Un nuovo grande guaio con le carceri di Claudio Cerasa Il Foglio, 28 dicembre 2018 Il sovraffollamento sale al 130,4% e con i populisti la situazione può peggiorare. A cinque anni dalla procedura di infrazione nei confronti dell’Italia per il sovraffollamento carcerario, aperta in seguito alle innumerevoli condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo, gli istituti di pena italiani tornano a essere più che sovraffollati. Lo conferma ora anche il rapporto inviato dal Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa. Infatti, dopo un iniziale calo del numero dei detenuti (da 65.704 del 2012 a 52.164 del 2015), dovuto non tanto a interventi del legislatore quanto agli effetti di alcune sentenze della Corte costituzionale e della Cassazione, la popolazione detenuta ha ripreso ad aumentare negli ultimi tre anni, fino ad arrivare a 60.002 (+7.838 unità) al 31 novembre scorso, a fronte di una capienza pari a 50.583, per un sovraffollamento del 118,6 per cento. Stando ai dati ufficiali, 94 istituti penitenziari su 190 registrano un sovraffollamento che va dal 120,7 per cento al 204,2 per cento, ospitando 37.506 detenuti in 26.166 posti. Di conseguenza, nota il rapporto dei radicali, “il 62,5 per cento della popolazione detenuta vive in un sovraffollamento di gran lunga superiore alla media nazionale”. Non solo: se si considera che circa 4.600 posti sono in realtà inagibili, il sovraffollamento effettivo sale al 130,4 per cento. Migliaia di detenuti sono così costretti a vivere in ambienti insalubri e fatiscenti, con poche possibilità di studio, formazione e lavoro. Con conseguenze spaventose: sono 63 i suicidi avvenuti in carcere in questo anno non ancora terminato, un dato mai così alto dal 2011. E se si guarda all’orizzonte, non c’è da ben sperare. Il nuovo governo Lega-M5S è intervenuto cancellando la riforma penitenziaria approvata (in maniera tardiva e incompleta) dall’esecutivo Gentiloni, e il carcere sembra essere completamente sparito dall’agenda politica. A Trento l’ennesimo suicidio di un detenuto e scoppia la rivolta camerepenali.it, 28 dicembre 2018 Superata la soglia di 60.000 detenuti. Ritorna l’ingestibile sovraffollamento. Suicidi e morti in carcere, le cifre sono quelle record del 2011. Pubblichiamo il documento della Giunta e dell’Osservatorio carcere UCPI. Cinque anni fa la condanna dell’Italia per trattamenti inumani e degradanti nei confronti dei detenuti. Da allora nulla è cambiato. Il precedente Governo ha promesso riforme strutturali, per circa tre anni ha messo all’opera esperti del settore, ha assicurato l’Europa che il cambiamento c’era stato, ma poi il pur mite ruggito si è presto trasformato nel verso del coniglio, lasciando ai “nuovi giunti” la presunta responsabilità di far diventare il nostro Paese un luogo civile dove la Costituzione viene rispettata e non esistono zone franche. Ma il cambiamento ai vertici dello Stato ha affossato la Riforma e le nostre carceri continuano di giorno in giorno ad affollarsi, a vedere negati il diritto alla salute, al lavoro, agli affetti familiari, al rispetto della dignità della persona, con la tragica conseguenza quest’anno dell’aumento dei suicidi (65) e di morti “innaturali” (77, spesso dovute alla mancanza dei necessari tempestivi interventi), per una media di circa un morto ogni tre giorni. In questo contesto, il 22 dicembre scorso vi è stata nel carcere di Trento, la rivolta di 300 detenuti sui 356 presenti. La ribellione è avvenuta dopo il suicidio di un uomo di 32 anni, che seguiva quello di un ragazzo e da due tentativi sventati dalla Polizia Penitenziaria. La settimana precedente quattro detenuti erano stati portati in Ospedale per aver ingerito un mix di diluenti e altre sostanze tossiche. Incendiate suppellettili all’interno delle stanze e devastate alcune zone dell’istituto. Sul posto sono intervenuti ambulanze, vigili del fuoco e l’area è stata controllata oltre che dalla Polizia Penitenziaria, anche da Carabinieri, Guardia di Finanza e Polizia di Stato. Oltre al Prefetto, al Questore, al Governatore della Provincia, al magistrato di Sorveglianza e al Garante dei detenuti, presenti anche il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, Andrea De Bertolini e il Presidente della Camera Penale di Trento e componente il direttivo dell’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane, Avvocato Filippo Fedrizzi. I due legali hanno chiesto di verificare quanto stava accadendo e si sono messi a disposizione per tentare una mediazione con