Manovra. Ma è offensiva contro i deboli. Le ragioni oggettive dell’inquietudine di Glauco Giostra* Avvenire, 30 dicembre 2018 Alla fine la legge è arrivata in porto, però la politica appare miope di fronte a tanti problemi del nostro Paese e non tiene conto degli ultimi. Pare che i giapponesi non conoscano la parola “ritirata”, evidentemente espressiva di un’idea inaccettabile per quella cultura, e l’abbiano sostituita con il termine Tenshin, che significherebbe “girarsi e avanzare”. Giunti ormai al termine della confusa e deprimente campagna d’autunno riguardante la Manovra economica per il 2019, ci sentiamo decisamente più vicini al Paese del Sol levante: costretti alla ritirata dopo le bellicose minacce all’Europa di non retrocedere neppure di un millimetro dalla linea della spesa in deficit, ci sentiamo raccontare dai capi della coalizione gialloverde la storia di una vincente avanzata verso gli obiettivi perseguiti. Ma da sempre l’auto-narrazione della politica ha con la verità lo stesso rapporto che ha l’esca con l’amo; come purtroppo sa bene chi, per tentazione o per necessità, dopo le affabulazioni ha avuto l’avventura di abboccare al doloroso amo della realtà. Tutto sommato, si potrebbe guardare con un certo sollievo all’epilogo della vicenda finanziaria; e poco importa che il ripensamento in extremis sia dovuto a senso di responsabilità o a puro calcolo politico. È difficile però sottrarsi a meno tranquillizzanti riflessioni se ci spostiamo dal piano dei rapporti con soggetti forti (come sono, appunto, molti degli altri Paesi europei, soprattutto quando si è riusciti nella non facile impresa di averli tutti unanimemente contro) al trattamento riservato agli ultimi: infatti, quando la minacciosa spavalderia, su cui è basata l’attuale azione politica, si scontra contro un potente, il problema è soltanto quello di nascondere le escoriazioni del pugno inutilmente sbattuto sulla pietra; ma quando si dirige contro il frangibile schermo dei diritti degli indifesi, degli underdog cioè dei perdenti, l’effetto può essere devastante. Non solo per loro: ogni regime autoritario nasce sotto forma di inflessibilità verso minoranze senza voce e socialmente poco tollerate (accattoni, detenuti, immigrati, zingari, etnie minoritarie, omosessuali, apostati religiosi o politici), additate come causa di molti dei più allarmanti problemi. I segnali attuali non sono rassicuranti. Basta ricordarne alcuni, per avvertire una certa inquietudine. La popolazione penitenziaria sta tornando ai livelli che ci procurarono l’umiliante condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo “per trattamenti inumani e degradanti” e che sono concausa non marginale del doloroso aumento dei suicidi in carcere: la soluzione sarebbe quella di “costruire nuovi carceri”; soluzione risibile (la storia patria delle “carceri d’oro” insegna), controproducente (come tutti gli organismi internazionali ammoniscono) e comunque tardiva (il problema è drammaticamente attuale, non può attendere lustri). Decine di migliaia di immigrati vengono parcheggiati sul nostro territorio nazionale senza diritti, né risorse, né opportunità: non è difficile prevedere che molti saranno indotti a delinquere per sopravvivere. Con il risultato che alla fine la conseguenza potrà servire a giustificare la causa: non gli diamo né diritti, né risorse, né opportunità perché portano delinquenza. Le ruspe contro gli abusivi e le baraccopoli: operazioni di facciata che si limitano a delocalizzare il problema che non si vuole o non si sa risolvere. L’introduzione del reato di accattonaggio molesto: una sorta di bullismo normativo verso chi ci ricorda con fastidiosa insistenza la disperazione e la miseria. Tutto ciò, naturalmente, nel pieno rispetto della legalità e del principio di uguaglianza, poiché “la legge - spiegava Anatole France - vieta ai ricchi come ai poveri di dormire sotto i ponti e di chiedere l’elemosina”. Alla fine, probabilmente, il nostro campo visivo non sarà più turbato da colpevolizzanti presenze; intirizziti questuanti non busseranno più con petulante insistenza ai finestrini delle nostre tiepide auto; l’arredo urbano non sarà più deturpato da miserevoli giacigli. Nel nuovo, bonificato contesto sociale, non saremo più costretti a provare l’imbarazzo di dover decidere se stendere o no la nostra mano; la protenderemo soltanto, obbedienti e solerti, per consegnare i documenti a una divisa. *Ordinario di Procedura penale, Università di Roma La Sapienza Minori autori di reato. La Garante: “facilitare mediazione e giustizia riparativa” di Teresa Valiani Redattore Sociale, 30 dicembre 2018 L’autorità garante per l’Infanzia e l’Adolescenza, Filomena Albano, invia una serie di raccomandazioni a Parlamento, Governo e Istituzioni “in attesa di una legge che disciplini l’innesto di questa forma di giustizia nel rito minorile”. “Facilitare la diffusione di soluzioni che consentano l’incontro volontario non solo tra i ragazzi che hanno violato la legge e le vittime, ma anche tra due modi di cercare e praticare la giustizia. Da una parte quella tradizionale che punisce e dall’altra quella riparativa che, ad esempio attraverso la mediazione penale, cerca di ricomporre la frattura sociale e, dove possibile, ricucire responsabilizzando. Non si è responsabili per qualcosa, ma verso qualcuno”. Parte da questo intento la serie di raccomandazioni che l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, Filomena Albano, ha inviato in materia di mediazione penale e in generale di giustizia riparativa in relazione ai reati commessi da minorenni “in attesa - sottolinea la Garante - di una legge che disciplini l’innesto di questa forma di giustizia nel rito minorile”. Destinatari delle raccomandazioni sono Parlamento, Governo, ministeri (Giustizia, Interno, Difesa, Istruzione, Economia e Finanze), Regioni, Comuni, Consiglio superiore della magistratura, Scuola superiore della magistratura, Autorità giudiziarie, Consiglio nazionale forense, ordini degli avvocati, uffici e centri di mediazione penale e di giustizia riparativa. “Gli ambiti individuati dall’Autorità garante per segnare la strada per la promozione della cultura della giustizia riparativa in Italia - spiega una nota del Garante - riguardano: le misure per consentire l’accesso in ogni distretto di Corte d’appello di servizi di mediazione penale e in generale di giustizia riparativa; la futura disciplina normativa; le modalità per ricorrere alla mediazione penale; le reti per la giustizia riparativa; sensibilizzazione, formazione e informazione”. Le raccomandazioni formulate da Filomena Albano sono contenute in un volume, scaricabile in formato pdf dal sito dell’Autorità garante dal titolo “La mediazione penale e altri percorsi di giustizia riparativa nel procedimento penale minorile”, frutto di un ciclo di audizioni tenuto nei mesi scorsi con magistrati, avvocati, assistenti sociali, professori universitari e mediatori. Il lavoro ha coinvolto tutti i tribunali per minorenni e le procure minorili in Italia, il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità del Ministero della Giustizia, i centri e gli uffici di mediazione. Mentre è stato annunciato per il 2019 un convegno di approfondimento con la partecipazione di operatori, esperti e cariche istituzionali. La redazione del volume è stata coordinata dalla Garante, Filomena Albano, con il contributo della prof.ssa Claudia Mazzucato, che ha curato il primo capitolo, del prof. Pasquale Bronzo che ha redatto il secondo e della dott.ssa Benedetta Bertolini che ha curato il terzo. “Il coinvolgimento in un reato, o comunque in fatti penalmente rilevanti, di una persona minorenne - scrive la Garante - è quasi sempre espressione di un conflitto: con l’altro, con la società, non di rado con se stessi. Il reato può essere l’apice di una vicenda conflittuale che si protrae nel tempo, sfociando in un atto lesivo dei diritti altrui, oppure può prescindere da una conoscenza pregressa tra le persone coinvolte, costituendo non l’effetto bensì l’origine, la causa scatenante di un conflitto. Autori e vittime minorenni si trovano così, loro malgrado, a condividere un’esperienza che non si conclude con il fatto-reato, ma anzi ha conseguenze sulle loro vite che perdurano anche a lungo nel