Taser per gli agenti penitenziari, il ministro Bonafede: “Per ora no” Reggio Sera, 2 dicembre 2018 L’esponente del governo risponde della deputata reggiana di Fi Benedetta Fiorini e promette l’ingresso di nuovo personale Il taser agli agenti penitenziari di Reggio Emilia? Per ora no. A chiedere lo strumento di autodifesa - dopo l’aggressione del comandante da parte di un detenuto avvenuta l’8 giugno scorso e l’incendio della propria cella 8 giorni più tardi da parte di un secondo recluso inneggiante all’Isis - è stata l’altro ieri alla Camera Forza Italia, con un’interrogazione rivolta al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede a prima firma della deputata reggiana Benedetta Fiorini. Il Guardasigilli afferma però nella risposta che “l’Amministrazione penitenziaria, pur avendo preso parte ai lavori del gruppo tecnico (istituito nel novembre 2017 presso l’ufficio per il coordinamento e la Pianificazione delle forze di polizia del dipartimento di pubblica sicurezza) ha ritenuto di soprassedere, in questa prima fase, alla sperimentazione della pistola elettrica in ambito penitenziario, ferma restando la possibilità di valutare possibili proiezioni future dell’impiego di tale dispositivo anche in tale delicato contesto”. A Reggio Emilia, dove con il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), l’intera struttura penitenziaria è stata trasformata in casa circondariale, è stato invece implementato di recente il numero delle telecamere di sorveglianza e, come in tutta Italia, è stato diramato un protocollo interno per aumentare la sicurezza degli agenti di custodia. Il problema principale, ammette però anche il ministro, è quello della carenza di organico. Alla “Pulce” risultano in servizio 192 unità di Polizia penitenziaria a fronte di una previsione in pianta organica pari a 240, con una carenza di organico pari al 20%. Considerato, poi, che la popolazione detenuta presente è 389 unità a fronte di una capienza pari a 297 posti, il rapporto personale-detenuti, che mediamente si attesta sul 62% risulta, “nell’istituto in questione, particolarmente deficitario”, riducendosi al 49,3%. Su questo fronte, sottolinea Bonafede, si prevede l’ingresso di nuovo personale, attualmente in formazione nelle apposite scuole di Polizia. Per quanto riguarda l’aggressore del comandante, Mohamed Ouahrane, il detenuto è stato trasferito in altri carceri dove si è reso protagonista di nuovi episodi di violenza. È ora sottoposto alla vigilanza speciale, oltre ad essere stato inserito tra i profili ad alto rischio radicalizzazione. Anci a Bonafede: su lavoro dei detenuti pronti ad incontro notizieinunclick.it, 2 dicembre 2018 Anci e Ministero della Giustizia, sin dal 2012, sono stati apripista sull’utilizzo del personale in stato di detenzione in attività extra murarie in favore dei Comuni, grazie ad un Protocollo d’intesa ad hoc. La collaborazione si è rinsaldata e attualizzata con un nuovo accordo di collaborazione siglato nell’aprile di quest’anno, con l’obiettivo di incrementare le opportunità di lavoro e formazione dei detenuti, in particolare nel campo della cura dell’ambiente, del recupero del decoro di spazi pubblici ed aree verdi e per progetti che coinvolgano nella corretta gestione dei rifiuti, favorendo lo scambio di buone prassi all’interno degli istituti penitenziari. Questa sperimentazione ha sinora riguardato 122 enti locali, e complessivamente oltre 1600 detenuti. Anci sta quindi lavorando da tempo sul tema, in collaborazione con il Dap, si puntualizza in una nota dell’Anci, “nella convinzione - si sottolinea - dell’importanza del lavoro per il reinserimento sociale dei detenuti e per l’abbattimento della recidiva, ma anche tenendo conto della finalità riparativa della pena”. “Le attività realizzate a Roma e Milano, alle quali ha oggi fatto cenno il Ministro della Giustizia, - prosegue Anci - si inseriscono perciò in un quadro ben delineato di collaborazione, nel quale si inseriranno a breve i Comuni di Torino, Genova e Napoli, realtà quest’ultima che vede la forte determinazione del sindaco De Magistris nonostante le note difficoltà del bilancio comunale”. Anci risponde quindi “positivamente all’invito del Ministro Bonafede a proseguire ed estendere la collaborazione sul tema del lavoro esterno dei detenuti in favore dei Comuni e delle comunità, auspicando che si passi dalla sperimentazione ad una fase di pianificazione ordinaria delle attività. Anci - si conclude - è pronta ad un incontro con il Ministro della Giustizia, avendo come obiettivo l’innalzamento della qualità e quantità dei nuovi progetti, che potranno essere sostenuti in maniera determinante dalla Cassa ammende”. “Non solo Enzo Tortora, ogni anno 1.000 detenuti innocenti dimenticati nelle carceri” di Davide Lorenzano The Post Internazionale, 2 dicembre 2018 A trent’anni dalla morte di Enzo Tortora, e in occasione del ritorno in tv dello storico programma “Portobello”, Tpi ha intervistato Francesca Scopelliti, sua compagna, che ancora oggi si batte per tutti i casi di ingiusta detenzione in Italia. Sono mille i detenuti innocenti che ogni anno finiscono nelle carceri in Italia. A distanza di così tanti anni dal più eclatante caso di malagiustizia italiana, quello del celebre conduttore Enzo Tortora arrestato ingiustamente per associazione camorristica e traffico di droga, la compagna Francesca Scopelliti si batte ancora per tutti i casi di ingiusta detenzione. A trent’anni dalla morte di Enzo Tortora, l’intervista di TPI a Francesca Scopelliti, compagna di Enzo, destinataria delle lettere spedite durante il periodo in carcere, compendiate nel volume a sua firma Lettere e Francesca (2016, Pacini), oggi Presidente della Fondazione Internazionale per la Giustizia Enzo Tortora, che prosegue l’opera di denuncia ma anche la battaglia per la tutela dei diritti umani. D. Presidente Francesca Scopelliti, sulla nuova edizione di Portobello, la trasmissione che riprende i temi dello storico programma condotto da Enzo Tortora, ha dichiarato che Antonella Clerici avrebbe dovuto ricordare meglio la “vergognosa vicenda giudiziaria che ha portato Tortora alla morte nel 1988”. Cos’ha ucciso il suo compagno? R. A sentire il “commosso ricordo”, sembrava quasi che fosse morto di vecchiaia. Enzo morì di malagiustizia. Dopo l’arresto disse “Mi è scoppiata dentro una bomba al cobalto”: non era altro che quel tumore ai polmoni che se lo portò via il 18 maggio 1988. In un Paese democratico non è possibile accettare che personalità dello Stato, come Giovanni Falcone o Paolo Borsellino, vengano uccisi dalla malavita; peggio ci si sente se un uomo perbene viene ucciso dalla malagiustizia, cioè dallo Stato. D. Quanti Enzo Tortora esistono oggi? R. Gli errori giudiziari continuano ad esserci, ci sono persone che trascorrono anche più di vent’anni in galera, da innocenti. A Belluno, qualche giorno fa, ho incontrato Giuseppe Gulotta, condannato all’ergastolo quando appena diciottenne: si è fatto 22 anni da innocente; ho conosciuto Angelo Massaro, 21 anni di carcere per un delitto mai commesso e una vita distrutta. Uomini senza più dignità, neppure professionale, e nessuno che provveda a restituirgliela. Il 17 giugno scorso, il Partito Radicale ha organizzato nella sede storica di via di Torre Argentina, a Roma, un convegno per ricordare il 35esimo anniversario dell’arresto di Enzo. Tra i presenti, vittime di malagiustizia e anche un parlamentare della Lega e, dal momento che sono al Governo, gli ho chiesto una Legge che consenta alla vittima dell’errore giudiziario l’ottenimento di un punteggio ulteriore nella lista di collocamento, così da porla al primo posto e, uscita dal carcere, nella facoltà di riappropriarsi della dignità di un lavoro. D. Presidente Francesca Scopelliti, a distanza di così tanti anni dal più eclatante caso di malagiustizia, qual è il primo ricordo legato all’impegno di Enzo Tortora per una lotta di civiltà? R. Vi leggo la lettera del 30 agosto 1983, quando Enzo era ancora in carcere durante la campagna di fango. “Frustato a sangue da questa realtà, il mio compito è uno: far sapere. E non gridare solo la mia innocenza: ma battermi perché queste inciviltà procedurali, questi processi che ‘onorano’, per paradosso, il fascismo, vengano a cessare. Perché un uomo sia rispettato, sentito, prima di essere ammanettato come un animale e gettato in carcere. Su delazioni di pazzi criminali”. In questa circostanza pensò a un impegno in una battaglia politica per la giustizia giusta, a dispetto di chi lo volesse colpevole e camorrista a tutti i costi. D. Non poté in alcun modo confrontarsi con i pentiti, o presunti tali, che lo accusarono? R. Mai. Questo mondo della criminalità organizzata era distante mille miglia da Enzo, che era un uomo liberale e rispettoso dei valori democratici, intelligente e onesto. Un esempio? Quando fece l’asta su Antenna 3 per la raccolta fondi per i terremotati dell’Irpinia, volle consegnare l’intero importo nelle mani dell’onorevole Giuseppe Zamberletti, allora commissario del governo per le zone terremotate del Sud, ideatore della Protezione Civile, perché non si perdesse nei meandri della malavita. D. Perché continuare a perpetrare il grande errore? R. Enzo mi scrisse dal carcere “Questi signori per salvare la loro faccia fottono me”. Il riferimento era ai due pm Felice Di Persia e Lucio di Pietro. Con i ferri ai polsi di Enzo, finirono su tutti i giornali. Furono definiti i “Maradona del diritto”. Si vantarono di non guardare in faccia nessuno, come se avessero arrestato Al Capone. No. Quello su Tortora è un crimine giudiziario, non un errore. Si poteva chiamare errore fino al primo interrogatorio. Appurata l’assenza di elementi di prova sulla colpevolezza, avrebbero dovuto ammettere lo sbaglio e scusarsi. D. E le scuse arrivano, dopo il calvario e la scomparsa… R. Prima di chiunque altro sono arrivate quelle dei pentiti. Dicevano che erano stati costretti a recitare una sceneggiatura. Sarebbe bello sapere chi l’avesse scritta. Come ho già detto, farabutti erano quando accusavano, farabutti rimangono adesso che chiedono perdono. Poi sono arrivate, tre anni fa, le scuse di Diego Marmo, il pm del processo di primo grado. “Tortora era un uomo perbene” ha dichiarato al giornalista che gli ha ricordato come in passato avesse utilizzato termini forti: durante il processo, lo definì “cinico mercante di morte”. Le scuse di Marmo sono state rispedite al mittente, perché tardive quanto inefficaci. E poi perché sono arrivate per intraprendere, finita la carriera della magistratura, quella politica. Il Sindaco di Pompei voleva nominarlo assessore alla legalità. Con l’aiuto di Piero Sansonetti, direttore del Dubbio, è stata fatta una campagna di informazione. Il Mattino ha pubblicato una mia lettera indirizzata al sindaco. Lo invitavo a rivedere questa posizione. Le scuse di Marmo sono arrivate perciò in questo contesto, come a chiedere la mia benevolenza. D. Di recente sono arrivate anche le scuse del Guardasigilli Alfonso Bonafede. Le ha apprezzate? R. Le scuse di Bonafede sono ben accette perché Ministro della Giustizia. Però, il modo migliore per chiedergli scusa è quello di passare dalle parole ai fatti. E il fatto può essere intraprendere un percorso legislativo di riforme sulla giustizia, per cui Enzo volle battersi fino alla fine, come la divisione delle carriere. Alla Camera è depositata una proposta di legge di iniziativa popolare le cui firme sono state raccolte dall’Unione delle Camere Penali Italiane. Rivedere la responsabilità dei magistrati, rivedere le condizioni delle carceri per renderle più civili, rimettere ordine su un principio costituzionale spesso disatteso che è la presunzione di innocenza. Questo pacchetto di riforme vorrei che venisse portato avanti nel nome di Enzo Tortora. Sarebbe un bel gesto per chiedergli scusa. D. La rabbia nella lettera di agosto si trasformò in un dovere affinché la Storia non si ripetesse. Come ebbe inizio? R. Quando Marco Pannella lo chiamò per proporgli la candidatura al Parlamento Europeo, Enzo gli rispose “Marco, tu sei pazzo a chiedermelo, io sono più pazzo ad accettare”. Enzo capì come fosse l’unica cosa da fare. Fu eletto e a Strasburgo portò la denuncia di quel sistema penale di cui finì vittima e della condizione delle carceri italiane. E quando mesi dopo ricevette la condanna, piuttosto che approfittare dell’immunità parlamentare, si dimise e tornò in galera, per continuare la battaglia giudiziaria. Anche questo fu un altro schiaffo a quella Corte che lo ritenne colpevole, ingiustamente. E quel male, quella “bomba al cobalto”, la dominò affinché partecipasse ad appuntamenti irrinunciabili: il riconoscimento della completa estraneità alla vicenda, l’accertamento dello stato delle carceri con il Partito Radicale e, in ultimo, tornare in Rai e dire al suo pubblico “Dunque, dove eravamo rimasti”. Un altro importante appuntamento fu il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, ma Enzo non fece in tempo a constatare l’evoluzione legislativa, perché morì. D. Quanto fu violento l’impatto con la realtà del carcere? R. La vita di Enzo Tortora cambiò. Non fu più il conduttore di Portobello, la trasmissione della società bella. A questo non credette più. Enzo, con i Radicali, visitò l’Ucciardone, Poggioreale e altri istituti carcerari. Conobbe un’altra società, quella rifiutata, un’isola che non c’è. Quando qualcuno finisce in cella, tutti, o quasi, desiderano “che buttino le chiavi”. Non ci importa sapere se quell’individuo meriti il carcere davvero e non ci importa capire se quell’ambiente rispetti i limiti dei diritti umani. A trent’anni dalla morte di Enzo, il suo caso non ha insegnato nulla. Nessuna compagine politica, di destra o di sinistra, che abbia mai pensato di analizzarne la vicenda, come si fa in un caso clinico, stabilendo le cause per studiare la terapia. D. Fuori da Regina Coeli, come mutò il rapporto con l’ambiente esterno? R. “Il telefono ha smesso di squillare”, disse dopo l’arresto. Ma Enzo ebbe anche amici di cultura con cui confrontarsi. Indro Montanelli, Enzo Biagi, Leonardo Sciascia. Con quest’ultimo instaurò un bellissimo rapporto. Mentre era agli arresti domiciliari, a Milano, Sciascia venne in visita due volte. Non lo dimenticherò mai. Sentire parlare due uomini di questa levatura è un privilegio che pochi hanno. D. Con Marco Pannella condivise la battaglia politica. Chi ha avuto e chi ha dato di più? R. Ci fu un pareggio. Marco ripristinò la battaglia sulla giustizia, in un primo momento distrutta da Toni Negri; Enzo ottenne quel sostegno per la sua causa che, invece, il Partito Liberale non ebbe il coraggio di condividere, forse per convenienza, forse per timidezza, forse perché forza di governo, non lo so. Il rapporto tra Enzo e Marco, nato all’epoca della campagna divorzista, si consolidò molto, anche affettivamente. Marco arrivava in casa nostra a qualunque ora del giorno e della notte. Ma la proposta di candidarlo alle Elezioni europee