La violenza nelle carceri, una vergogna che deve finire di Luigi Manconi Corriere della Sera, 29 dicembre 2018 Il detenuto Giuseppe De Felice sarebbe stato picchiato nel penitenziario di Viterbo da agenti col volto coperto. E sembra che questo non sia un caso unico. Qualche settimana fa, proprio nelle ore in cui si celebrava il settantesimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani, il quotidiano Il Dubbio pubblicava alcune notizie che - se confermate da riscontri oggettivi - sarebbero di estrema gravità. All’articolo 5 di quella Dichiarazione, adottata dalle Nazioni Unite il 10 dicembre del 1948, si legge che nessun individuo potrà essere sottoposto a “punizioni crudeli, inumani o degradanti”: sembra essere proprio questo il caso del detenuto Giuseppe De Felice, il quale avrebbe subito, nei primi giorni di dicembre, una “punizione crudele” all’interno del carcere di Viterbo a opera di una decina di poliziotti penitenziari con il volto coperto. Come si ripete stancamente in questi casi, il condizionale è d’obbligo, ma più di una circostanza e alcuni indizi confermerebbero quanto raccontato dalla vittima, dalla moglie e da altri carcerati. Come in ogni tradizione criminale e come in ogni racconto dell’orrore, i fatti o i presunti fatti acquistano consistenza e credibilità in ragione di ciò che evocano, dello scenario a cui rimandano e del clima in cui si riproducono. E allora, secondo quanto dichiara il consigliere regionale del Lazio, Alessandro Capriccioli, quello di Viterbo “ha fama di essere un carcere punitivo”. Altroché. Nel giugno scorso, il Garante regionale per i diritti delle persone private della libertà, Stefano Anastasia, ha presentato un esposto alla Procura di Viterbo, nel quale si legge che un certo numero di detenuti da lui incontrati in quel carcere “hanno riferito di essere stati vittime di violenze per mano di agenti di polizia penitenziaria”; una parte di essi mostrava “segni evidenti di contusioni e lacerazioni sul corpo”. Si riportavano, poi, le testimonianze di detenuti (tutti stranieri) che descrivevano modalità e dettagli tali da rendere credibili i racconti; e le vittime sostenevano “di non essere state visitate da medici se non dopo diversi giorni o, in altri casi, dopo diversi mesi”. In un successivo esposto, della fine di luglio, il Garante ricordava il caso del ventunenne Sharaf Hassan, il quale aveva riferito di aver subito violenze tali da procurargli “lesioni in tutto il corpo e, con molta probabilità, anche la lesione del timpano sinistro”. Il giovane diceva al garante di avere “molta paura di morire”. La qual cosa, scrive ancora il Prof. Anastasia, “è effettivamente avvenuta il 30 luglio del 2018, presso l’ospedale Belcolle di Viterbo” dopo che Sharaf era stato ritrovato impiccato nella sua cella. In realtà, la leggenda nera dell’istituto penitenziario di Viterbo sembra ancora più antica nel tempo, intessuta di violenze e autolesionismo, di paura e di omertà. È come se esso costituisse una sorta di zona franca, un territorio di impunità che sopravvive ai cambi di direttori e persino di comandanti della polizia penitenziaria. E colpiscono, soprattutto, la reiterazione e ciò che appare come l’inarrestabile riprodursi all’infinito del fenomeno. Giuseppe De Felice, quando racconta alla moglie perché ha il volto tumefatto e il corpo macchiato di lividi, sostiene che la decina di agenti penitenziari che lo avrebbero picchiato avevano i guanti bianchi e una mazza nera. Un dettaglio che, se vero, richiama film come “Funny games” e “Arancia meccanica”. E che sembra alimentare quell’immagine fosca del carcere di Viterbo, sovrapponendo all’esercizio dell’abuso il senso di una ritualità di lungo corso, che sembra promettere l’immunità da conseguenze legali e disciplinari. E ci si potrebbe consolare, si fa per dire, se quello fosse l’unico luogo di privazione della libertà dove si consumano abusi e illegalità, ma purtroppo non è affatto così. E già sorprende che alle prime notizie sulle violenze che avrebbe subito De Felice, non vi sia stata una pronta replica e una netta smentita da parte del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Tutto ciò mentre, come ha scritto su queste colonne Luigi Ferrarella pochi giorni fa, il sovraffollamento raggiunge nuovamente picchi elevatissimi e il sistema penitenziario rimane irreparabilmente fuori da qualunque discussione pubblica. A ricordarcene l’inciviltà e talvolta l’infamia, restano solo la santa e folle tenacia di Rita Bernardini e l’attenzione di pochi altri come Alessandro Capriccioli e Riccardo Magi di +Europa e Walter Verini del Partito democratico. E non abbiamo sentito, ma forse a causa della nostra distrazione, una sola parola da parte del Ministro della Giustizia. Capodanno in carcere per il Partito Radicale, che supera quota 3.000 iscritti di Valentina Stella Il Dubbio, 29 dicembre 2018 Rita Bernardini il 31 dicembre e l’1 gennaio visiterà Rebibbia, con Roberto Giachetti e una delegazione di radicali. Il Partito Radicale può continuare a vivere grazie ai 3069 iscritti, finora, per il 2018. Tremila era la soglia da raggiungere per scongiurare la fine del progetto al quale Marco Pannella ha dedicato tutta la sua vita. Per capire cosa accadrà ora abbiamo ascoltato Rita Bernardini, membro della Presidenza del Partito, che - come da tradizione radicale - il 31 dicembre e il 1 gennaio sarà in visita nei due complessi carcerari di Rebibbia, con l’onorevole Roberto Giachetti e una folta delegazione di Radicali. Con quale spirito farà visita a detenuti e detenenti? Con l’animo di chi sa che va in visita ad una comunità ferita che rischia di perdere definitivamente la speranza nella Costituzione. Gli indicatori più espliciti di questa sofferenza sono le morti e i suicidi che si verificano in carcere. Quest’anno abbiamo raggiunto i livelli di dieci anni fa: ben 66 detenuti che si sono tolti la vita. Anche fra gli agenti l’esasperazione è tanta: in 73 si sono suicidati negli ultimi dieci anni, per lo più con l’arma di ordinanza. Che feedback c’è stato alla presentazione del vostro dossier sulle carceri? Contiamo di inviare al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa la versione del nostro dossier tradotta, aggiornata e firmata, oltre che dal Partito Radicale, anche dall’Unione delle Camere Penali che, con il suo Presidente Gian Domenico Caiazza, l’ha molto apprezzato, così come il professor Andrea Saccucci e l’avvocato Giuseppe Rossodivita, autore di centinaia di ricorsi dal caso Torreggiani in poi. Importantissimi sono stati per noi i giudizi del professor Glauco Giostra che ha definito il lavoro “un documento davvero rigoroso ed eloquentissimo (per chi vuol capire)” e del professor Tullio Padovani che mi ha scritto: “Ho letto il dossier, che rappresenta un ulteriore esempio di ciò che per i Radicali significa agire politico: concreto, rigoroso, documentato, incalzante. La vergogna denudata, resa vera senza scampo. Vedremo se e come cercheranno di sottrarsi alla forza delle cose. Battersi incessantemente affinché i diritti (almeno quelli elementari!) siano rispettati, credo anch’io sia l’unico modo non solo per evidenziare pragmaticamente le contraddizioni strutturali dell’istituzione, ma soprattutto per alleviare la crudeltà efferata di una pena abominevole”. La battaglia ci sarà insieme agli oltre 3.000 iscritti. Adesso ci sarà un congresso? Mi auguro che ne arrivino altri entro il 31 dicembre perché gli iscritti 2018 potranno partecipare a pieno titolo al congresso ordinario. Congresso che il Partito Radicale deve convocare, come stabilito dalla mozione dell’assemblea di Rebibbia, entro 90 giorni. Iscritti raccolti in clandestinità, tranne le eccezioni (che confermano la regola dell’ostracismo) di Radio Radicale, del Dubbio e dell’Opinione. Si tratta perciò di un risultato straordinario, anche per la qualità e la diversità delle persone che hanno deciso di prendere il “passaporto della libertà”, che è la forma della tessera 2018. Proprio di Radio Radicale ha parlato ieri il premier Conte nella conferenza stampa di fine anno ribadendo il taglio dei fondi e invitando a mettersi sul mercato e a trovare risorse alternative... È probabile che il premier si riferisca alla pubblicità che a suo avviso dovrebbe interrompere l’integralità dei documenti, in primo luogo istituzionali, che Radio Radicale manda in onda da 42 anni. Siamo all’abc del “conoscere per deliberare” di cui il presidente Conte pensa di poter fare a meno con disinvoltura pur essendo il suo governo autoproclamatosi “del cambiamento e della trasparenza”. Se ambisce ad essere il primo che cuce la bocca al servizio pubblico per eccellenza che è Radio Radicale, sappia che non sono pochi coloro che in nome della “libertà di parola” sono pronti a rischiare le proprie esistenze. Quanto è importante che il Partito Radicale continui a vivere dunque nell’attuale situazione politica? Credo sia vitale, se non vogliamo rassegnarci all’erosione e al degrado dello stato di diritto che colpisce nel mondo e in Europa anche quelle che conoscevamo come democrazie avanzate. Se guardiamo poi al nostro Paese, non abbiamo che da stupirci di quanti oggi si meravigliano di come si stia comportando l’attuale Governo con il conseguente svuotamento e inerzia del Parlamento. È di dieci anni fa il libro “La peste gialla”; fu scritto nel corso di un Satyagraha che ci vide riuniti attorno a Marco Pannella per analizzare e raccontare il sessantennio di una lunga e continuata strage di leggi, di diritto, di principi costituzionali, di norme e di regole che avrebbero dovuto governare la convivenza civile della democrazia italiana. Credo che siamo fra i più attrezzati - per storia e capacità di resistenza e di lotta nonviolenta- a scongiurare il peggio del peggio che va affermandosi con sempre maggiore vigore ogni giorno di più in primo luogo contro i diritti umani fondamentali. E anche sull’Europa crediamo (con Pannella che lo affermava più di vent’anni fa) che non ci sia salvezza ecologica, giuridica, economica, sociale e culturale nella illusione minimalista, nella triste, infeconda utopia “realista” dell’Europa che conosciamo, più che mai volta a contrastare la ragionevolezza degli Stati Uniti d’Europa. I timori del Quirinale su prescrizione e processi infiniti di Errico Novi Il Dubbio, 29 dicembre 2018 È un dettaglio. Ma va colto. Due giorni fa il presidente dell’Unione Camere penali Gian Domenico Caiazza ha trasmesso a Sergio Mattarella una seconda lettera, che fa seguito all’appello sulla prescrizione rivolto nei giorni scorsi al Quirinale da penalisti e professori. In quella prima missiva l’avvocatura, insieme con qualcosa come 110 tra i più autorevoli esponenti dell’accademia processual-penalistica italiana, elencava le ragioni di “illegittimità costituzionale” della norma che abolisce la prescrizione dopo il primo grado, e che è contenuta nel ddl Anticorruzione. Precisa ed esplicita la richiesta: voglia il presidente della Repubblica valutare “l’ipotesi di rinviare il testo alle Camere con messaggio motivato”. Due giorni fa Caiazza scrive di nuovo al Capo dello Stato per “aggiornarlo”: “Illustrissimo Signor Presidente, si sono aggiunte nuove adesioni”. E giù l’elenco supplementare, con un’altra trentina di nomi illustri, fra cui la firma di qualche studioso che non si occupa specificamente di diritto ma che è fortemente impegnato in campo civile come il filosofo Biagio de Giovanni. Segue quindi una precisazione con cui Caiazza spiega al presidente della Repubblica che “si sono infine aggiunti ulteriori 16 docenti in calce ad un autonomo documento di adesione al nostro appello, e che di seguito trascrivo”. Vengono così riportate le specifiche argomentazioni con cui questi altri professori di diritto penale chiedono a Mattarella di rinviare la legge alle Camere per l’incostituzionalità dello stop alla prescrizione. Il fatto insolito - e di grande significato - è proprio nella scelta compiuta dai 16 studiosi che si sono voluti unire all’appello seppure “nella varietà delle motivazioni”. Avrebbero potuto semplicemente aggiungere i loro nomi. Invece hanno voluto esprimere al presidente della Repubblica i loro particolari motivi di dissenso. Come se l’accademia tendesse ormai a costituirsi a propria volta come soggetto politico o comunque partecipe al dibattito pubblico, persino con l’articolazione in diverse comunità di pensiero: tra i 16 che si sono aggiunti per ultimi, ci sono professori di Diritto penale delle università di Torino, Parma, Enna, Napoli, Reggio Emilia. Insomma, una rete diffusa in ogni parte d’Italia, non spiegabile con la semplice vicinanza geografica ma in base a una comunione di idee. È appunto il segno di una mobilitazione civile inedita sui temi della giustizia. Le preoccupazioni di Mattarella - Al presidente della Repubblica non sfugge il rilievo di un simile allarme. Ma non gli sfugge, soprattutto, il contenuto problematico di diverse misure contenute nel ddl “Spazza corrotti”. Non solo della norma che abolisce la prescrizione dopo il primo grado. I rilievi di penalisti e professori coincidono in gran parte con quelli emersi alla verifica compiuta dall’Ufficio per gli Affari di giustizia del Quirinale e dallo stesso Mattarella, che vanta un lungo cursus da professore di Diritto parlamentare e che all’inizio della sua carriera universitaria si è occupato anche di Diritto costituzionale. Eppure la promulgazione della legge anticorruzione arriverà ugualmente in queste ore. La preoccupazione e le perplessità di Mattarella ci sono, riguardano soprattutto il rischio che senza la prescrizione i processi, già troppo lunghi, arrivino a una durata intollerabile. Eppure il Presidente ritiene impossibile costruire un giudizio di “manifesta incostituzionalità”, che è il solo a poter giustificare un rinvio della legge alle Camere. Di questo sembra convincersi il Capo dello Stato, rientrato giovedì scorso dopo il breve soggiorno a Palermo. E in base a quanto risulta, se ne potrebbe dedurre che Mattarella ritenga possibile far emergere un contrasto fra lo stop alla prescrizione e gli l’articoli 27 e 111 della Carta solo con la via ordinaria dell’eccezione di costituzionalità sollevata nell’ambito di un processo. Perché evidentemente il rischio che, con la prescrizione abolita, i giudizi durino in modo irragionevole esiste, sì, ma in virtù di una