tempo. Eliminare la dimensione conflittuale che attraversa l’esperienza umana non è possibile. È tuttavia possibile, e necessario, approntare contesti e strumenti che permettano di imparare a riconoscere, affrontare e se possibile superare il conflitto, o perlomeno gestirne le conseguenze, contribuendo a ricostruire un clima di fiducia nell’altro e in sé, nonché a ripristinare la condivisione delle regole e dei valori fondamentali del vivere comune. Questo vale anche a seguito di fatti ‘gravi’, che esulano dalla conflittualità quotidiana. Direi anzi che questo è necessario soprattutto a seguito di simili fatti, di lesività tale da rendere necessario l’intervento pubblico del sistema giustizia”. “Il sistema penale classico guarda al passato perché ricostruisce il reato e produce prove che il giudice utilizza per emettere la sentenza - conclude Filomena Albano. In tal modo cristallizza fatti e ruoli. Cristallizza persone. Il percorso di giustizia riparativa guarda al futuro, restituisce alle persone coinvolte il senso della propria dignità e unicità, rimettendo in moto la loro storia. L’auspicio è che sempre di più e a beneficio di tutte le persone di minore età coinvolte in fatti penalmente rilevanti, quale che sia la veste che ricoprono, venga favorito l’accesso a strumenti capaci di dare spazio e parola al conflitto e al suo bisogno di essere anzitutto accolto, per poter essere realmente superato”. Chi l’ha visto? Il caso Woodcock è sparito nel nulla di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 30 dicembre 2018 È calato un silenzio tombale sull’attività della Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura. Da settimane, ormai, non si hanno più notizie dei numerosi procedimenti a carico delle toghe che non erano stati definiti per tempo nella scorsa consiliatura. Un silenzio che, almeno in parte, può essere giustificato dalla necessità di trovare un “equilibrio” fra i componenti della sezione, presieduta dal vice presidente David Ermini e di cui fa parte Piercamillo Davigo. Molti i casi scottanti che si trascinano stancamente da diversi anni. Il più eclatante riguarda certamente la vicenda del pm napoletano Henry John Woodcock, titolare insieme alla collega Celestina Carrano di uno dei filoni dell’inchiesta ‘ Consip’. Ai due magistrati viene contestato l’interrogatorio del manager fiorentino ed ex consigliere economico di Palazzo Chigi, Filippo Vannoni. Indicato dall’ex ad di Consip, Luigi Marroni, come uno dei soggetti che lo informarono dell’indagine in corso da parte del Noe, Vannoni chiamò in causa l’allora sottosegretario Luca Lotti e i vertici dell’Arma, i generali Tullio Del Sette ed Emanuele Saltalamacchia. Vannoni venne ascoltato alla vigilia di Natale del 2016 dai due pm napoletani come persona informata dei fatti, cioè come testimone, senza quindi l’assistenza di un difensore. Secondo la Procura generale della Cassazione che ha esercitato l’azione disciplinare c’erano, però, già allora gli elementi per iscriverlo nel registro degli indagati, cosa che poi fecero i pm romani quando il fascicolo venne trasmesso nella Capitale per competenza territoriale. Averlo sentito come testimone senza il legale di fiducia avrebbe dunque “leso le sue garanzie difensive”. Dopo numerose udienze in cui sono stati ascoltati i vertici delle Procure di Napoli e Roma, i carabinieri del Noe e anche la giornalista di Repubblica Liana Milella, resta da decidere la data per la discussione finale. Un procedimento disciplinare con tempi già in linea con il futuro processo eterno è però quello a carico di Michele Emiliano, in attesa di una pronuncia dal lontano 2014. Il governatore pugliese è accusato di essersi iscritto al Pd in violazione della norma che impedisce ai magistrati l’iscrizione ai partiti politici. L’iscrizione di Emiliano al Pd risale addirittura al 2007. Solamente ad ottobre del 2014, dopo un’istruttoria durata ben undici mesi, il procuratore generale della Corte di cassazione ha chiuso le indagini sulla toga pugliese, chiedendo al Csm la fissazione dell’udienza di discussione. Il fascicolo è così giunto, ad agosto del 2016, alla segreteria della Sezione disciplinare del Csm. L’udienza a carico di Emiliano era stata inizialmente fissata per febbraio 2017. Poi fra rinvii, cambi di difensore, conflitti di legittimità davanti la Corte costituzionale, si è giunti alla fine del 2018 senza una pronuncia definitiva. Altra vicenda di cui si sono perse le tracce riguarda quella del pm Davide Nalin, collaboratore del consigliere di Stato Francesco Bellomo nella scuola di formazione giuridica “Diritto e scienza”. Nalin è accusato di aver fatto da “mediatore” tra Bellomo e una borsista, per procurare “indebiti vantaggi”, anche di “carattere sessuale”. Il magistrato avrebbe prospettato alla giovane che se non avesse dato seguito alle richieste di Bellomo, come quella di mandargli una foto intima o di definire il periodo in cui passare insieme le ferie estive, avrebbe commesso reati che le avrebbero impedito di partecipare al concorso in magistratura. L’allora pg Pasquale Ciccolo aveva parlato di “clima di soggezione psicologica” subito dalle studentesse che ambivano ad entrare in magistratura “per la sottoposizione a continue vessazioni anche di carattere sessuale”, e “lo stravagante se non aberrante regolamento (ndr, il “dress code” per le stagiste voluto da Bellomo: tacco 12, minigonna, ecc.) di cui Nalin era a conoscenza”. Spostandoci in Sardegna, un altro fascicolo che si trascina per inerzia da anni è quello che riguarda il procuratore aggiunto di Cagliari Gilberto Ganassi, esponente storico di Magistratura democratica, accusato di aver mandato al Csm le intercettazioni con un imprenditore dell’allora procuratore di Nuoro (e ora di Ferrara) Andrea Garau, quando nel 2016 correvano per la poltrona di procuratore del capoluogo sardo. Anche in questo caso, fra rinvii vari e ricusazioni di componenti della sezione disciplinare, si è arrivati ad oggi senza un calendario per le successive udienze I tempi del processo disciplinare, dunque, ben si attagliano a quelli (tanto vituperati dalle toghe stesse) del processo ordinario. Solo che in questo caso le parti in causa, oltre all’incolpato, sono solo magistrati: chi giudica, chi accusa, chi difende. Lucca: ucciso in cella dalla burocrazia di Claudio Capanni La Nazione, 30 dicembre 2018 Il Tribunale di Sorveglianza attendeva nuovi documenti. A giocargli un ultimo macabro scherzo, potrebbe essere stata la burocrazia. Massimo Tamagnini, ex operaio 55enne originario della Garfagnana (Lucca), trovato morto nella sua cella del carcere San Giorgio di Lucca, il giorno di Santo Stefano dagli agenti della Penitenziaria, avrebbe potuto già essere fuori dal carcere. Ben prima degli 8 mesi di pena che ancora gli restavano da scontare per reati contro il patrimonio. E, forse, curare in maniera più adeguata le complicanze di quella malattia metabolica cronica di cui era affetto. A dirlo sono le date del “dialogo” aperto tra il Consiglio di Disciplina del carcere di Lucca e il Tribunale di Sorveglianza di Firenze. Dopo due richieste di revoca della custodia cautelare avanzate dall’uomo e respinte, la terza sarebbe potuta andare a buon fine. Tutta questione di una relazione sanitaria mancante o comunque giudicata non adeguata. A richiedere il trasferimento ai domiciliari del 55enne, infatti, due mesi fa era stato proprio il carcere stesso. I motivi: la buona condotta di Tamagnini che stava scontando un anno e 10 mesi. E forse, anche il suo quadro clinico compromesso da elevati valori di glicemia nel sangue e un problema al fegato. Per questo l’organo di vigilanza ne chiedeva il trasferimento a casa dai familiari, vicino ai quali scontare gli ultimi mesi di pena. La domanda era arrivata sul tavolo del Palagiustizia di Firenze a metà novembre. Ma ancora una volta, nei fatti, venne respinta. Anzi rinviata. Perché? La ragione sarebbe tutta burocratica. Nelle carte fornite dal carcere all’esame del tribunale si parlerebbe di problemi di salute dell’uomo ma senza fornire un’adeguata relazione medica che ne certificasse la gravità. In poche parole: senza sufficienti prove mediche, l’uomo è rimasto in cella, dove ha passato l’ultimo Natale della sua vita, lontano dalla famiglia. Senza quel