della Brexit e delle elezioni europee. Quanto alla Brexit le previsioni sono incerte: la confusione oltremanica ha raggiunto livelli inimmaginabili ed è ancora difficile dire se vi sarà una rottura violenta o una separazione concordata. Mi espongo tuttavia nell’escludere la prospettiva di una ripetizione del referendum, anche se quest’ipotesi sta prendendo sempre più piede in Gran Bretagna. Penso infatti che la ripetizione di un referendum, che ha visto votare la gran parte dei cittadini dopo un’accesa campagna elettorale, sia un’impresa ardita anche per un paese profondamente pragmatico come la Gran Bretagna. A loro volta le elezioni europee vedranno certo un’ascesa dei partiti “populisti” ma non sufficiente per modificare in modo radicale le strutture di potere, anche se i partiti tradizionali non sembrano in grado di mettere in atto i cambiamenti necessari per rendere le istituzioni europee capaci di rinnovarsi. Se questi partiti non cambieranno i loro comportamenti, la loro scomparsa sarà solo rimandata. Ancora più complicato si presenta il 2019 nei riguardi della politica italiana anche se, probabilmente, le complicazioni si materializzeranno solo nella seconda parte dell’anno. La legge finanziaria ha infatti rinviato molti tra i problemi più spinosi e ben poco potrà essere cambiato prima delle elezioni europee, dopo le quali non solo si definirà un nuovo assetto politico ma dovranno essere affrontate le esistenti incompatibilità fra gli obiettivi e le risorse finanziarie. Un processo complicato perché, più analizzo l’andamento della congiuntura internazionale e le conseguenze dei provvedimenti nazionali, più mi convinco (sempre nella speranza dì sbagliarmi) che la nostra crescita non sarà superiore allo 0,5%, complicando così il raggiungimento dei molti obiettivi previsti dal programma di governo. Fortunatamente, proprio in chiusura di quest’anno, il presidente della Repubblica ha solennemente premiato trentatré cittadini che hanno silenziosamente dedicato la propria vita a servizio degli altri. Speriamo che, come dice la Bibbia a proposito di Sodoma e Gomorra, bastino pochi giusti a salvare la Città. La nostra speranza si accresce perché sappiamo che sono tanti gli italiani impegnati a costruire un nostro migliore futuro. Germania. Guerra alle mafie straniere, la svolta (anche) grazie a una fiction di Sandro Orlando Corriere della Sera, 31 dicembre 2018 Da fine novembre le autorità tedesche hanno definito un piano d’azione ispirato al modello italiano di antimafia. Il successo di una serie televisiva come “4 Blocks”, una sorta di “Gomorra” ambientata a Berlino, trasmessa sul canale Tnt e vista da 2 milioni e mezzo di tedeschi, è un fenomeno che va al di là dell’interesse per una fiction. Perché il protagonista di questa serie, ormai giunta alla sua seconda stagione (e diffusa anche in Italia), il libanese Ali “Toni” Hamady, è il prototipo di criminale ormai diventato di casa nel quartiere-ghetto di Neukölln, dove si svolge il film. “A sud di Hermannplatz, tra la Sonnenallee e la Karl-Marx-Straße, ogni locale è soggetto al controllo di una delle grandi famiglie arabe che si contendono i business illegali della città: droga, prostituzione, gioco d’azzardo, rapine, estorsioni”, spiega una fonte investigativa. La politica ha per decenni ignorato quanto succedeva a pochi chilometri dal Bundestag. Ma l’esecuzione in pieno giorno, lo scorso settembre, del 36enne Nidal Rabih, pluripregiudicato palestinese considerato tra i boss più pericolosi della capitale, ucciso con otto colpi d’arma da fuoco davanti a centinaia di passanti, ha costretto a prendere atto di una realtà che non riguarda più solo Berlino. Anche a Colonia, Duisburg, Essen e Brema, la lotta alle mafie straniere è diventata una priorità. E pone delle domande sulla mancata integrazione delle ondate di profughi curdi, libanesi, palestinesi e siriani, accolti in Germania negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso. Ma soprattutto sull’inefficacia degli strumenti di contrasto, in un sistema federale spesso privo anche di un coordinamento tra organi inquirenti. Ecco perché a fine novembre le autorità di Berlino - città dove si concentrano 12 dei 20 clan arabi operanti in Germania, i Remmo, Abou-Chaker, Miri, Al-Zein ecc. - hanno definito un piano d’azione ispirato al modello italiano di antimafia. Un piano che partendo dal rafforzamento dei controlli amministrativi, fiscali e bancari, punta alla confisca dei beni mafiosi, e a un programma di protezione per chi decide di collaborare, istituendo una “cabina di regia” per la