del 1984 fu lanciata da Francesco Rutelli, all’epoca Segretario del Partito Radicale. D. In che modo Tortora e Sciascia si conobbero? R. Enzo gli scrisse dopo la lettura de Gli zii di Sicilia, opera che apprezzò molto, avviando perciò una corrispondenza. Sciascia lo ricordo molto spiritoso. Disse di non conoscere Enzo perché non guardava la televisione, mentre lo conosceva la sua famiglia: “Quella lettera è valsa molto agli occhi delle mie figlie”, disse. Con chi condivideva un’idea, Enzo nutriva il desiderio di mettersi in correlazione. D. Un comunicatore appassionato, davanti e anche dietro le telecamere? R. Sentiva il desiderio grande di comunicare, nel bene o nel male: come disse negli anni Settanta che la Rai era un “jet set guidato da un gruppo di boy scout”, rischiando di vedersi stracciato il contratto, così doveva scrivere a un autore quando il libro gli piaceva. Per esempio, scrisse una lettera a Sebastiano Vassalli per via del volume Sangue e suolo, una denuncia sulla condizione degli italiani a Bolzano, tanto che poi lo conoscemmo e insieme andammo in Trentino. Nella sua carriera televisiva, Enzo Tortora riuscì ad arrivare al successo grazie alla forza delle sue idee. Non chinò mai la testa davanti al potere. Quando lavorava alla trasmissione, amava di più discutere con un operatore o con l’ospite che proponeva la propria invenzione piuttosto che con il pezzo grosso. D. Mi dica, quale ricordo custodisce di un momento felice insieme al suo compagno e Leonardo Sciascia? R. Fu un grande privilegio averlo avuto ospite a pranzo insieme alla moglie. Io amo molto cucinare e, naturalmente, la cucina più facile per me è quella calabrese. Ricordo che in quell’occasione preparai la caponata, che adoro. Ci fu una discussione tra me e la moglie di Leonardo Sciascia sull’origine del piatto: io sostenni che fosse calabrese, lei sostenne che fosse siciliana. D. Chi prevalse? R. Più che la voglia di affermare la mia convinzione, valse il senso di ospitalità e accettai che la caponata fosse siciliana. Ma continuo a dire che è calabrese. D. E Sciascia da che parte stava? Della moglie, suppongo. R. No. Lasciò a noi donne condurre questa discussione. Sovranismo, l’Italia in stato di assedio di Furio Colombo Il Fatto Quotidiano, 2 dicembre 2018 Il Global compact è un tipico atto dell’Onu. Indica un principio ovvio (salvaguardare i migranti del mondo, siano o non siano rifugiati, garantire la prima accoglienza, impedire cacciata e persecuzione), un principio che sarà osservato da pochi, ignorato da molti, vilipeso o ridicolizzato dai peggiori che, come si sa, ci sono sempre. Quel che è successo in Italia è un evento privo di senso (non solo di senso politico ma anche di senso comune) e difficile da decifrare anche come comportamento normale. Infatti il principio proposto dall’Onu (e che tutti i capi di Stato o ministri degli Esteri andranno fra poco a ratificare a Marrakech) esprime un sentimento buono ma ne è appena il simbolo. Non impone, non vincola e non prevede verifiche di alcun genere. Infatti il presidente del Consiglio italiano che, come si sa, ha poca autorità ma consente ai due vice di governare, era andato alle Nazioni Unite a dire, con la gentilezza delle cerimonie, che certamente l’Italia avrebbe partecipato, e detto di sì a un generico principio di umanità che si proponeva a tutti di accettare, e che tutti hanno accettato. Poco dopo il ministro dell’Interno italiano, che non governa se non le prefetture e le Forze dell’ordine, ha fermato la macchina politica della Repubblica italiana per dire no. Non il “no” del suo partito, che rappresenta il 17 per cento dell’elettorato italiano, ma il no di tutti gli italiani. Come ama fare, ha chiamato in causa tutti i cittadini come corresponsabili di questo distacco improvviso dalle Nazioni Unite, e da un principio umanitario, che forse a lui sembra preannunciare il distacco (che sarà ovviamente più violento, meno facile e molto più costoso) dall’Europa. In questo modo il ministro dell’Interno, però, ha dimostrato di essere solo al comando, umiliando il suo primo ministro e profittando con prontezza delle difficoltà che stanno attanagliando l’altro vicepresidente del Consiglio Di Maio. Non sarà un colpo di Stato, ma certo è un colpo allo Stato, una botta violenta ai tanti meccanismi, in parte costituzionali, in parte contrattuali, che regolano questo strano governo. Uno schiaffo in pubblico al presidente della Repubblica. Un simile evento genera naturalmente una serie di domande destinate a restare senza risposta. Siamo così avanti nella “rivoluzione” preannunciata e predicata da Bannon e dai sovranisti religiosi del rosario alle frontiere per poter cominciare a esibire gesti di disprezzo nei confronti dell’Onu? È già il momento dello scontro con i governi delle élite e di Soros, dopo avere “preparato” nel modo più aspro e carico di insulti, anche feroci, il “dialogo” con l’Europa di cui siamo ancora parte? Vuol dire che questo è il momento in cui sciocchezze e bugie dette ai comizi sono diventate programma politico di un Paese pietrificato dalla Lega? Voi sapete la via d’uscita che Salvini vorrebbe far passare per buona: prima deve decidere il Parlamento. Eppure chi ha governato per vent’anni con Berlusconi e accanto al dispendioso padre-padrone Bossi dovrebbe sapere che il Parlamento ratifica trattati, accordi e principi adottati in comune con altri Paesi o con organismi internazionali di cui siamo parte, dopo avere impegnato la propria adesione, come ha fatto Conte all’Onu, a nome dell’Italia. Ma se l’intento era dichiarare una emergenza in cui d’ora in poi tutto cambia, a cominciare da chi decide che immagine ha l’Italia, certo il ministro dell’Interno ha segnato in poche ore molti punti. E i Cinque Stelle dovrebbero domandarsi se hanno una via d’uscita. Infatti la sequenza ci dà per definitivo lo scambio fra due realtà importanti e diverse: sicurezza e immigrazione. La legge detta “della Sicurezza” si dedica quasi esclusivamente a rendere sempre più grama la vita degli immigrati, buoni e cattivi, meritevoli e marginali, tagliando dovunque le misere spese, inventando reati e pene, alternando la condanna al vagabondaggio per mancanza di rifugi al raddoppio della detenzione (in attesa di rimpatri impossibili) in luoghi peggiori delle carceri. Intanto la legge sulla “legittima difesa” tenta di stabilire lo status di eroe nazionale per chi spara e uccide. E sta circolando senza vergogna l’idea di tassare le rimesse degli immigrati che lavorano, tassarle, cioè, al momento dell’invio alla famiglia, dopo averle tassate regolarmente in Italia. Come si vede, questo Paese è in stato d’assedio, stretto nella morsa di leggi e di gesti di governo insensati che tolgono sempre più dignità e libertà a tutti, anche agli italiani che applaudono o credono che sia conveniente accettare. La loro ora zero è scattata. Quando scatterà l’ora zero di una ferma, civile opposizione? Exofobia, quella paura nata dall’antipolitica di Donatella Di Cesare Corriere della Sera, 2 dicembre 2018 Si parla spesso di “paura”, un’emozione assurta alla ribalta della cronaca politica, che finisce per giustificare anche gli insulti più rozzi, i comportamenti più offensivi, le reazioni improntate alla violenza. “Se sono violento, è perché ho paura. Cerca di capirmi. Punto”. Sennonché un termine irrigidito - come “paura” - offusca e copre, non aiuta a chiarire. Più che addentrarsi negli imponderabili sentimenti del singolo, occorre interrogarsi sul significato di una parola così abusata, che nasconde uno scenario complesso. Paura di che cosa? La risposta immediata è: “degli innumerevoli pericoli che attendono chiunque metta appena il piede fuori di casa”. Minacce di ogni genere, più o meno imminenti, più o meno velate, ma, soprattutto, non sempre reali. D’altronde chi ha mai vissuto un’esistenza priva di rischi? Si dovrebbe allora parlare piuttosto di una “fobia” che ha preso e catturato molti, un timore, abitato da fantasmi e spettri, che diventa insofferenza, fino a tradursi in un’intolleranza assoluta. Fobia verso tutto ciò che è fuori o che viene da fuori: exofobia. Così si può chiamare quell’avversione per ciò che è oltre e altro, quell’orrore per l’esterno e l’estraneo. Ecco il sigillo di quest’epoca dei flussi ultraveloci, dei traffici globali, dei ritmi vorticosi, che avrebbe dovuto essere la più aperta e si rivela invece così irrimediabilmente chiusa. L’exofobia è l’esito di una reazione negativa, evidente in una politica ridotta a polizia preventiva, il risultato della vana e prepotente pulsione di chi aspira a restare immune, esorcizzando ogni mutamento, scongiurando ogni alterazione. A tutti i costi. Non si tratta tanto di indifferenza, quanto di volontà di immunizzarsi. Si chiude la porta all’altro, bandito, scacciato, cancellato, perché potrebbe infettare. E con l’altro non si intende solo lo straniero, chi viene da fuori, ma anche chi va fuori, chi osa varcare le frontiere, chi guarda oltre. La mobilità è vista con sospetto, quasi fosse una colpa. Meglio fermarsi entro i confini nazionali, anzi regionali e provinciali, meglio restare nel proprio paese. Fuori è corruzione ovunque. Ecco perché - sia detto per inciso - il fenomeno politico della corruzione finisce per assumere dimensioni grottesche in quei movimenti che assecondano questa visione exofobica. Il male scaturirebbe dall’esterno, il bene dall’interno. Sennonché l’interno si assottiglia sempre di più e rischia di implodere minacciato da tutto ciò che è diverso. Le vecchie dicotomie negro-bianco, donna-uomo, immigrato-autoctono, trovano formule attuali. Ma la novità sta in questo: che l’ingenuità, prima innocente, adesso è diventata maligna. Chi non sa distanziarsi da sé, chi non vuol sporgersi oltre il suo piccolo orto, sfoggia con rancore la propria ignoranza del mondo, ne fa il vessillo di una fantomatica integrità, la bandiera di una nuova concezione del mondo, quello del luogo su cui poggia i piedi. Guai a criticarlo! Guai a mostrare alternative, a indicare vie diverse, a testimoniare altre forme di vita. Potrebbe infuriarsi, lasciarsi andare a qualche insolenza contro gli altruisti incalliti, i buonisti sprovveduti, che non hanno ancora capito come vanno le cose. Eppure, la cultura è distacco da sé, estraneità. Colto non è chi ha immagazzinato un sapere, bensì chi riconosce sé nell’altro. Ma il novello cattivista che, come suggerisce l’etimologia di “cattivo”, è prigioniero di sé, schiavo della sua fobia, anziché ammettere i propri limiti, esigerebbe un ripiegamento a oltranza di tutti, una sorta di prigionia nazionale. Gliel’ha insegnato l’antipolitica, quest’anti-cultura che ha fatto dell’exofobia la propria chance e il proprio cardine. Referendum contro il decreto sicurezza, il dilemma del Pd di Aldo Fabozzi Il Manifesto, 2 dicembre 2018 Martina insiste nel proporre di raccogliere le firme ai gazebo del 3 marzo contro la legge Salvini, ma dagli altri candidati raccoglie solo freddezza e critiche. Non si può procedere con un solo quesito e i gli ostacoli tecnici e di opportunità non sono pochi. Un referendum, tanti referendum o nessun referendum per cancellare il decreto sicurezza? Il dilemma fa capolino nelle già assai tormentate primarie del Pd. Tra i principali contendenti, la coppia Martina-Richetti insiste per il referendum. “Il Pd insieme a tutte le forze disponibili deve farsi promotore di questa iniziativa necessaria, anche con i gazebo delle primarie del 3 marzo”, ha detto anche ieri Maurizio Martina, segretario uscente. Ma la sua proposta di raccogliere le firme quando gli elettori dem andranno a scegliere il segretario ha già registrato la freddezza, quando non la contrarietà esplicita degli altri sfidanti. Neanche una parola da Zingaretti, molto prudente nell’affrontare l’argomento immigrazione (l’approvazione definitiva della legge non ha meritato alcun commento da parte sua). Figurarsi Minniti che sulla sicurezza costruisce la sua candidatura. Il deputato Ceccanti, che lo sostiene, ha subito frenato: “Il decreto sicurezza non è condivisibile nel merito e va contro principi democratici e liberali, ma è bene riflettere a freddo sui mezzi per avversarlo. I quesiti andrebbero studiati attentamente perché uno totale sarebbe inammissibile per eterogeneità”. Tra la prima uscita (giovedì) e l’ultima (ieri) Martina ha in effetti corretto il messaggio. Dalla proposta di “referendum abrogativo del decreto Salvini” tout court si è passati a “referendum abrogativo di quelle norme che genereranno solo un esercito di irregolari e tanta insicurezza”. Se si punta ancora sull’inefficacia della legge Salvini più che sulla sua disumanità e incostituzionalità, almeno si riconosce che trattandosi di un provvedimento ampio ed eterogeneo bisognerebbe immaginare più di un quesito. Pena lo stop della Corte costituzionale. Ma in questo modo si aprirebbe il problema di quali norme abrogare, se quelle sulla cittadinanza, quelle sull’abolizione della protezione umanitaria, quelle sull prolungamento della detenzione nei centri per il rimpatrio… Difficile che gli sfidanti del Pd siano d’accordo. C’è poi un problema di tempi. Ai gazebo delle primarie si dovrebbero raccogliere senza troppe difficoltà le 500mila firme richieste per ogni quesito referendario, ma resterebbero congelate oltre sei mesi perché la Cassazione comincia l’esame delle richieste solo dopo il 30 settembre. Gli eventuali referendum si terrebbero allora nella primavera (dal 15 aprile al 15 maggio) del 2020 (a meno di elezioni anticipate). A circa un anno e mezzo da oggi. È probabile, oltre che auspicabile, che prima di allora la Corte costituzionale si sarà occupata del decreto, correggendo almeno gli aspetti più vistosamente illegittimi e senza passare dagli elettori. Anche perché nel Pd c’è già chi parla di “referendum boomerang”, temendo la popolarità delle politiche salviniane. Caso Magherini, la famiglia farà ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Anna Ditta The Post Internazionale, 2 dicembre 2018 Per i giudici della Cassazione la morte di Magherini non era “prevedibile, perché le forze dell’ordine non avevano le competenze specifiche” in materia di arresto di persone stato di “delirio eccitatorio”. La Corte di Cassazione ha depositato ieri, 29 novembre, le motivazioni della sentenza con cui ha assolto i tre carabinieri condannati in primo e in secondo grado per l’omicidio di Riccardo Magherini. L’ex calciatore delle giovanili della Fiorentina è morto dopo essere stato fermato in strada dai carabinieri a via Borgo San Frediano, Firenze, la notte tra il 2 e il 3 marzo 2014. Secondo i giudici della quarta sezione della Cassazione, che hanno annullato senza rinvio la sentenza di condanna del 2017 della Corte d’Appello di Firenze, “il fatto non costituisce reato”. Magherini era “in delirio eccitatorio” per “intossicazione da cocaina”, scrivono i giudici. La sua morte, secondo gli ermellini, non era “prevedibile, perché le forze dell’ordine non avevano le