patologica condizione della macchina processuale che di per sé non può concorrere a un giudizio di illegittimità “manifesta”, in quanto fattore contingente e in astratto superabile. Dopodiché probabilmente al Quirinale comprendono meglio che altrove quanto sarà impervio curare quella patologia. E magari anche il fatto che, prima o poi, un “incidente” processuale sull’incostituzionalità della prescrizione arriverebbe. Più poi che prima, perché la “riforma” produrrà i propri effetti dopo almeno 7 anni da quando entrerà in vigore, cioè dal 1° gennaio 2019. Resta la non infondata ipotesi che Mattarella, una volta promulgata la legge con dentro la prescrizione, rivolga comunque un messaggio al Parlamento. O che ne faccia cenno durante il discorso di fine anno. Strade che d’altra parte non possono spingersi a un’intrusione nel merito. E che il Presidente eventualmente dovrà percorrere nell’auspicio che in qualche modo le Camere considerino i rischi della prescrizione mandata al macero. A chi sta facendo un grande regalo la nuova “sicurezza”? di Teresa Bellanova* Avvenire, 29 dicembre 2018 A distanza di molti giorni, non sappiamo ancora - sarà la magistratura a dircelo - se l’incendio che ha ucciso Jaiteh Suruwa nella tendopoli di San Ferdinando, in Puglia, sia di origine dolosa o meno. Sappiamo però, con certezza, alcune cose: Jaiteh Suruwa aveva 18 anni, veniva dal Gambia, era stato ospite in uno Sprar per minorenni a Stilo, aveva da poco ottenuto la “protezione umanitaria” (quella abrogata dal “decreto sicurezza”), stava per ottenere la proroga per restare altri sei mesi nello Sprar, aveva ottenuto una borsa lavoro. Voleva fare cose buone. Il suo giornale, direttore, ha più volte denunciato - meritoriamente - la condizione di quelle lavoratrici e quei lavoratori stranieri, tra 70 e 100mila, occupati in “forma para-schiavistica” nel settore agroalimentare del nostro Paese e non ci vuole molta fantasia, guardando le immagini della baraccopoli di San Ferdinando o di altri luoghi simili spesso nascosti alla vista, per comprendere cosa siano la vita e il lavoro di queste persone, nella maggior parte ragazze e ragazzi giovanissimi. Alcune volte, vergogna nella vergogna, anche minori. L’altro lato della medaglia, lo dico con la rudezza necessaria, di una geopolitica dell’economia e della produzione agricola che non scommette su dignità e tutela del lavoro, innovazione, reti di filiera, scaricando sull’ultimo tratto, la nuda vita delle persone, le contraddizioni che si determinano lungo l’intera catena del valore. Ci vuole dunque molta consapevolezza, competenza, determinazione e coraggio per provare a smontare, pezzo per pezzo, le condizioni di questo essere “schiavi” (italiani o stranieri, bianchi o di colore non fa differenza) del terzo millennio, e noi avevamo provato a farlo, mettendo mano alla legge contro il caporalato e il lavoro nero approvata nel 2016 e intitolata a Paola Clemente, che sta dando ottimi risultati grazie anche all’istituto del “controllo giudiziario”, un unicum nel panorama giudiziario, e che chi governa ha preso subito di mira all’indomani del 4 marzo. Gli osservatori dicono: la legge contro i caporali serve. Io aggiungo: è fondamentale. Perché non indica solo chi e come reprimere ma anche come prevenire, agendo su tutti gli anelli che costringono i lavoratori e le lavoratrici a una condizione di ricatto e di subalternità. Innanzitutto trasporto nei campi e alloggi. Non abbiamo dunque bisogno di chiacchiere, ma che sia applicata (chiamando anche i consumatori alle loro responsabilità nella scelta dei prodotti sugli scaffali della grande e media distribuzione). Rete del lavoro agricolo di qualità, riallineamento contributivo, accordi di filiera, Tavoli Territoriali, Piani per l’accoglienza dei lavoratori agricoli stagionali, reti di trasporto pubblico-privato: ecco cosa fare per contrastare l’illegalità, spezzare il legame criminale tra caporali e aziende, modificare le condizioni strutturali, dalla grande distribuzione ai piccoli produttori. Recentemente ho chiesto ai ministri Di Maio, Centinaio e Lezzi di riferire in Parlamento proprio su questo. Non ho ricevuto risposta. Come è evidente, il Decreto Sicurezza non inciderà su questo raggio d’azione, ma moltiplicherà solo l’insicurezza. Decretando la fine dell’accoglienza umanitaria e degli Sprar moltiplicherà gli invisibili e darà in pasto alle reti criminali e dei caporali migliaia e migliaia di persone. Moltiplicherà lavoro nero, lavoro clandestino, quei campi-fantasma che il ministro Salvini ha definito orribili e che non si sconfiggono con gli sgomberi perché le migrazioni e l’immigrazione sono la grande questione geopolitica del nostro tempo e di certo non possono essere ridotte esclusivamente a tema di ordine pubblico. Si smantellano gli Sprar, si moltiplicano gli invisibili, si afferma in continuazione di voler rivedere la Legge contro il caporalato. A chi stiamo facendo un grande regalo? *Capogruppo Pd Commissione Attività Produttive Senato e componente Commissione Parlamentare Antimafia Nuovi schiavi per i caporali (grazie al decreto Salvini) di Fulvio Fulvi Avvenire, 29 dicembre 2018 Le baraccopoli in Puglia e in Calabria stracolme dei migranti già fuoriusciti dal circuito dell’accoglienza. L’allarme della Caritas. Ecco i nuovi, attesi quanto devastanti, effetti del “decreto sicurezza”. Sono circa 500 i migranti che in questi giorni vivono nella baraccopoli nelle campagne tra Rignano Garganico e San Severo, nel Foggiano, quello che chiamano il “Gran ghetto”. Le presenze sono quasi il doppio rispetto a quelle che negli anni passati, durante le festività natalizie, si sono registrate nell’accampamento della Capitanata. “Un numero destinato a crescere quando finirà la raccolta degli agrumi nella Piana di Gioia Tauro, in Calabria, e centinaia di braccianti extracomunitari torneranno qui per poter lavorare nei campi di pomodori” commenta don Andrea Pupilla, direttore della Caritas diocesana di San Severo. “Ma l’incremento delle presenze è un effetto della nuova legge - commenta il sacerdote - perché i ghetti si riempiono quando Cara e Cpr si svuotano: basti pensare al Centro di accoglienza e per richiedenti asilo di Borgo Mezzanone, presso Manfredonia, che da mille presenze oggi ne conta solo 200”. Dove sono andati gli altri 800? Se ne vanno dalle strutture pubbliche e si appoggiano nelle baraccopoli abusive diventando “merce umana” a disposizione dei caporali. “La situazione nel “gran ghetto” è peggiorata - precisa don Pupilla -, a Natale ho visto altre capanne sorgere e un casolare abbandonato è stato occupato: così aumenta l’illegalità e il problema non si risolve, semmai si sposta da un luogo all’altro. Pensiamo a quello che potrà succedere a marzo-aprile, alla ripresa del lavoro nelle coltivazioni ortofrutticole della zona...”. Il numero dei migranti in queste campagne, la prossima estate, potrebbe anche superare le mille unità. Dallo scorso settembre si attende qui l’installazione dei moduli acquistati da Regione Puglia per ospitare gli immigrati cercando di sottrarli, così, dalle grinfie del caporalato che si allungano anche nell’offerta (scalando l’affitto sul già magro salario) di un buco per dormire, che può costare anche 200 euro al mese. “Perché non cominciano a montare le casette, visto che il Consiglio comunale di San Severo ha approvato da mesi la variante al piano regolatore?” si domanda don Pupilla. Burocrazia o disinteresse? Pensare che quest’estate il problema era diventato una priorità del governo, dopo la strage dei 16 giovani migranti rimasti schiacciati all’interno dei camioncini, dove erano stipati come bestie. “Ora il bisogno più grande di questi disperati non è tanto avere coperte e indumenti per affrontare l’inverno - dice don Pupilla -, ma procurarsi i documenti necessari a ottenere il permesso di soggiorno”. Anche le baracche e le tende dei tre campi di San Ferdinando, vicino a Rosarno, in provincia di Reggio Calabria, sono affollate più del solito: oltre 3mila persone a dicembre. “Sono 600 in più dell’anno scorso a vivere in questo “inferno” e continuano ad arrivare - commenta Vincenzo Alampi, direttore della Caritas di Oppido Mamertina-Palmi, sono venuti qui per raccogliere mandarini da Lazio, Campania, Puglia e persino dal Piemonte, dormono sotto le tende nei sacchi a pelo o nelle baracche che si costruiscono da soli, sono approdati a San Ferdinando dopo la chiusura di vari Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) e Cas (Centri di accoglienza straordinaria)”. Gente che non ha niente, solo paura e fame, “e noi cerchiamo di aiutarli”. Fino ad aprile rimarranno nel centro calabrese poi si sposteranno altrove per un’altra stagione in balia degli sfruttatori. “Migliaia di persone si butteranno nelle strade e nelle campagne - dice Alampi - e sarà una situazione ingestibile”. Pistola taser alla Polizia Locale. Antigone scrive ai sindaci chiedendogli di opporsi Ristretti Orizzonti, 29 dicembre 2018 Il recente DL Salvini ha introdotto la possibilità per i comuni italiani oltre i 100.000 abitanti di dotare gli agenti di polizia locale di pistole Taser. Un provvedimento contro il quale Antigone si sta opponendo. L’associazione ha infatti scritto ai consigli comunali e i sindaci delle città più grandi proponendo un ordine del giorno con il quale le stesse si impegnino a non adottare quest’arma. “Da settembre in dodici città italiane era partita la sperimentazione dell’arma che oggi anche i corpi di polizia locale dei comuni potranno utilizzare. Un’arma pericolosa - sottolinea Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - soprattutto su quei soggetti affetti da problemi cardiaci e/o disturbi neurologici e su donne in stato di gravidanza, e che nella pratica viene utilizzata al posto dei manganelli e non delle armi da fuoco”. Secondo un’indagine della Reuters il taser ha provocato oltre mille morti nei soli Stati Uniti. La stessa azienda americana che la produce - la Taser International Incorporation, da cui deriva il nome dell’arma - chiamata in causa sulla potenziale pericolosità, ha dichiarato che esisterebbe un rischio di mortalità pari allo 0,25%. Ciò significa che se il taser venisse usato su 400 persone una di queste potrebbe morire. “Alcuni organismi internazionali, tra cui la Corte Europea dei Diritti Dell’uomo ed il Comitato Onu per la prevenzione della tortura - dichiara ancora Gonnella - si sono espressi relativamente alle pericolosità di quest’arma e il rischio di abusi che l’utilizzo può comportare. Per questo - conclude il presidente di Antigone - abbiamo chiesto ai comuni di discutere e approvare l’ordine del giorno che abbiamo proposto, scongiurando la possibilità che anche agenti della polizia locale possano avere in dotazione quest’arma potenzialmente letale”. Andrea Oleandri, Ufficio Stampa Associazione Antigone Un’altra mafia di Riccardo Lo Verso Il Foglio, 29 dicembre 2018 Boss all’ergastolo, crollati gli omicidi: lo Stato ha sconfitto la vecchia Cosa nostra. Ma Palermo, malata nelle viscere, è ancora sotto scacco. La matematica non è un’opinione. Neppure quando c’è di mezzo la mafia. Lo Stato ha sconfitto Cosa nostra. Punto. I numeri non possono essere smentiti. Per fortuna ci sono le statistiche. Nel 1982, in piena guerra di mafia, si contarono più di 200 morti. Il 1991 è l’annus horribilis: oltre 700 morti. Due anni dopo sarebbero iniziate le stragi. A un certo punto si dovette fare una distinzione. Non tutti gli omicidi erano uguali. C’erano i delitti con cui i boss in ascesa si sbarazzavano dei nemici interni all’organizzazione, quelli dei nemici arrivati dall’esterno - magistrati e uomini in divisa -, i delitti politici e quelli commessi per la loro valenza simbolica. Come l’esecuzione di don Pino Puglisi che predicava fra i giovani di Brancaccio. Era il 15 settembre 1993 e fu l’ultimo omicidio cosiddetto eccellente. Da allora, per fortuna, pistole e kalashnikov hanno smesso di spargere sangue per le strade. Solo eliminazioni chirurgiche di mafiosi caduti in disgrazia. Negli ultimi dieci anni, dal 2007 al 2017, sono stati commessi appena otto omicidi. Sette volte il grilletto è stato premuto per regolare faide interne o eliminare concorrenti negli affari della droga. Per l’ottava vittima è stato scelto di usare un bastone. Il bastone che picchiò a morte l’avvocato Enzo Fragalà. Per l’assassino del penalista, avvenuto nel 2010, si sta celebrando un processo. Anche quando le statistiche riguardano le aule dei Tribunali i dati stanno lì a dimostrare che lo Stato ha vinto: dal 1993 al 2006 sono stati inflitti oltre 450 ergastoli. Poi, si è smesso di uccidere e il carcere a vita, ancora oggi, arriva per vecchi omicidi svelati dai nuovi pentiti. Almeno coloro che hanno ancora qualcosa di significativo da raccontare e non quelli che fanno gli show sui social network. Nella mafia di oggi accade anche questo, che un uomo d’onore faccia una diretta Facebook per vomitare insulti. Alla fine i numeri hanno confermato la tesi di chi, come lo storico Salvatore Lupo, ci ha messo un po’ per fare passare la tesi che la mafia di un tempo è stata sconfitta. A eliminare i padrini palermitani - Bontade, Inzerillo, Riccobono - hanno provveduto i corleonesi, scesi dalle montagne con i per i ‘ncritati agli ordini di Totò Riina. A sbarazzarsi dei corleonesi ci ha pensato lo Stato. I boss sono tutti al 41 bis. Alcuni, come lo stesso Rina e Bernardo Provenzano, al carcere duro ci sono rimati fino al loro ultimo respiro. Resta latitante Matteo Messina Denaro, un fantasma. Qualche settimana fa i carabinieri hanno dato un volto all’ultimo erede di Totò ‘u curtu, Settimo Mineo, che la domenica prendeva posto sui banchi della chiesa di San Saverio, all’Albergheria. Puntuale e ben vestito. Al boss che ha fatto in tempo a festeggiare da uomo libero gli 80 anni serviva un’immagine nuova dopo la lunga parentesi carceraria. E invece di nuovo c’era solo la cupola di Cosa nostra che era stato chiamato a dirigere da presidente anziano. L’immagine di buon cristiano era solo di facciata, nulla a che vedere con il paranoico e distorto rapporto con la fede dei vecchi padrini. Anche questo è il segno dei tempi. Di una mafia che non c’è più. Sconfitta dallo Stato. Non muovere da questa premessa sarebbe ingeneroso per tutti coloro che hanno perso la vita. Morti ammazzati. Mineo, capomafia di Pagliarelli, in