repressione del crimine organizzato. In una maxi operazione di polizia, eseguita nella capitale la scorsa estate, erano già stati sequestrati 78 immobili riconducibili ai Remmo. Un segno che qualcosa sta cambiando, anche grazie a una fiction. Siria. I curdi lasciati soli e l’ipocrisia europea di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 31 dicembre 2018 Che ha da dire l’Europa sulle vicende siriane? Qualcuno ha avuto notizia in questi anni di una proposta europea, di una sua presenza, di una iniziativa convincente? Fa molta rabbia che Donald Trump abbia proclamato il ritiro americano dalla Siria lasciando i curdi, eroi della battaglia contro l’Isis, soli nelle mani del massacratore seriale siriano Assad. Fa molta rabbia questo rigurgito di isolazionismo Usa (peraltro, occorre dirlo, in tragica continuità con la politica debole e ondivaga di Obama in Medio Oriente) che lascia campo aperto ai nemici della democrazia nel mondo, a chi viola con sistematica ferocia i diritti umani fondamentali, e abbandona la democrazia israeliana più vulnerabile nei confronti dei nemici che vorrebbero cancellare la stessa presenza ebraica. Ma è anche spaventosamente ipocrita l’atteggiamento di un’Europa inesistente e inetta che piagnucola se gli Stati Uniti smettono di fare da scudo in loro difesa e sonnecchia in una condizione di totale marginalità politica nel mondo, e di totale impotenza nei confronti dei dittatori lasciati liberi di condurre i loro misfatti. Un’Europa che esistesse come entità politica degna di rispetto dovrebbe sobbarcarsi essa stessa gli oneri della difesa dei curdi e del popolo vessato da Assad, da Erdogan, dall’Arabia Saudita, dall’Iran. Se non fosse così succube della sua ipocrisia dovrebbe dire: dobbiamo smetterla di delegare agli Stati Uniti un compito che noi non siamo in grado di adempiere, dovremmo aumentare le spese militari, rafforzare le nostre forze armate, dare credibilità a una politica estera di cui non si vedono nemmeno i contorni a grandi linee. Niente, solo lamenti puerili. Solo proteste dettate da insipienza, ignavia politica, incapacità di assumersi responsabilità. Che ha da dire l’Europa sulle vicende siriane? Qualcuno ha avuto notizia in questi anni di una proposta europea, di una sua presenza, di una iniziativa convincente? Qualcuno nel governo europeo, tra un altisonante proclama e un altro sulla fedeltà agli imperituri valori europei, ha mostrato un minimo interesse che non fosse quello della massa di profughi in fuga dalla strage siriana? Niente, nessun impegno, nessuna responsabilità, nessun accenno alla costruzione (difficile) di una politica estera e di una (dispendiosa) politica militare. Solo lo stupore per una politica americana sciagurata che lascia soli i curdi, ma svela spietatamente l’ipocrisia dell’Europa. Condannata ancora una volta alla sua irrilevante minorità. Sudafrica. Riecco l’apartheid: “Spiagge vietate ai neri” di Lorenzo Simoncelli La Stampa, 31 dicembre 2018 Guardie private pattugliano il litorale. In migliaia protestano a Clifton. I fantasmi del passato sono riapparsi sulla spiaggia di Clifton, una delle destinazioni balneari più pittoresche di Città del Capo. Un migliaio di manifestanti inferociti ha invaso la spiaggia affollata di turisti e bagnanti per protestare contro la decisione di alcuni residenti della zona di contrattare guardie private per bloccare l’accesso al litorale alla popolazione nera. Un episodio che ha immediatamente richiamato gli anni bui dell’apartheid, quando proprio la spiaggia di Clifton, così come le altre del litorale Atlantico, erano accessibili solo ai bianchi. L’impresa di sicurezza privata ha negato ogni atteggiamento razzista, sostenendo che il divieto di accesso alla spiaggia era stato esteso a tutti, bianchi e neri, per tutelare i residenti delle ville in riva al mare da un presunto stupratore che si aggirava nella zona. La polizia sudafricana ha confermato che ci sarebbe stato un tentativo di violenza sessuale, ma che la vittima sarebbe riuscita a scappare grazie all’aiuto di alcuni bagnanti. In segno di protesta, gli attivisti, che hanno già lanciato su Twitter l’hashtag #OccupyClifton e #ReclaimClifton, hanno sgozzato una pecora sulla spiaggia in un rituale tribale per cacciare gli spiriti del razzismo insediati in quest’area della città. La tensione è salita alle stelle quando, alcuni membri dei partiti politici più radicali, si sono scontrati a muso duro con alcuni dei residenti della zona accusati di voler ristabilire il regime segregazionista bianco. “C’è una strategia di fondo mirata a vietare