competenze specifiche in materia di arresto di persone in tale stato”. In primo e secondo grado, i tre carabinieri imputati erano stati ritenuti colpevoli di omicidio colposo. Vincenzo Corni era stato condannato a 8 mesi, Stefano Castellano e Agostino della Porta a 7 mesi ciascuno. Quanto accaduto la notte del 3 marzo 2014 è documentato in un video pubblicato da Le Iene, in cui si vedono gli agenti tenere bloccato a terra Magherini e si sentono distintamente le sue urla d’aiuto. Matteo Torretti, uno dei testimoni, conferma di aver visto dare 7/8 calci a Magherini, di cui “5-6 all’addome e due in faccia”. Il 40enne era sposato e aveva un figlio di un anno. Secondo il pm Bocciolini, è morto per: “arresto cardiocircolatorio per intossicazione acuta da cocaina associata a un meccanismo asfittico”. Le fotografie mostrano che Riccardo Magherini è arrivato all’ospedale ricoperto di ferite ed ematomi sul volto e su tutto il corpo. “Credo che il materiale video-fotografico parli chiaro. Supera ogni osservazione contraria, quindi per me la sentenza della Corte d’appello di Firenze era perfetta”, dice a TPI.it l’avvocato Fabio Anselmo che, oltre a essersi occupato del caso di Stefano Cucchi, è anche il legale della famiglia Magherini. “La sentenza della Cassazione è stata depositata in 14 giorni, un tempo record”, osserva il legale. “In trent’anni di carriera non ho mai visto precedenti simili. In più questa sentenza va oltre le aspettative dei difensori degli imputati”. Anselmo preferisce non commentare i dettagli contenuti nelle motivazioni della sentenza. Si limita a dire: “Il dramma è che questa sentenza è una sentenza di merito della Cassazione (la Corte di Cassazione nel nostro ordinamento è giudice di legittimità, non può esprimersi nel merito dei fatti, che vengono accertati nei primi due gradi di giudizio, ma solo sulle questioni di diritto, ndr)”. “Non voglio commentare il contenuto nello specifico”, aggiunge Anselmo. “Attendo che lo facciano i giuristi delle università, più titolati di me, che ne faranno sicuramente oggetto di studio e analisi”. L’avvocato ribadisce però la volontà della famiglia Magherini di andare avanti con la richiesta di giustizia, facendo ricorso dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo. “La famiglia è distrutta, profondamente distrutta, e io di questo mi dolgo ed esprimo il più vivo dispiacere”, dice Anselmo a tpi.it. “Però sì, andremo alla Corte europea e poi vediamo. Credo che metteremo su una bella squadra per far ricorso alla Corte europea”. Intanto sul web è stata lanciata una raccolta fondi per aiutare la famiglia Magherini con le spese legali, dopo che il padre di Riccardo Magherini, Guido, ha dichiarato che pur di andare avanti è disposto a vendere tutto ciò che possiede. Napoli: liberare le case occupate dai clan, la sfida che la città deve vincere Ernesto Mazzetti Il Mattino, 2 dicembre 2018 Credo che ne vedremo delle belle (si fa per dire) se e quando comincerà a Napoli l’operazione “Case Pulite” annunciata dal vice premier Salvini nella sua visita d’un mese fa. In effetti l’operazione è già in corso nel Paese. La guerra al fenomeno delle case di proprietà pubblica occupate abusivamente - perché di questo si tratta - era stata proclamata sin da settembre, allorché il vice premier e ministro dell’Interno dispose in ogni provincia il censimento di tutti coloro che tali case illegittimamente abitano. Con l’obiettivo finale di espellerli “manu militari”. Città per città, rione per rione, a Milano, Roma, Palermo, ed altre. Tra cui Napoli, naturalmente, dove le occupazioni definite “senza assegnazione legittima” riguardano secondo il Viminale 80 immobili. Numero imponente. È venuto crescendo negli anni; vertiginosamente dopo il terremoto dell’80 e più di recente alimentato dall’afflusso di immigrati, soprattutto africani. “Ripulire” una situazione siffatta è impresa immane. Perché il fenomeno è stato lasciato degenerare negli anni da autorità locali inclini a tollerare; propense semmai a lucrare consensi elettorali con più o meno esplicite promesse di sanatorie. Quieto vivere? Le direi scelte silenti quanto dannose. Alla popolazione di Napoli e d’altre contrade del Sud storia e cronache hanno imposto perenne convivenza col bisogno e il disagio, alimentando attitudini al compromesso per soddisfare necessità primarie. La casa, anzitutto. Da conseguire con ogni mezzo, anche al di là della legge. Semmai assoggettandosi a logiche e metodi di quanti dell’illegalità fanno pratica di vita, di guadagno e di potere. Era fatale che la camorra divenisse regolatrice del fenomeno dell’abusivismo in area napoletana, suo territorio di concentrazione. Esautorati gli uffici preposti a costruire e gestire il patrimonio residenziale pubblico, stracciate nei fatti le graduatorie degli aventi diritto secondo legge, il controllo camorristico s’è esteso a vaste porzioni del tessuto urbano, anche con cruenti conflitti tra bande per il dominio in quartieri e rioni. Alla pavida, talvolta collusa inazione dei poteri locali, s’è purtroppo accompagnata negli anni colpevole disattenzione dei governi. Fermi o inadeguati nuovi programmi di edilizia popolare. E così, ogni caseggiato, ogni singolo alloggio sulle quali una qualche banda metteva le mani, occupandolo in proprio o decidendo a chi destinarlo, ha rappresentato una sconfitta dello Stato. A Napoli e altrove. Più sfiduciati i cittadini perbene. Più tracotanti i malavitosi. Che fossero maturi i tempi per fronteggiare questa deriva e recuperare prestigio allo Stato lo si era avvertito anche prima della proclamata operazione salviniana. Nell’agosto d’un anno fa, il ministro Minniti autorizzò lo sgombero di cento famiglie immigrate dal palazzo che occupavano nei pressi della stazione di Roma. La sindaca Raggi ha promesso indagini su altri cento immobili, pubblici e privati, occupati abusivamente. A Firenze la Cassazione ha dato via libera allo sgombero di 50 alloggi, annullando la sentenza d’appello che giustificava le autorità locali nel ritardare lo sfratto di occupanti abusivi per motivi d’ordine pubblico. A Taranto, prima città nell’applicare concretamente l’operazione “Case Pulite”, il Comune programma 44 sgomberi al mese per sfrattare 9000 abusivi. Ultimo, in ordine di tempo, ma ben più clamoroso, lo sgombero a Roma del clan Casamonica e la demolizione delle loro otto ville. Pittoresca quanto pericolosa, questa folta famiglia d’etnia sinti le aveva costruite, indisturbata per anni, accanto ai resti d’un antico acquedotto. E Napoli? Il mirino è ora puntato sul parco di case popolari Conocal, nel quartiere Ponticelli: 420 appartamenti in gran parte gestiti da un paio di clan, in un turbinio di occupazioni abusive, espulsioni di assegnatari legittimi, giri di danaro. Il censimento è stato fatto dal Comune, con prefettura e magistratura. Una volta individuato nel Conocal il primo obiettivo, lo Stato non potrà fermarsi. È obbligato a procedere. Ma pur scontata la buona volontà, è facile arguire che restino incertezze sui tempi. Anzitutto per verificare con chiarezza chi abita regolarmente (una minoranza), e chi per imperio di camorra. Poi superando inevitabili effetti collaterali: proteste, blocchi stradali, ostensione di vecchi infermi e infanti piangenti. Scenari inevitabili in un ambiente dove situazioni di oggettivo disagio sociale si mescolano ad un contesto prevalentemente malavitoso. Quindi assicurando uomini e mezzi per l’ordine pubblico. Mostrando fermezza politica verso probabili azioni di disturbo dell’onnipresente associazionismo di contestazione. Non tralasciando adeguate misure di solidarietà e sistemazioni provvisorie in favore dei soggetti più deboli e incolpevoli. L’impresa è difficile, ma doverosa se si vuol mostrare che lo Stato non cede alla camorra. Lasciarla fallire o svanire in tempi indefiniti sarebbe nuova umiliazione per Napoli e le istituzioni. Sassari: omicidio Erittu, il pg chiede 3 ergastoli per due detenuti e un agente di Nadia Cossu La Nuova Sardegna, 2 dicembre 2018 Il giallo del detenuto morto a San Sebastiano. Ieri la nuova requisitoria dopo la parziale rinnovazione del dibattimento. “Bigella era lì, in quella cella. Bigella ha ucciso Erittu e con la sua confessione, con il suo racconto e i dettagli forniti, ha offerto la prova regina dell’essere lui l’autore materiale del delitto. Ha dato quella che gli americani chiamano la “prova della pistola fumante”. E la sua attendibilità fa dunque ritenere che siano responsabili dell’omicidio, in concorso, anche le persone che Bigella ha chiamato in correità. È una delle tante certezze che Gian Carlo Moi, il sostituto procuratore generale della corte d’assise appello, elenca a chiusura della sua requisitoria prima di chiedere la condanna all’ergastolo per i tre imputati dell’omicidio di Marco Erittu, il detenuto trovato senza vita nella sua cella di San Sebastiano il 18 novembre del 2007. Carcere a vita, la richiesta del pg, per Pino Vandi, Nicolino Pinna e per l’agente di polizia penitenziaria Mario Sanna. E un anno e sei mesi per i due colleghi di quest’ultimo accusati di favoreggiamento: Giuseppe Sotgiu e Gianfranco Faedda. “Non è un processo contro la polizia penitenziaria - puntualizza Moi. Dentro il carcere ci sono uomini che salvano vite umane tutti i giorni. È un processo contro Bigella, contro Pinna, contro Vandi e contro Sanna”. Erittu, dunque, quel giorno di undici anni fa non si sarebbe suicidato. Non per il procuratore generale, almeno: “Lui voleva uscire dal carcere per parlare con il procuratore. Ma non ha potuto farlo perché è stato ucciso”. Ammazzato da quelle stesse persone che la corte d’assise di Sassari a giugno del 2014 ha invece assolto “per non aver commesso il fatto”. Davanti alla corte d’assise d’appello presieduta da Plinia Azzena (a latere Marina Capitta), Moi ha ricostruito per la seconda volta i fatti del 2007 attraverso perizie, testimonianze, comparazioni scientifiche. Ieri, però, aveva in mano un elemento in più: la nuova perizia del professor Sergio Lafisca. Era stato lo stesso pg - a novembre di due anni fa - a sollecitare “la parziale rinnovazione del dibattimento con l’espletamento di un’altra perizia medico legale”. La corte aveva accolto la richiesta e infatti, nel giorno in cui tutti aspettavano la sentenza, i giudici erano usciti dalla camera di consiglio con un’ordinanza che, di fatto, riapriva il processo. Erittu era stato trovato morto nella sua cella dell’ex carcere di San Sebastiano, il caso inizialmente era stato archiviato come suicidio e poi riaperto in seguito alle dichiarazioni del pentito Giuseppe Bigella che si era autoaccusato del delitto chiamando in correità Vandi come mandante, Pinna che avrebbe aiutato a inscenare il suicidio e Sanna che avrebbe aperto la cella. Moi ieri ha rilevato le incongruenze che farebbero optare per l’omicidio: “La modifica dolosa dei luoghi (la cella di Erittu ndc), le contraddizioni sul servizio delle guardie in reparto e quelle relative alla posizione del cadavere al momento del ritrovamento”. E poi la famosa striscia di coperta che Erittu avrebbe usato per suicidarsi. “C’era il Dna ma è un risultato quasi del tutto ininfluente - aveva detto il perito Lafisca. Dimostra infatti solo che la striscia ha toccato un punto del corpo di Erittu sul quale vi era materiale ematico. Ma non dimostra che si è suicidato strangolandosi con quella striscia perché in tal caso il materiale sarebbe stato di maggiore quantità”. Roma: storie di cibo, dialogo e riscatto sociale di Michela Canzio La Stampa, 2 dicembre 2018 A Roma, l’associazione di giornalismo ambientale Greenaccord Onlus organizza il 4 dicembre una giornata di studio per approfondire il ruolo del cibo come strumento di pace e confronto interculturale. I loro nomi sono tutto un programma e non possono non strappare un sorriso, per l’ironia tutta romana che li ha prodotti: Fa Er Bravo, Er Fine Pena, Drago ‘n Cella, Gnente Grane, Buona condotta, Regina Birrae. Sono solo alcune delle decine di birre artigianali figlie di un esperimento che sta coinvolgendo alcuni detenuti del carcere di Rebibbia a Roma. Per loro, il lavoro esterno è stata un’opportunità di riscatto. Per la collettività, la storia del Birrificio “Vale la pena” dimostra le possibilità connesse con l’uso sociale di cibo, alimentazione e agricoltura. “Esperienze come la nostra dimostrano i vantaggi del reinserimento dei detenuti. Il tasso di recidive viaggiano al 70% fra i detenuti che scontano la pena in carcere e crollano ad appena il 2% tra chi viene inserito in circuiti produttivi” spiega Paolo Strano, presidente della Onlus Semi di libertà, che lui ha avviato con altri operatori del Centro Clinico della Casa Circondariale Regina Coeli di Roma e che ha poi dato vita al progetto Vale la pena, premiato dalla Commissione europea come esempio di innovazione sociale. “Ogni detenuto, in condizioni che hanno portato la Corte di Strasburgo a comminare parecchie sanzioni all’Italia, ci costa circa 3.700 € al mese. Strapparli al circolo delle recidive, vuol dire risparmiare molti soldi. Senza contare i costi sociali che conseguono dai reati che non verranno commessi”. Ma quello del birrificio romano è solo uno dei tanti casi virtuosi che hanno come protagonista il cibo. Alcuni di queste storie saranno al centro di una giornata di studio organizzata a Roma all’Aula Magna Augustinianum il 4 dicembre prossimo dall’associazione di giornalismo ambientale Greenaccord Onlus in collaborazione con la Regione Lazio e l’Arsial (Agenzia Regionale per lo Sviluppo dell’Agricoltura nel Lazio). Non solo birre ma anche agricoltura biologica al servizio dei ragazzi disabili e pinse romane realizzate dalla comunità bengalese. “Crediamo importante, soprattutto in questo momento storico, trovare strumenti per costruire condivisione, dialogo e confronto tra i popoli. Il cibo è uno di questi strumenti perché è un potente filo conduttore comune a tutte le latitudini” spiega Alfonso Cauteruccio, presidente di Greenaccord Onlus. “Poche cose infatti sono tanto universali e trasversali alle diverse culture da poter essere trasformato in elemento di pace, di congiunzione e di inclusione”. Ma il valore del cibo, nella società consumistica e votata al profitto, è troppo spesso svilito, derubricandolo all’ennesima forma di profitto che danneggia la salute, le popolazioni locali e l’ambiente. Occorre un cambio di passo per riconsegnare a questo elemento fondamentale per la vita collettiva i suoi valori positivi. Come riuscirci? “Le cose da fare non mancano: rivoluzionare gli stili di consumo, ripensare le tecniche di produzione e ricostruire le filiere agricole facendo riscoprire loro i saperi tradizionali, in modo da ridurre l’impatto ambientale e sociale dell’agricoltura e riaffermare la centralità dei piccoli produttori”. Porto Azzurro (Li): il carcere cerca un direttore per la falegnameria quinewselba.it, 2 dicembre 2018 L’Istituto penitenziario di Porto Azzurro cerca un direttore tecnico per formare e supportare