pezzo di carta, il giudice ha chiesto un’integrazione al San Giorgio da presentare nelle prime settimane di gennaio. Una data alla quale Tamagnini non è mai arrivato. Il suo cuore ha smesso di battere pochi giorni prima probabilmente, come sarebbe emerso da un primo esame, per un’emorragia cerebrale. Una fatalità? Ieri, lì vicino alla terza sezione dove era recluso l’uomo, è arrivata la visita del senatore Pd, Andrea Marcucci e del consigliere regionale dem, Stefano Baccelli. Entrambi hanno ‘bocciato’ la struttura del penitenziario, dove, dopo la notizia della morte, i detenuti hanno dato vita a una protesta. “È vecchia - ha commentato il capogruppo in Senato del Pd - e i reclusi possono fare pochissime attività: può diventare in qualsiasi momento una polveriera. Per questo è inconcepibile che la nuova area ristrutturata ed arredata sia ancora non utilizzata”. Nel mirino del senatore la nuova ala (non detentiva ma dedicata ad attività culturali) realizzata di recente con 900mila euro ma tuttora sigillata. “Presenterò subito - ha aggiunto - un’interrogazione al ministro della Giustizia”. Ieri anche Michelle, figlia dell’uomo si è sfogata: “Mio padre - ha detto - non avrebbe dovuto essere in carcere. Aveva il diabete e lì non c’era la dieta adatta”. A stabilire le cause esatte della morte di Tamagnini, entro 60 giorni sarà il verdetto dell’autopsia disposta dal sostituto procuratore Antonio Mariotti ed eseguita venerdì all’obitorio dell’ospedale Campo di Marte di Lucca. L’uomo, domani, sarà seppellito a Castelnuovo, nella sua Garfagnana. La procura ha anche richiesto l’acquisizione dei rapporti e dei verbali della polizia penitenziaria. L’obiettivo è capire se ci sia un nesso tra le gravi patologie, tra cui il diabete, e il regime carcerario a cui era sottoposto l’uomo. E, se a casa, avrebbe potuto curarsi in maniera più adeguata, evitando quella morte solitaria nella sua cella. Dalla quale sperava di uscire per il giorno di Natale. Vivo. Lucca: “Mio padre doveva uscire da lì”. Rabbia per il detenuto morto in carcere La Nazione, 30 dicembre 2018 Il ruolo che si era ritagliato tra le pareti del San Giorgio, è quello che in gergo si chiama “porta-vitto”: colui che distribuisce i pasti agli altri detenuti. Gli stessi che, a Massimo Tamagnini, ex operaio 55enne originario della Garfagnana, si erano affezionati. L’uomo che in passato aveva lavorato anche al Molino Maionchi nella periferia di Lucca, era malato cronico da tempo. Tra le patologie che lo affliggevano c’era il diabete e un problema al fegato. Entrambe le patologie avrebbero causato anche un aumento dei livelli di ammoniaca presenti nel sangue. Per questo motivo, durante la sua detenzione per una somma di reati contro il patrimonio, era stata chiesta almeno tre volte la misura alternativa al carcere, cioè il trasferimento ai domiciliari. Dove però Tamagnini non è mai arrivato. Il corpo dell’uomo, dopo l’autopsia eseguita venerdì all’obitorio del Campo di Marte, è stato restituito alla famiglia e sarà seppellito lunedì alle 11 nel cimitero di Castelnuovo in Garfagnana, il funerale si terrà nella chiesa del rione Santa Lucia. Intanto la famiglia si è stretta nel dolore. Poche parole di rabbia e rimpianto sono uscite dalla bocca della figlia dell’uomo, Michelle. “Le condizioni di mio padre - ha detto, come riporta Lucca in Diretta - non erano compatibili con la permanenza in carcere. Era malato di diabete e al San Giorgio non poteva essere adeguatamente curato perché non c’era dieta adatta, poi aveva una cirrosi epatica e altri sintomi che ne rendevano ancor più dura la vita dietro le sbarre”. A stroncarlo, come è emerso da un primo esame potrebbe essere stata un’emorragia cerebrale. Il suo caso è già finito in Parlamento. Oltre al senatore Pd, Andrea Marcucci,che ha annunciato un’interrogazione, la voce è stata alzata anche da Forza Italia. “Ho presentato - ha detto il deputato di Forza Italia, Pierantonio Zanetti - una interpellanza al ministro Bonafede sulla morte nel carcere di Lucca che reputo assai inquietante e meritevole di approfondimento”. Alzata di scudi anche dall’Associazione vittime della strage dei Georgofili. “Seguiremo il caso del detenuto morto - ha detto la presidente Giovanna Maggiani Chelli - e aspetteremo che la magistratura chiarisca perché un detenuto malato cronico sia morto in cella mentre non riusciamo a comprendere come mai delinquenti criminali legati a Cosa nostra stragista, a volte detenuti al 41 bis, godano di scarcerazioni, domiciliari e ricoveri in ospedali d’eccellenza”. Lucca: Marcucci (Pd) “nel carcere chiusa la sezione di socializzazione” Gazzetta di Lucca, 30 dicembre 2018 “È incredibile che una intera sezione del carcere riservata alla formazione e alla socializzazione sia chiusa per problemi organizzativi. Presenterò subito una interrogazione parlamentare al ministro della Giustizia”. Così il presidente dei senatori del Pd Andrea Marcucci, accompagnato dal consigliere regionale Stefano Baccelli, uscendo dal carcere San Giorgio di Lucca, penitenziario dove il 26 dicembre è morto per cause naturali un detenuto, provocando l’immediata reazione di tutta la popolazione residente in carcere. “Una struttura vecchia - sottolinea il capogruppo dem - dove i reclusi possono fare pochissime attività, può diventare in qualsiasi momento una polveriera. Per questo è inconcepibile che la nuova area ristrutturata ed arredata sia ancora non utilizzata. Continuerò a seguire attentamente la vicenda, e chiedo formalmente che anche il garante per i diritti dei detenuti ed i comuni di Lucca e Viareggio monitorino la situazione”. Venezia: la Camera penale denuncia “persone arrestate esibite in manette” di Gianluca Amadori Il Gazzettino, 30 dicembre 2018 “Le persone private della libertà personale non possono essere esibite a mo’ di testimonials pubblicitari: non vi è nulla di spettacolare nello stato di costrizione fisica di una persona, che deve sempre e comunque avvenire nell’assoluto rispetto delle regole”. È una dura presa di posizione sul fronte dei diritti umani quella che la Camera penale veneziana affida ad un documento pubblico, firmato dal Direttivo e dalla presidente, Annamaria Marin, nel quale viene contestata la pubblicazione, da parte della Questura di Venezia, del video che ritrae l’arrivo all’aeroporto di Tessera, lo scorso 20 dicembre, di tre dei presunti responsabili del clamoroso furto a Palazzo Ducale, estradati dalla Croazia, dove sono stati arrestato lo scorso autunno. Documento trasmesso anche al Procuratore Capo di Venezia, Bruno Cherchi, e al presidente della sezione Gip del Tribunale, Luca Marini. Spettacolarizzazione - “Da tempo l’Unione delle Camere Penali Italiane denuncia il carattere inopportuno, ove non addirittura illecito, della diffusione di filmati relativi ad attività di Polizia nei quali vengono divulgate immagini di arresti o di traduzioni di persone in vinculis - scrive l’associazione che riunisce gli avvocati penalisti della provincia di Venezia - Trattasi di filmati, infatti, privi di qualunque motivo di interesse pubblico diverso dalla mera spettacolarizzazione delle vicende giudiziarie e di qualunque fine di Giustizia e di Polizia”. Codice violato - La Camera penale veneziana denuncia che tali filmati, ove ritraggano persone ammanettate, costituiscono violazione dell’articolo 114 del Codice di procedura penale. E nulla cambia a seguito della cosiddetta pixellatura o sfuocatura delle manette, “giacché il divieto di pubblicazione posto dalla norma non si riferisce ai soli strumenti di coercizione, ma al più generale stato di costrizione della persona detenuta”. I penalisti contestano “l’inopinata attività di ripresa, montaggio e diffusione di siffatti spot pubblicitari” anche sotto un ulteriore aspetto, ovvero perché “finisce per sottrarre inevitabilmente risorse umane all’attività di presidio del territorio e comunque alle attività istituzionali cui le Forze di Polizia sono deputate”. Trailer giudiziari - Nel denunciare “il carattere inutilmente denigratorio dei trailer giudiziari, in cui la costrizione fisica serve solo a veicolare il, purtroppo sempre più diffuso, voyeurismo giudiziario, che rappresenta una delle più preoccupanti degenerazioni del cosiddetto processo mediatico”, gli avvocati penalisti sollecitano