una tarda mattina di fine maggio scorso, ha convocato la riunione della Cupola, ferma dal 1993, anno dell’arresto di Riina. Prima e dopo si arrabattava per trovare i soldi da dare alle famiglie dei carcerati. Mica è un volto nuovo il suo. C’era già ai tempi del maxi processo. Come tanti altri ha trascorso parte della vita in carcere, che nel suo caso ha visto fallire ogni proposito rieducativo. Non è certo uno che poteva passare inosservato. Nella barca di Cosa nostra che cola a picco era semmai uno di quei tronchi stagionati che restano a galla più a lungo di altri. Prima o poi, però, marciscono. E così Mineo ha presieduto la “bella riunione” in cui c’erano “persone vecchie” e pure “gente di paese”. Sono stati finora individuati i capi di quattro mandamenti, mentre gli altri, c’è da giurarci, hanno i giorni contati. Ci sono centinaia di persone che a cascata saranno arrestate nei prossimi mesi. Lasceranno il posto a chi è stato scarcerato e andrà a infoltire, solo momentaneamente, l’esercito degli irredimibili. Li condannano, scontano la pena, escono dal carcere, e li arrestano di nuovo: è la giostra di Cosa nostra. Nel solo anno che sta per finire sono state arrestate più di 200 persone per mafia e altrettante sono state giudicate colpevoli. Un sottobosco maleodorante dove i boss si gonfiano il petto perché il cantante neomelodico napoletano gli ha rivolto un saluto dal palco della festa di quartiere. Gregorio Di Giovanni, capo mandamento di Porta Nuova - quello che era il regno di Pippo Calò, per intenderci - e pure lui membro della nuova Commissione, si sbracciava per stabilire chi dovesse addobbare con di Lourdes, a pochi passi dal castello della Zisa, in occasione della processione del Venerdì santo. Processione che magari si sarà pure fermata sotto casa del mammasantissima del quartiere con uno di quegli inchini che tanto indignano, ma che andrebbero presi per quel che sono: immagini folcloristiche di una mafia che galleggia aggrappata alla simbologia e al mito del passato. Nessuna giustificazione, a scanso di equivoci. E nessuna sottovalutazione perché la mafia, questa mafia, continua a tenere sotto scacco intere zone della città. E non si tratta solo del pizzo che i commercianti pagano per lo più in silenzio, della droga spacciata per le strade, delle agenzie di scommesse on line che spuntano come funghi e ripuliscono il denaro sporco. I boss regolano la quotidianità delle borgate: autorizzano l’apertura dei nuovi negozi, quando non ne sono loro stessi i proprietari, per evitare la concorrenza a chi paga la tassa di Cosa nostra, recuperano crediti e merce rubata, danno il via libera all’abusivo che vuole piazzare una bancarella di frutta verdura. Ci si dovrebbe chiedere dove finiscono i loro meriti (?) criminali e iniziano i demeriti altrui. Ed ecco la più grande delle colpe di oggi. Lo Stato che ha sconfitto la mafia nella sua peggiore declinazione, quella corleonese, che ha superato la stagione delle bombe e del terrorismo, sta perdendo la battaglia sociale. È nella miseria che la mafiosità di una città si rivela in tutta la sua drammaticità. Palermo è malata nelle viscere. Non ci può essere altra spiegazione di fronte alla questua registrata dalle microspie dei carabinieri che hanno stoppato sul nascere il tentativo di Mineo di serrare i ranghi. Questa mafia che arranca, però, è ancora seduttiva. Di manovalanza se ne trova parecchia e a buon mercato. I nuovi picciotti si accontentano di poche centinaia di euro al mese. È la seduzione del male che andrebbe analizzata. I carabinieri fanno il loro mestiere, e pure bene, ma oltre la repressione c’è il vuoto. Una distrazione collettiva e complice che impedisce la fine della mafia anche nella sua odierna configurazione. Manca poco, pochissimo per liberarci della Cosa nostra dei rimasugli, ma vuoi mettere l’epopea dei corleonesi. Gli sforzi degli analisti sono per lo più concentrati sul passato, il dibattito è fermo alla stagione della Trattativa fra i boss e lo Stato che muove l’antimafia editoriale dei giornali e della letteratura di genere. Tenere a mente il passato è cosa buona e giusta, ma oggi appare un’attitudine nostalgica. Sta diventando una gabbia del pensiero, che impedisce l’analisi e la critica dell’oggi. Il rischio è che guardandosi sempre e solo indietro si smarrisca la tensione verso una maggiore consapevolezza del fenomeno che bisogna combattere oggi. Senza consapevolezza, non c’è conoscenza. Invece di prendere atto della vittoria dello Stato si cercano i livelli superiori del potere, centri misteriosi di controllo, si vede nell’inabissamento una precisa strategia dei boss, di quelli ancora liberi che hanno fatto i soldi e li hanno pure ripuliti. Nel frattempo Palermo diventa ogni giorno più miserabile. Quel che conta è cercare da subito un nuovo capo da incoronare. Gli Inzerillo, scampati alla guerra di mafia e scappati in America, sono rientrati da un po’ in città. Vengono dal passato, e già basta questo per evocare suggestioni. E se fossero davvero loro i nuovi capi? Magari, perché Mineo li ha incontrati e i loro nomi sono già inseriti nelle informative. Non possono sfuggire. Nel loro caso non basterà neppure attendere che un boss, come Francesco Colletti di Villabate, uno di quelli che sedevano al tavolo della Commissione, se ne vada in giro convinto che la sua Fiat Panda sia un bunker inviolabile. Ed invece i carabinieri, bravi e attenti, l’avevano riempita di cimici. Il caso Riace e l’abuso del processo penale di Massimo Krogh Il Mattino, 29 dicembre 2018 Leggo su questo quotidiano (“Migranti, Lucano rischia il processo” Il Mattino 24 dicembre) che Mimmo Lucano, il sindaco di Riace che nello scorso ottobre andò agli arresti domiciliari, ora subirà un processo per il reato di associazione per delinquere nella gestione dei fondi per l’accoglienza. La Procura di Locri insiste nell’accusa che non trovò il conforto del giudice per le indagini preliminari. I fatti sono noti, il sindaco si spese e spese per dare accoglienza a immigrati senza il permesso di soggiorno, fatto che gli valse un giudizio positivo sulla rivista americana “Fortune”, che indicò Riace come un fenomeno d’integrazione (vedi articolo del Mattino sopra citato). Un sindaco premiato negli Usa per il suo operato, in Italia finisce prima ai domiciliari e poi sotto processo. Balza subito che forse vi è qualcosa che non va, vale la pena di verificarlo. In Italia è molto facile, troppo facile, che finiscano nel circuito penale casi che a prima vista dovrebbero restarne fuori. Può darsi che la vicenda di Riace meritasse analisi nelle competenti sedi amministrative, ma la custodia cautelare e il processo penale sembrano in verità un fuor di luogo, che deriva dalla inaccettabile facilità con cui nel nostro Paese ogni questione irrisolta da un’amministrazione che non funziona confluisce nell’area del processo penale. Siamo forse l’unico paese al mondo, o comunque fra i pochi, ove l’esercizio dell’azione penale è sottoposto in modo assoluto al criterio di obbligatorietà. In Inghilterra e in tutta l’area anglosassone l’azione penale è discrezionale dai tempi della Magna Carta, 1215 (lo stesso anno in cui il Concilio Lateranense istituiva l’inquisizione). Nei maggiori paesi europei, ove si è compreso da tempo che l’avanzamento industriale incrementa la criminalità, si è mantenuto il principio della obbligatorietà, ma moderandolo con il criterio della priorità, vale a dire un binario di opportunità su cui avviare le urgenze. Un tempo si tentava di fronteggiare i reati con le amnistie e la depenalizzazione, meccanismi risultati inadeguati. Non deve sfuggire che in questo contesto l’azione penale è divenuta la lente più utilizzata nella lettura di ogni rapporto sociale, fino a giungersi alla sua inflazione. La spinta giustizialista viene dal basso, come risultato di una confusione dove i valori sociali sono oscurati dalla carenza di quella guida che dovrebbe provenire dalla politica che non c’è. Nasce da qui l’anomalia che tutto finisce nel settore penale, in una enorme confusione di ruoli, di funzioni e di scelte tecniche, infine nella ingestibilità dei processi. Il rapporto politica-giustizia ha sempre risentito delle contraddizioni di una separatezza troppo spesso esile. Basta pensare a “tangentopoli”, un miscuglio di politica e giustizia che portò allo stallo civile del Paese. Una giustizia inadeguata blocca gli investimenti, poiché l’investitore vuole sentirsi garantito, e ciò reprime il rilancio economico-finanziario-sociale del Paese. Non può tacersi che la custodia cautelare che fu applicata al sindaco di Riace, seppure nella forma minore degli arresti domiciliari, mostra palesemente la sua improprietà e suscita la preoccupazione che la libertà personale, bene definito inviolabile dalla Costituzione, abbia subito una caduta nella cultura del Paese. Purtroppo, esiste in Italia una cultura delle manette che affolla le carceri di soggetti ancora in attesa di una sentenza definitiva; intendo la custodia cautelare. Abbiamo scelto il rito processuale accusatorio, lo stesso che vige nel Regno Unito e negli Usa, dove la restrizione personale coincide, generalmente, con una condanna definitiva. Nel rispetto del principio della presunzione di innocenza, il quale esiste anche nella nostra Costituzione, ma nella pratica giudiziaria da noi diventano parole. Secondo la giurisprudenza di legittimità, per arrestare una persona e mantenerla in carcere basta una prova “meno piena” di quella necessaria per condannarla, dunque, visto che “meno piena” non è una formula codificabile, la libertà personale resta affidata al soggettivo convincimento di un magistrato e può quindi essere repressa senza obiettive ed effettive certezze. Il risultato sta nelle statistiche che mostrano come non poche persone abbiamo potuto soffrire il calvario del carcere preventivo, venendo poi assolti. Lo sconfinamento dell’intervento penale appare, in realtà, come la supplenza resa necessaria dall’inefficienza di altri settori statuali, soprattutto nel tema della sicurezza e dei flussi migratori sfuggiti alle regole. Non occorre esser ciechi per capire che vi è il rischio di restarne soffocati, ma purtroppo è visibile la incapacità del Paese di trovare, nelle soglie dell’allarme sociale, mediazioni che sottraggano materia al processo penale per rimetterla a possibili soluzioni differenziate. Sembra indispensabile un assetto processuale e ordinamentale che operi da contrappeso al ramo più violento del diritto e ricostruisca un serio e giusto equilibrio nell’incrocio dei poteri statuali. Pene alternative: è lo Stato a dover individuare l’ente trnews.it, 29 dicembre 2018 Se un detenuto ha la possibilità di scontare la pena in modo alternativo, ovvero lavorando in strutture idonee convenzionate, è lo Stato che deve garantire l’esecuzione pena e la funzione rieducativa, trovando la struttura idonea convenzionata, o è lo stesso detenuto a doversela cercare? La risposta a questa domanda è stata data da un recente provvedimento della Corte d’Appello di Lecce a firma del procuratore generale Pietro Baffa, che accogliendo la tesi del legale dell’imputato, l’avvocato Paolo Spalluto, ha stabilito che è lo Stato a doversene far carico di questo. Un provvedimento che nasce da un caso avvenuto a Lecce, ma che costituisce un utile precedente per riformare quanto fino a ieri accadeva in Italia: e cioè che se l’imputato non riesce a reperire con i suoi mezzi un Ente convenzionato è costretto a espiare pena: a tornare in carcere quindi, oppure ai domiciliari. Protagonista della vicenda un uomo di Trepuzzi fermato nel 2010 alla guida in stato di ebrezza e con un elevato tasso alcolemico, condannato in primo grado ad un anno di arresto e 5.500 euro di ammenda. In secondo grado la Corte di Appello concede la sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilità per 1 anno e 20 giorni. Il ragazzo si presenta al Comune di Surbo per effettuare il lavoro di pubblica utilità. Dopo aver preso contatti, dovendo ritornare per sottoscrivere il programma, si sente dire dal comune che nel frattempo la convenzione non è più attiva e lui quindi non può più lavorare. Il Servizio Socio Assistenziale del Comune di Surbo comunica alla Procura Generale presso la Corte di Appello che il giovane non ha effettuato i lavori di pubblica attività. Questa chiede la revoca e il giovane viene arrestato. L’avvocato Spalluto è riuscito a dimostrare però che non tocca al suo assistito trovare un altro Ente convenzionato, ma all’autorità giudiziaria. Gli atti cioè vanno restituiti al Tribunale competente perché esegua la misura con le modalità di legge, reperendo a suo onere e cura un Ente convenzionato. Nei motivi presentati il legale evidenza sarcasticamente con un paragone popolare: “sarebbe come costringere un ferito a trovare un Pronto soccorso con posto letto che possa assisterlo e curarlo in ipotesi di grave infortunio che impone la degenza ospedaliera”. La Corte accogliendo le richieste ha dichiarato la nullità del provvedimento con il quale rispediva l’imputato agli arresti rimandando gli atti al Tribunale affinché individui un altro Ente che possa offrirgli l’opportunità di lavorare. Lucca: muore in carcere, era malato. Per tre volte l’avvocato aveva chiesto i domiciliari di Claudio Capanni La Nazione, 29 dicembre 2018 Aperta un’inchiesta. Alla notizia è scoppiata la protesta dei detenuti. Il suo avvocato, per tre volte da gennaio, aveva fatto richiesta di trasferimento ai domiciliari. Il motivo: le precarie condizioni di salute del suo cliente, T.M., 55enne lucchese detenuto nel carcere San Giorgio di Lucca per reati contro il patrimonio. Ma la raffica di domande per una misura alternativa alla detenzione, non era servita a niente: il 55enne da quella cella non è mai uscito. Se non dentro una bara. È lì che, il giorno di Santo Stefano, gli agenti della Penitenziaria hanno trovato il suo corpo senza vita. Forse, a stroncarlo proprio un malore. Sul quale adesso la magistratura lucchese, vuole vederci chiaro. Ieri il pubblico ministero Antonio Mariotti ha aperto un fascicolo d’inchiesta contro ignoti e disposto l’autopsia sul corpo dell’uomo che, da tempo, era affetto da un problema di salute cronico. Lo stesso che potrebbe aver spezzato la sua vita. L’obiettivo: capire quali siano le casi reali della morte del 55enne e se ci siano