le attività dei detenuti. Il contratto sarà di un anno. È stato pubblicato un avviso per la ricerca di un direttore tecnico falegname per la Casa di reclusione di Porto Azzurro. La persona dovrà avere documentata esperienza nel settore e dovrà occuparsi della formazione dei detenuti e seguire la attività della falegnameria del carcere anche per le commesse esterne. La domanda dovrà essere redatta su appositi moduli e dovrà essere poi inviata tramite mail pec all’indirizzi indicato nell’avviso pubblico. La persona che si aggiudicherà l’incarico della durata di un anno, dovrà svolgere lavoro autonomo con partita Iva per un compenso totale lordo all’ora di 20,42 euro. Le ore settimanali previste complessivamente potranno arrivare fino a trenta. L’avviso e i moduli sono stati inviati per la pubblicazione all’albo pretorio dei Comuni dell’isola d’Elba, alla Camera di Commercio e anche sul sito del Ministero della Giustizia. La scadenza per far domanda è fissata al 18 dicembre 2018. Napoli: Gino Strada incontra i detenuti a Poggioreale Il Roma, 2 dicembre 2018 In occasione della quinta giornata del Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli. Un fragoroso applauso ha accolto l’arrivo di Gino Strada (nella foto di Cesare Abbate) nella chiesa della casa circondariale di Poggioreale, dove il fondatore di Emergency ha incontrato i detenuti in occasione della quinta giornata del Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli. Nella struttura penitenziaria è stato proiettato il mediometraggio Open Heart, film documentario che narra del centro Salam in Sudan, unico luogo in tutto il continente africano che offre cure cardiochirurgiche gratuite. È seguito un dibattito che ha coinvolto gli ospiti della casa circondariale e che ha visto come relatori lo stesso Strada, l’attivista e padre comboniano Alex Zanotelli, il parroco di Scampia Fabrizio Valletti e la direttrice del carcere Maria Luisa Palma, moderati dal vicedirettore di Famiglia Cristiana Luciano Scalettari. Raccontare il mondo ai detenuti. “Questo Festival - ha raccontato a margine dell’evento ai cronisti Strada - è un modo per raccontare ai detenuti il mondo fuori dal carcere. Lo facciamo attraverso un film che non è sulla guerra, ma sull’assenza di cure in Africa. Ancora oggi in tutta l’Africa il Salam è l’unico ospedale gratuito per tutti dove si può ricevere chirurgia cardiaca, impensabile in Africa ma venti anni fa ci abbiamo provato ed è stata una bella scommessa vinta”. Sul tema Strada è tornato anche durante il dibattito con il pubblico in sala: “Tutti gli uomini nascono con pari diritti, noi consideriamo i sudanesi avere pari diritti nostri. Se un bambino europeo ha un problema cardiaco, noi esigiamo venga operato subito. Se nasciamo tutti con pari diritti, perché questo deve essere precluso a un bambino africano?”. E sulla gratuità della sanità afferma: “Ci stiamo abituando a considerare che anche ciò che ci spetta di diritto va pagato”. Dal carcere l’appello di Strada a Mattarella. L’incontro, organizzato dal Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli, è stato anche l’occasione per i cronisti di chiedere a Strada importanti opinioni sull’attualità. Sul dl sicurezza, Strada afferma: “Penso che sia una forma di razzismo e di fascismo. Sono sicuro che questo decreto non passerà senza conseguenze e che porterà sofferenze in più per un sacco di gente perché si restringe di fatto la possibilità di aiutare le persone”, poi spera in Mattarella. A chi chiedeva se confidava in rilievi da parte del Presidente della Repubblica ha infatti risposto: “Lo spero. Non so in che termini ma spero di sì perché così mi sembra davvero pesante”. Sulla situazione politica in Italia, Strada definisce la sinistra “sparita” e affonda: “C’è una deriva qualunquista, fatta di poche idee, di egoismo, di prevaricazione, del disinteresse verso le persone e verso i problemi”. Definisce Salvini ideale continuatore delle politiche di Minniti e sulla situazione migranti commenta: “Si fa credere alla gente che il problema siano i migranti, eppure ora che i migranti sono diminuiti del 70-80 per cento non abbiamo visto un aumento del 70-80 per cento dei posti di lavoro”. Gli organizzatori. Il coordinatore del Festival Maurizio Del Bufalo ha dichiarato: “Il Festival è nato dieci anni fa con lo spirito e l’ambizione di parlare di diritti umani attraverso il linguaggio cinematografico, attraverso storie di resistenza. Oggi dobbiamo dire che, a 70 anni dalla scrittura del testo della Convenzione dei diritti umani, quei diritti sono stati traditi. Luogo migliore del carcere per parlare di queste istanze non ce n’è. È una giornata grigia, ma la presenza di Gino Strada ha portato un raggio di sole”. L’incontro a Forcella. Dalle 18 la giornata Emergency si sposta nello Spazio Comunale Piazza Forcella (via Vicaria Vecchia 23), dove è prevista la proiezione di “Immagine dal vero” di Luciano Accomodato. Chiude la giornata Emergency la performance live di Maurizio Capone, mentre domenica 2 dicembre a esibirsi dal vivo a Piazza Forcella sarà Maldestro. Il Festival del Cinema dei Diritti Umani è organizzato in collaborazione con l’Assessorato alla Cultura e al Turismo del Comune di Napoli ed è patrocinato e sostenuto dall’Ambasciata Svizzera in Italia, dall’Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo e dall’associazione 46° Parallelo. Media Partner: i Diari di Cineclub. Reggio Calabria: una “rivoluzionaria” delle carceri pronta a sbarcare a Roma di Grazia Candido strill.it, 2 dicembre 2018 È una donna molto forte, sicura di sé, con obiettivi ben precisi da portare a termine e, in ogni cosa che fa, mette testa e cuore perché per lei l’importante è “fare e farlo bene senza se e senza ma”. Maria Carmela Longo, direttrice della Casa Circondariale di Reggio Calabria e di Arghillà, indossa quotidianamente una corazza ma in realtà, è una donna sensibile e attenta che non si fa scalfire dai pregiudizi e ha dimostrato che “il carcere non ha solo la funzione di infliggere una pena ma anche riabilitativa”. Facciamo un bilancio di questi anni di lavoro come direttore delle carceri di Reggio Calabria: cosa è cambiato e com’è adesso la situazione? “Ci vorrebbero giornate intere per sintetizzare questi ultimi 15 anni però, posso dire che quando sono arrivata a Reggio Calabria c’era solo l’istituto penitenziario di San Pietro, un istituto che ha quasi 100 anni e versava in pessime condizioni strutturali determinando una pessima qualità di vita delle persone detenute. Da 15 anni a questa parte, l’obiettivo che mi sono imposta riuscendoci, è stato di ristrutturare l’istituto penitenziario dotando tutte le camere di pernottamento di servizi igienici e doccia in cella. Una vera conquista visto che quasi tutti gli istituti penitenziari in Italia, hanno le docce in comune. Quindi, più che direttore del carcere sono stata un architetto, un ingegnere, un progettista, un arredatore. È pur vero che queste operazioni hanno comportato un notevole innalzamento della qualità della vita delle persone ristrette ma hanno determinato anche una notevole mole di lavoro del personale di Polizia penitenziaria con incombenze di non diretta competenza. Ad oggi, tutto l’istituto è ristrutturato ed è a norma di regolamento. A questo, si è aggiunto l’altro grande obiettivo di aprire il carcere di Arghillà, l’ennesima opera incompiuta di questa terra, i cui lavori erano iniziati 30 anni fa e poi fermati e la struttura abbandonata e saccheggiata più volte era diventata una cattedrale che necessitava di urgenti interventi”. E poi Arghillà fu aperto in breve tempo… “Cinque anni fa, abbiamo vissuto un periodo di sovraffollamento della popolazione carceraria, San Pietro ospitava oltre 400 detenuti e la capienza tollerabile era di circa 260 posti. Si può intuire il livello di insostenibilità della qualità della vita e la necessità di aprire urgentemente Arghillà. Nel giro di 2 anni, siamo riusciti a portare avanti i lavori necessari per l’attivazione e quando l’immobile è stato consegnato all’amministrazione penitenziaria, abbiamo sistemato la struttura con un lavoro immane e pesantissimo per tutti, sia dei detenuti che, organizzati in squadre, giornalmente, salivano ad Arghillà per montare gli infissi, gli arredi, pulire e tanto altro sia per il contingente di personale della Polizia penitenziaria che andava per mettere in essere tutte le iniziative per il funzionamento dell’istituto. In 4 mesi, abbiamo aperto l’istituto con detenuti già ospitati non a pieno regime ma i 2/3 dell’istituto era stato già occupato dai detenuti provenienti da tutta la Regione”. È particolarmente apprezzata per il suo impegno e meticoloso lavoro nelle carceri e la cosa che colpisce per chi entra sia nella casa penitenziaria di Arghillà che in quella di San Pietro, è l’organizzazione, la pulizia e le numerose attività lavorative e ricreative che possono fare i detenuti… “Ho coinvolto i detenuti nei miei obiettivi e quelli dell’amministrazione penitenziaria perché con il coinvolgimento e il consenso nella progettualità, si hanno maggiori possibilità di raggiungere i risultati. Questo vale anche per il coinvolgimento del personale di Polizia penitenziaria perché qualunque iniziativa prima si deve condividere e poi si fa. Quella dell’ordine e della pulizia è una mia fissazione perché credo che siano una delle condizioni primarie nella vita di qualunque individuo quindi, non vedo perché per i detenuti e per i familiari che vengono al colloquio, non ci debbano essere queste due condizioni. In fondo, il carcere è un insieme di persone diverse tra loro, che non si sono scelte ma che, comunque, in maniera forzata sono costrette a vivere coattivamente. Questo però, non è detto che precluda che le condizioni di vita non debbano essere pari a quelle della vita fuori”. Lei ha fatto una vera “rivoluzione” nel senso che è riuscita a creare un rapporto del carcere con la città. Qualche giorno fa, infatti, si è concluso un torneo di basket nel quale insieme ad alcune squadre di Reggio, ha partecipato anche una squadra composta da detenuti del carcere di Arghillà vincendo il torneo. Lo sport è un buon mezzo per riabilitarsi, per riscattarsi… “Il carcere non è una realtà a sé ed è giusto che la gente sappia cosa sia un istituto penitenziario, cosa facciamo, quali sono i nostri obiettivi, la funzionalità che ha all’interno di un contesto sociale. È importante che ci sia una rieducazione per chi ha sbagliato e anche che gli si dia un’altra chance in questa vita. Certo, ogni caso va trattato in modo diverso. Ma sono sempre persone e tali li dobbiamo considerare. Lo sport poi, aiuta i progetti di riabilitazione e rieducazione della persona creando aggregazione e imponendo anche, il rispetto delle regole”. Il suo non è un lavoro facile, il carcere è una realtà molto “forte” da sopportare quotidianamente. Come fa? “Faccio. Intanto, credo che le difficoltà fisiologiche e naturali le troviamo in ogni contesto lavorativo. Certo, ci sono contesti come quello penitenziario o quello ospedaliero dove l’impatto con la sofferenza è più concreto, anche ascoltare le storie personali di tutte queste persone è forte, pesante. È chiaro che questa realtà emotivamente ti coinvolge ma la leggo al contrario: se è vero che stare in queste strutture può sembrare angosciante, opprimente, paradossalmente per me, diventa un punto di forza nella misura in cui mi rendo conto di essere una persona fortunata nella vita ed apprezzo quello che ho. Io dò il giusto valore a quello che ho senza crearmi aspettative, penso a chi sta peggio di me e sono felice della mia condizione. Questo, mi consente di raggiungere un equilibrio personale anche nel relazionarmi con gli altri. Il contesto penitenziario non è opprimente, è un contesto di sofferenza come ce ne sono tanti però, è un contesto vivo, fatto di esseri umani ognuno con i propri limiti e i propri pregi. A volte, anche un sorriso con un detenuto o con il personale rende il contesto lavorativo più sereno. Chiunque fa ingresso in un istituto penitenziario fa questa considerazione: non sembra un carcere perché nell’immaginario collettivo si pensa al carcere coma ad un luogo triste, angusto, grigio ma in realtà, il carcere è un luogo fatto di persone. Poi, ogni situazione, ogni storia va trattata a sé”. Si dice che presto lascerà Reggio Calabria per la Capitale, è vero? “Sì è vero e ci spero. Perché dopo tanti anni, quando sai che hai realizzato gli obiettivi che ti eri prefissata, vuoi altri stimoli e non ti accontenti della banalità quotidiana. Stare a Reggio Calabria non è facile e ho il primato di essere il direttore che è stato più a lungo in questa città, il periodo di permanenza dei miei predecessori è di due anni. Non nego che per questa lunga permanenza, ho pagato un prezzo a titolo personale e privato elevatissimo quindi, è inevitabile che io adesso voglia cambiare. Certo, forse andrò in un contesto ancora più difficile e gravoso però avrò nuovi stimoli. Questa decisione mi pesa tantissimo anche perché San Pietro e in particolar modo Arghillà, sono la mia famiglia. Arghillà l’ho creata io, è come se fosse un figlio mio. Però, ci sono momenti in cui bisogna cambiare”. Cosa augura a Reggio Calabria e a quei detenuti che una volta usciti da questa esperienza, riprenderanno in mano la loro vita? “Ho sempre fatto e continuerò a fare affinché le persone una volta uscite dal carcere possano essere in condizioni personali diverse rispetto a quelle in cui erano quando hanno fatto ingresso. Anche il cambiamento su una persona è per me un successo. È vero che la nostra Costituzione parla di rieducazione dei detenuti però, è anche vero che un adulto difficilmente è rieducabile. È difficile farlo con un bambino figuriamoci con un adulto. Reggio Calabria mi ha insegnato una cosa: molte volte, le nostre scelte non sono libere e dipendono da noi stessi ma dipendono anche dalle condizioni esterne e molte di queste sono negative come la mancanza di lavoro regolare. Quando ci fu l’indulto nel 2006, tanti detenuti non volevano uscire perché qui lavoravano e percepivano uno stipendio regolare, fuori non avrebbero avuto la stessa possibilità. Hanno dichiarato di voler rimanere in carcere perché altrimenti sarebbero tornati a bussare alle porte sbagliate, a non veder crescere i loro figli in luoghi adeguati. Questa è una grande e grave realtà. Altri detenuti invece, hanno scelto di andare via, al Nord, e portare a seguito la famiglia perché è chiaro che ogni genitore vuole un futuro sereno per i propri figli. Da noi queste condizioni non ci sono. Io come direttore incentivo chi vuole andare via, sostengo questa scelta radicale perché in una terra come la nostra, l’assenza di lavoro è una nota dolente. Sicuramente, serve un cambiamento di mentalità e se non si ripristina a fondo la legalità in questi territori, siamo sempre al punto di partenza”. Pavia: il Centro Synodeia, ogni giorno in carcere dalla parte delle famiglie di Valeria Sforzini La Provincia