i vertici dell’autorità giudiziaria veneziana “a vigilare ed impartire le più opportune direttive affinché sia impedito che i diritti fondamentali delle persone sottoposte a mezzi di costrizione siano lesi dalla pubblicazione di video raccolti a fini promozionali da parte delle Forze di Polizia, non connaturati alla funzione attribuita alle stesse”. E invita i direttori dei quotidiani e delle testate online a vigilare “affinché tali video non vengano pubblicati e diffusi, non solo perché vietati dalle disposizioni del codice di procedura penale, ma soprattutto perché costituiscono una grave violazione dei diritti. Il video sull’Operazione Ponte dei sospiri, postato sui rispettivi siti da molte testate giornalistiche, è costruito con grande cura: con il sottofondo di una musica accattivante, ritrae inizialmente i mezzi di polizia arrivare all’aeroporto; quindi gli indagati fatti scendere dalla scaletta di un aereo e, scortati da agenti, condotti prima in Questura e poi in carcere. Il tutto con dettagli ripetuti di auto e motoscafi, lampeggianti e scritte polizia. Salerno: i Radicali “dalla parte degli ultimi con la pena fino alla morte” di Donato Salzano La Città di Salerno, 30 dicembre 2018 Intervento sulla triste vicenda del povero Aziz. Gentile direttore, ho seguito con attenzione dalle colonne del tuo giornale la triste vicenda del povero Aziz. La vostra discussa e sofferta scelta redazionale, la tua impeccabile deontologia professionale e quella della collega Barbara Cangiano. Tu sai benissimo che ieri e oggi la tua amica Rita Bernardini, rimasta orfana di Marco Pannella, e il Partito Radicale insieme alla Chiesa per i poveri di Papa Francesco siano gli unici in questo Paese che si preoccupano degli ultimi tra ultimi fuori e dentro le carceri come Aziz. Il miei amici don Petrone e l’avvocato Rosario Fiore (il difensore che garantisce più di tutti da sempre il diritto alla difesa) ben conoscono la mia storia politica di militante Radicale per i Diritti Umani e la mia lotta intransigente per il Diritto. Senza minimamente voler entrare nel merito della vostra scelta di pubblicare la foto che tanta discussione ha sollevato e tanto scandalo ha procurato, capisco però da credente le ragioni di don Rosario. Ma diversamente vorrei provare a focalizzare l’attenzione dei tuoi lettori su cosa possono avere in comune il triste destino di Aziz Halimi e di tantissimi nelle illegali carceri italiane, prima di tutto di non dover essere per nulla più illegalmente reclusi, di non dover subire più la tortura di una detenzione inumana e degradante. Possono e devono aver diritto con automaticità ad una pena alternativa (cosa che aveva ottenuto Aziz immagino invece con anni di tribolazione da un riottoso Tribunale di Sorveglianza nonostante la sua estraneità ai fatti per cui era stato condannato), ma pure la Corte Costituzionale e la Corte di Cassazione a sezioni unite si è già espressa in merito recependo la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo detta “Torreggiani” del 2013, che obbliga appunto il governo italiano a rimuovere le condizioni di sovraffollamento nelle carceri che determinano la detenzione disumana. Morale della favola, né il governo dei buoni a nulla di Gentiloni-Orlando ha voluto e saputo portare fino in fondo la riforma delle pene alternative, figurarsi il governo Salvini-Di Maio-Bonafede dei capaci veramente di tutto, che orgogliosamente ha bloccato i decreti attuativi, hanno dato seguito all’obbligo prescritto dalla Cedu. In 65 per questo 2018 (ultimo Aziz) hanno deciso di liberarsi da questa detenzione inumana e degradante suicidandosi, perché da tempo in Italia non c’è la pena di morte, ma è stata introdotta la pena fino alla morte. Così amava sempre ripetere Marco Pannella: “Dove c’è strage di diritto, lì c’è strage di popoli”. Voglio continuare nonostante tutto ad essere speranza per regalarne ad altri anche nel nuovo anno che sta per arrivare. Spes contra spem! Modena: progetto Peter Pan, per costruire legami tra detenuti e figli Gazzetta di Modena, 30 dicembre 2018 Giochi, spettacoli e incontri per ricostruire i rapporti tra figli e genitori detenuti. Le attività rientrano nel progetto Peter Pan, promosso dal gruppo Carcere-Città al Sant’Anna. “Vogliamo guardare la pena dal punto di vista dei bambini”, la sfida rilanciata da Paola Cigarini, referente della realtà solidale modenese nata oltre trent’anni fa. Una missione non facile, che riguarda 100mila bambini in tutta Italia. “Molte volte i genitori tendono a dire che ci pensa qualcun altro - ha ripreso Cigarini - e noi con le nostre iniziative cerchiamo di riportare al centro la responsabilità, il desiderio di essere padri. Faremo ancora incontri con piccoli gruppi di scrittura e di elaborazione di pensieri, creando ascolto e partecipazione. Telefonare è difficile e spesso serve l’ambasciata”. Tra le iniziative da sottoporre alla nuova direzione “un collegamento Skype per i colloqui, soprattutto con la famiglia”, come spiegato dalla referente. Carcere-Città è presente da tempo al Sant’Anna con lo Spazio Giallo. Un luogo in cui i familiari possono ingannare l’attesa prima di parlare con i cari. “Cerchiamo di creare contesti i più normali possibili - ha aggiunto la volontaria Cristina Franchini - in cui i bambini possano trovare situazioni simili ad altri luoghi, come gli scout e i gruppi di sport. Vogliamo coinvolgerli non tanto con i giocattoli, ma con attività in cui creino loro i giochi. Per esempio, quest’anno hanno fatto decorazioni di Natale, abbellendo gli spazi che purtroppo devono frequentare e portando i lavoretti ai genitori. Nelle feste, ogni famiglia ha uno spazio a disposizione. I bambini possono godere della presenza fisica dei genitori. Vogliamo coinvolgerli sempre di più, creando un piccolo spettacolo e nuovi giochi”. Per Natale, i volontari hanno portato cinquanta panettoni ai detenuti. Il 30 novembre la Camera Penale Perroux di Modena ha sostenuto il progetto con una cena alla Mensa Ghirlandina, in cui sono stati raccolti 940 euro. “Ringraziamo i soci, i cittadini e la Fondazione Auxilium”, è intervenuto l’avvocato Gianpaolo Ronsisvalle, delegato del Consiglio direttivo dell’Osservatorio Carceri. “Siamo lieti di dare il nostro contributo a un progetto lodevole - ha ribadito l’avvocato Sara Pavone, referente dell’Osservatorio - perché porta l’attenzione al detenuto come persona, portatore d’interessi e titolare di diritti”. “Purtroppo ci sono circa sessanta detenuti per ogni educatore - ha ripreso Ronsisvalle - per cui non si riesce quasi mai in un percorso individualizzato”. Catanzaro: Angelo, ex detenuto alla ricerca del tempo perduto di Francesco Ciampa Redattore Sociale, 30 dicembre 2018 “Un peso che resterà sempre dentro di me”: così definisce il tentativo di uccidere la moglie. Centrale il valore del tempo, “un tesoro che non va sciupato”, dice a proposito del suo percorso di rinascita, come quello al carcere di Bollate, tra musica, lavoro artigianale e scrittura. Angelo, 64 anni, un passato da detenuto e un presente da volontario per un’associazione impegnata in Calabria sul fronte della mediazione familiare e penale. Una laurea in sociologia conseguita alla “Sapienza” di Roma, oggi - sottoposto a misura alternativa - dà una mano come sociologo per la realizzazione di uno studio volto a comprendere come le persone detenute, minorenni e adulti, vivono l’esperienza di restrizione della libertà personale, come immaginano il loro futuro, cosa pensano di loro stessi e del loro operato, cosa pensano delle loro vittime e delle possibili forme di mediazione. Insomma: Angelo ora è dall’altra parte della barricata. Questa nuova strada, spiega, è la naturale prosecuzione di un “percorso interiore e di riflessione” per fare i conti con un passato che non potrà mai essere del tutto cancellato. “Ho fatto una cosa che non dovevo fare, il peso di quanto è accaduto resterà per sempre dentro di me”, dice ricordando le ragioni per cui è finito in galera: la tentata uccisione della moglie, per cui è stato condannato con sentenza definitiva arrivata nel 2011 a quattordici anni di carcere, poi ridotti a sei anni e otto mesi anche per effetto dell’indulto. Per la costruzione di una nuova vita da persona quasi libera gli studi di sociologia - “anche se mi hanno aiutato a comprendere il microcosmo sociale del carcere”, afferma -, sarebbero c’entrati poco. Come poco sono contati nella sua vita precedente: le statistiche, del resto, ci dicono che la violenza sulle donne è un fenomeno trasversale che prescinde dal tipo di istruzione e dal ceto sociale di appartenenza. “Al di là della professione, prevale l’uomo: siamo prima di tutto uomini, con pregi e difetti - dice infatti Angelo -. Il mio è stato un percorso personale, introspettivo, non pensavo al fatto di essere sociologo, come un medico non pensa sempre alla medicina. E poi, per natura, sono portato a vedere il bicchiere mezzo pieno…”. “Dentro di te” è, non a caso, il titolo di una canzone che Angelo ha scritto dal carcere di Bollate, a Milano, dove è stato per oltre quattro anni. Il brano - presentato e trasmesso dal minuto 28,00 su Radio Popolare per il programma Jailhouse Rock condotto da Patrizio Gonnella e Susanna Marietti, dell’associazione “Antigone” - “descrive la sofferenza di chi vive in carcere, ma dà anche un messaggio di speranza”. Il testo contiene frasi che sono lo specchio della “filosofia” seguita da Angelo per scrivere le nuove pagine della sua vita. A partire dalla vita in carcere. “Dentro di te c’è il bene e il male. Ricordalo sempre, non lo scordare”: questo il primo motto. Un invito a guardarsi dentro per agire con consapevolezza. Parlare a noi stessi e con agli altri, è il suo messaggio: “Io tenevo tutto dentro, non parlavo. E ho combinato quel che ho combinato… Bisogna parlarsi”, suggerisce Angelo in questa intervista per Redattore Sociale, citando il consiglio dato a un amico sentendolo litigare con la moglie e rivivendo per un attimo le scene del suo (indelebile) passato. “Cerca la chiave nella tua vita, dentro di te”, è l’altro appello della canzone. E ancora: “Vivi il tuo tempo, il tuo tesoro, non lo sciupare”. Dunque, trovare le risposte della rinascita dentro noi stessi, impiegando al meglio il nostro tempo, coltivando i nostri talenti: questa la via di uscita, la risposta resiliente sperimentata da Angelo. “Carcere o non carcere, il tempo è la nostra ricchezza”, spiega in questa intervista il testimone diretto di questa storia. “E se il tempo non lo sprechi stando su una brandina a guardare il soffitto, trai dei vantaggi”. Le ore, i minuti, i secondi che Angelo trascorre come detenuto sono contrassegnati da tante cose, oltre il vuoto del nulla. Del periodo in carcere a Paola, in Calabria, l’uomo ricorda poche iniziative, tra queste il lavoretto come bibliotecario e gli studi all’Alberghiero. Mentre, a suo dire, ben altra storia è quella di Bollate. Durante il periodo nel carcere milanese, coordina il laboratorio di arte e cuoio insegnando alle altre persone detenute i segreti della lavorazione della pelle e del cuoio, che è poi il mestiere di cui oggi Angelo vive e il lavoro di un altro suo amico ex ospite della Casa di reclusione. “Condividere il mio tempo e la mia esperienza con gli altri mi ha aiutato”, dice ancora. Dopotutto, l’insegnamento è stato una parte importante del suo passato come docente alle scuole superiori. Sempre a Bollate, Angelo pratica e insegna la musica come bassista. Inoltre canta, soprattutto i cantautori italiani. De André tra i preferiti: lo fa in una sala d’incisione dell’istituto penitenziario, ma anche fuori, come quella volta a Pero, nel Milanese, al concerto per la Caritas, o in collegamento settimanale con Radio Popolare. E non manca la scrittura: gli articoli per “Carte Bollate”, il periodico d’informazione del carcere lombardo, con contributi di vario tipo, come quelli in tema di antropologia culturale. “Queste esperienze - scandisce Angelo - mi hanno aiutato a migliorare il mio spirito di osservazione, a guardare gli altri con più attenzione. Mi hanno aiutato a riflettere e a guardare meglio dentro me stesso”. Il valore del tempo vissuto appieno nel periodo della reclusione e il tempo del volontariato dopo, sono dunque la “chiave” interiore per aprire la porta della libertà. Fermo restando che “il vero carcere è quello nella nostra testa”. Airola (Bn): festa organizzata dall’Associazione Ciro Vive per i detenuti dell’Ipm di Franco Falco deanotizie.it , 30 dicembre 2018 Si è svolto ieri mattina l’evento dedicato ai ragazzi dell’Ipm (istituto penitenziario minorile) di Airola (Bn), organizzato dall’Associazione Ciro Vive, presente Antonella Leardi, con i personaggi di Radio Marte, Gigio Rosa e Gigi Soriani. La festa, organizzata nel teatro dell’istituto, ha coinvolto i ragazzi presenti, che hanno ballato e si sono scatenati sulle note del Vip Party, il fortunato format-show dei due marziani, che da alcuni anni imperversa in locali, piazze, feste ed eventi. Ai ragazzi, anche numerosi omaggi dall’Associazione Ciro Vive, tra cui prodotti ufficiali a marchio SSC Napoli, magliette ed altro ancora. Antonella Leardi, ha parlato più volte ai ragazzi (oltre a condividere con tutti loro, uno speciale momento di preghiera), rapiti dalle sue parole, rafforzate purtroppo dai recenti fatti di San Siro, strappando promesse di future visite ed iniziative. Emozionati e soddisfatti lo speaker Gigio Rosa e il dj Gigi Soriani: “È stata la nostra prima volta in un istituto di pena, l’emozione è stata fortissima, ma vedere sorrisi intorno a noi, ci fa venir voglia di tornarci al più presto. Questi ragazzi hanno bisogno di credere nel domani e, vivere un momento di leggerezza come quello di questa mattina, non può che aiutarli”. Lo show di Gigio Rosa e Gigi Soriani, supportato dalle installazioni audio di Jepy, ha incluso tracce reggaeton, trap, house oltre alle classiche più amate dai tifosi del Napoli, la cui presenza tra i ragazzi era ben rappresentata. Migranti. Il 2018, l’anno del rancore: dai porti chiusi al decreto Salvini di Eleonora Camilli Redattore Sociale, 30 dicembre 2018 Il 2018 che si sta per chiudere è stato l’anno in cui l’Italia ha registrato il numero minimo di arrivi via mare, eppure il tema migratorio ha polarizzato il dibattito pubblico e politico. È stato l’anno del pugno duro e del decreto sicurezza, che ha modificato le regole di protezione e accoglienza. La foto di Emran, 14 anni, con le guance rigate di lacrime e gli occhi gonfi, che a bordo di Open Arms, piange chiedendo di avvisare sua madre e di dirle che lui ora è al sicuro, dopo essere scappato dall’inferno libico. Il pianto di Sam, salito su un barcone ad appena due giorni di vita. Lo sguardo di Nasreen e di suo figlio Zizou, sul ponte della nave Sea Watch 3, sereni ma ancora in attesa di sapere quale sarà il porto di arrivo. È stampata nei volti delle 340 persone che hanno passato il Natale in mare l’immagine simbolo del 2018. L’anno della chiusura dei porti italiani alle ong che salvano le vite in mare, l’anno del decreto Salvini, l’anno in cui il tema migratorio ha dominato in assoluto il dibattito pubblico e politico. Eppure i numeri raccontano un’altra storia. Il 2018 è, infatti, l’ anno in cui l’Italia registra il numero più basso di arrivi degli ultimi anni: al 27 dicembre 2018 sono 23.210 le persone approdate sulle nostre coste (l’80 per cento in meno rispetto al 2017 e quasi il 90 per cento rispetto al 2016). Un calo iniziato già nell’estate 2017 con la strategia dell’allora ministro dell’Interno del Pd Marco Minniti che spinse sugli accordi con la Libia per fermare i flussi verso il nostro paese e stilò un codice di condotta per le Ong che operavano in mare. Una politica ripresa e inasprita dal nuovo governo gialloverde uscito dalle urne del 4 marzo scorso. E fortemente condizionata dal pugno duro del nuovo responsabile del Viminale, Matteo Salvini. Non a caso, tra le sue prime azioni da ministro c’è la rivendicazione del divieto di sbarco in Italia alle ong che operano il soccorso in mare: la prima a farne le spese è la nave Aquarius di Sos Mediterranèe e Medici senza frontiere. Dopo il diniego di approdo a giugno è costretta a sbarcare a Valencia, prolungando la sosta in mare delle 629 persone a bordo. Il clima ostile dell’Italia e l’assenza di una linea comune europea di supporto al salvataggio in mare, porteranno le due Ong a decidere di chiudere l’operazione simbolo del soccorso nel Mediterraneo a inizio dicembre. Nel frattempo per le altre Ong (Proactiva Open