l’ingresso a noi neri, soprattutto quelli che vengono dalle baraccopoli - accusa Chumani Maxwele, uno degli attivisti che ha movimentato le proteste e lui stesso cacciato dalle guardie private - i bianchi ci odiano e vorrebbero tornare al passato quando potevano usufruire indisturbati delle spiagge”. Dan Plato, il nuovo sindaco di Città del Capo, ha ribadito che “l’accesso a tutte le spiagge della città è pubblico e libero per ogni gruppo sociale e che non esiste alcun progetto di discriminazione nei confronti dei neri”. Secondo quanto affermato da alcuni attivisti che hanno partecipato alle proteste, nella zona, già da tempo, sono in corso discriminazioni nei confronti dei neri, compresi alcuni proprietari di immobili. L’area di Clifton è una delle più care di Città del Capo ed è costituita principalmente da ville con affaccio sull’Oceano Atlantico, i cui prezzi arrivano fino a 3 milioni di euro. Anche il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa possiede una proprietà, a pochi chilometri di distanza da dove è avvenuto il controverso episodio. Molti dei residenti sono cittadini europei che vengono a trascorre le ferie natalizie al caldo dell’estate dell’Africa australe, ma negli ultimi anni è aumentato anche il numero di imprenditori neri che hanno acquistato proprietà immobiliari nell’area. Da mesi, in Sudafrica, è in corso un acceso scontro dialettico sulla proposta della riforma della terra, una misura che mira a ridistribuire parte delle tenute dei latifondisti bianchi alla popolazione nera più svantaggiata. Alla protesta erano presenti anche alcuni membri di Black First Land First, un partito politico che ha come scopo l’occupazione di tutte le zone della città in cui risiede la popolazione bianca, accusata di aver preso con la forza la terra agli indigeni durante la colonizzazione del 1600. Il movimento, consapevole delle tradizionali celebrazioni per l’anno nuovo che si svolgono proprio sulle spiagge di Clifton, ha promesso blitz improvvisi, già a partire dalla Festa per l’Anno nuovo. Bangladesh. La premier Hasina vince le elezioni tra le violenze: almeno 15 morti La Stampa, 31 dicembre 2018 L’opposizione chiede di annullare la consultazione per il rinnovo di Parlamento e governo. Vittoria schiacciante della premier del Bangladesh, Sheikh Hasina, che la conferma per la quarta volta al governo del Paese, in un clima insanguinato da violenze e scontri: almeno 15 i morti. L’opposizione va all’attacco, definisce le elezioni “una farsa” e chiede un nuovo voto tenuto da “un governo neutrale”. Dopo poche ore di scrutinio la coalizione della Lega popolare del Bangladesh, che sostiene Hasina, aveva già ottenuto 61 dei 300 seggi in Parlamento contro solo uno guadagnato dall’opposizione. L’opposizione non ci sta: “Esortiamo la Commissione elettorale a cancellare immediatamente questi risultati”, ha affermato Kamal Hossain, il “padre” della Costituzione del Bangladesh, che a 82 anni è una delle colonne dell’opposizione. “Chiediamo che le nuove elezioni si tengano il prima possibile da un governo neutrale”, ha aggiunto. A capo del governo per dieci anni, Sheikh Hasina, 71 anni, figlia di Sheikh Mujibur Rahman, il primo presidente del Bangladesh, si avvia a stabilire il record del quarto mandato. Deve la sua popolarità alla sostenuta crescita economica degli ultimi anni (con un Pil in aumento di oltre il 6%) ma per i suoi detrattori è un’autoritaria che ha imprigionato la sua principale rivale, Khaleda Zia, icona del dissenso represso con arresti di massa, sparizioni forzate e leggi draconiane per imbavagliare la stampa. Il governo ha annunciato di aver schierato 600 mila agenti di polizia, esercito e altre forze di sicurezza, per garantire il regolare svolgimento delle elezioni. Le organizzazioni internazionali di difesa dei diritti umani hanno però denunciato le misure repressive che hanno creato un clima di paura per scoraggiare i sostenitori dell’opposizione ad andare alle urne. I seggi hanno chiuso alle 16. Gli scontri si sono verificati in molte zone del paese: tre persone sono morte nella zona sudorientale di Chittagong, due nel distretto settentrionale di Rajshahi e due in quello centrale di Cumilla, uno a Cox, uno a Brahmanbaria, uno a Rangamati, uno a Narsingdi e uno a Bogra. L’Associated Press ha ricevuto oltre 50 segnalazioni di intimidazioni e minacce ai seggi, denunciate da sostenitori dell’opposizione, anche se non è stata in grado di verificarle in modo indipendente. Il voto è visto come un referendum sulle tendenze considerate sempre più autoritarie della premier Sheikh Hasina.