eventuali responsabilità da parte del personale del penitenziario. Dove non appena la notizia del cadavere trovato in cella si è diffusa, è scoppiata una violenta protesta. Ad alzare la voce i detenuti della terza sezione, quella con gli ospiti più problematici della struttura, che hanno cominciato a sbattere pentole sulle inferriate. La tensione è arrivata alle stelle tanto che fra gli stessi carcerati si sono verificate risse e quattro di loro sono stati ricoverati infermeria. Il verdetto dell’autopsia arriverà tra 90 giorni, nel frattempo anche i familiari dell’uomo hanno nominato un perito di parte. Ma intanto l’Osapp (Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria), dopo l’episodio ha lanciato un sos al ministero della Giustizia. “Siamo drammaticamente vicini - commenta il segretario generale Leo Beneduci - al punto di non ritorno verso l’assoluto disastro del sistema penitenziario italiano. Rinnoviamo l’invito al governo e ai ministri Bonafede e Salvini - aggiunge - per l’apertura di ogni spazio di analisi e confronto con il personale di polizia penitenziaria”. Quella del San Giorgio di Lucca è la seconda morte in cella dal 2016, l’ennesima in tutta Italia dove dal 2017, almeno 60 detenuti si sono tolti la vita. A puntare il dito sui numeri è il Garante per i diritti dei detenuti, Franco Corleone. “Quello di Lucca è un episodio tragico che non doveva accadere. I detenuti - spiega - in Toscana stanno aumentando. Mentre in tutto il Paese sono quasi a quota 60mila, nella nostra regione hanno superato le 3.400 unità. Tutti in una condizione che desta grande preoccupazione”. Quelli calcolati da Corleone, infatti, sono le stesse cifre che la Toscana e l’Italia avevano nel 2013, quando la Corte europea per i diritti umani di Strasburgo condannò il nostro Paese per trattamenti inumani e degradanti verso i reclusi. “Da quel giorno - dice - furono proposte misure strutturali per risolvere l’emergenza sovraffollamento e il precedente Governo, usufruì di una legge-delega che però adesso è scaduta. Senza che finora sia stato fatto nulla tranne che per l’ordinamento minorile”. Il risultato: di carcere in molti casi, si muore ancora. In Toscana il 30% dei detenuti è dentro per violazioni della legge sulle droghe e più del 20% sono tossicodipendenti. “Deve essere posta più attenzione sulla salute mentale e fisica dei detenuti. Nei prossimi mesi - conclude - presenteremo un dossier a livello regionale su questo tema: serve più investimento anche della società civile e del servizio sanitario”. Detenuto muore in cella per un malore, pm dispone l’autopsia (serchioindiretta.it) Protesta e tensioni nel carcere di Lucca per il decesso, avvenuto (26 dicembre) mercoledì all’ora di pranzo a causa di un malore, di un detenuto di 55 anni, Massimo Tamagnini, di origini garfagnine. A far emergere la vicenda è stato il sindacato Osapp. Secondo quanto spiegato in una nota, in seguito alla morte del cinquantenne, i detenuti “della terza sezione hanno iniziato ad inveire e a sbattere pentolame sulle inferriate mentre all’interno della stessa sezione avevano luogo alcune colluttazioni tra gli stessi ristretti e per le quali alcuni sono dovuti ricorrere a cure mediche”. “Nell’indicare alle autorità politiche e del Dap - commenta il segretario generale di Osapp Leo Beneduci - come drammaticamente vicino il punto di non ritorno verso l’assoluto disastro del sistema penitenziario italiano, rinnoviamo l’invito al governo e ai ministri Bonafede e Salvini per l’apertura di ogni spazio di analisi e confronto con le rappresentanze del personale di polizia penitenziaria necessario per affrontare con la massima urgenza l’insostenibile condizione del lavoro nelle carceri italiane da parte degli appartenenti alla polizia penitenziaria”. La magistratura comunque vuole vederci chiaro e il pm Antonio Mariotti ha deciso di aprire un fascicolo d’inchiesta e ha disposto anche l’autopsia sul corpo del detenuto che ha perso la vita. La causa della morte sarebbe riconducibile ad una emorragia cerebrale che ha ucciso sul colpo l’uomo, detenuto da circa un anno e mezzo e che aveva richiestro, tramite i propri legali, la scarcerazione proprio per motivi di salute. Gli inquirenti vogliono chiarire e capire bene sia le cause precise della morte, sia il contesto della tragedia al San Giorgio. Nei prossimi giorni se ne saprà di più, in attesa dei risultati degli esami autoptici. Donato Capece del Sappe chiede, dal conto suo, al ministro e al capo dipartimento di ripristinare la vigilanza statica dei detenuti e abolire la vigilanza dinamica attuale che da qualche anno è stata istituita nelle case circondariali per le troppe sentenze di condanna. La Cassazione, infatti, recependo le direttive Ue stava accogliendo man mano i vari ricorsi dei detenuti che lamentavano spazi inferiori alle normative ottenendo risarcimenti. Per ovviare a questo problema le sezioni delle case circondariali sono state “aperte” cioè le celle hanno le porte aperte e sono chiuse sono le differenti sezioni. Questo consente margini di spostamenti maggiori per i detenuti che hanno quindi più spazio a disposizione. “Di fatto quindi - afferma Capece del Sappe - le case circondariali sono quasi in mano ai detenuti e per loro è più facile attivare rivolte e disordini proprio per la maggiore “libertà” di cui godono. La sicurezza è quindi diminuita per chi opera all’interno del carcere. Capiamo e comprendiamo i problemi economici alla base di questo provvedimento ma non può essere questa la soluzione, non è questa la strada da seguire”. Quello raccontato, peraltro, non sarebbe, l’unico episodio di proteste fra le mura del carcere. “Nella prima mattinata di ieri (27 dicembre) - spiega Capece - un detenuto italiano ha gettato del caffè verso un detenuto tunisino, il quale poi è stato aggredito fisicamente per le scale della Terza sezione. Lo straniero è stato inviato all’ospedale cittadino facendo poi rientro in carcere verso le 15. Era prevedibile che vi fosse una rivalsa, e infatti verso le 13,15 nei cortili della terza sezione, un detenuto tunisino ha cercato prima di aggredire con dei pugni tre italiani poi ha divelto la porta di calcio e armatosi di un ferro della porta (in ferro, della porta di calcetto) ha cercato di colpire gli stessi. Prontamente gli agenti della polizia penitenziaria sono intervenuti evitando il peggio. Gli eventi critici violenti ormai sono quotidiani e ricadono oltre che sugli stessi detenuti anche e soprattutto sulle donne ed uomini in divisa della polizia penitenziaria”. Napoli: a Poggioreale detenuto 49enne muore per un malore improvviso vocedinapoli.it, 29 dicembre 2018 Nessun miracolo natalizio per uno dei tantissimi detenuti reclusi presso il carcere di Poggioreale a Napoli. Infatti, tra la vigilia e il 25 dicembre appena trascorsi, un detenuto è deceduto presumibilmente per cause naturali. Sulla vicenda l’autorità giudiziaria ha aperto un’inchiesta come atto dovuto per far luce sull’accaduto. L’indiscrezione, appresa da vocedinapoli.it grazie all’attivista per i diritti dei carcerati ed ex detenuto Pietro Ioia (oggi a capo dell’associazione Ex Don, Ex Detenuti Organizzati Napoletani), è stata confermata anche dal Sindacato Autonomo della Polizia Penitenziaria (Sappe). A quanto pare la vittima, un uomo di 49 anni probabilmente non originario della Campania, era in compagnia dei propri amici detenuti. Mentre era in corso il consueto scambio di auguri con assaggio del panettone, il 49enne avrebbe accusato un malore improvviso. Nonostante l’intervento e i diversi tentativi del personale medico presente nel carcere per tentare di salvare la vittima, quest’ultima purtroppo non ce l’ha fatta. Sembrerebbe che l’uomo fosse malato e affetto da HIV. Il 49enne era detenuto presso il padiglione “Roma”. Salerno: Aziz profugo suicida, il Crocifisso di Natale di Barbara Cangiano La Città di Salerno, 29 dicembre 2018 Diceva Papa Giovanni Paolo II che la pace richiede quattro condizioni essenziali: verità, giustizia, amore e libertà. Aziz Alhini se le è viste sgretolare una dietro l’altra. In un vortice nel quale ha continuato, fino alla fine, a rivendicare il suo diritto alla parola. Per raccontare la sua verità. Per consegnare la sua storia affinché fosse ascoltata e capita. Ascoltata e capita, che è poi l’incantesimo che ogni storia di dolore cerca per mettere un punto e infilare un capitolo nuovo, che è cosa ben diversa da un nuovo capitolo. Non è stato possibile. La fragilità - di un sistema sgangherato e primitivo come la classe politica che lo ha edificato sull’ignoranza - e il tempo rapido del disincanto - quello di chi, pur vivendo di disillusioni non sa adeguarvisi - non lo hanno consentito. Ma quella storia c’è. Non la conosciamo. Ne abbiamo letto, in sottotraccia, l’ultimo capitolo. Quello che non avremmo voluto leggere. Perché è quello che leggiamo tutti i giorni, in un caleidoscopio dittatoriale di corpi, sangue, lacrime, rifiuti, dolore. Più o meno è come una dipendenza. E l’orrore crea dipendenza, perché rassicura e distrae, nel senso etimologico del termine, ti tira fuori dalla paura, soprattutto se cadi nella rete dell’assuefazione. È come avere la fobia di volare. Più volte sali su un aereo, meno il panico ti stringerà la gola. Più orrore ti si fissa sulla retina o nella testa, meno paura avrai della paura che potrai generare, o della quale sei, banalmente correo. Certo, c’è una bella differenza. E lo spartiacque si chiama consapevolezza. C’era una volta (in verità è ancora felicemente tra noi), un signore che si chiama Hermann Nitsch. Un artista che di guai con la legge ne ha passati, in un’epoca in cui si cantava una rivoluzione mai fino in fondo germogliata. Pensò di rimettere in scena una sorta di tragedia greca, ma molto più ferina. Fatta di sangue e interiora. Quel Teatro delle Orge e dei misteri si poneva una missione: suscitare disgusto e ribrezzo per solleticare catarsi e purificazione. L’ultimo giorno di Aziz è in un’immagine che è rimbalzata sui cellulari. Il volto inclinato, il corpo appeso a una corda sullo strapiombo. Uno schiaffo alla sensibilità, di chi guarda, di chi decide di farla finita. Poche ore dopo, la stampa nazionale parla di Imago Pietatis, l’ultimo libro del sociologo Fausto Colombo. L’occhio corre a un’immagine-simbolo: un bambino sdraiato carponi sulla riva del mare. Potrebbe dormire, ma sappiamo che non si sveglierà mai più, come migliaia di migranti che non riescono a sagomarsi i piedi, dopo lungo soffrire, sulle coste di un’Europa senza (più) memoria. Il tempo della foto è il passato. Quello che accade dopo è una tela. Non serve se ci fa commuovere o suscita compassione, se non a dotarci dell’ennesimo alibi. La compassione ci proclama innocenti. Ci legittima impotenti. No. Abbiamo scelto di pubblicare il corpo penzoloni di Aziz per provare a cancellare quella che la fotografa Susan Sontang definiva “la passività che ottunde i sentimenti”. “Lasciamoci ossessionare dalle immagini più atroci”, perché “quelle immagini dicono: ecco ciò che gli esseri umani sono capaci di fare”. Facile addossare le colpe alla politica. Ammesso che sia ancora possibile un governo della polis, è dagli individui che occorre ripartire. Dall’indignazione. Che a compatire siamo stati fin troppo bravi. Anche di fronte al Crocifisso di Natale. Salerno: foto di una tragedia per restare umani di Antonio Manzo La Città di Salerno, 29 dicembre 2018 Perché nell’era della globalizzazione delle informazioni, quando ogni notizia è in tempo reale, non riusciamo più a vedere il mondo da vicino? E, soprattutto, ad ascoltarlo quando ci parla con una foto tragica di un uomo che ha scelto di morire? C’era bisogno di una fotografia che inducesse a far riaffiorare l’indignazione sul dramma epocale delle migrazioni? E, a farci vedere un mondo che ci è accanto tra impatti emotivi ondivaghi nella città italiana che merita una medaglia d’oro al valor civile per come ha accolto nel suo porto migliaia e migliaia di profughi? Non è stata una decisione facile, per il nostro giornale, pubblicare la foto del corpo di Aziz come tragica icona di un Cristo crocifisso nei giorni di Natale. Il Dio Crocifisso, direbbe il teologo Jurgen Moltmann, è l’anticamera della liberazione dell’uomo dopo aver visto la tragedia. Abbiamo discusso, ci siamo divisi e poi ci siamo detti: “Facciamo vedere la foto, anche se straziante”. Abbiamo rispettato una cadenza professionale. Abbiamo prima raccontato, giovedì scorso, la tragedia di Aziz ed abbiamo fatto il nostro dovere di cronisti pur avendo già tra le mani la foto di Aziz morto, impiccato. Ed abbiamo preferito il racconto senza pubblicare la foto tragica pure in nostro possesso. E solo dopo aver raccontato la tragedia di Aziz, avvenuta al culmine di una vita infelice finita nelle maglie di una sbrindellata giustizia che mostra il volto feroce solo ai deboli, abbiamo deciso di pubblicare la foto. Siamo stati al confine tra la pietà e la compassione, dove tanto puoi incrociare il muro della indifferenza giustificata dalla pietas tanto puoi spingerti a guardare oltre tentando di coinvolgere tutti nella compassione e, per chi crede, nella preghiera. Abbiamo riconsegnato ad Aziz l’ultima dignità che è quella della pietà sconfiggendo l’ipocrisia dei volti bendati. Ma qualcuno ha letto quel che la collega Barbara Cangiano ha scritto testimoniando con l’acutezza del sentimento anche il dramma di giornalisti consapevoli del loro diritto di cronaca, accompagnando così e spiegando le ragioni di una scelta drammatica? C’è chi, per caso, si è indignato dopo aver letto che il povero Aziz ha trascorso due anni e passa della sua vita dietro le sbarre del carcere di Fuorni, tra pochi camorristi e moltissimi profughi extracomunitari? E che a lui la Legge non ha fatto sconto alcuno quando è stato arrestato e spedito in galera, perché non sapevano dove mandarlo, dopo averlo arrestato con l’accusa di aver rubato il portafoglio ad un suo amico connazionale con il quale divideva la stessa casa a Capaccio? E che quel portafoglio era stato anche beffardamente ritrovato? E che Aziz nonostante tutto rimanesse in galera a marcire con il suo sogno di aver lasciato alle spalle miseria, guerra e fame? No, la storia giudiziaria di Aziz non interessa a nessuno e l’induzione dello Stato al suicidio non è materia di dibattito per i sordi ed i non vedenti della