Arms, Sea Watch e Mediterranea) unitesi nel progetto United4Med la situazione non migliora. Anche per loro l’autorizzazione a sbarcare in Italia non arriverà (nonostante sulla carta non esista un provvedimento di chiusura dei porti), proprio come successo a fine agosto alla nave Diciotti della Guardia Costiera italiana, diventata un simbolo a livello internazionale. Intanto però le morti in mare percentualmente aumentano e le organizzazioni internazionali continuano a denunciare “inimmaginabili orrori” in Libia. Ma il dibattito pubblico italiano resta concentrato sul tema, la percezione è quella di un paese costantemente a rischio invasione, Anche se l’ultimo rapporto Idos 2018 certifica che il numero dei migranti regolarmente residenti nel nostro paese è pressoché stabile da 5 anni, e si attesta su una quota pari a 5,3 milioni di persone. Una cifra addirittura in calo negli ultimi due anni. Tra i provvedimenti più discussi dell’anno c’è il decreto sicurezza (n.114 del 2018) presto ribattezzato “decreto Salvini”, che nei fatti modifica le procedure per la richiesta di protezione e per l’accoglienza di migranti e richiedenti asilo. La nuova legge mette d’accordo nella critica tutto il mondo del terzo settore, le agenzie internazionali e gli esperti di immigrazione. Il rischio, è che con l’abolizione del permesso umanitario e del diritto all’accoglienza, si verifichi un aumento delle persone che si ritroveranno, senza un regolare titolo di soggiorno, a vivere ai margini delle città, facile preda della criminalità. La stima è di 12 mila persone nelle prossime settimane e di 140mila nei prossimi due anni. A preoccupare per l’aumento della marginalità sono anche i ripetuti e annunciati sgomberi, senza soluzioni alternative. A metà novembre è stato sgomberato il presidio umanitario di Baobab experience, simbolo della solidarietà dal basso, che dava accoglienza in strada a circa 200 persone. Qualche settimana dopo è stata la volta dell’ex fabbrica della Penicillina, sulla via Tiburtina, dove nell’ultimo anno avevano trovato riparo circa 600 persone, tra cui richiedenti asilo, transitanti, persone uscite dall’accoglienza, ma anche alcuni italiani. Il Viminale ha provato a rassicurare gli amministratori locali con una circolare, ma la preoccupazione per i prossimi mesi rimane. Il nuovo provvedimento mette infatti in discussione, ridimensionandolo, anche il sistema Sprar, finora considerato il modello a cui tendere per migliorare l’accoglienza nel nostro paese. Parallelamente si stanno moltiplicando le iniziative della società civile per arginare le conseguenze del decreto Salvini. Come il progetto Umanitalia pensato dalla cooperativa InMigrazione per garantire accoglienza alle famiglie che sarebbero dovute uscire dai centri per l’effetto della nuova legge. Ad aumentare sono anche gli italiani disposti ad accogliere un rifugiato in casa: il 2018 è stato l’anno con il boom di richieste per il progetto Refugees Welcome. Come spiegano gli organizzatori si tratta di una risposta dal basso alla politica sempre più ostile verso gli stranieri. Pena di morte. Risoluzione Onu sulla moratoria approvata con numero record di voti La Repubblica, 30 dicembre 2018 Un numero record di stati membri delle Nazioni Unite il 17 dicembre scorso ha sostenuto durante la votazione finale una risoluzione chiave dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, che chiedeva una moratoria sulle esecuzioni in vista dell’abolizione della pena di morte. Sono stati 121 (dei 193 Stati membri delle Nazioni Unite) che hanno votato a favore della settima risoluzione per una moratoria sull’uso della pena di morte, nella sessione plenaria dell’Assemblea Generale a New York; mentre 35 hanno votato contro e 32 si sono astenuti. Nel dicembre 2016 - si apprende da Nessuno Tocchi Caino - i voti a favore erano stati 117. Questa risoluzione è stata proposta dal Brasile per conto di una task force interregionale degli stati membri e co-sponsorizzata da 83 stati. La Guyana è stato il terzo paese a rompere il blocco dell’opposizione caraibica di lingua inglese; la RDC è tornata all’astensione, il Pakistan e la Libia si sono aggiunti nel voto a favore. Il Suriname è tornato al voto a favore. La pena di morte negli Stati Uniti - Washington, ha abolito la pena di morte. Il Death Penalty Information Center ha pubblicato il suo tradizionale “Rapporto di fine anno”, evidenziando che sia le condanne a morte (41) che le esecuzioni (25) rimangono vicine ai minimi storici, mentre un ventesimo stato, Washington, ha abolito la pena di morte. Lo ha fatto con una sentenza dell’11 ottobre della Corte Suprema di Stato che ha dichiarato all’unanimità che la pena di morte è incostituzionale perché viene applicata in maniera arbitraria e con discriminazione razziale. Washington è l’ottavo stato ad aver abolito la pena di morte, per via legislativa o giudiziaria, dal 2007. Otto Stati hanno effettuato un totale di 25 esecuzioni. Secondo il “Death Penalty Information Center’s 2018 Year End Report”, quattordici stati e il governo federale hanno imposto un totale di 41 nuove condanne a morte quest’anno, con un’ulteriore condanna a morte che probabilmente sarà emessa verso la fine dell’anno. Otto stati hanno effettuato un totale di 25 esecuzioni. Il numero delle esecuzioni e delle nuove condanne indicano il proseguimento del lungo declino della pena capitale, con meno di 30 persone giustiziate e meno di 50 condannate a morte in ciascuno degli ultimi quattro anni. Per la prima volta da quando la condanna a morte è stata reintrodotta negli Stati Uniti nel 1973, nessuna contea ha emesso più di due condanne a morte. I bracci della morte sono in calo da 18 anni consecutivi. Nel braccio della morte in Usa detenute 2.738 persone. Con i dati aggiornati al 1° luglio 2018, nei vari bracci della morte Usa sono detenute 2.738 persone. Nel 2017 erano 2..817. da questi dati andrebbero sottratte 249 persone che sono ancora fisicamente nel braccio della morte, ma il cui verdetto di colpevolezza o la cui condanna a morte è stata annullata, ma l’annullamento non è definitivo in quanto sono ancora in corso i ricorsi della pubblica accusa. Sono quindi meno di 2.489 le persone nei cui confronti vige una “condanna a morte attiva”, il numero più basso da 25 anni. Se i bracci della morte sono diminuiti di 79 unità nell’arco di un anno, fatto solvo il numero di esecuzioni ma anche di nuove condanne, la maggior parte della diminuzione è data da persone la cui condanna è stata commutata in pena detentiva, da proscioglimenti, provvedimenti di clemenza, o morti per malattia o suicidio. Nel 2018, per la prima volta dopo 20 anni, in un braccio della morte, quello della California, si è verificato anche l’omicidio di un detenuto. Le esecuzioni al Sud e il 72% dei giustiziati con malattie mentali. Tutte le esecuzioni - tranne 3 - sono state concentrate negli stati meridionali. Più della metà (13) sono state in Texas, 3 in Tennessee, 2 in Alabama Florida e Georgia, 1 in Nebraska, Missouri e Virginia. Il declino dell’uso della pena capitale, tuttavia, non ha dissolto le preoccupazioni riguardo al modo in cui viene applicata. “Le condanne a morte sono diminuite nel corso degli ultimi 25 anni e la speranza è sempre stata che, con un uso minore della pena di morte, il suo uso residuo sarebbe stato meno arbitrario e meno discriminatorio”, ha detto Robert Dunham, direttore esecutivo del Dpic in una intervista allo Houston Chronicle. Un esame delle 25 esecuzioni del 2018 condotto da Dpic e Promise of Justice Initiative ha rilevato che il 72% dei detenuti giustiziati aveva una storia di gravi malattie mentali, danni cerebrali, menomazioni intellettive, o abusi cronici e traumi, e quattro sono stati giustiziati nonostante sostanziali affermazioni di innocenza. Il 56% dei cittadini Usa per la pena di morte. I sondaggi di opinione del 2018 hanno anche mostrato che il sostegno alla pena di morte è rimasto vicino ai minimi storici, con il 56% degli americani che dichiara di sostenere la pena capitale (dall’80% degli anni 90). Per la prima volta da quando nel 2001 Gallup ha introdotto una domanda sull’equità della pena capitale, meno della metà degli americani (49%) ha affermato di ritenere che sia applicata correttamente. I risultati delle