i detenuti. Una volta entrati nell’istituto gli è stato però detto che non dovevano interferire con le operazioni in corso gestite dalle forze di polizia. Dopo qualche ora la rivolta è rientrata, in quanto come riferito dal Prefetto Sandro Lombardi vi è stato un colloquio con alcuni rappresentanti dei detenuti che “lamentano pochi problemi che si possono risolvere, relativi al servizio sanitario e alle richieste che loro inoltrano in temi di permessi al Giudice di Sorveglianza e la situazione è ritornata nella normalità”. Le dichiarazioni del Prefetto, rilasciate dinanzi ad operatori televisivi e giornalisti, mirano a gettare acqua sul fuoco e a tranquillizzare l’opinione pubblica, ma lasciano più di un interrogativo. Quello che è accaduto in questi giorni a Trento, non è relativo a “pochi problemi che si possono risolvere”, ma rispecchia l’esasperazione di una comunità gestita nel peggiore dei modi dallo Stato e non solo a Trento, ma nella maggior parte degli istituti di pena. Desta poi allarme la dichiarazione secondo la quale “la situazione è tornata alla normalità”. Ma qual è la “normalità” per un rappresentante dello Stato? Tre educatori per oltre 350 detenuti? Un’infermeria chiusa la sera e nei fine settimana? Attese interminabili per gli interventi specialistici? Indecenti condizioni di vita quotidiana? Tutto ciò va definito “vergognoso” e prima ancora “illegale” e va detto non per giustificare azioni di violenza, ma per ripristinare la verità. E se la carica rivestita non lo consente, va comunque evidenziato che i problemi non sono affatto pochi e non sono risolvibili in tempi brevi. La rivolta di Trento è, dunque, terminata. Oltre 180 detenuti saranno immediatamente trasferiti in altri istituti e a tutti sarà negato il beneficio della liberazione anticipata (45 giorni in meno per semestre). Questa la punizione certa (altre ci sono state o ci saranno?) che rappresenta il prezzo da pagare per l’atto di ribellione, ma lo Stato - già condannato nel 2013 dalla Corte Europea per le condizioni di vita delle sue carceri quando si riabiliterà? La Giunta dell’Unione Camere Penali Italiane L’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane Ai “Pranzi d’Amore” oltre 2mila detenuti. Ingrediente segreto, la fraternità di Marcella Clara Reni* Avvenire, 28 dicembre 2018 Da Torino a Palermo, martedì 18 dicembre, in contemporanea in 13 carceri d’Italia, si è svolta la V edizione dell’evento “L’Altra cucina... per un Pranzo d’Amore”, un vero pranzo di Natale preparato per oltre 2.200 detenuti da chef di fama e servito da più di 350 volontari e artisti che hanno messo a disposizione il loro tempo e la loro arte. A Roma (Rebibbia femminile), Milano (Opera e San Vittore), Torino, Palermo, Bologna, Bari, Salerno, Siracusa, Massa Carrara, Eboli, Lanciano, Ivrea, si sono messe a tavola la gratuità, la generosità, la condivisione. Nella diversità dei menù gourmet ideati dai 13 chef, oltre al cibo raffinato, preparato con arte e cura, l’ingrediente comune è stato l’amore. La sinergia con la direzione delle carceri, con gli operatori di area pedagogica e di Polizia penitenziaria, che hanno saputo aprire le porte del carcere con efficienza e professionalità, ha reso possibile la realizzazione di un progetto complesso, alternativo alla logica dominante del rifiuto dell’altro visto, come diverso da sé, all’insegna della fraternità umana. Natale è festa di famiglia, e attorno a tavole imbandite si è fatta famiglia, in un clima gioioso di festa e condivisione, con tanti comici, cantanti, attori, imitatori, clown che hanno fatto divertire anche i bambini che, in molte carceri, hanno potuto partecipare al pranzo di Natale con i familiari dei detenuti. Grazie alla generosità di imprenditori, chef, volontari e artisti, i fornelli del carcere hanno sprigionato un bene del tutto speciale: il bene comune dell’accoglienza, della solidarietà, del riconoscimento del valore dell’uomo. Anche se detenuta, ogni persona è sempre portatrice di una sua dignità, pur se offuscata dal reato commesso; ha una dignità che è dovere della società far riemergere e consolidare, nella concretezza della finalità rieducativa della pena detentiva. Un’esperienza che ha portato gioia, commozione e conversione nel cuore di tutti, attraverso la testimonianza di chi sa sedersi accanto al detenuto, di chi con lui condivide la sorte comune di appartenenza al genere umano con tutto ciò che questo significa, sia in termini di bellezza, che in termini di miserie. Ospite d’onore un Dio, Gesù, che