società. La foto è destinata a rimanere perché parla da sola. E parlerà da sola. Non c’è bisogno di parole tranne che di quelle che debbono spiegare ai lettori le ragioni di una scelta sofferta, drammatica. La foto di Aziz non è solo figlia della cultura dello scarto della società, è scartata dagli occhi della società. La foto di Aziz non è sfruttamento cinico del dolore. Rispettiamo le opinioni di chi dissente ma con la stessa forza pretendiamo il rispetto per la nostra scelta drammatica e consapevole. La foto di Aziz urta la coscienza, lo sappiamo bene noi che abbiamo scelto di non pubblicare notizie di suicidi e progressivamente di annullare quei comunicati stampa di forze dell’ordine, di procure, uffici stampa ormai diffusi anche nell’ultima associazione a tutela dell’ordine pubblico, infarciti di nomi e cognomi punteggiati di giovani presi con poche dosi di hashish i cui arresti fanno solo numero per le statistiche della cosiddetta sicurezza. In questa pagina i lettori apprenderanno anche la notizia che a Salerno ci sono altri 50 Aziz dietro le sbarre del carcere di Fuorni. Per effetto del decreto sicurezza debbono essere rimpatriati. Ed ai quali sarà comunicata questa svolta di vita con la stessa modalità utilizzata per Aziz, solo con una telefonata dell’ufficio immigrazione. “Dovete tornare a casa”, eccola la comunicazione. Esiste oppure no un problema di dignità umana che travalica la politica inconsistente e la solidarietà intermittente? La foto di Aziz sconfigge i silenzi ma, a questo punto, serve come ultimo allarme e baluardo per restare umani. Perché restare umani è il vero problema. Il sociologo Fausto Colombo: “La foto? Rischio che valeva la pena correre” È una foto con delle “problematiche” quella pubblicata in prima pagina della Città di ieri con l’immagine del suicidio di Aziz, ma “non parlare di quella morte sarebbe stato grave e farlo senza il supporto di un articolo sarebbe stato ancor più grave”. Nel dibattito sulla decisione di mostrare in tutta la sua crudezza l’immagine del giovane marocchino che si è impiccato pur di non essere rimpatriato esprime le sue considerazioni Fausto Colombo, autore di “Imago pietatis. Indagine su fotografia e compassione”. Il volume prende spunto dalla morte del piccolo Alan Kos, il bimbo di nemmeno 3 anni trovato sulla spiaggia di Bodrum come se stesse dormendo accarezzato dal riflusso delle onde. Ed è sul limite tra compassione e informazione che si snoda la ricerca del sociologo. L’immagine in prima pagina del sudicio di Aziz è spettacolarizzazione del dolore oppure è un elettroshock che serve a scuotere informando? La foto ha una sua evidente problematicità, perché si tratta di un sucida e bisogna interrogarsi sul rispetto della persona morta. Detto questo, è stata compiuta la scelta di pubblicarla legandola al tema di chi sono i migranti e che cosa viene generato dalle politiche sui migranti. Non parlare di quell’uomo sarebbe stato grave e sarebbe stato altrettanto grave non riportare quella morte, come è stato fatto con l’articolo che accompagna la foto che è molto chiaro, a una vicenda più generale che è la chiusura nei confronti delle persone richiedenti asilo e che migrano. Fare l’articolo era importante ed è stato corso un rischio. Nel caso di Alan la foto arriva da sola, senza commento. Prima circola l’immagine, poi il resto. Nel caso della fotografia di Aziz le due componenti arrivano insieme. Salerno: dal carcere al rimpatrio, il destino di 50 profughi di Eleonora Tedesco La Città di Salerno, 29 dicembre 2018 Il decreto sicurezza prevede che i clandestini condannati ritornino a casa. Sono una cinquantina gli extracomunitari detenuti nel carcere di Fuorni che dovranno essere rimpatriati. Le procedure del decreto sicurezza firmato dal ministro dell’Interno, Matteo Salvini, lasciano poco spazio all’interpretazione e coloro che - nello status di clandestinità - sono stati condannati dovranno fare ritorno nei Paesi d’origine. È proprio questa la prospettiva che sta terrorizzando tanti migranti che si trovano nelle carceri di tutta Italia e che ha atterrito fino al suicidio Aziz Alhini. Il 37enne marocchino era agli arresti domiciliari alla “Domus Misericordiae”, dopo aver scontato un periodo di detenzione nel carcere di Fuorni per una rapina che aveva sempre negato di aver compiuto. Le sue tracce si sono perse nel primo pomeriggio del giorno di Natale. Autorizzato ad allontanarsi dalla Domus Misericordiae dalle 10 alle 12, alle 13 non era ancora rientrato. L’ipotesi che fosse fuggito era sembrata subito improbabile ai gestori della struttura di accoglienza: era prossima la fine della detenzione, la comunità favorisce il reinserimento e soprattutto, non aveva portato con sé denaro, cellulare e sigarette. Alba (Cn): criticità strutturali delle carceri, parla il Garante dei detenuti targatocn.it, 29 dicembre 2018 Anche Alessandro Prandi interviene nel dibattito relativo agli istituti penitenziari del Piemonte. Un nuovo tassello si aggiunge, ad Alba, al mosaico delle dichiarazioni relative alla situazione delle carceri regionali, interessate da carenze di spazi e sovraffollamento: dopo quanto affermato ieri dal Garante regionale dei detenuti Bruno Mellano nel corso della conferenza stampa di presentazione del Dossier - che sarà inviato all’attenzione del capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Francesco Basentini - sulle principali criticità strutturali degli istituti penitenziari del Piemonte (leggi qui l’articolo), ecco l’articolato intervento di Alessandro Prandi, Garante comunale dei detenuti di Alba. “Mi sento un po’ in imbarazzo a essere nuovamente qui, come ogni anno, a parlare della situazione della Casa di Reclusione di Alba”. Ha iniziato così il suo intervento il Garante albese. Com’è noto la casa di Reclusione Giuseppe Montalto è stata chiusa esattamente tre anni fa - tra fine dicembre 2015 e inizio gennaio 2016 - in seguito a un’epidemia di legionella, l’ultima di una lunga serie, che portò in ospedale quattro persone detenute. Seguì lo sfollamento verso altri istituti del Piemonte e l’applicazione del personale in altre carceri; dopo un anno e mezzo, a giugno del 2016, si arrivò alla riapertura di una sezione adatta ad ospitare 35 persone. “Da lì in avanti - ha continuato Prandi - le informazioni si sono susseguite in modo intermittente e contradditorio sui tempi dei lavori di ristrutturazione, sulle risorse a disposizione e sulla modalità di realizzazione. Il 2017 a dire il vero si era chiuso con un filo di speranza e di fiducia (ambedue mal riposte): un cronoprogramma annunciato dal Ministro della giustizia Orlando, già allora evidentemente irrealistico, prevedeva l’ingresso dei detenuti tra il 2018 e metà 2019. Inoltre le risorse messe a disposizione passavano da 2 milioni ai 4 milioni e mezzo di euro”. Nell’anno che sta per concludersi tutto sembra tornato opaco e indeterminato. “Nel settembre scorso - informa Prandi - il progetto è stato ultimato e inviato dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria al Provveditorato Opere Pubbliche competente per il Piemonte, per le verifiche di propria competenza, che però lo immediatamente respinto per vizi formali in quanto mancavano le firme in originale… da lì in poi il buio”. “Inoltre, pare di capire - fa notare Prandi - che il Piano di Edilizia Penitenziaria 2018-2020 sia stato sospeso, tanto è vero che da un paio di mesi non è più consultabile sul sito del Ministero della Giustizia. È probabile, ma siamo nel campo delle ipotesi, che si attendano i risultati, previsti per la metà di febbraio, della valutazione del “programma dei lavori di Edilizia penitenziaria da eseguire nonché l’ordine di priorità degli stessi”, così come previsto dall’art. 7 del Decreto Legge del 14 dicembre 2018, n. 135 in materia di sostegno e semplificazione per le imprese e per la pubblica amministrazione”. L’attuale carenza di spazi mina sul nascere le attività cosiddette socializzanti rivolte ai detenuti che hanno come obiettivo quello di abbattere la recidiva. Senza contare che il numero delle persone detenute, oscillante tra le 45 e le 50, fa di Alba il carcere più sovraffollato del Piemonte. Una situazione che preoccupa molto anche l’Amministrazione comunale, come ha avuto modo di riferire il Sindaco Maurizio Marello lo scorso 17 novembre al Ministro alla Giustizia, Alfonso Bonafede, in visita ad Alba. “Per questo all’inizio parlavo di imbarazzo - conclude Prandi. Imbarazzo dovuto dal fatto che noi Garanti dovremmo occuparci non tanto e non solo dei muri, ma delle persone che dentro questi muri sono contenute. Dovremmo parlarvi delle fragilità che ogni giorno incrociamo. Dei tentati suicidi, delle persone affette da malattie croniche e invalidanti che in barba ad ogni parere medico stanno in prigione, di persone straniere che non parlano italiano per cui non si prevedono mediatori culturali, di persone in chiara difficoltà psichiatrica - pericolosi per se stessi e per gli altri - a cui non si presta la dovuta attenzione. Parlo di episodi realmente successi ad Alba in questi mesi, un carcere che peraltro viene considerato tranquillo. E il tutto avviene in una disattenzione totale da parte di quasi tutte le forze politiche, delle istituzioni carcerarie - tanto quelle attuali quanto le precedenti - che proseguono imperterrite nell’emanazione di proclami, circolari e regolamenti e di un apparato burocratico che si rivela sempre più inconcludente, fanfarone e parolaio”. Melfi (Pz): carcere e Azienda Sanitaria insieme per frenare il fenomeno dei suicidi in cella vulturenews.net, 29 dicembre 2018 L’Azienda Sanitaria Locale di Potenza ha stipulato un protocollo d’intesa con la Casa Circondariale di Melfi, avente come oggetto la prevenzione del rischio autolesivo e suicidario dei soggetti adulti negli istituti penitenziari. Questo protocollo fa seguito alla Dgr n°347 del 30/04/2018 con cui la Regione Basilicata ha provveduto ad approvare le “Linee di indirizzo per la Prevenzione del rischio autolesivo e suicidario dei soggetti adulti negli istituti penitenziari” redatte del Gruppo di lavoro della sanità penitenziaria, il quale ha stabilito che ciascuna azienda sanitaria debba stipulare i protocolli operativi locali con l’Istituto penitenziario di riferimento e con il Prap (Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria). Tre i principali pilastri a sostegno di questa importante misura adottata dall’Asp: il documento redatto nel 2007 dal Department of Mental Health and Substance Abuse dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), che riassume le raccomandazioni sulla “Prevenzione del suicidio nelle carceri” ed è rivolto al personale sanitario e penitenziario responsabile della salute e della sicurezza dei detenuti; il Dpcm 1° aprile 2008, emanato in attuazione dell’art. 2, comma 283 della Legge 24 dicembre 2007 n°244 (Finanziaria 2008) recante: “Modalità e criteri per il trasferimento al Servizio Sanitario Nazionale delle funzioni sanitarie, dei rapporti di lavoro, delle risorse finanziarie e delle attrezzature e beni strumentali in materia di sanità penitenziaria”; il documento “Il suicidio in carcere. Orientamenti bioetici” elaborato dal Comitato Nazionale per la Bioetica il 25 giugno 2010. Il Commissario Asp Giovanni B. Chiarelli dichiara: “Con questo Protocollo d’Intesa si intende mettere in campo ogni azione possibile per la prevenzione del suicidio, sulla base delle linee guida già esistenti del documento dell’Oms del 2007, il quale prevede che nel programma di prevenzione siano inserite procedure di screening sistematico dei detenuti sia all’ingresso che durante la detenzione per identificare gli individui con un rischio elevato, e del parere del Comitato Nazionale di Bioetica del 25 giugno 2010”. Campobasso: i Radicali in visita al carcere “sovraffollamento e mancanza di personale” cblive.it, 29 dicembre 2018 In occasione delle festività natalizie l’associazione Radicali Molise ha visitato la casa circondariale di Campobasso insieme ai consiglieri regionali Filomena Calenda e Nico Romagnuolo. Si tratta della prima visita a un carcere molisano da parte dell’associazione, costituita nella primavera di quest’anno. La delegazione dei radicali, composta da Gianmarco Cimorelli, Piernicola Di Iorio, Giancarlo Iemma e Mario Pietrunti, ha voluto manifestare attenzione alla situazione dei detenuti e alle difficili condizioni lavorative degli operatori della struttura. A margine della visita i radicali hanno incontrato i giornalisti per riportare considerazioni e valutazioni. “Come radicali siamo da sempre impegnati per il rispetto dei diritti umani e per lo Stato di Diritto”, ha commentato Mario Pietrunti, dirigente nazionale di Radicali Italiani. “Purtroppo il sistema carcerario italiano è ancora orientato all’afflizione del recluso, mentre invece dovrebbe mirare a reintegrarlo nella società: altrimenti si alimenta soltanto violenza e crimine”. “Ringraziamo il comandante del carcere di Campobasso e tutto il personale per la cortesia e disponibilità nel corso della visita. Come la maggior parte degli istituti italiani, - le parole di Gianmarco Cimorelli, coordinatore di Radicali Molise - l’istituto presenta problemi di sovraffollamento, resi più gravi dall’inadeguatezza di alcune strutture interne e dalla carenza di un adeguato numero di persone adibite di sorveglianza. Siamo pertanto molto felici di aver avuto i consiglieri Calenda e Romagnuolo accanto a noi nella visita: la Regione può fare molto per rendere più umana la condizione carceraria, ad esempio migliorando l’assistenza sanitaria, di competenza regionale o promuovendo buone pratiche di reintegrazione nella società civile. Oggi, quindi, iniziamo un percorso che ci porterà nei prossimi mesi a visitare anche gli altri penitenziari della regione, ma ci auguriamo anche che sia un primo passo per avviare un dialogo costruttivo con tutte le realtà che gravitano intorno all’ambiente carcerario molisano, per - ha poi concluso - portare avanti iniziative che nel concreto migliorino la condizione di vita e di lavoro in un’istituzione così importante per la nostra società”. Lauro (Av): D’Amelio in visita all’Icam “chiederò all’Asl il servizio di pediatria orticalab.it, 29 dicembre 2018 “Vedere la gioia negli occhi delle madri e dei bambini dell’Icam di Lauro è stato il vero dono della giornata”. Così