elezioni hanno confermato la riduzione del desiderio per la pena di morte. I tre stati con moratoria della pena di morte (Colorado, Oregon e Pennsylvania) hanno eletto governatori che avevano dichiarato che l’avrebbero mantenuta in vigore. Sei Procuratori noti per il frequente ricorso alla pena di morte sono stati sconfitte nelle relative contee da candidati che nella maggior parte dei casi hanno fatto campagna elettorale con proposte di riforma e di uso parsimonioso, quando non nullo, della pena di morte. Fides. Missionari uccisi, 2018 anno nero: 40 morti di Enrico Lenzi Avvenire, 30 dicembre 2018 Diffuso l’annuale resoconto dell’Agenzia Fides sugli operatori pastorali che hanno perso la vita in modo violento durante l’anno. Il triste primato di Nigeria e Messico. Un anno nero per i missionari e operatori pastorali uccisi nel corso di quest’anno. Secondo i dati diffusi dall’annuale rapporto della Fides, l’agenzia delle pontificie opere missionarie, il numero degli operatori uccisi in modo violento è raddoppiato rispetto allo scorso anno, dove il bilancio si fermò a quota 23. Non solo: per trovare una cifra così alta bisogna tornare indietro di vent’anni. Anche nel 1998, infatti, si contarono 40 missionari uccisi nel corso dell’anno. Vittime soprattutto sacerdoti - Sui 40 morti del rapporto Fides, ben 35 sono sacerdoti. Seguono quattro laici e un seminarista. Un tributo di sangue altissimo. Osservando la suddivisione dei casi secondo i continenti quest’anno è l’Africa a detenere il triste primato del maggior numero di vittime: 21. E sono in particolare quattro i Paesi africani in cui si concentrano gli episodi di violenza: 6 in Nigeria, 5 nella Repubblica Centrafricana e 3 a testa nel Kenya e nella Repubblica Democratica del Congo. Il continente americano, che per otto anni è stato quello con il maggior numero di vittime, nel 2018 si ferma a 15 morti, quasi la metà dei quali nel solo Messico (7), dove spesso i sacerdoti più impegnati nella difesa degli ultimi e della legalità sono finiti nel mirino, e non solo, della criminalità organizzata e uccisi dopo essere stati rapiti. A grande distanza troviamo quindi l’Asia con 3 vittime (di cui 2 nelle Filippine) e l’Europa con un solo caso in Germania dove a essere ucciso dopo una violente lite nel suo ufficio - secondo la ricostruzione della polizia locale - è stato don Alain Florente Gandoulou, sacerdote congolese che era il cappellano della comunità cattolica francofona a Berlino. L’episodio accadde il 22 febbraio scorso. La provenienza delle vittime - Trattandosi di missionari e operatori pastorali che non sempre operano nel proprio Paese d’origine, il rapporto della Fides spiega che in base a quest’ultimi delle 40 vittime, 22 sono africane, 14 americane, 3 asiatiche e una europea. L’unica vittima europea è spagnola: padre Carlo Riudavets Montes, gesuita di 73 anni, che da 38 anni si dedicava all’educazione delle famiglie delle comunità native dell’Amazzonia. È stato trovato morto la mattina del 10 agosto, legato e con segni di violenze nella sua abitazione. Uccisi anche quattro laici - Tra le 40 vittime ci sono anche quattro laici. La prima a perdere la vita nel corso del 2018 è stata Therese Deshade Kapangale, della Repubblica Democratica del Congo, a 24 anni, uccisa il 21 gennaio durante una violenta repressione delle forze militari per stroncare le proteste nel Paese. Il secondo laico ucciso è Dagoberto Noguera Avendano, 68 anni nato in Ecuador. È stato ucciso il 10 marzo nella sua abitazione in Colombia durante un tentativo di furto. Il terzo laico ucciso è un giovane di 22 anni nicaraguense, José Maltez, che faceva parte dell’Oratorio Salsiano a Granada. Ucciso il 5 giugno da un colpo di pistola durante uno scontro a fuoco tra bande. Sempre nicaraguense è la quarta vittima laica: il quindicenne Sandor Dolmus, giovane ministrante della Cattedrale di Leon, assassinato dai paramilitari il 14 giugno. Gran Bretagna. Telefoni in cella in cinquanta carceri: “favoriscono la riabilitazione” di Alfonso Bianchi La Stampa, 30 dicembre 2018 La vita dei detenuti britannici sarà un poco più vicina alla normalità e le persone condannate nel Regno Unito potranno presto sentire le loro famiglie un po’ più vicine. Il governo ha deciso di concedere un telefono all’interno delle celle in 50 prigioni del Paese in quello che è considerato un tentativo di ridurre le violenze, le illegalità e di facilitare la riabilitazione dei criminali. I telefoni saranno abilitati a fare chiamate solo a determinati numeri pre-autorizzati e le conversazioni verranno registrate. In caso di sospetti sull’utilizzo di questo privilegio le conversazioni potranno essere monitorate e in caso di violazione delle regole il servizio potrà essere sospeso. Le telefonate saranno a carico del detenuto ma potranno avvenire in ogni momento del giorno e della notte, per fare in modo che i familiari possano essere contattati quando è meglio per loro. L’idea è nata per ridurre le risse che avvengono spesso durante la fila e l’attesa per utilizzare i telefoni pubblici presenti nelle sale comuni: l’anno scorso ci sono stati 137 assalti in prigione, 77 dei quali nei confronti della polizia penitenziaria. Lo scopo di questa iniziativa è poi quello di tentare di ridurre il numero di cellulari che vengono introdotti illegalmente all’interno delle carceri: nei 12 mesi al marzo scorso sono stati sequestrati 10.643 telefonini (un aumento del 15% rispetto all’anno precedente) che sono stati utilizzati anche per portare avanti attività criminali o per intimidazioni. La mossa fa parte di un piano del Segretario di Stato alla Giustizia, David Gauke, per aiutare a riabilitare i criminali ed evitare la recidiva, che secondo i calcoli costa alla società 15 miliardi di sterline l’anno. L’anno scorso, un rapporto della Camera dei Lord ha rilevato che i buoni rapporti familiari sono “indispensabili” per la riabilitazione dei detenuti e una ricerca citata dall’esecutivo ha anche mostrato che coloro che ricevono visite familiari hanno il 39% in meno di probabilità di essere recidivi. A luglio il governo aveva annunciato piani per l’installazione di telefoni cellulari in 20 prigioni in Inghilterra e Galles, ora con un investimento di 17 milioni di sterline si punta a installarle in 50 carceri entro il 2020, per poi estendere questo provvedimento a tutte le 118 prigioni inglesi e gallesi. “È soprattutto in questo periodo dell’anno che ci viene ricordata l’importanza della famiglia, e ci possono essere pochi gruppi più di quello dei prigionieri per cui questo vero”, ha dichiarato Gauke, secondo cui “i telefoni nelle celle rappresentano un mezzo fondamentale per consentire ai detenuti di costruire e mantenere relazioni familiari, cosa che sappiamo essere fondamentale per la loro riabilitazione”. Introdurre questi telefoni a più carceri, per il Segretario di Stato, “è un riconoscimento del contributo che credo questi possano dare nel trasformare le prigioni in luoghi decenti in cui i criminali hanno una reale possibilità di trasformare le loro vite”. Harry Fletcher, fondatore dell’associazione Victims’ Rights, ha però insistito sulla necessità di mantenere una stretta supervisione per garantire che i telefoni non siano stati utilizzati per intimidire o minacciare vittime e testimoni: “È necessario un monitoraggio rigoroso per garantire che il telefono venga utilizzato soltanto per il mantenimento dei contatti familiari”. Egitto. 