Pavese, 2 dicembre 2018 La storia della psicologa pavese tra quelle raccontate ieri in università: un appuntamento annuale dove l’obiettivo è ridurre le distanze tra i generi. Le donne che ce l’hanno fatta non sono donne arrivate. Sono persone in cammino, ma la cui storia rappresenta un modello che lancia un segnale, un esempio positivo per chi ancora sta lottando per realizzare i propri sogni. Angela Chiofalo ha 39 anni, è pavese ed è una psicologa libera professionista esperta in mediazione sociale e ambito familiare, che collabora con le carceri di Torre del Gallo a Pavia oltre che Voghera e Opera. Dieci anni fa ha creato Synodeia, il centro che unisce le competenze di psicologi, artisti e arte-terapeuti dando vita a progetti di sostegno per famiglie in difficoltà, aiutando madri, padri e figli a comunicare attraverso linguaggi non verbali. Anche lei fa parte delle 30 donne “che ce l’hanno fatta”, che ieri in aula Foscolo hanno ritirato il premio dedicato a coloro che, grazie alla loro determinazione, sono riuscite a realizzarsi, abbattendo stereotipi e ostacoli. Il progetto è stato avviato per la prima volta all’Università di Pavia il 4 marzo 2014, e nella mattinata di ieri si è svolta la quarta edizione organizzata dagli Stati generali delle donne, Sportello Donna e Fondazione Gaia. “Prima di tutto, io mi sento una persona - ha spiegato Angela Chiofalo - più che donna, vorrei essere riconosciuta per la persona che sono. Spero che le storie positive che sono state raccontate oggi possano fare da cassa di risonanza e ispirare tante che credono di non farcela. Mi sono avvicinata alle questioni di genitorialità per formazione, la prima esperienza in carcere è stata illuminante, ma anche gli incontri che ho fatto hanno influito sulle mie scelte. Nella vita, possiamo soccombere, o scegliere di usare gli eventi traumatici per riflettere sulla nostra esistenza, assumerci le nostre responsabilità e essere più forti. Possiamo usare quello che avviene per migliorarci”. Se sono tante le donne che raggiungono dei traguardi importanti, non mancano gli uomini che si danno da fare per ridurre disuguaglianze e ingiustizie sociali. Sono stati definiti “Uomini Illuminati”, i 26 professionisti, artisti, imprenditori che ogni giorno lavorano per ottenere un cambiamento. “Sono uomini che si siedono al tavolo con noi per discutere, danno il loro contributo per ridurre le distanze tra i generi e che condividono con noi prospettive future di cambiamento - ha spiegato Isa Maggi, coordinatrice nazionale degli Stati generali delle donne - anche per questo abbiamo deciso di creare il manifesto sulla violenza maschile di genere, la Carta di Pavia, sul modello della convenzione di Istanbul che delimiterà il perimetro entro cui muoversi e segnerà un modello per il futuro”. Milano: “La partita con papà”, incontro di calcio oltre le sbarre, in cerca di normalità di Federico Taddia La Stampa, 2 dicembre 2018 Al via la campagna che permette ai bambini di entrare in carcere a giocare con i genitori detenuti. Una giornata nell’istituto di Bollate. “Ciao papà, finalmente: non vedo l’ora di farti un bel tunnel”. Un cinque scambiato con l’entusiasmo di chi si trova davanti il suo più grande amico. Poi un abbraccio avvolgente. Infinito. Stretto e complice. Di chi è da un po’ che non si vede, ma sa che l’altro comunque c’è. E gli manca da morire. Scene da bordo campo, dietro ad una panchina improvvisata dove si intrecciano occhi di padri e occhi di figli, pronti ad entrare in un fangoso rettangolo di gioco che oggi per questi calciatori vale quanto San Siro. Anche se a posto delle tribune ci sono grigie pareti di recinzione alte dieci metri. Siamo al carcere di Bollate, poco fuori Milano, uno dei 60 istituti di pena che hanno aderito alla campagna “La partita con papà” organizzata dalla Onlus “Bambinisenzasbarre”, e che in queste settimane vedrà coinvolti 1.400 detenuti e quasi tremila bambini. “È da un po’ che non giochiamo insieme, l’ultima volta lo abbiamo fatto quando ero ancora fuori da qui, in una festa in paese tra genitori e figli. Sono emozionato e curioso, non vedo l’ora che cominci la partita: fare cose con loro è importantissimo, loro sono la nostra ricarica”. Non nasconde la gioia Sergio, mentre dalla linea di fondo segue il suo cucciolo sfrecciare dietro al pallone. La memoria, lo ammette, va alla libertà perduta, ma davanti a sé - in quell’istante - è come se vedesse un futuro possibile. Un futuro che, con la scusa di una partita di calcio, può abbracciare, toccare, coccolare. “Giocare a calcio con il papà è uno dei desideri che i figli dei detenuti esprimono con più frequenza e così quattro anni fa è nata l’idea della partita”, spiega Lia Sacerdote, presidente di Bambinisenzasbarre, associazione nazionale che opera nei carceri per favorire e proteggere la relazione tra i genitori e bambini, con moderne intuizioni come lo “Spazio giallo”, un angolo allestito nella sala d’aspetto prima dei colloqui. Un luogo spesso asettico e snervante, trasformato invece in una parentesi colorata dove far trascorrere il tempo dell’attesa dei controlli e far scaricare la tensione. “I figli dei detenuti spesso sono stigmatizzati dagli amici, loro stessi spesso non sanno perché il loro papà è in prigione e le 6 ore a disposizione ogni mese, anche se in alcuni casi possono aumentare fino a 10, sono pochissime per saldare e ravvivare un rapporto. Il concetto che vogliamo far passare è quello che del proprio padre non bisogna vergognarsi: papà ha sbagliato, papà sta pagando ma poi quando se ne tornerà a casa sarà tutto normale. La partita accentua questa normalità, questo poter fare qualcosa di usuale e auspicato insieme”. Normalità esplode con il fischio d’inizio: due squadre di ragazzi, dai nomi più che evocativi: “CR7” e “Messi”. E due squadre di adulti: “I padri di CR7” e i “Padri di Messi”. “Sono i figli che hanno voluto sfidare i grandi, proprio per dimostrare quello che sanno fare: è un agonismo senza agonismo, per il gusto di fare un dribbling o bel passaggio davanti a papà”. Giacomo è in carcere da quasi tre anni e mezzo. Ha appena terminato il colloquio con la figlia e poi invece delle scarpe da calcio ha preso un registratore e sta improvvisando la cronaca della giornata. “Un lato positivo è che i bambini possono conoscere il carcere per quello che è: non solo una punizione, ma un’occasione d’inserimento. E lo sport è inserimento”. Corrono i padri, ma i figli corrono di più. Qualcuno finge di cadere, chiamando scherzosamente un rigore inesistente. C’è chi con i piedi ci sa fare e chi invece si accontenta di poter abbracciare in area il figlio durante un corner: un gesto d’affetto val pure un rigore. “Ho visto dei papà che cadevano da soli”, scherza Davide durante l’intervallo mentre salta sulle spalle del genitore con la necessità di contatto tipica dell’età. “Si vede che noi giovani siamo più allenati, ma pure loro non se la cavano male dai”, commenta invece ironico Tommaso. “Era da un sacco che non toccavo il pallone con mio padre: sono felice. Poi ho vinto pure un contrasto con lui, quindi lo sono ancora di più”. E mentre le mamme sorridono da lontano, aggrappandosi con immane bisogno a questi attimi di spensieratezza, anche qualche bambina chiede giustamente di poter giocare. Come è successo nel carcere di “Opera”, dove è scesa in campo una squadra di ragazze. “I diritti dei grandi cominciano dai diritti dei bambini”, e il diritto all’essere padre - all’essere genitore - e il diritto ad essere figlio, oltre ogni sbarra, è la partita che giocano ogni giorno gli operatori di “bambinisenzasbarre”. “Sì, perché noi siamo dentro ma fuori i nostri figli crescono, cambiano, evolvono” - racconta Tony, tra un passaggio e l’altro, con la faccia sudata e la mano che cerca la testa del suo tesoro da spettinare. “Passi tanti colloqui, dove magari se ne stanno zitti e non aprono bocca. E poi, quando meno te lo aspetti, ti chiedono: “Papà, quando torni a casa?”. Prendere a calci un pallone oggi ci ha fatto prendere a calci un po’ di questa costante sofferenza”. Belluno: carcere di Baldenich, sfida a calcio tra le sbarre di Alessia Trentin Il Gazzettino, 2 dicembre 2018 Partita di calcio nel campo del carcere tra detenuti con figli e altri senza prole. I bambini non c’erano, il campetto è troppo piccolo per permettere vere partite. Tuttavia al carcere di Baldenich ieri alle 10.30 è stato ugualmente dato il fischio d’inizio alla sfida promossa dall’associazione Bambini senza sbarre per sensibilizzare sulla condizione dei figli di carcerati. Una proposta lanciata a livello nazionale, raccolta anche dal penitenziario di Belluno. Le dimensioni del campetto e la mancanza di spazio ai lati per il pubblico hanno però imposto una modifica: in campo sono scesi non i padri carcerati e i loro figli, ma i detenuti con prole in sfida contro quelli senza prole. Il valore dato alla mattinata era lo stesso. Cinque contro cinque, il piccolo spazio permette solo il calcetto. Erano le 10.30 circa quando dieci carcerati con la casacca colorata per differenziare le due squadre e i pantaloncini corti d’ordinanza, sono usciti dal loro reparto nella sezione maschile per raggiungere il mini campo di ghiaia. Felici, nonostante il terreno di gioco inadatto, piccolo e mal attrezzato. Con loro volontari del Csi, presente in carcere ogni sabato pomeriggio per stimolare all’attività sportiva. “Sono stati proposti vari sport spiega l’educatrice, Lina Battipaglia -, ma quello che va per la maggiore è senza dubbio il calcio. Durante la settimana chiediamo chi vuole giocare, così gli operatori del Csi arrivano e trovano le squadre già formate. Se qualcuno aderisce, prende dunque l’impegno, ma poi non si presenta allora questo viene considerato negativamente”. Lo spazio per l’attività sportiva è un rettangolo circondato da muri, con sabbia a terra e protezioni blu agli angoli delle pareti, per proteggerli dal pallone. Quando piove molto si allaga. Non cresce l’erba e non è attrezzato se non con due porte. La direttrice Tiziana Paolini ha segnato in agenda il suo rifacimento, ma finora ci sono sempre stati interventi più importanti e più urgenti agli interni della struttura. Forse in futuro, se arriveranno finanziamenti esterni, il sogno si realizzerà. Al momento una parte della sezione maschile è occupata dagli operai e i suoi ospiti sono stati spostati in altre strutture penitenziarie. Si sta implementando l’impianto elettrico per permettere di sostituire i fornelli a gas con piastre elettriche. Più sicure e più comode. “I detenuti possono cucinare da sé in cella spiega Paolini -, anche se le cucine forniscono pasti a colazione, pranzo e cena. Due volte la settimana c’è la possibilità di acquistare prodotti dal punto vendita interno”. Con l’occasione si stanno anche rinfrescando i muri delle con una mano di pittura e si effettuano piccole manutenzioni per migliorare la vivibilità. Il tutto grazie a finanziamenti dell’Associazione Esodo, che riceve a sua volta fondi dalla Fondazione Cariverona. Milano: “Ha ucciso Tebaldo, che pena merita?”, i ragazzi dell’Ipm processano Romeo di Brunella Giovara La Repubblica, 2 dicembre 2018 Shakespeare riscritto per l’istituto minorile. Confronto tra giudice, legali e testimoni. E per il 16enne si decide la messa in prova. Niente balcone sotto la luna, niente costumi di velluto, qui si parla di omicidio. Imputato, tale Montecchi Romeo di sedici anni, accusato di aver ammazzato con un coltello un certo Tebaldo. Fatti successi a Verona, forse qualcuno se li ricorda. E c’era di mezzo anche una ragazzina di 14 anni non ancora compiuti, Giulietta, una che poi si è uccisa, poveretta. Ma lei non c’è, su questo palcoscenico. C’è il dopo, quello che Shakespeare non poteva immaginare, avendo scritto The Most Excellent and Lamentable Tragedy of Romeo and Juliet nell’anno 1596. Non c’era un processo speciale per i minorenni, o l’istituto della messa alla prova, il ragazzo che sgarrava finiva in galera con gli altri e poi sotto la mannaia, e solo per un colpo di fortuna il Montecchi in questione veniva condannato all’esilio. Qui Romeo viene processato come si deve. Ha un avvocato difensore, un giudice, anzi più giudici, e assistenti sociali, consulenti della difesa, psicologi. Il tutto è andato in scena ieri sera nell’istituto penale Beccaria di Milano. Un minorile. Centosettanta spettatori, una trentina di persone al lavoro da tempo per costruire questo “Romeo Montecchi, colpevole o innocente?”, laboratorio teatrale in collaborazione con l’associazione Puntozero. Gli attori, venti studenti della Statale e dodici coetanei detenuti (al minorile si sta anche dopo il raggiungimento della maggiore età), mescolati tra di loro, in un singolare esperimento non solo teatrale, tanto che “è venuto fuori il lato più crudo di noi stessi, questo ho pensato pochi giorni fa”, dice Margaret Rose, docente di Storia del Teatro inglese con la collega Mariacristina Cavecchi. “Nessun testo shakespeariano come Romeo e Giulietta parla della vita dei giovani: ragazzi irrequieti, sbandati, fuorilegge”. Ma questa non è l’ennesima versione della tragedia famosa, non è West Side Story, “con Montecchi e Capuleti trasformati in bande antagoniste che vivono nelle periferie di qualche città ai giorni nostri. Volevamo che i ragazzi detenuti, ex detenuti e i nostri studenti scrivessero una loro versione della tragedia con attenzione specifica per il codice penale minorile”. Bisogna anche dire che spesso chi sta in galera non sa niente della legge che lo riguarda, e spesso non parla neanche italiano, quindi si può immaginare anche la fatica per riuscire a recitare un testo e va quindi elogiato il Romeo che è salito sulla pedana di legno, - una scenografia più che povera - e il suo racconto dell’omicidio compiuto: “Ricordo solo la rabbia. Il cuore batte all’impazzata, sento delle grida: basta, basta, fermati! così lo ammazzi. Poi il silenzio”. E poi “non mi muovo, non grido, non piango. Non mi sembra vero, come sono finito qui?”. E ci sono i testimoni. Uno racconta la rissa mortale che ha visto, “eravamo tutti ubriachi” e domanda “posso fumare adesso?”, ripete che “è stato un incidente, abbiamo finito, e posso fumare?”