dichiara la Presidente del Consiglio regionale Rosetta D’Amelio a margine della visita nel pomeriggio all’unico istituto per detenute madri presente in Campania. Accompagnata dal Garante dei detenuti Samuele Ciambriello, dal cappellano Padre Carlo De Angelis e dai volontari delle associazioni “Nuovo Avvenire” e “Tarita”, la presidente ha distribuito doni ai 18 bambini delle tredici donne recluse nell’Icam, diretto da Paolo Pastena. L’incontro è stato allietato dalle musiche del maestro Barbi e dal cantante Mario Cadaveri. “La Regione Campania, attraverso il Garante, è vicina alle detenute nelle iniziative sociali, culturali e formative utili a migliorare le loro condizioni e quelle dei loro figli, ai quali ho augurato di poter crescere serenamente - continua D’Amelio - Anche per questo trasferirò al direttore generale dell’Asl Avellino la richiesta di attivazione di un servizio di pediatra a ore all’interno del carcere”. Augusta (Sr): “Classici dentro” e la cultura entra in carcere di Valentina Stella Il Dubbio, 29 dicembre 2018 Il progetto del Festival letterario siciliano itinerante “Naxoslegge”. “Classici dentro” è il progetto che “Naxoslegge”, festival letterario siciliano itinerante, già da un anno e mezzo porta avanti in collaborazione con l’istituto penitenziario di Augusta (Siracusa), per affermare l’importanza della lettura, specialmente quella dei classici, intramontabili attraverso i secoli ed il cui messaggio rimane sempre attuale. Poco prima delle feste natalizie si è tenuto, nell’auditorium “Enzo Maiorca” della Casa di reclusione diretta da Antonio Gelardi, il secondo incontro del progetto durante il quale alcuni detenuti hanno messo in scena Antigone, una delle più note tragedie di Sofocle. Ad assistere alla rappresentazione un pubblico speciale, ossia gli alunni del Liceo Mègara - che tra l’altro hanno donato diverse decine di libri alla biblioteca penitenziaria - e dell’Istituto Marconi di Augusta. I ragazzi hanno partecipato a un dibattito proprio con i detenuti sui temi dell’autorità, del potere, della forza della legge. A spiegarci i dettagli del progetto è Fulvia Toscano, docente di materie letterarie e latino presso il Liceo di Giardini Naxos, e direttore artistico dei festival Naxoslegge: “Voglio prima di tutto evidenziare che proprio alla proprio alla casa di reclusione di Augusta sarà consegnato il prestigioso premio letterario “Comunicare l’Antico 2019”, presso il Parco archeologico di Naxos-Taormina, durante la IX edizione di NaxosLegge che si terrà a settembre del prossimo anno”. Quello di Augusta è un istituto aperto al sociale e che conta molte attività: dal laboratorio di ceramica alle lezioni di canto polifonico, dall’introduzione alla Sacra Scrittura al corso sex offenders rivolto ai detenuti autori di reati di pedofilia. “Apripista di molti progetti - racconta Fulvia Toscano - tra i quali il nostro è stata la professoressa Paola Cortese che insegna all’interno del carcere; poi grazie a Mariada Pansera, la nostra referente ad Augusta, NaxosLegge ha varcato la soglia di Brucoli”. E lo ha fatto con diverse iniziative: “Classici dentro”‘ appunto grazie al quale “vogliamo costruire un ponte con questo mondo di confine. La forza dei classici va oltre ogni muro e ogni barriera. I detenuti, anzi, per il loro vissuto riescono a provare più compassione nel senso etimologico del termine - ed avere più sensibilità nei confronti dei classici, spesso più dei miei giovani alunni del liceo”. Classici ma non solo, perché con i reclusi vengono organizzati anche dibattiti a partire da altri libri come è stato fatto con “Ferite a morte” di Serena Dandini e con “Nel ventre della bestia” del noto criminale e autore Jack Henry Abbott, tradotto per la prima volta in Italia dallo scrittore e giornalista Lanfranco Caminiti. E nel 2019 poi, ci racconta ancora Fulvia Toscano, “vorrei approfondire William Shakespeare e portare in scena la commedia di Aristofane Lisistrata”. Un altro progetto di cui lei va molto fiera è “In viaggio con papà; viaggi da fermi per conquistare il mondo”: “Ai detenuti che vi hanno partecipato sono state concesse presso l’area verde messa a disposizione ore di colloquio supplementari da trascorrere soli con i loro figli, durante le quali hanno letto insieme un libro e poi immaginato un loro viaggio da annotare su un taccuino”. E grazie al contributo di alcune associazioni questi taccuini saranno presto pubblicati. Catania: teatro-carcere al Centro Zo con “Sogno di una notte a Bicocca” cronacaoggiquotidiano.it, 29 dicembre 2018 A grande richiesta “Teatro Mobile di Catania”, diretto da Francesca Ferro, inaugura il 2019 con la messa in scena di “Sogno di una notte a Bicocca”, spettacolo dal sapore catartico, che dall’esperienza di un interessante laboratorio teatrale tra i detenuti vede la reinterpretazione di “Sogno di una notte di mezza estate” di William Shakespeare, in scena domenica 6 gennaio, ore 18.00, al Centro Zo di Catania. Una pièce osannata da critica e pubblico, per aver analizzato la tragicità della condizione umana e sociale dei detenuti utilizzando la funzione pedagogica e terapeutica del teatro con l’obiettivo di liberare il cuore e la mente da quella gabbia in cui sono rinchiusi. “Sogno di una notte a Bicocca” - spiega Francesca Ferro - descrive il bisogno di chi costretto a vivere in regime di detenzione necessiti di superare le mura del carcere e pensarsi in un altro luogo, protagonista di una storia e di una vita diversa dalla propria”. Ed ancora aggiunge: “Lo spettacolo vuole essere il più possibile onesto e coerente con quello che erano i detenuti che ho conosciuto, cercando di far venire fuori l’individuo prima del reo, l’umanità prima della colpa”. Sul palco gli attori Agostino Zumbo, Mario Opinato, Silvio Laviano, Renny Zapato, Giovanni Arezzo, Francesco Maria Attardi, Mansour Gueye, Giovanni Maugeri, Antonio Marino, Dany Break che insieme all’aiuto regia Mariachiara Pappalardo e alle musiche di Massimiliano Pace, interpreteranno questo gruppo di detenuti diretti da una regista (Francesca Ferro) che ha l’importante compito di donare ad ogni componente della compagnia la forza di volare liberi sulle ali della fantasia. Lo spettacolo dà il via ad una tournée nei maggiori teatri della Sicilia. Trani (Bat): “Il treno del sorriso”, felici i figli dei detenuti ed anche i loro papà Giornale di Trani, 29 dicembre 2018 L’ultimo venerdì del 2018 si è trasformato in un giorno di festa al carcere maschile di Trani, grazie ad una mattinata dedicata ai bambini presenti per il colloquio con i genitori detenuti. L’associazione “Il treno del sorriso” ha tenuto uno spettacolo di accoglienza presso gli spazi dedicati alla attesa per i colloqui e, in particolare, padre Francesco Prontera e Paola Albo hanno donato regali di Natale a tutti i bimbi in procinto di incontrare i loro papà, tuttora reclusi. Gli animatori dell’associazione, Beatrice Brullo, Michele Sparno, Valentina Achille, Pietro Loconte, Filomena Sapienza, Shalom Giuseppe Raccah, hanno invece realizzato il vero e proprio spettacolo di accoglienza per i piccoli. Complessivamente, un bel momento di festa e condivisione, che ha permesso ai bimbi anche di fraternizzare fra loro, trasformando un ambiente freddo, tradizionalmente conosciuto come quello della detenzione dei loro genitori, in un piccolo e gioioso teatro in cui hanno avuto più che mai sia un’occasione per sorridere, sia una per portare a casa un graditissimo ed inaspettato dono. A favorire l’iniziativa, il direttore reggente degli istituti penali di Trani, Giuseppe Altomare, con la collaborazione della Polizia penitenziaria e di tutti gli altri soggetti istituzionali coinvolti nella realizzazione del progetto. Peraltro, gli stessi hanno fatto sapere che, “quando i papà vedono i loro figli entrare con il sorriso, anch’essi lo ritrovano e si sentono rasserenati”. Censis: l’insicurezza è il sentimento di base della società e genera cattivismo di Francesco Gesualdi Avvenire, 29 dicembre 2018 Rancore e pregiudizi sono radicati fra le persone più fragili, ossia più povere anche di sapere. Persone che non riuscendo a capire la complessità sono alla ricerca di spiegazioni semplici: vere o false che siano L’unica strada per uscire dalla crisi è quella della coesione sociale che si concretizza in più servizi e più occupati in ambito pubblico. L’immagine che ci restituiscono le analisi della società italiana, in particolare il 52° Rapporto Censis, è quella di una nave inclinata sulla quale, invece di darsi da fare per rimettersi in asse, si spendono le energie per tenere lontani i naufraghi di altri relitti in cerca di un pezzo di legno a cui aggrapparsi. Un’immagine che forse si attaglia all’intero Occidente. Sulla nostra nave inclinata i più agguerriti sono i passeggeri dei piani bassi, dove si accalcano i viaggiatori di terza classe. Qui l’acqua è già entrata, in qualche cabina si combatte addirittura per non annegare e, mentre in tutti cresce la paura di finire sott’acqua, si fa sempre più forte la convinzione che la vera minaccia non sia né il mare grosso né l’inettitudine dell’equipaggio, ma i naufraghi dispersi in mare che cercano riparo sulla loro imbarcazione. Così avanza la richiesta di tirare su tutte le funi e di puntare le armi contro chiunque osi tentare la scalata. Conclusione affrettata di chi, pensando che il peso sia l’unica causa di inabissamento, individua nel divieto d’ingresso la sola strada per mantenersi a galla. Abbandonando la metafora e venendo alla realtà, il Rapporto Censis rivela che una gran parte degli italiani attribuisce agli immigrati la responsabilità della propria decadenza, pensando che si siano appropriati del nostro lavoro, delle nostre case popolari, dei nostri sussidi. Il 58% degli italiani pensa che gli immigrati ci sottraggano posti di lavoro. Il 63% è convinto che rappresentino un peso per il nostro welfare. Il 52% è convinto che si fa di più per gli immigrati che per gli italiani. Convinzioni che sfociano nel risentimento, nell’avversione e in ogni altra forma di pregiudizio: il 75% dei nostri connazionali pensa che l’immigrazione aumenti il rischio di criminalità, il 69,7% non vorrebbe come vicini di casa rom, zingari, gitani, nomadi, il 24,5% persone di altra etnia, lingua o religione. “Sono i dati di un cattivismo diffuso - avverte il Censis - che erige muri invisibili, ma non per questo meno alti e meno spessi”. E il rapporto non smette di sottolineare che rancore, pregiudizi e cattivismo sono particolarmente radicati fra le persone più fragili ossia più povere non solo di soldi, ma soprattutto di sapere. Persone che non essendo in grado di capire la complessità in cui siamo immersi sono alla disperata ricerca di spiegazioni semplici, non importa se vere o false. E in un’epoca in cui superficialità e pensiero breve la fanno da padrona anche in politica, non manca chi quelle spiegazioni semplici le dà, alimentando un sentimento di odio verso gli ultimi che tuttavia non serve a sollevare la sorte dei penultimi. Altrove, infatti, si annidano le ragioni della nostra decadenza. Volendo riavvolgere il filo della crisi nella quale ancora ci dibattiamo, dovremmo sicuramente andare a metà degli anni Ottanta del secolo scorso, quando venne ridefinito l’ordine economico mondiale e venne riscritta la geografia internazionale del lavoro secondo i bisogni esclusivi delle grandi imprese. Una rivoluzione economica e normativa passata alla storia sotto il nome di globalizzazione che oltre a lanciare il lavoro nella tormenta provocò un’ingiustizia crescente nella distribuzione del reddito e della ricchezza. I continui trasferimenti produttivi, associati a una crescente automazione, produssero meno occupazione e meno diritti al Nord, più lavoro sfruttato al Sud. E in ambedue gli emisferi si registrò una caduta della massa salariale. Nei soli Paesi industrializzati, dal 1975 al 2014, la quota di prodotto lordo andato ai salari è sceso di 9 punti percentuale dal 72% al 63%. Dolce musica per i detentori di capitale, ma al tempo stesso rumore sordo di tempesta: se i salari scendono come si chiuderà il cerchio fra produzione e consumi? Non volendo penalizzare i profitti, si cercò di mettere una toppa spingendo il sistema a comprare a debito. Fra il 2000 e il 2008 si ebbe il raddoppio della massa debitoria mondiale, la pratica del debito divenne così abituale che molti istituti bancari, sulle due sponde dell’Atlantico, persero il senso della misura fino ad arrivare alla bancarotta. L’immagine degli impiegati che il 15 settembre 2008 uscirono con gli scatoloni da una Lehman Brothers ormai fallita è diventata il simbolo di come si sia conclusa l’ubriacatura da debiti. Ma il fallimento della Lehman Brothers era solo l’inizio della fine. Per il ruolo giocato dalle banche, ogni crisi bancaria finisce con il travolgere l’economia reale e volendo evitare il peggio, in Europa tutti i governi sono intervenuti per salvare i propri istituti. Ma i soldi da pompare negli istituti bancari i governi non li avevano e successe che per salvare le banche i governi indebitarono se stessi. Fra il 2008 e il 2014 il debito pubblico interno all’Unione Europea è aumentato di 24 punti percentuale passando dal 68 al 92% del Pil. Quanto all’Italia che già viaggiava cronicamente con un debito oltre il 100%, è arrivato al 132% del Pil, anche se, va detto, solo in minima parte per i salvataggi bancari. Tutta questa storia non avrebbe senso di essere riepilogata se non fosse che in Europa ha avuto un epilogo drammatico, in particolare nei Paesi dell’Eurozona. Ossessionati dall’imperativo di mostrarsi debitori affidabili, i Governi europei si sono imbarcati in misure di austerità che hanno reso ancora più grave la crisi innescata dai fallimenti bancari. E le tre piaghe, disoccupazione, povertà e disuguaglianze, tipiche dei tempi di recessione, hanno lasciato un segno profondo in tutta Europa, in particolar modo quella meridionale. In Italia ce lo ricordano i tre milioni di disoccupati e i venti milioni di persone a rischio povertà. Sacche di risentimento che i capi popolo indirizzano strumentalmente verso gli immigrati. Ma se il cattivismo è figlio dell’insicurezza, è questa che dobbiamo eliminare per riportare concordia e accoglienza. E la strada non può essere quella delle riforme che per corteggiare il mercato abbassano diritti e salari. L’unica strada