40 presunti terroristi uccisi dopo l’attacco al bus di Michele Giorgio Il Manifesto, 30 dicembre 2018 All’indomani dell’attentato in cui sono morti tre turisti vietnamiti e la loro guida, le forze di sicurezza egiziane hanno lanciato raid in tre località del paese contro organizzazioni legate in apparenza all’Isis. In via ufficiale non è una reazione all’attentato di venerdì contro un autobus di turisti al Cairo, in cui sono morti tre vietnamiti e la loro guida. Ma è opinione diffusa in Egitto che il raìs Abdel Fattah el Sisi e le sue forze di sicurezza abbiano deciso di mettere in atto proprio ieri una delle operazioni più sanguinose contro le organizzazioni jihadiste, vere e presunte, legate all’Isis per dare un segnale inequivocabile della determinazione, a dir poco, del governo. Le forze armate hanno ucciso 40 sospetti “terroristi” in tre punti diversi del paese: nella penisola del Sinai, alle porte del Cairo e nella provincia di Giza. Trenta degli uccisi, secondo il comunicato ufficiale, pianificavano attacchi contro istituzioni dello Stato, polizia e forze armate, e contro obiettivi del settore turistico e luoghi di culto cristiani. La polizia ha detto di aver trovato armi, munizioni e ordigni esplosivi. I raid sono avvenuti in piena notte. Il ministero dell’interno ha anche pubblicato una serie di immagini che mostrano i corpi dei militanti uccisi nelle incursioni, con accanto pistole e mitra. Quello di venerdì è stato il primo attentato contro turisti stranieri da oltre un anno. Nel luglio 2017, tre stranieri sono stati uccisi a coltellate a Hurghada. Due anni prima l’Isis aveva rivendicato l’attentato che fece precipitare l’aereo con a bordo 224 turisti russi, sul Sinai, poco dopo il decollo da Sharm el-Sheikh. La grave instabilità dell’Egitto, seguita alla rivolta del 2011 contro il presidente Hosni Mubarak, ha colpito duramente il settore turistico. Negli ultimi mesi c’è stata una ripresa con 8,2 milioni di visitatori nel 2017, con introiti pari all’11 per cento del Pil. Ma il paese resta lontano dai 14,7 milioni di turisti del 2010. A contribuire al clima di incertezza sono state anche le bombe contro le chiese copte che hanno segnato profondamente la minoranza cristiana in Egitto. Le indagini intanto hanno accertato che venerdì l’ordigno esplosivo, di fabbricazione artigianale, è stato poggiato accanto a un muro sulla strada di Al Marriotiya, nel distretto di Haram, dove ci sono le piramidi, ed è esploso al passaggio bus. L’attacco non è stato ancora rivendicato e le autorità non lo hanno attribuito a nessun gruppo armato ma da più parti di parla del coinvolgimento della formazione jihadista locale affiliata allo Stato islamico contro il quale da anni l’esercito è impegnato in combattimenti, in particolare nella Penisola del Sinai. Cina. Arrestati in 45 giornalisti, trasmettevano notizie al magazine “Bitter Winter” La Stampa, 30 dicembre 2018 La testata ha raggiunto notorietà quando, il mese scorso, ha pubblicato tre video girati all’interno dei blindatissimi campi di rieducazione per i musulmani uiguri dello Xinjiang, ripresi da numerose testate internazionali. Quarantacinque giornalisti sono stati arrestati in Cina in questo mese con l’accusa di trasmettere notizie, video e fotografie al magazine quotidiano sulla libertà religiosa e i diritti umani in Cina Bitter Winter, pubblicato dal maggio 2018 a Torino, in otto lingue, dal Cesnur (Centro Studi sulle Nuove Religioni), e diretto dal sociologo torinese Massimo Introvigne, che è anche direttore del Cesnur. Bitter Winter, che ha anche un’edizione in lingua italiana, pubblica ogni giorno notizie inedite dalla Cina che provengono da un nutrito gruppo di giornalisti cinesi e sono commentate dagli specialisti del Cesnur. Il magazine ha raggiunto notorietà internazionale quando, il mese scorso, ha pubblicato tre video girati all’interno dei blindatissimi campi di rieducazione per i musulmani uiguri dello Xinjiang, che sono stati ripresi da numerose testate e catene televisive internazionali. Insieme alla pubblicazione di documenti riservati del Partito Comunista Cinese in materia di religione e fotografie di chiese, moschee e statue di Buddha distrutte, nonché notizie sui maltrattamenti di sacerdoti cattolici dissidenti che continuano nonostante l’accordo fra Cina e Santa Sede, questi video hanno determinato una dura reazione del regime. Degli arresti danno notizia il Cesnur e lo stesso Bitter Winter. “Abbiamo notizie certe - afferma Massimo Introvigne - sul fatto che alcuni dei giornalisti arrestati sono stati torturati per ottenere informazioni su chi altro ci trasmette informazioni e documenti dalla Cina. E purtroppo il reporter che ha girato i video all’interno dei campi di rieducazione dello Xinjiang è scomparso senza lasciare tracce: com’è avvenuto per altri giornalisti in Cina, temiamo che sia destinato a non ricomparire mai più. Confidiamo che chiunque abbia a cuore la libertà di stampa alzi la voce per protestare contro questi episodi gravissimi. Quanto alla Cina - aggiunge Introvigne, credo che sottovaluti il numero di giornalisti disposti a rischiare la loro libertà pur di far conoscere al mondo le violazioni dei diritti umani in Cina. Quelli della rete di Bitter Winter non sono qualche decina, ma centinaia”. Iraq. Donna tedesca appartenente all’Isis accusata per la morte di una schiava di 5 anni di Michele Farina Corriere della Sera, 30 dicembre 2018 Jennifer W, 27 anni, ritenuta responsabile con il marito: la bambina comprata come “serva” a Mosul fu lasciata morire di sete per punizione. Il processo nel 2019. Una donna tedesca di 27 anni appartenente all’Isis sarà processata l’anno prossimo in Germania per crimini di guerra, omicidio e detenzione di armi. Il suo nome per intero non è stato reso noto. Viene identificata come Jennifer W, originaria della Bassa Sassonia. Anche la vittima principale delle sue presunte violenze non ha un nome e neppure una sigla. Agli atti viene indicata come “una bambina di 5 anni”, che Jennifer W e il marito comprarono come “schiava di casa” nella città di Mosul nel 2015. Miliziana - La storia diffusa venerdì 29 dicembre dai procuratori di un tribunale di Monaco di Baviera è di quelle che si fa fatica a riportare. Ci si vorrebbe attardare sugli antefatti, sui dettagli relativi al viaggio della donna, alla sua occupazione nell’Iraq occupato dai fanatici della bandiera nera. Jennifer W lasciò la Germania nell’agosto 2014 e attraverso la Turchia e la Siria raggiunse Mosul, la seconda città irachena preziosa conquista dell’Isis. In quel luogo e in quei mesi la donna sposata con un miliziano non ebbe ruoli marginali. Faceva parte delle squadre femminili della “buon costume” di Daesh: con kalashnikov e giubbotto esplosivo pattugliava le strade di Mosul (la Ninive della Bibbia) e di Falluja individuando le donne che non si vestivano e non si comportavano secondo le regole oscurantiste del sedicente Stato Islamico. Ma è stato tra le mura di casa che, secondo l’accusa formulata da magistrati tedeschi, la donna e il marito si sono macchiati delle peggiori atrocità. Come Nadia Murad - Ci si vorrebbe fermare alla denuncia generica, alle definizioni sommarie (atrocità, crimini di guerra, omicidio) ma le carte del tribunale riferiscono alcuni particolari. Non sappiamo niente della piccola schiava comprata dalla coppia al mercato umano di Mosul. Probabilmente era una yazida, una piccola Nadia Murad (premio Nobel per la pace 2018) che non ha fatto in tempo a diventare grande, che nessuno è riuscito a salvare o riscattare. E manca ancora all’appello il marito dell’imputata, responsabile numero uno di quanto accaduto alla bambina. Incatenata - Raccontano le carte che quando la piccola schiava si è ammalata e ha cominciato a bagnare il materasso, il marito dell’imputata “per punizione la incatenò fuori, all’aperto, nel calore bruciante” dell’estate irachena, “lasciandola morire di sete”. L’imputata “non fece nulla per salvare la bambina”, denunciano i magistrati. L’arresto - Nel 2016 Jennifer W è apparsa all’ambasciata tedesca di Ankara per ottenere nuovi documenti di identità, qualche mese dopo la morte della bambina. La polizia turca l’ha arrestata ed estradata in Germania pochi giorni dopo. Inizialmente, per mancanza di indizi sufficienti, le autorità le avevano permesso di tornare a vivere a casa sua, nella Bassa Sassonia. Nel giugno di quest’anno, mentre cercava di raggiungere nuovamente la Siria, Jennifer W è stata arrestata dalla polizia. Nel frattempo, la magistratura ha raccolto prove sufficienti sulla sua vita come miliziana schiavista di Daesh. Non c’è una data per l’inizio del suo processo, previsto per il 2019. Se trovata colpevole, la donna rischia l’ergastolo. Il fuoco in faccia - D’estate in Iraq l’aria è così calda che viaggiando in auto non puoi abbassare il finestrino senza sentirti bruciare la faccia. Pensare a una bambina di 5 anni legata sotto il sole, senza la sua famiglia, una piccola schiava colpevole di aver bagnato il materasso nella casa dei padroni, ti fa quasi maledire i giudici che giustamente hanno rintracciato la sua storia.