. Il secondo teste: “Eravamo in discoteca, verso le 4 del mattino succede una lite, è arrivato uno che ha insultato, Mercuzio ha tirato un pugno, allora Romeo tira fuori un coltello e gli dà un paio di colpi, e Tebaldo è morto”. Il terzo, anche lui è un detenuto che avrà 17 anni, “avevo tirato le sei bevendo, a casa mi sono poi fatto uno spinello, poi in piazza ho visto la banda dei Montecchi, mi hanno insultato, Mercuzio comincia a schiaffeggiarmi, era una rissa, io sputo e poi me ne vado, e me ne sbatto di quello che è successo dopo”. Racconti efficaci, i ragazzi non faticano a dirli perché il linguaggio è il loro, la storia è ambientata nel 1303 e anche oggi. Giuseppe Scutellà, il regista. Ex obiettore di coscienza proprio al Beccaria, ex Scuola Paolo Grassi, uno che lavora insieme a Lisa Mazzoni a Puntozero e quindi al minorile di Milano di fatto da 23 anni: “Durante le prove c’è stato un confronto anche drammatico tra coetanei, detenuti e studenti. A volte ho visto la paura negli occhi di qualcuno. All’inizio, poi è passata”. C’è un potere pedagogico e persino terapeutico, nel teatro, ma non è una novità. Né questi sono i primi a fare teatro in carcere, ma i protagonisti di questo Romeo raccontano, dopo, di quanto la cosa li abbia cambiati, sia i bravi ragazzi che la mattina vanno in via Festa del Perdono, sia quelli in attesa di giudizio per furto, o rapina, o spaccio. “Non siamo qui per chiedere di riconoscere un’insussistenza del fatto, né per invocare l’assoluzione dell’imputato, ma siamo qui per chiedere la sospensione del processo con messa alla prova ai sensi dell’art. 28 d.p.r. 448/1988”, chiede l’avvocato difensore. I giudici sono d’accordo, tengono in considerazione la personalità dell’imputato, il contesto famigliare e sociale. Perciò Romeo finirà in una comunità per 3 anni, andrà a scuola, farà lavori socialmente utili. Se tutto andrà bene, il processo finirà lì, con una messa alla prova. Purtroppo non sempre va così. Purtroppo ieri sera non c’erano neanche tutti i detenuti, perché alcuni sono ancora in punizione dopo proteste e disordini successi a luglio al Beccaria. Non c’era neanche Giulietta, peraltro, ma non era la parte più importante. Napoli: progetto “I colori dell’anima” per i detenuti di Secondigliano di Giusy Maruzzella linkabile.it, 2 dicembre 2018 L’Associazione di volontariato “La Mansarda”, ha proposto un progetto rivolto ai detenuti ristretti nel Reparto Mediterraneo del Centro Penitenziario di Secondigliano “P. Mandato”. Tale progetto, intitolato “I colori dell’anima”, pone al centro della discussione l’Arte in tutte le sue svariate forme, come espressione di sé. Un punto di riferimento per riaffermare il proprio mondo interiore senza costrizioni e condizionamenti ma dando spazio alle proprie emozioni. L’obiettivo dell’arte terapia è infatti quello di riconoscere le proprie emozioni e saperle comunicare all’altro. La prima parte di questo progetto che verte su un’elaborazione individuale dell’arte, si connette alla seconda durante la quale i detenuti, collaborando tra di loro, realizzeranno un lavoro collettivo, attraverso cui i colori della loro anime verranno impressi su un muro. Attraverso una metodologia ludico- creativa ma soprattutto educativa, ognuno dovrà mettersi in gioco sviluppando una propria criticità verso sé e verso gli altri. Il detenuto M. scrive “ringrazio tutti voi che avete portato un po’ di sole e mare. Per poche ore mi avete fatto bene al cuore attraverso la condivisione di pensieri e parole vere in queste mura fredde e grigie che fanno appassire le emozioni. Noi che siamo prigionieri del corpo ma non dell’anima” Il progetto, condotto da 7 volontari, avrà una durata di tre mesi, con incontri a cadenza settimanale di 2 ore ciascuno, Non mancheranno i tradizionali triangolari di calcio che daranno la possibilità ai detenuti di sfidare una squadra esterna, invitata dall’Associazione. Ringrazio il prof Samuele Ciambriello, presidente dell’Associazione “La Mansarda” che mi ha nominata referente di questo progetto insieme alla mia collega Flavia Capriello. Già infatti l’anno scorso fui volontaria del progetto “Confrontiamoci” dove ebbi la possibilità di relazionarmi, per la prima volta, con dei detenuti, considerati dalla società stessa come marchiati a vita e senza speranza di riscatto. Ecco, i progetti educativi che mettiamo in atto sono proprio l’emblema dell’art. 27 della nostra Costituzione, spesso abusato ma poche volte applicato. La pena infatti deve tendere alla rieducazione e credo che il volontariato in carcere, condotto attraverso il binomio professionalità e cuore, possa davvero dare una possibilità di rinascita a chi spesso è stato solo estromesso e non ha mai avuto accanto qualcuno disposto ad ascoltarlo e a fornirgli strumenti utili per una mente critica, aperta, cosciente dei propri errori e disposta a cambiare. Paliano (Fr) “Il Vangelo dentro”, letture d’Avvento commentate dai detenuti vaticannews.va, 2 dicembre 2018 A partire da domenica 2 dicembre, prima domenica d’Avvento, andrà in onda su Radio Vaticana Italia alle 12.35, “Il Vangelo dentro”, la rubrica che vede protagonisti 5 detenuti della Casa di reclusione di Paliano (Fr). L’approfondimento, della durata di circa sei minuti e trasmesso tutte le domeniche di Avvento, sabato 8 Dicembre e martedì 25 dicembre 2018, prevede la lettura e il commento del Vangelo festivo in uno dei periodi più importanti dell’anno liturgico. Il Papa al carcere di Paliano - Il carcere di Paliano, ricavato nella Fortezza dei Colonna, ha ospitato nel tempo alcuni noti esponenti della malavita, delle mafie e del terrorismo italiano. Si tratta di un Istituto particolare perché dedicato ai collaboratori di giustizia. Papa Francesco ha visitato la struttura il 13 aprile 2017 e nell’occasione ha celebrato la “Messa in Coena Domini”, con il rito della lavanda dei piedi. “Ogni volta che entro in un carcere mi domando: “Perché loro e non io?”. Tutti abbiamo la possibilità di sbagliare: tutti. E l’ipocrisia fa sì che non si pensi alla possibilità di cambiare vita: c’è poca fiducia nella riabilitazione, nel reinserimento nella società”. Un piccolo contributo di pastorale carceraria - Il messaggio di Papa Francesco in occasione del Giubileo dei carcerati (6 novembre 2016) è stato il motore di questa nuova edizione de Il Vangelo dentro che, anche quest’anno, vuole rappresentare un piccolo contributo di pastorale carceraria, con l’obiettivo della diffusione e della conoscenza delle problematiche del carcere, con l’intendimento di stimolare il dibattito e di accrescere la sensibilità intorno alle tematiche connesse alla vita dei suoi ospiti. I nostri ritardi nella lotta alla povertà di Marco Onado Il Sole 24 Ore, 2 dicembre 2018 La povertà non è solo il problema di coloro che vengono lasciati indietro nello sviluppo, una sorta di prezzo ineluttabile per ogni processo di crescita. È una piaga capace di condizionare le libertà essenziali proclamate fin dai tempi della dichiarazione dei diritti dell’uomo, quindi una minaccia per ogni democrazia. Tanto è vero che come ricorda Massimo Baldini su “Lavoce.info”, Ernesto Rossi, uno degli autori del manifesto di Ventotene, scrisse nel 1942 un libro intitolato “Abolire la miseria”, per indicare uno degli obiettivi prioritari della nuova Repubblica. Ranci Ortigosa è uno studioso che ha dedicato la sua vita a questo problema e ci consegna con questo libro tre importanti lezioni. Primo. La povertà è in continuo aumento nei Paesi avanzati e ha raggiunto, soprattutto in Italia, valori a dir poco imbarazzanti. Dopo la crisi la percentuale di persone in povertà assoluta è più che raddoppiata, passando dal 3,1 al 7,9 per cento della popolazione. Si tratta di persone con reddito pari o inferiore a quello necessario, per acquistare i beni che servono a “conseguire uno standard di vita minimamente accettabile” (definizione Istat). Si tratta di 4,7 milioni di individui (un italiano su dodici), per la quasi totalità donne e minori. Ovviamente le statistiche sono altrettanto preoccupanti se consideriamo soglie di povertà diverse da quelle assoluta. Tutte ci dicono che in passato il problema riguardava gli anziani, mentre oggi colpisce soprattutto i giovani. Inoltre l’impoverimento della popolazione è stato più intenso in Italia rispetto agli altri Paesi europei e così ci troviamo fra le posizioni di coda delle statistiche internazionali. Ovviamente i dati della povertà si riflettono in valori crescenti anche nel confronto internazionale di indicatori importanti dal punto di vista del benessere generale come il rischio di esclusione, la disuguaglianza nella distribuzione dei redditi e la stessa giustizia sociale. Il Social Justice Index elaborato da un centro di ricerca internazionale ci colloca al 25° posto fra i 28 Paesi Ue. Nessuna sorpresa dunque che non solo Ranci ma tutti gli studiosi del fenomeno e la Banca d’Italia ritengano che l’aumento della povertà sia una delle cause della bassa crescita economica dell’Italia negli ultimi decenni. Il secondo insegnamento del libro è che l’Italia si è mossa con grave ritardo nelle misure contro la povertà, perdendo l’occasione degli anni Ottanta, quando la Francia di Mitterrand varava misure innovative come il Revenu minimum d’insertion e da noi la commissione presieduta da Paolo Onofri indicava l’anomalia italiana non tanto nella misura della spesa, quanto nella mancanza di “uno schema di reddito minimo per chi è totalmente sprovvisto di mezzi”. Nonostante il ritardo, molto è stato fatto negli ultimi anni, a cominciare da governi come quello Monti che avevano come obiettivo prioritario il rigore fiscale (Ranci ricorda peraltro anche la parziale attuazione da parte del primo governo Prodi di una proposta di Onofri). Oggi, come afferma Tito Boeri nell’introduzione, il reddito di inclusione erogato dall’Inps a partire da gennaio 2018 costituisce finalmente una misura universale di contrasto alla povertà. Il messaggio fondamentale di Ranci è che un processo è stato avviato e via via consolidato dal 2012 al 2018 ed è programmato il prosieguo del percorso con possibilità di aggiustamenti anche con semplici scelte ministeriali. Dunque ogni cambiamento deve assolutamente evitare di rimettere tutto in discussione: non siamo più all’anno zero. La terza lezione è in realtà una bussola per addentrarsi nei meandri delle misure in discussione in questi giorni: reddito di inclusione, reddito di cittadinanza, reddito di dignità. Per la verità il reddito di cittadinanza nella versione attualmente in discussione è stato adattato alle esigenze finanziarie dell’Italia e non è più una misura universale ma un intervento integrativo di redditi sotto una certa soglia. Il che comporta due rischi: il primo è che si sottostimi l’importanza della rete di servizi sociali necessario per erogare e gestire somme così ingenti; una rete che notoriamente presenta, per essere soavi, una forte varianza nel territorio nazionale. Il secondo è che per l’ansia di innovare, si facciano passi indietro rispetto ai risultati concreti raggiunti in questi anni. Cambiate il nome al reddito di inclusione, se volete, ci dice Ranci ma non rinnegate quanto di buono è stato fatto, pur fra mille difficoltà. “Contro la povertà. Analisi economica e politiche a confronto”, di Emanuele Ranci Ortigosa. Francesco Brioschi editore. Milano, pagg. 172, € 14. Valerio Magrelli in cerca di giustizia. L’indagine in versi del commissario di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 2 dicembre 2018 “Il commissario Magrelli” (Einaudi) è la nuova opera del poeta romano. Un testo che si schiera dalla parte delle vittime spesso dimenticate dai media. L’arma letale, l’ironia, si mostra impudica sin dal titolo: Il commissario Magrelli, edito da Einaudi. Che poi il commissario è l’arguto omonimo del poeta Valerio Magrelli che si fa forte dell’assonanza con il più celebre degli investigatori letterari, il Maigret di Georges Simenon. Magrelli, il commissario del libro, è un poeta che coltiva in queste pagine “l’infantile sogno di una giustizia in versi”. Componimenti poetici che in poche pagine formano un’”enciclopedia del reato”: un “commissario della poesia” sulle tracce dei “misfatti che restano impuniti a questo mondo”. Un commissario può stare dalla parte dei carnefici? Certamente no, e infatti il commissario Magrelli sta nel campo delle vittime, tra “le voci degli assenti, dei muti, degli oppressi, dei soppressi”. Poesia civile, ma senza le pose solenni che non di rado la poesia civile assume monumentalizzandosi. Poesia di denuncia, ma senza l’aria tribunizia di chi si sente, più che dalla parte delle vittime, dalla parte di una presunta Verità. Poesia pedagogica, ma senza la spocchia un po’ odiosa del pedagogo di professione. Poesia d’attualità, ma senza il linguaggio corrivo e in copia conforme del cronista stanco, senza gli stilemi legnosi del giornalistese. C’è Giulio Regeni: “Anche l’Egitto giace/ avvolto dall’orrore:/ un ragazzo faceva domande ed è stato sbranato”, ma poi “la palude ha cancellato tutto” e “di conseguenza, il commissario vomita”. C’è Stefano Cucchi, che “muore fra le braccia di quello Stato che/ invece avrebbe dovuto custodirlo” e “come può un commissario tollerare/ chi infanga il nome dell’Autorità?”. Ma ci sono anche le vittime dell’”orrore del precariato”: “I ciclisti che portano la pizza./ I laureati che mangiano la pizza/ inchiodati ai call center”, insomma “questi poveretti alla cornetta/ e questi disgraziati in bicicletta...”. Perché chi presta attenzione a questi poveretti, a questi disgraziati delle officine del precariato, se il punto di vista del senso comune non li vede affatto, non li prevede, non sa chi siano, invisibili, o al massimo li considera marginalità statistica? Ecco, il commissario Magrelli, con le armi dell’ironia e dei versi messi insieme nel suo commissariato poetico, propone il rovesciamento del punto di vista: “Lui non è interessato al serial killer/ bensì alle povere prede, al serial killed”. È così: noi siamo, inconsapevolmente ma ineluttabilmente, interessati al serial killer, al fascino perverso dell’assassino, alle sue motivazioni profonde, al suo vissuto. Ma al non vissuto del serial killed, chi ci pensa? Che ne è dell’ex vissuto della vittima che non vive più e che muore nell’attenzione collettiva perché l’attenzione collettiva è magnetizzata dal carnefice, mai dalla vittima? Sempre il rapinatore, mai il rapinato, il terrorista e mai la cavia, quella che deve essere sacrificata per terrorizzare, scopo supremo, appunto, del gesto terroristico (e Le cavie, sia detto tra parentesi, è pure il titolo dell’antologia einaudiana della produzione poetica di Magrelli, in libreria proprio in questi giorni). La preda, chi la ascolta? La ascolta il commissario, che nel misfatto vuole rendere omaggio alla sua vittima. “Perché vi commuovete per il lupo,/ e non per l’agnello sbranato?”