possibile è quella della coesione sociale che si concretizza in più servizi pubblici e più occupati in ambito pubblico. Traguardo possibile, ma che richiede due azioni coraggiose: maggiori introiti da una più equa politica fiscale che torna a incidere sui super ricchi e una diversa gestione del debito pubblico. La morale tedesca che impone di ripagare i debiti a ogni costo va salvaguardata, ma quando il debito diventa così ingombrante da compromettere la convivenza umana, allora va riscoperto il Giubileo. Gli ebrei lo praticavano come abitudine ogni 50 anni. Noi lo potremmo praticare come misura eccezionale per ripartire. Ma serve un movimento culturale che spinga in questa direzione. Potrebbe essere il nostro impegno per convogliare in un’azione positiva le energie oggi spese verso il cattivismo. La tassa sul non profit e lo scandalo delle leggi “orfane” di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 29 dicembre 2018 La vera prevaricazione è l’opacità (per l’ennesima volta) del processo decisionale. Non è che adesso però la storia del raddoppio della tassa sugli enti di volontariato possa finire così, fischiettando il premier e uno dei vicepremier un po’ di scuse imbarazzate, o ammantandosi l’altro vicepremier di telefonate riparatorie a un frate di Assisi. E non solo perché, mentre la tassa entra in vigore con l’approvazione “blindata” della legge di Bilancio 2019, è tutto da vedere se e come e quando verrà mantenuta la promessa marcia indietro. E neanche solo perché è bersaglio strabico ironizzare sulla sottosegretaria Castelli che fa confusione sulla nozione di profitto, o sul ministro Salvini che fa la voce grossa coi “furbetti del volontariato” con l’autorevolezza di chi guida un partito che impiegherà 80 anni a restituire allo Stato 49 milioni frodati ai contribuenti. La vera prevaricazione è l’opacità (per l’ennesima volta) del processo decisionale: persino più grave dello strangolamento di Senato e Camera, perché lo scippo del Parlamento almeno si vede e contro esso si può protestare, mentre di quanto siano “orfane” talune leggi nemmeno si ha percezione. Chi decide, con quali obiettivi, consultando chi, valutando quali parametri? Non lo si sa per i 12.000 appalti pubblici senza gara sino a 150.000 euro, non lo si è saputo per la tassa sul volontariato. Norma ignota persino all’uomo di volontariato che i grillini avevano fatto eleggere senatore proprio per calamitare voti nel settore. Non stava nel “contratto” M5Stelle-Lega, che vale solo quando conviene. Non è stata mai fatta esaminare al Parlamento, luogo deputato a quel “contraddittorio” che solo ora Conte promette per “ricalibrarla”. E per discuterla non c’è stato uno straccio di streaming grillino, o di referendum online, o di sondaggio sui social leghisti pur mobilitati ogni istante ad apprendere cosa il leader mangi o da quale starlette si sia separato. Le mozzarelle al supermercato hanno una filiera tracciabile. Le leggi no. L’ira contro l’aumento della tassa, il volontariato pensa alla piazza di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 29 dicembre 2018 Dopo la retromarcia del governo sul raddoppio dell’Ires, restano i dubbi: come e quando si cambierà la norma? Gli Enti si ribellano: “Non siamo “furbetti”. Se vogliono trasparenza controllino pure”. “Dovremmo davvero scendere tutti in piazza. Altro che furbetti: questo governo sta insultando migliaia di persone che con il loro impegno, la loro passione e la loro professionalità affiancano lo Stato garantendo servizi altrimenti inesistenti o troppo costosi”: Carola Carazzone è il segretario generale di Assifero, realtà che unisce 90 fondazioni private di famiglie, imprese e comunità. Molti dei suoi associati stavano già contando quanto sarebbe costato l’aumento dell’Ires, l’imposta per le realtà del Terzo settore che la manovra aveva raddoppiato. Poi c’è stata la retromarcia e sia il premier Giuseppe Conte che i due vice Di Maio e Salvini hanno spiegato che si era trattato di un errore. Negli uffici del ministero i tecnici stanno cercando di capire come si esce dal pasticcio: la manovra andrà così, a gennaio dovrebbe arrivare un decreto che ripristini lo sconto sulla tassa per gli enti del non profit. Ma, e scusate se è poco, vanno cercate le coperture finanziarie (118 milioni per il 2019, 157 per il 2020 e 157 per il 2021). Rassicurazioni e timori. L’idea della piazza non è peregrina e rimbalza sui social oltre che nelle riunioni degli organismi dirigenti di mondi che hanno il basso profilo nel dna: “Questa volta però dobbiamo dare un segnale, perché stanno uccidendo il Terzo settore” si ripete. “La cosa più grave è cercare di delegittimare il Terzo settore con questa storia dei furbetti davvero inaccettabile”, accusa Luciano Gualzetti direttore della Caritas ambrosiana. Raffaela Pannuti, presidente di Fondazione Ant, parla di “confusione e incompetenza”. Pasticcio nel pasticcio, questa realtà da sempre paga l’Ires per intero: “Evidentemente i 10.000 malati di tumore che ogni anno dal 1978 assistiamo gratuitamente a domicilio in 35 province italiane non rientrano in un settore di particolare rilevanza sociale”. “Bene la retromarcia ma resta la preoccupazione sui tempi e i modi in cui si arriverà alle correzioni promesse alla legge di Bilancio. Così come resta la denuncia di un atteggiamento punitivo da parte della maggioranza di governo nei confronti dell’associazionismo, del volontariato e della solidarietà in generale”, insiste Filippo Miraglia, presidente di Arcs. Stefano Granata, presidente di Federsolidarietà, è uno che il mondo del Terzo settore lo conosce da tre decenni, e conclude: “Il volontariato è un patrimonio di tutti. Anche le cooperative ne hanno bisogno e non possiamo accettare che venga spacciato per il mondo dei furbetti”. Niccolò Contucci, direttore generale di Airc, ricorda che “in tutto il mondo occidentale da 150 anni esiste il non profit e si garantiscono deducibilità e benefici fiscali. Vogliono controllare? Controllino: ma senza sparare nel mucchio”. Il ministro Tria ancora ieri notte in commissione ha precisato che anche nel mondo del non profit “ci sono molti fenomeni di distorsione e bisogna distinguere chi va sostenuto da chi no”. Replica a stretto giro l’ex viceministro Luigi Bobba, padre della Riforma del Terzo settore in attesa di attuazione: “Se il governo vuole garanzie di trasparenza, perché non rende operativo il registro del Terzo settore? abbiamo costruito un Codice dove le regole di trasparenza ci sono e anche molto strette: ma sono loro a tenerlo al palo”. Polemica l’onorevole Maria Chiara Gadda, che l’altra notte alle parole di Tria ha perso la pazienza: “Accusano il non profit di produrre reddito. Ma questo significa ignorare principi fondamentali della nostra Carta costituzionale come la solidarietà e la sussidiarietà: gli enti del non profit possono produrre reddito ma devono reinvestire gli utili nelle attività che svolgono per la collettività”. E intanto, come fa sapere la portavoce di Aoi Silvia Stilli, “è la prima volta dal 2012 che si penalizza la cooperazione internazionale verso i Paesi poveri e ci si deresponsabilizza nei confronti delle aree di crisi umanitaria, con un taglio alle Agenzie delle Nazioni Unite (quindi Unicef e Unhcr) di ben 32 milioni di euro e un blocco rispetto all’impegno garantito di 40 milioni di risorse per l’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo”. Non è ancora finita. I manganelli croati sui sogni dei migranti di Federica Iezzi Il Manifesto, 29 dicembre 2018 Braccia e gambe doloranti, con lividi visibili sotto vestiti e coperte: preda dei populismi, la fallimentare politica europea in tema di accoglienza sta affondando nelle fredde colline boscose del confine nord-occidentale della Bosnia con la Croazia. Usman non riesce a camminare per più di mezz’ora senza doversi fermare. “E pensare che ho camminato senza sosta da Lashkar Gah”. È il triste risultato dei manganelli della polizia croata sulle ossa dei rifugiati, già segnate dal freddo, dopo l’ennesimo sforzo infruttuoso di attraversare il confine croato-bosniaco. “Sono uscito dal Centro di accoglienza di Bira, a Bihac, di pomeriggio. Lì sei libero di farlo”, ci racconta Usman. In effetti all’accesso al campo si assiste a un via vai quasi frenetico di ragazzi poco più che sedicenni, che arrivano al bar accanto e che tornano con burek e coca cola. “Sono rimasto fuori tutto il pomeriggio, avevo portato con me lo zaino, quindi forse qualcuno ha capito che volevo provare ad attraversare il confine. Ho camminato fino a Velika Kladuša”. Dalla città nord-occidentale della Bosnia, la granica, il confine come lo chiamano i bosniaci, è a circa due chilometri. Poco lontano dalla fila di auto regolari, popolate da famiglie regolari, che entrano in una Croazia pronta a difendere con ogni mezzo lecito e illecito il suo posto in Unione europea, spuntano le distese di reti e filo spinato, provviste di schieramenti di polizia, pronti a mandare indietro chi cerca irregolarmente di metter piede in terra croata. La croazia è dal 2015 governata dall’Unione Democratica Croata, partito nazionalista che onora i criminali di guerra, condannati per la pulizia etnica durante il conflitto degli anni ‘90 nell’ex Jugoslavia, e che ha represso i molteplici crimini del regime fantoccio nazista croato, durante la seconda guerra mondiale. Il Paese sta attualmente spingendo per l’ammissione nella zona Schengen dell’Unione europea, e cerca di dimostrare di poter mantenere le sue frontiere sicure. Per cui il corredo dell’ingresso illegale è la violenza. “Al confine sono stato picchiato dai poliziotti”. Usman ha estesi ematomi su una gamba, sulla schiena e sul viso. Difficile non credergli. Difficile pensare che quel segno profondo sulla coscia non sia opera di un manganello. Il personale del Bira refugees centre di Bihac conosce ormai a memoria le storie come quella di Usman. Mantengono il posto letto per 48 ore ai ragazzi che tentano di attraversare il confine: è un tempo sufficiente per capire se riescono a passare o se vengono mandati indietro. Se i ragazzi tornano dopo le fatidiche 48 ore, è vero che avranno perso il loro posto letto nella loro tenda, ma passeranno comunque le notti in brandine. Nessuno viene lasciato fuori. In realtà nessuno sente “proprio” quel luogo. Sono sempre più numerose le denunce per violenze e furti da parte delle forze dell’ordine croate, durante le espulsioni sommarie dal Paese. Il Ministero dell’Interno croato respinge con fermezza ogni accusa, dichiarando semplicemente che l’Unione europea ha incaricato gli Stati membri di adottare tutte le necessarie misure legislative e amministrative interne, per contrastare i movimenti migratori. I funzionari dell’Unione europea, pur richiedendo controlli di frontiera più rigorosi, enfatizzano un approccio internazionale riguardo il trattamento umanitario verso migranti e rifugiati. Nel frattempo, in questa spirale di dispute, senza vincitori né vinti, migliaia di migranti rimangono imbottigliati dentro e intorno alla cittadina nord-occidentale bosniaca di Bihac, prima di quest’anno conosciuta solo dagli amanti del rafting sul fiume Una. Fino a 200 migranti continuano ad arrivare ogni giorno nell’area di Bihac. Nel Bira refugees centre ogni giorno inizia con la lotta per le scarpe e con la fila infinita per la colazione. Secondo i dati diffusi dal Movimento Internazionale della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa, nel 2018 la sola Bosnia ha registrato l’ingresso di oltre 27.000 rifugiati e migranti, molti dei quali provenienti da Afghanistan, Iraq, Iran, Siria, Pakistan, Yemen, Africa del nord. Farideh arriva dalla città curda di Hamadan, in Iran. È rimasta per due anni in Serbia, principale punto di partenza verso gli stati dell’Unione europea, per chi attraversava la rotta balcanica, senza visto d’ingresso. Dal 2015 il confine settentrionale della Serbia con l’Ungheria è stato sigillato da una recinzione, per cui il flusso migratorio ha virato verso la Bosnia. I volontari medici dell’italiana One Life Onlus, che opera in Bosnia-Erzegovina a fianco dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, stanno visitando sua figlia Asma al Sedra refugees camp, uno dei due centri di accoglienza allestiti a Bihac, insieme al Bira refugees centre. “Non c’è speranza di passare” ci dice Farideh, con lacrime di disperazione e vergogna negli occhi. La fallimentare politica europea incapace di riconciliare la realtà populista anti-immigrati con la lotta umana per una dignità di sopravvivenza, è affondata nelle fredde colline boscose, lungo il confine nord-occidentale della Bosnia con la Croazia. Le risposte arrivano anche dagli spiriti spezzati e dai corpi contusi di persone come Maned. Un giaccone di qualche misura più grande, una grossa busta sulle spalle, una mano sempre tesa verso chi è più in difficoltà. In queste ultime settimane una coltre spessa di neve nasconde case, strade e montagne. La Bosnia appare così impervia, eppure nei -9 gradi del nord, gruppi di migranti e rifugiati si fanno largo tra i banchi di nebbia e le tormente di neve. Maned ha percorso chilometri di manti ghiacciati all’alba, su tratti desolati, fuori dai centri abitati e dalle mappe stradali, per giungere con la sua famiglia a Bihac, teatro di orrendi combattimenti durante la guerra che ha travolto l’ex Jugoslavia nei primi anni 90. “Abbiamo camminato per 15 ore al giorno, ogni giorno. Il nostro viaggio è iniziato nel 2015 da Herat” ci racconta. Con un autobus da Kabul hanno raggiunto la città di Zaranj, nella provincia sudoccidentale afgana di Nimroz, al confine con Iran e Pakistan. “Abbiamo attraversato insieme ad altre 20 persone prima il confine con l’Iran a Pul-e-Abrisham e poi il confine con la Turchia, per entrare nella provincia orientale turca di Van”. Il viaggio continua a piedi, al seguito di trafficanti, fino alla città occidentale turca di Edirne, al confine con la Grecia. “Abbiamo trascorso un anno intrappolati a Idomeni, in tende umide e campi non ufficiali. Poi il passaggio in Macedonia, fino alla cittadina macedone di Lojane, ricettacolo di trafficanti e corruzione, al confine nordorientale con la Serbia. Per un altro anno siamo stati rimbalzati da un campo rifugiati all’altro in Serbia”. Dalla Serbia alla Bosnia l’ultimo ostacolo è la città di Zvornik, sulle rive del