. E poi: “al Minotauro, preferisce Arianna”. Ci vuole il commissario Magrelli per ristabilire, in versi beninteso, la misura della denegata umanità. Con ironia, a far da contrappunto a questa enciclopedia del misfatto che vuole denunciare senza cadere nello stereotipo della denunzia magniloquente, ci sono poi delle complicatissime divagazioni delinquenziali a cui il commissario creato da Valerio Magrelli mette scaltramente fine “risolvendo la trama” ogni volta. Quello che non si risolve, e rimane sospeso nell’atmosfera un po’ mefitica dell’ingiustizia ordinaria, è il conto non pagato dai carnefici, ladri e assassini, predatori e prepotenti che alla fine, con grande disappunto del commissario, la fanno sempre franca. “Qualcuno tocchi Caino”, invoca lui. Invocazione forcaiola? No, perché “la tolleranza e la penicillina:/ qui l’Occidente ha forse dato il meglio”. Del resto, il commissario Magrelli dice di sé di essere una pecora, ma “una pecora da combattimento”. E si chiede, con i versi, perché il pentimento porti così facilmente a uno sconto di pena, visto che il ribrezzo per ciò che ha commesso dovrebbe piuttosto spingere il pentito alla richiesta di un raddoppio della pena. Eppure il commissario della poesia si congeda. Un po’ sbigottito. Ma uno sbigottito da combattimento. Lavoratori sfruttati, in Italia sono oltre 3 milioni. “Evasione da 110 miliardi” La Repubblica, 2 dicembre 2018 I dati dell’Alleanza Cooperative: in questi casi il costo medio orario si dimezza da 16 a 8 euro. I lavoratori “vessati” in Italia sono quasi 3,3 milioni, vedono remunerata la loro opera la metà del normale e comportano per la collettività un mancato introito di tasse e contributi che sfiora i 110 miliardi di euro. A mettere in fila i numeri della piaga dello sfruttamento nel mondo del lavoro sono stati il presidente dell’Alleanza delle cooperative italiane, Maurizio Gardini, insieme ai copresidenti Mauro Lusetti e Brenno Begani in occasione della prima edizione della Biennale della cooperazione a Bologna: “Sono 3.263.000 i lavoratori vessati in tutti i settori produttivi del Paese. Il costo medio orario scende da 16 euro a 8. L’evasione tributaria e contributiva sfiora i 110 miliardi (108,9): vale a dire 1/20 del nostro debito pubblico”, hanno rimarcato. “Il Parlamento - hanno aggiunto - non sia complice del lavoro nero”. E per questo “chiediamo il ripristino delle sanzioni penali relative all’appalto illecito di manodopera e la difesa della liquidazione coatta amministrativa. Entrambe le misure sono state ‘annacquatè nella scorsa legislatura. Non è accettabile. Chi compie gravi illeciti nel lavoro deve essere punito, perché mortifica i lavoratori, droga l’economia, avvantaggia i delinquenti ed estromette gli onesti”. Fra le voci più rilevanti dell’evasione, sottolinea ancora l’Alleanza delle cooperative, “ci sono l’Iva per 35,3 miliardi di euro, il mancato gettito dell’Irpef derivante da lavoro e impresa, pari a 37,6 miliardi, mentre la sola Irap fa registrare una mancata contribuzione di 7,6 miliardi. Il mancato versamento dei contributi, invece, risulta pari a 2,6 miliardi per il lavoratore dipendente e a 8,5 per il datore di lavoro”. Quali sono le organizzazioni che approfittano di queste situazioni? Tra i 3,3 milioni di lavoratori sfruttati dalle “false imprese - hanno spiegato Gardini, Lusetti e Begani - ce ne sono 100.000 vessati nelle false coop. È in questo contrasto all’illegalità che si colloca l’impegno dell’Alleanza delle cooperative italiane, a fianco delle istituzioni. Anche altri settori dovrebbero interrogarsi e adoperarsi. Noi facciamo la nostra parte, chiediamo di inasprire, con l’estensione delle sanzioni penali, la “lotta alle false cooperative” costituite solo per sfuggire alle norme che tutelano il lavoro. La lotta alle false cooperative e alle imprese sfruttatrici di lavoro si combatte anche con misure che colpiscano la committenza, perché chi utilizza le false coop e le false imprese è altrettanto responsabile e perseguibile. Su questo versante vorremmo sentire i sindacati più in prima linea insieme a noi e agli organi di vigilanza”. Per rendere “ancora più efficace” l’attività di vigilanza, l’Alleanza delle coop chiede, inoltre, “l’istituzione di un Organismo unico di regolazione e di governo dell’attività di vigilanza con la collaborazione tra tutti i soggetti: Pa, Centrali cooperative, Agenzia delle Entrate, Ispettorato nazionale del lavoro, Banca d’Italia”. La promozione della cultura della legalità “è una grande opportunità. L’illegalità altera la concorrenza, danneggia l’economia, mortifica le persone. Riteniamo fondamentale - conclude la nota - calendarizzare in Parlamento la lotta contro le false coop”. Migliaia in corteo a Roma contro mafie e povertà di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 2 dicembre 2018 Uno di noi, Una di noi. Da Libera all’Arci alla Cgil e tante esperienze di mutualismo. De Marzo (Rete dei Numeri pari): “Costruiamo un’alleanza sociale”. “Riconoscersi e ribellarsi contro disuguaglianze, mafie e razzismo” diceva lo striscione di testa della manifestazione che ha sfilato ieri per le strade del centro di Roma. Migliaia di persone, diecimila secondo gli organizzatori, per un corteo cittadino che da piazza della Repubblica ha impiegato circa tre ore per concludersi sotto l’Altare della patria. Lì all’imbrunire sono risuonate le parole della staffetta partigiana Tina Costa, 93 anni, quasi gridate dal palco, a spiegare in modo semplice il senso e l’unitarietà di una piattaforma che a prima vista potrebbe sembrare eterogenea, passando dal rifiuto del decreto Salvini al No al decreto Pillon, dalla difesa della Casa internazionale delle donne dalle mire della giunta Raggi alla lotta contro il caporalato nei campi intorno a Pomezia, sul litorale, fino alla resistenza agli sgomberi di case e spazi, urbani e suburbani, occupati dai movimenti per il diritto all’abitare, sgomberi promessi dal Campidoglio ma sotto la guida del Viminale. “Noi siamo qui contro l’ingiustizia e contro questo governo, siamo qui per riprenderci i diritti che ci hanno rubato da trent’anni e ora anche la democrazia, che vuol dire servizi sociali, lavoro e libertà come dice la Costituzione, siamo qui contro il risorgere di un nuovo fascismo”, ha detto la partigiana invitando tutti i presenti a “prendere le bici e pedalare” perché “possiamo ancora vincere”. Manifestazione unitaria e combattiva, anche se non bellicosa - infatti non c’è stata la minima tensione nonostante l’ampio schieramento di blindati e forze dell’ordine - che ha mobilitato un fronte ampio di forze sociali: dalla Cgil, presente in piazza con tantissime categorie, all’Arci, alla Rete romana degli studenti medi, a Libera, all’Anpi romano, a tantissimi comitati di quartiere, realtà di base, cooperative sociali, associazioni. Con una massiccia presenza di immigrati, tra cui tantissime donne con bambini in passeggino o in braccio. “A un passante distratto il nostro può sembrare un blocco sociale informe, in realtà qui sono rappresentate le nuove soggettività, dove si mischiano rivendicazioni anche diverse, tenute insieme dalla consapevolezza che nessuno vince da solo - spiega Giuseppe De Marzo della Rete dei Numeri pari - stiamo costruendo una alleanza ampia che parte dai territori, dal lavoro comune, da iniziative concrete di nuovo mutualismo. È un lavoro duro ma anche le forze politiche devono capire che è l’unico possibile per combattere l’avanzare della destra e siamo ancora all’inizio”. Contro le disuguaglianze e contro le mafie, dunque. Perché c’è un nesso che va spiegato, sciolto, tra il decreto-sicurezza di Salvini e l’operato degli ultimi due anni della giunta pentastellata in Campidoglio. “In una città dove ci sono 94 clan e 100 piazze di spaccio le mafie si sostituiscono allo Stato con un welfare criminale - continua De Marzo - interi quartieri sono dominati da una economia mafiosa, la mafia è tanto più forte quanto più ampia è la povertà e la marginalità sociale ma questo non succede per un virus o una meteorite, viene dalla chiusura degli spazi sociali e dei servizi, si nutre delle corresponsabilità istituzionali, nella zona grigia”. L’amministrazione capitolina ha appena presentato il bilancio comunale di previsione e da una analisi fatta dal Cresme per Libera - anticipata a il manifesto - risulta che quasi tutti i capitoli di spesa per servizi sociali, dagli asili agli interventi per il diritto alla casa ai disabili, sono stati pesantemente decurtati per un taglio complessivo di oltre 478 milioni di euro, mentre le varie associazioni ancora attendono una convocazione per discutere fattivamente del nuovo regolamento per l’assegnazione dei beni confiscati alle organizzazioni criminali. “Il Decreto sicurezza crea solo più emarginazione e più irregolari che servono da manodopera alle mafie, è incostituzionale e noi non lo rispetteremo”, dice nettamente Claudio Graziano dell’Arci. Un cartello alle sue spalle recita: “Il freddo uccide, sappiamo chi è stato”. Tre giorni fa un clochard è morto a San Lorenzo: su 8 mila persone che ogni notte dormono in strada ci sono solo 2.500 posti letto del Comune, che invece di potenziarli dieci giorni fa non ha trovato di meglio da fare che procedere invece allo sgombero dell’accampamento di fortuna gestito dai volontari dell’associazione Baobab Experience. Il Decreto sicurezza e il destino dei migranti di Chiara Saraceno La Repubblica, 2 dicembre 2018 Senza diritti, al di fuori della protezione delle convenzioni internazionali sui diritti dei bambini e ragazzi che pure l’Italia ha sottoscritto. Dopo l’approvazione della nuova legge sulla sicurezza i figli di coloro che hanno ottenuto protezione umanitaria dovranno seguire il destino dei genitori, obbligati, spesso con il preavviso di pochi giorni, a lasciare i luoghi in cui avevano trovato accoglienza e progetti di inserimento. La nuova legge, infatti, esclude i titolari di protezione umanitaria da ogni progetto di inserimento, consentendo solo di portare a termine quelli già iniziati. Zelanti prefetti hanno deciso tuttavia di accelerare i tempi, togliendo ogni tipo di sostegno economico per queste persone, inclusa la semplice ospitalità. La loro permanenza sarà quindi affidata solo alla buona volontà, e alle risorse (per altro fortemente ridotte anche per chi avrà titolo a rimanere), delle associazioni e dei comuni che li ospitano. Anche i bambini e i ragazzi, dunque, rimarranno, come i loro genitori, senza casa, senza diritto a prendere una residenza temporanea e probabilmente anche senza scuola. Non solo, infatti, sarà difficile per loro andare a scuola se dovranno vagare alla ricerca di ricoveri più o meno di fortuna e magari anche essere costretti all’accattonaggio. Qualche zelante sindaco troverà una motivazione pseudo-legale in più per escludere del tutto almeno questo specifico sottogruppo di “stranieri” dal sistema educativo, senza dover ricorrere ai “sotterfugi” della quota massima di “stranieri” nelle classi, costringendo gli “eccedenti”, ancorché regolarmente residenti, a lunghi pendolarismi, come avviene a Monfalcone e a Trieste, o imponendo certificazioni impossibili per escluderli dalla mensa come a Lodi. Lo ha già fatto il sindaco di Udine, che ha fatto votare dalla sua maggioranza un regolamento che esclude dagli asili nido i figli di coloro che godono di protezione umanitaria in nome del fatto che “non hanno la residenza”. In barba alla convenzione sopra ricordata ed anche al principio che, nella legge sulla buona scuola, estende il diritto all’educazione anche alla primissima infanzia. È molto probabile che altri seguano a ruota, coinvolgendo anche le scuole materne ed elementari. D’altra parte, se il loro soggiorno legale è a termine e, insieme ai loro genitori, riceveranno un decreto di espulsione alla scadenza, perché evitare di fare perder tempo a questi bambini nell’attesa, aiutandoli invece a crescere bene? Eppure anche questo sarebbe un modo, sia pure indiretto, di “aiutarli a casa loro”. Paradossalmente a questi bambini e ragazzi sarebbe convenuto arrivare da noi “non accompagnati”, o perdere i genitori nel viaggio. Ricadrebbero nei casi speciali cui oggi è ristretta la protezione umanitaria e ci si dovrebbe preoccupare di far fronte ai loro bisogni. Avere anche solo un genitore o un parente li trasforma in puro “bagaglio appresso” agli occhi sia del legislatore, sia dei suoi zelanti esecutori. Del resto, in un paese in cui ci si preoccupa pochissimo della povertà minorile, anche autoctona, degli effetti anche di lungo periodo che ha sulla salute, lo sviluppo cognitivo, del senso di sé, del proprio valore e capacità, in cui “di chi si è figlio” è un destino totalizzante da cui si sfugge solo con fatica, non può stupire che questo succeda. Il modo in cui trattiamo i figli dei migranti da questo punto di vista è una cartina di tornasole. Sarebbe interessante sapere che cosa ne pensano l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza ed anche il ministro dell’Istruzione. Migranti. L’accoglienza tra larve e blatte di Mauro Denigris Corriere del Mezzogiorno, 2 dicembre 2018 Il Centro di permanenza per i rimpatri assomiglia a un lager, sventata un’evasione. Larve nei contenitori per il latte, blatte in infermeria, materassi riciclati e tanti rifiuti: ecco come si presenta il Centro di permanenza per il rimpatrio di Palese, dove si trovano novanta immigrati. La struttura assomiglia più a un lager. Problemi per la sicurezza: solo due i poliziotti presenti. Sventato un tentativo di evasione. Più che un centro di permanenza per i migranti irregolari in attesa dei rimpatri sembra quasi un lager. Una prigione dalla quale i “detenuti” cercano di fuggire ad ogni occasione. Il Cpr di Bari Palese, come denunciato già in passato dal sindacato di polizia Coisp, è una “bomba ad orologeria”. Sia dal punto di vista della sicurezza sia sotto il profilo igienico-ambientale. La situazione, già difficile da tempo, sembra diventata esplosiva nelle ultime settimane, culminate con un tentativo di evasione poche notti fa. Un gruppo di cinque nigeriani, secondo quanto raccontato da una persona che lavora all’interno del centro ma preferisce conservare l’anonimato, ha aggredito due dipendenti, tra cui una donna, riuscendo a sottrarre le chiavi di alcuni moduli e cercando di liberare altri migranti. Solo l’intervento dei due poliziotti in turno ha evitato che il piano andasse a buon fine. I dipendenti, assunti dalla cooperativa “Badia Grande” di Trapani, avrebbero riportato ferite guaribili in una settimana, ma il caso pare non sia stato denunciato. I disordini per evitare i rimpatri da parte dei migranti, che hanno lo status di “trattenuti o ospiti” ma di fatto sono privati della libertà personale, sono però all’ordine del giorno. Sono frequenti le minacce nei confronti dei poliziotti e degli operatori, le intemperanze, i gesti di ribellione (per esempio lo sversamento di acqua e urina nei corridoi) e persino gli atti di autolesionismo. “Il problema - denuncia il segretario provinciale del Coisp, Eustacchio Calabrese - è che la maggioranza degli ospiti rinchiusi nei moduli ha gravi problemi psichici derivati dall’abuso di sostanze stupefacenti. La struttura pare non disponga dei medicinali specifici per il trattamento della disintossicazione. Mancano medicinali, siringhe e, in alcuni casi, a causa della mancanza di garze, i pochi addetti hanno dovuto far ricorso persino a della carta igienica per curare ferite. Tutto questo è anche umanamente inaccettabile. Inoltre, ci segna- lano come non vengano garantiti pasti a sufficienza e spesso manchi l’acqua calda”. Per questi motivi Calabrese ha scritto non solo alla prefettura, ente competente sui Cpr, ma anche al ministro dell’Interno Matteo Salvini. Chiedendo, se non altro, di rafforzare la presenza delle forze dell’ordine nel centro. Al momento due