fiume Drina. Sconfitto dalla stanchezza e dal dolore, spogliato dei suoi ultimi risparmi, ci dice “Sono un ingegnere e dal 2015 non lavoro”. Chiediamo a Maned come vengono pagati i contrabbandieri. Il sistema è totalmente differente rispetto a quello usato dai migranti africani, per esempio. In Afghanistan il denaro per il viaggio viene affidato ad un cambiavalute, spesso nei bazar di Kabul. “Il pacchetto di denaro viene consegnato al contrabbandiere solo se il migrante arriva in sicurezza nel Paese di destinazione prescelto, altrimenti l’accordo viene annullato e il denaro torna nelle tasche del migrante”. C’è dunque una sorta di garanzia di rimborso sul contrabbando. Continua “Come si sta in Italia? Mi hanno chiesto 4.000 euro per raggiungere Trieste o Milano”. L’Onu: mai così tante guerre in 30 anni, i bambini le vittime più indifese Avvenire, 29 dicembre 2018 La mappa dei conflitti secondo l’Unicef dimostra il triste record di violenze nel mondo. Nel corso del 2018 in Siria, tra gennaio e settembre, sono stati uccisi 870 bimbi. “Nel 2019 si celebra il 30° anniversario della ratifica della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza e il 70° anniversario della Convenzione di Ginevra, ma oggi un maggior numero di Paesi è coinvolto in conflitti interni o internazionali più che in ogni altro momento degli ultimi 30 anni. I bambini che vivono in situazioni di conflitto sono fra coloro che hanno meno probabilità di avere i loro diritti garantiti. Gli attacchi contro i bambini devono finire”. Il dramma siriano - È la denuncia di Manuel Fontaine, direttore dei programmi di emergenza dell’Unicef. Nel corso del 2018 in Siria, tra gennaio e settembre, le Nazioni Unite hanno verificato l’uccisione di 870 bambini, il più alto numero di sempre nei primi 9 mesi di ogni anno da quando il conflitto è scoppiato nel 2011. Gli attacchi sono continuati per tutto l’anno, a novembre 30 bambini sono stati uccisi nel villaggio orientale di Al Shafa. In Yemen, le Nazioni Unite hanno verificato l’uccisione o il ferimento in attacchi di 1.427 bambini, compreso un attacco “inconcepibile” su uno scuolabus a Sàada. Scuole e ospedali sono stati oggetto di frequenti attacchi o sono stati usati per scopi militari, negando ai bambini l’accesso al loro diritto all’istruzione e all’assistenza sanitaria. Questo sta ulteriormente alimentando una crisi in un Paese in cui ogni 10 minuti un bambino muore a causa di malattie prevenibili e 400.000 bambini soffrono di malnutrizione acuta grave. Secondo l’Unicef, il futuro di milioni di bambini che vivono in Paesi colpiti da conflitti armati è in pericolo, mentre le parti in guerra continuano a commettere gravi violazioni contro i bambini e i leader del mondo non imputano loro le responsabilità cui dovrebbero rispondere. “I bambini che vivono in zone di conflitto negli ultimi 12 mesi hanno continuato a soffrire livelli estremi di violenza e il mondo ha continuato a deluderli - aggiunge Fontaine. Da troppo tempo le parti in conflitto stanno commettendo atrocità con un’impunità quasi totale e tutto questo sta solo peggiorando. Molto di più può e deve essere fatto per proteggere e dare assistenza ai bambini”. I bambini che vivono nei Paesi in guerra sono sotto diretto attacco, utilizzati come scudi umani, uccisi, feriti o reclutati per combattere. Stupro, matrimoni forzati e rapimento sono diventati la normalità nelle tattiche di conflitto dalla Siria allo Yemen, dalla Repubblica democratica del Congo alla Nigeria, al Sud Sudan, al Myanmar. L’Unicef chiede alle parti in conflitto di rispettare i loro obblighi secondo il diritto internazionale di porre fine immediatamente alle violazioni contri i bambini e all’utilizzo, come obiettivi, di infrastrutture civili che comprendono scuole, ospedali e infrastrutture idriche. L’Unicef chiede anche agli Stati che hanno un’influenza sulle parti in conflitto di utilizzare quest’influenza per proteggere i bambini. “È necessario fare molto più per prevenire la guerra e porre fine a molti disastrosi conflitti armati che devastano le vite dei bambini. Eppure, anche se le guerre continuano, non dobbiamo mai accettare gli attacchi contro i bambini. Dobbiamo fare in modo che le parti in guerra abbiano l’obbligo di proteggerli. Altrimenti, saranno i bambini, le loro famiglie e le loro comunità che continueranno a soffrire conseguenze devastanti, ora e negli anni a venire”, aggiunge Fontaine. In tutti questi Paesi, l’Unicef lavora con i suoi partner per fornire ai bambini più vulnerabili servizi sanitari, per la nutrizione, l’istruzione e la protezione. Per esempio, a ottobre l’Unicef ha contribuito al rilascio di 833 bambini reclutati in conflitti armati nel nordest della Nigeria e sta lavorando perché questi bambini siano reintegrati nelle loro comunità. Da quando il conflitto è esploso in Sud Sudan 5 anni fa, l’Unicef ha riunito circa 6.000 bambini non accompagnati e separati con le loro famiglie. In Bangladesh, nel 2018, l’Unicef ha raggiunto migliaia di bambini rifugiati Rohingya con supporto per la salute mentale e psicosociale. In Iraq, l’Unicef sta lavorando con i suoi partner per fornire servizi specialistici alle donne e ai bambini colpiti da violenza di genere. La crisi in Medio Oriente - Palestina, quest’anno, oltre 50 bambini sono stati uccisi e altre centinaia sono rimasti feriti, molti mentre manifestavano contro il deterioramento delle condizioni di vita a Gaza. I bambini in Palestina e Israele sono stati esposti a paura, trauma e rischio di essere feriti. In Sud Sudan, il conflitto e l’insicurezza durante l’annuale stagione magra hanno portato 6,1 milioni di persone alla fame estrema. Anche con l’arrivo della stagione delle piogge, oltre il 43% della popolazione rimane in condizioni di insicurezza alimentare. Mentre la promessa di un nuovo accordo di pace offre un barlume di speranza per i bambini, continuano le segnalazioni di estrema violenza contro donne e bambini, la più recente a Bentiu, dove oltre 150 donne e ragazze hanno raccontato di aver subito terribili aggressioni sessuali. In Ucraina orientale, oltre 4 anni di conflitto rappresentano un peso devastante sul sistema scolastico dei bambini, dato che centinaia di scuole sono state distrutte e danneggiate e 700.000 bambini sono costretti a imparare in ambienti delicati, tra combattimenti instabili e pericoli causati da ordigni di guerra inesplosi. La situazione è particolarmente grave per 400.000 bambini che vivono nel raggio 20 km dalla linea di contatti che divide le aree controllate e non controllare dal Governo e dove bombardamenti e forti rischi causati da mine rappresentano una minaccia mortale. In Camerun c’è stata un’escalation del conflitto nelle regioni nord e sud occidentali del Paese, con le scuole, gli studenti e gli insegnanti spesso sotto attacco. A novembre, oltre 80 persone, compresi molti bambini, sono stati rapiti da una scuola a Nkwen, nel nord ovest del Paese e rilasciati pochi giorni dopo. A oggi, 93 villaggi sarebbero stati bruciati parzialmente o totalmente a causa di conflitti, con molti bambini che hanno subito livelli estremi di violenza. La situazione irachena - In Iraq, anche se i combattimenti si sono ampiamente placati, quattro bambini sono stati uccisi a novembre nel nord del Paese quando il furgone con cui andavano a scuola è stato attaccato. I bambini e le famiglie che ritornano alle loro case in zone precedentemente colpite da pesanti violenze continuano a essere esposti al pericolo di ordigni inesplosi. Migliaia di famiglie rimangono sfollate e ora devono affrontare le ulteriori minacce di temperature invernali gelide e inondazioni improvvise. Nel cuore dell’Africa - Nel Bacino del Lago Ciad, il conflitto in corso, gli sfollamenti e gli attacchi sulle scuole, contro gli insegnati e le altre strutture scolastiche hanno messo a rischio l’istruzione per 3,5 milioni di bambini. Oggi, nel nordest della Nigeria, nella regione del Lago Ciad, nell’estremo nord del Camerun e nella regione di Diffa in Niger, almeno 1.041 scuole sono chiuse o non funzionano a causa di violenza, paura di attacchi o disordini che coinvolgono circa 445.000 bambini. Una recente ondata di violenze nella regione di confine tra Mali, Burkina Faso e Niger ha causato la chiusura di 1.478 scuole. In Myanmar, le Nazioni Unite continuano a ricevere notizie di violazioni dei diritti dei Rohingya rimasti nel nord dello Stato di Rakhine, che comprendono accuse di omicidi, scomparse e arresti arbitrari. Ci sono anche diffuse restrizioni dei diritti di libertà di movimento e ostacoli nell’accesso ai servizi sanitari e scolastici nello Stato del Rakhine centrale. Assicurare che i bambini abbiano accesso a un’istruzione di qualità e ad altri servizi di base eviterà una “generazione perduta di bambini Rohingya - sottolinea l’Unicef -, altrimenti perderanno le competenze di cui hanno bisogno per contribuire alla società”. L’Afghanistan “dimenticato” - In Afghanistan, le violenze e i massacri sono stati avvenimenti quotidiani con circa 5.000 bambini uccisi o feriti nei primi 9 mesi del 2018, pari al totale del 2017. I bambini rappresentano l’89% delle vittime civili a causa dei residuati bellici esplosivi. Nel nordest della Nigeria, i gruppi armati, comprese le fazioni di Boko Haram, continuano a colpire le ragazze che vengono stuprate, costrette a sposare combattenti o utilizzate come ‘bombe umanè. A febbraio, il gruppo armato ha rapito 110 ragazze e un ragazzo in un college tecnico a Dapchi, nello Stato di Yobe. Mentre la maggior parte dei bambini sono stati rilasciati, 5 ragazze sono morte e una è ancora prigioniera come schiava. In Somalia, oltre 1.800 bambini sono stati reclutati dalle parti in conflitto nei primi 9 mesi del 2018 e 1.278 sono stati rapiti. In Repubblica Centrafricana, una drammatica ripresa dei conflitti ha coinvolto gran parte del Paese, con 2 bambini su 3 che hanno bisogno di assistenza umanitaria. In Repubblica democratica del Congo la violenza interetnica e gli scontri tra forze di sicurezza e gruppi armati/milizie nella regione del Grande Kasai e nelle province orientali del Tanganica, del Kivu meridionale, del Nord Kivu e dell’Ituri hanno avuto un impatto devastante sui bambini. La risposta all’attuale epidemia di Ebola è stata seriamente ostacolata dalla violenza e dall’instabilità nella parte orientale della Repubblica democratica del Congo. Inoltre, si stima che 4,2 milioni di bambini siano a rischio di malnutrizione acuta grave (Sam). La situazione è aggravata dalle violazioni dei diritti dei bambini, tra cui il reclutamento forzato da parte di gruppi armati e gli abusi sessuali. Siria ultimo atto: i curdi svoltano verso Assad di Marta Ottaviani Avvenire, 29 dicembre 2018 Dopo l’avvio del ritiro Usa, i curdi cedono la città di Manbij minacciata dalla Turchia. Mosca appoggia la mossa. Colpo di scena nel nord della Siria, dove l’annunciato ritiro delle truppe Usa da parte di Donald Trump sta creando spazi di manovra dei quali stanno cercando di approfittare tutti. E che rischiano di lasciare a bocca asciutta la Turchia di Erdogan, che da settimane ha annunciato una vasta operazione a est del fiume Eufrate, ai danni dei curdi. Gli occhi sono puntati su Manbij, dove i curdi siriani sono pronti a cedere il centro nella città niente meno che alle armate di Bashar al-Assad, che, secondo l’agenzia di Stato siriana, Sana, sarebbero già arrivate sul posto. Ieri mattina, con un tweet, lo Ypg, l’Unità di protezione popolare, il braccio armato dei curdi siriani, ha chiesto all’esercito di Bashar al-Assad di prendere il controllo di Manbij per proteggerla “dall’invasione turca”. “Invitiamo le forze del governo siriano, che sono obbligate a proteggere il Paese, la nazione e le sue frontiere, a prendere il controllo delle aree dalle quali si sono ritirate le nostre forze, in particolare Manbij, e a proteggerle contro un’invasione turca” si è letto qualche ora più tardi in una nota dell’organizzazione. Già nei giorni scorsi, media della Mezzaluna avevano dato la notizia di mezzi militari lealisti in movimento verso le zone di Manbij e Kobane, sotto il controllo dei curdi siriani, e molto importanti per quello che riguarda le comunicazioni. Uno spostamento che avviene proprio mentre la Turchia sta ammassando truppe e carri armati al confine con la Siria, e che ha irritato considerevolmente Ankara, insieme con la dichiarazione del ministero degli Esteri russo, per le quali le terre lasciate libere dai soldati Usa dovevano tornare nelle mani dei siriani, coerentemente con il diritto internazionale. Proprio ieri mattina, il portavoce del Cremlino, Dimitri Peskov ha definito l’arrivo delle truppe lealiste a Manbij “un passo positivo verso la stabilizzazione della regione”. Che però lascia Ankara molto scontenta. Ufficialmente, il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, ha dichiarato che se i curdi si ritirano da Manbij, allora la Turchia non ha più ragione di intervenire oltrefrontiera. Ma quei territori rischiano di finire definitivamente nelle mani di Assad, che rappresenta ancora un nemico per il presidente turco, mentre lo Ypg, che pure potrebbe rinunciare a pretese di autonomia, rimarrebbe a esercitare la sua influenza nella regione. Difficile che Ankara accetti tutto ciò. Oggi una delegazione di alto livello turca sarà a Mosca, dopo che da Putin è arrivato un no a una richiesta di Erdogan per un incontro diretto. All’inizio dell’anno nuovo, sempre a Mosca, ci sarà un nuovo trilaterale fra Russia, Iran e Turchia. Ma Ankara attende con impazienza anche l’arrivo del presidente americano, Donald Trump. Di certo si sa che il suo advisor, John Bolton, sarà nella capitale turca dopo Capodanno, mentre nei prossimi giorni Erdogan potrebbe sentire telefonicamente il capo della Casa Bianca per parlare della normalizzazione delle relazioni e della questione Siria. L’impressione è che la Turchia si senta in qualche modo tradita da Mosca, che pure fino a questo momento l’aveva lasciata agire con una certa libertà. Il controllo del nord del Paese per Putin, però, è vitale per tamponare l’emergenza terroristica di matrice jihadista, campo in cui Ankara non ha mai garantito una grande affidabilità. Un ribaltamento dei piani che con l’anno nuovo potrebbe portare nuovi scenari nella regione e, da parte della Turchia, forse anche un ripensamento delle proprie alleanze.