agenti devono controllare circa 90 migranti. L’aspetto igienico e sanitario è, come detto, l’altra emergenza. Non a caso pochi giorni fa è stato segnalato un caso di scabbia che ha colpito una dipendente (la quale ha poi trasmesso l’infezione al marito e alla figlia). Il medico responsabile della struttura, Giuseppe Masiello, ha chiesto una disinfestazione e sanificazione degli ambienti, degli indumenti e dei materassi, oltre che di sottoporre a profilassi i dipendenti e i migranti. Non si sa però se gli interventi siano stati effettuati. Ma la scabbia non è l’unica patologia. Non mancano i casi di epatite e altre infezioni. Pare, del resto, che i materassi siano usati più volte, per diversi ospiti, senza essere sanificati, che gli effetti personali dei migranti siano stoccati in un magazzino umido e senza finestre che potrebbe favorire il diffondersi di virus e batteri e che il personale non utilizzi camici, guanti e mascherine per la somministrazione del cibo ma sempre lo stesso giubbino multitasche indossato anche per altre attività. Non stupisce la presenza di blatte, persino in infermeria e, in un caso, addirittura di larve di insetti all’interno dei contenitori per il latte. Il rischio epidemia, insomma, non è affatto da escludersi. A segnalare le “gravi criticità” non solo nel Cpr di Bari ma anche nel centro analogo di Brindisi Restinco è stato del resto poco più di un mese fa anche il garante nazionale per i detenuti, Mauro Palma. Da allora non pare sia stato fatto nulla. Anche perché la risposta del capo del Dipartimento Immigrazione, Gerarda Pantalone, fu chiara: “Il Viminale è costantemente impegnato a migliorare i Cpr e mantenere standard di vivibilità nel rispetto dei diritti della persona e della sua dignità. Ogni sforzo compiuto, con significativi oneri, viene spesso vanificato dai continui e violenti comportamenti degli ospiti in danno dei locali e degli arredi”. Emma Bonino “Aumentano gli irregolari, quella di Salvini è una legge autolesionista” di Giovanna Casadio La Repubblica, 2 dicembre 2018 Emma Bonino, l’effetto della legge sulla sicurezza è già di circa 40mila espulsioni. Le sembra una cifra verosimile? “Attenzione, vengono espulsi non dall’Italia ma dal sistema di protezione quindi semplicemente mandati per strada. Questa è una legge autolesionista. Noi abbiamo già 500mila irregolari che nessuno riuscirà mai ad espellere, neppure Salvini. Così semplicemente si aumenta l’esercito degli irregolari”. Ma quale è la soluzione all’ondata di migranti? “Non penso a soluzioni “buoniste” ma legalitarie: la sicurezza c’è, se c’è legalità. Che il decreto Salvini sia disumano e contro i diritti della persona, è quasi scontato che io lo dica. Vorrei quindi far riflettere i cosiddetti benpensanti, perché queste soluzioni sono masochiste: aumentano l’illegalità”. Global compact per le migrazioni: prima sì, poi no. Si aspettava una retromarcia del governo italiano? “Da questo governo ci si può aspettare di tutto e il contrario di tutto. Nel giro di qualche ora con giravolte anche spettacolari di 180 gradi su tanti temi: dalla legge di Bilancio al “cacceremo tutti gli irregolari” alle Grandi opere. Ma è la credibilità stessa del paese che viene cinicamente distrutta, anche in ambito internazionale. Con motivazioni ridicole: “Serve un dibattito parlamentare”. Lo scoprono adesso? Sono quasi due anni che si discute di questo global compact. Ovunque”. È Salvini, il vice premier leghista, ad avere avuto la meglio. “Questo è sicuro, nel breve termine su questo tema come su altri, è passato come un bulldozer sui 5Stelle, partner di governo, e sugli interlocutori internazionali. Ma a mio avviso è una vittoria di Pirro: nessuno crederà più alle dichiarazioni del primo ministro Conte e del nostro ministro degli Esteri. E questa perdita di affidabilità e di credibilità è una sconfitta. Per tutto il paese. L’altro effetto è uno spostamento delle alleanze internazionali verso l’asse Orban-Putin”. Ma il presidente della Camera. il grillino Fico, ha preso le distanze dalla legge sulla sicurezza ed è a favore del Global compact, lei apprezza? “Sì, va apprezzato e incoraggiato. Il presidente Fico ha preso anche l’impegno di far iscrivere nel dibattito parlamentare in primavera la proposta di legge di iniziativa popolare messa a punto dalla campagna “Ero straniero” per superare la legge Bossi-Fini e cancellare il reato di clandestinità”. Perché giudica il Global Compact così importante? “Perché sono d’accordo con il presidente Conte prima maniera: “I fenomeni migratori richiedono una risposta strutturata, multilivello di breve medio e lungo periodo da parte dell’intera comunità internazionale. Su tali basi sosteniamo il Global compact”. Presidente Conte dixit all’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 26 settembre di quest’anno, che ho ascoltato in diretta a New York. Sulla stessa linea e contenuti il ministro Moavero qualche giorni fa, il 21 novembre. Poi si è svegliato il ministro tuttofare Matteo Salvini, tra una sagra e una ruspa. Il Global compact non è vincolante, va detto”. Quale è il rischio politico? “Che nessuno, in questo mondo così confuso ma così interdipendente, ci ascolti più su nessun tema perché inaffidabili”. La partita è nelle mani del Parlamento: potrebbe esserci una altra svolta? “Ovviamente non bisogna darsi per sconfitti, prima ancora di reagire. Noi di +Europa faremo il possibile ma dubito che a breve ci possa essere qualche sano ripensamento visto il bottino di sondaggi che ne sta ricavando gratis o a spese di tutti noi Mr Salvini, perché l’affidabilità di un paese è patrimonio prezioso che si costruisce nel tempo, ma che può essere distrutta in pochi minuti”. Egitto. Caso Regeni, i nove sospettati sono alti ufficiali del Cairo di Grazia Longo La Stampa, 2 dicembre 2018 Mentre per martedì è attesa l’iscrizione nel registro degli indagati, da parte della Procura di Roma, di 6-7 tra i 9 alti ufficiali della polizia e dei servizi segreti civili egiziani per il sequestro, le torture e l’omicidio di Giulio Regeni, si complica la mediazione diplomatica. Nel confronto politico tra Italia ed Egitto entra a gamba tesa il segretario generale della Commissione Affari esteri del parlamento egiziano, Tarek El Khouly. Che stigmatizza il congelamento dei rapporti tra i parlamenti dei due Paesi, deciso dal presidente della Camera Roberto Fico. Una scelta bollata come “infelice e non giustificata” in quanto in Italia ci sarebbero casi analoghi che non fanno scattare un boicottaggio da parte del Cairo. “Anche noi abbiamo cittadini egiziani e abbiamo presentato richieste a loro riguardo seguendole con il ministero degli Affari esteri”. Il dicastero “segue il caso di alcuni giovani egiziani scomparsi in Italia e che sono stati vittima di alcuni crimini orribili”. Peccato però che i nomi di queste presunte vittime egiziane non siano stati forniti. Tarek El Khouly insiste: “Trattiamo con gli altri paesi sulla base del principio di reciprocità. Non abbiamo nulla da nascondere e nulla da temere. Di conseguenza, di fronte a chi agisce in questa maniera nei nostri confronti non possiamo che agire nello stesso modo”. Gli egiziani coinvolti Neppure una parola, invece, sui depistaggi messi in atto dagli egiziani per allontanare i nostri inquirenti dalla verità sulla drammatica fine del ricercatore friulano per conto dell’Università di Cambridge. Solo grazie alla tenacia dei carabinieri del Ros e dei poliziotti dello Sco, coordinati dal procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e il pm Sergio Colaiocco, è stato possibile individuare i responsabili. Dal colonnello Usham Helmy fino al generale Sabir Tareq, dal maggiore Magdi Sharif della Nationals Security (il quale gestiva i rapporti con Mohamed Abdallah, il sindacalista-spia dei venditori ambulanti che ha denunciato Giulio alla Sicurezza egiziana) al colonnello della polizia investigativa Ather Kamal. Fu quest’ultimo a portare il sindacalista negli uffici della Ns, dove incontrò Sharif e il suo superiore, il colonnello Usham Hely. La prossima settimana i genitori di Giulio, Paola e Claudio Regeni, riceveranno in Italia un loro consulente egiziano, un ingegnere elettronico che purtroppo ha dovuto fare i conti con i “buchi” delle immagini delle videocamere della metropolitana usata da Giulio la sera della scomparsa, il 26 gennaio 2016. Kenya. Dentro la giungla che ha inghiottito Silvia: “qui tutti sanno” di Francesco Battistini Corriere della Sera, 2 dicembre 2018 Nella foresta Dakatcha, dove è tenuta nascosta la volontaria milanese Silvia Romano, rapita tredici giorni fa. Lo vedi quand’è tardi. Ti striscia davanti e t’attraversa il sentiero. “Green mamba!”. Così verde nella boscaglia che capisci perché, solo quest’anno e solo su questa stradina, il peggiore dei serpenti abbia già fatto dieci morti. Così veloce da spiegare perché lo chiamino il Mamba Seven Steps: provi a scappare dopo il morso e tanto è inutile, ma dove vai, al settimo passo sei già stecchito. Il paradiso terrestre della Dakatcha è l’inferno in terra di Silvia Romano. Novanta chilometri da dove l’hanno rapita: ore di jeep verso la Somalia, in una delle foreste più belle e angoscianti del Kenya. Regno incontrastato dell’oriolo e del turaco e del rarissimo tessitore giallo di Clarke. Nascondiglio inviolato per la banda degli Orma che undici giorni fa si son portati via la volontaria milanese. “Questa mattina sono venuti da me sei uomini”, ferma la moto e ci racconta Jumaa Badiva, 34 anni, contadino di Kasikini, uno dei 150 micro villaggi di questa boscaglia: “Non sono poliziotti, è gente che collabora alle ricerche e conosce bene la zona. Sono andati in un paesino. Magari sanno già che Silvia è là, ma per entrare in quei posti devi stare attento ed essere intelligente”. Quale posto? “Loro hanno preso la ragazza e sono passati per la valle del fiume Tana. Poi l’hanno messa in una casa”. Che casa? “Loro sanno bene dov’è. Ma bisogna stare attenti…”. Into the wild. Nel fango, nelle spine, nel verde totale. Nel buio fitto della scomparsa di Silvia. Bisogna salire da Malindi alle rocce di Hell’s Kitchen, la meraviglia che prima d’ispirare un famoso programma tv è stata il teatro di tutte le magie nere africane, e poi entrare nella Dakatcha e inciampare in un punto qualunque: non c’è drone o elicottero che possa scovare la ragazza nell’immenso mare d’acacie e baobab, nell’ombra scura del teak e del sandalo. Bush impenetrabile e irrespirabile, umido e muto, il cobra che attacca l’impala, l’Africa che t’obbliga a chiudere i finestrini per non farti strappare la carne da rovi che ti ghermiscono come artigli. La polizia pattuglia dove riesce, usa gli informatori, promette taglie che i ventimila abitanti della foresta non saprebbero nemmeno contare, figurarsi incassare. Mulunguni, il posto dell’abbandono delle moto indiane usate nel sequestro. Kapangani, la radura che ha restituito le treccine bionde di Silvia. Oakala, il bivio che ha lasciato tracce nella terra rossa e pozzangherosa. Bombi, i testimoni che hanno visto una bianca velata dal niqab. Bungale, il ritrovo delle camionette militari. Molti indizi e pure molta scena: solo qualche mese fa li hanno arrestati, un po’ di poliziotti della Dakatcha, perché facevano contrabbando di carbone d’accordo coi malavitosi locali. I contadini restano chini sui piccoli campi di manioca, di banane, di mais che la foresta concede. Alla fine si fanno gli affari loro, le autorità non sono molto amate in questa parte di Kenya e anche gli italiani non hanno lasciato buoni ricordi: una società milanese venne nei boschi con un progetto per la produzione di biodiesel, a disboscare l’Eden della biodiversità e di 220 specie d’uccelli, e ci fu una battaglia d’anni contro “chi voleva togliere il pane a noi per nutrire le vostre automobili”. Oggi si prega per la ragazza, nelle chiese e nei templi del Kenya. L’ha chiesto il vescovo protestante di Malindi, Lawrence Dena, e solo gli indù hanno aderito: nessun segno dai cattolici o dei musulmani. L’eco dello stesso silenzio calato in Italia sul caso Silvia. Rotto da poche voci: “Spero torni a casa”, dice padre Orazio, da una vita missionario qui. Interrotto da una canzone dei Maneskin, la preferita di Silvia, che le sue amiche ci mandano via Facebook mentre ci ficchiamo nella foresta aguzza e velenosa che l’ha inghiottita: “Mi hai raccolto da per terra coperta di spine, coi morsi di mille serpenti”. Catalogna, sciopero della fame per due leader indipendentisti in carcere di Alessandro Oppes La Repubblica, 2 dicembre 2018 Jordi Sànchez e Jordi Turull, da un anno in cella in attesa del processo, protestano per lo stallo dei loro ricorsi davanti alla Corte Costituzionale, che blocca la possibilità di fare appello alla giustizia europea. Il tweet è accompagnato dall’immagine di un bicchiere d’acqua: così Jordi Sànchez e Jordi Turull, due dei più importanti leader indipendentisti incarcerati, hanno annunciato l’inizio di uno sciopero della fame dalla prigione catalana di Lledoners. Una protesta a tempo “indefinito” - niente cibo, solo liquidi - per “scuotere le coscienze” mentre si avvicina la data di avvio del processo in cui, dal prossimo mese di gennaio, tutto il gruppo dirigente secessionista dovrà rispondere davanti al Tribunale supremo della pesantissima accusa di “ribellione”, per la quale la procura ha già chiesto condanne fino a 25 anni di reclusione. Sànchez e Turull, entrambi candidati nei mesi scorsi alla carica di presidente regionale (poi assegnata a Quim Torra, anche lui fedelissimo dell’ex leader Carles Puigdemont, che dal suo quartier generale di Waterloo, in Belgio, continua a muovere le fila del movimento), hanno spiegato la loro azione con l’intento di sollecitare una decisione del Tribunale supremo sui numerosi ricorsi da loro presentati negli ultimi mesi. Finché l’Alta Corte non si esprime - fosse pure respingendone le richieste - diventa impossibile il ricorso al quale tengono di più, quello davanti al Tribunale europeo dei diritti dell’uomo: qui sperano di poter ottenere protezione ritenendo violati i loro diritti fondamentali, dal momento che hanno già circa trascorso un anno in stato di carcerazione preventiva. Proprio ieri, per la prima volta, i sette dirigenti indipendentisti detenuti a Lledoners, sono comparsi insieme in una foto dall’organizzazione Ómnium Cultural. In “violazione delle regole interne”, ha fatto sapere la direzione del carcere. Da Madrid, il governo centrale guidato da Pedro Sánchez ha reagito alla notizia dello sciopero della fame di Sànchez e Turull assicurando che “avranno un processo giusto”, tanto loro come gli altri leader separatisti, primo fra tutti l’ex vice-presidente della Generalitat catalana, Oriol Junqueras, per il quale la procura chiede la condanna più alta. Non è escluso tuttavia che, nel caso in cui venissero comminate pene troppo severe, l’esecutivo socialista possa concedere l’indulto ai politici catalani per favorire una soluzione politica della crisi.