amava banchettare e banchettare con i peccatori, ma che trasformava quei banchetti in opportunità di redenzione: noi diremmo di recupero. *Presidente di Prison Fellowship Italia Onlus Spese di giustizia: qual è lo Stato che investe di più? di Isabella Policarpio money.it, 28 dicembre 2018 L’Eurostat ha stilato la classifica dei Paesi che investono di più nel settore giustizia, calcolando la spesa pubblica complessiva per abitante. In quale posizione sarà l’Italia? Gli investimenti dello Stato italiano nel settore giustizia sono inferiori alla media europea. Questo è quanto emerge dai dati dell’Eurostat, che ha stilato una classifica degli Stati europei dove si investe di più per migliorare l’efficienza della macchina giudiziaria, in ottemperanza agli obiettivi posti dal programma per lo Sviluppo dell’Onu. La classifica elaborata dall’Eurostat si basa sugli investimenti governativi degli Stati europei per le spese di giustizia di ogni cittadino e sul grado di soddisfazione dell’indipendenza del terzo potere. Il confronto europeo - L’Eurostat (l’Ufficio Statistico della Comunità Europea) ha raccolto i dati inerenti agli investimenti nel settore giustizia degli Stati europei ed ha stilato la classifica dei Paesi più virtuosi. Il confronto si basa sulla spesa complessiva per la giustizia che lo Stato sostiene per ogni singolo cittadino. Il dato italiano ammonta a 93,6 euro per abitante, ed è al di sotto della media europea. Inoltre, L’Eurostat ha calcolato che solo 3 cittadini su 10 pensano che l’indipendenza del sistema giudiziario italiano sia “abbastanza buona” o “molto buona”. Dati alla mano, vediamo la classifica dei Paesi che investono di più nel settore giudiziario: n. 1 Lussemburgo, con 202 euro per abitante; n. 2 Germania, con 155 euro per abitante; n. 3 Svezia, con 128 euro per abitante; n. 4 Irlanda, con 124 euro per abitante; n. 5 Austria, con 116 euro per abitante; n. 6 Paesi Bassi con 112 euro per abitante; n. 7 Belgio, con 100 euro per abitante; n. 8 Slovenia, con 96 euro per abitante; n. 9 Italia, con 93,6 euro per abitante. Dunque, l’Italia, in quanto a spesa pubblica sulla giustizia, non figura tra gli ultimi posti della classifica, tuttavia gli investimenti di non primo ordine corrispondono ad una peggiore percezione del funzionamento della macchina giudiziaria. Infatti, solamente 3 cittadini su 10 (il 32%) ritengono che l’indipendenza del sistema giudiziario italiano sia soddisfacente, ovvero “abbastanza buona” o “molto buona”. Mentre negli altri Paesi dell’Unione europea questo dato è sensibilmente maggiore: in media 1 persona su 2 (circa il 56%) crede nell’indipendenza della giustizia. In Danimarca si raggiunge l’87% della popolazione, in Croazia solo il 26%, in Slovacchia il 29% ed in Bulgaria il 30%. Tuttavia, anche se il dato italiano non è tra i migliori in Europa, dobbiamo riconoscere un sensibile miglioramento rispetto al 2016, quando l’Eurostat aveva stimato che solo il 25% degli italiani è soddisfatto dell’indipendenza della giustizia, percentuale che in 2 anni è cresciuta del 7%. Intercettazioni: la legge fantasma congelata dai Cinque Stelle di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 28 dicembre 2018 La norma voluta da Orlando è in un limbo. Il Governo non ha ancora trovato un modo “elegante” per mandare definitivamente in archivio un testo che ha sempre considerato come un bavaglio messo dai dem. La modifica delle intercettazioni telefoniche voluta dall’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando è destinata a rimanere nel grande libro delle riforme incompiute. Il problema è che il Governo giallo verde non ha ancora trovato una modo “elegante” per mandare definitivamente in archivio un testo su cui aveva lavorato nella scorsa legislatura l’attuale vice presidente del Csm David Ermini, ai tempi responsabile Giustizia dei dem. La riforma Orlando, contenuta nel decreto legislativo 29 dicembre 2017, n. 216, doveva inizialmente entrare in vigore il 26 luglio scorso. Uno dei primi provvedimenti del ministro Alfonso Bonafede appena insediatosi a via Arenula era però stato quello di posticiparne il termine al 31 marzo 2019. “Impediamo che venga messo il bavaglio all’informazione” perché “la riforma Orlando era stata scritta con l’intento di impedire ai cittadini di ascoltare le parole dei politici indagati”, aveva tuonato Bonafede, spiegando i motivi della sua decisione. Per il ministro pentastellato ogni passata riforma era coincisa con uno “scandalo” e questa in particolare era stata fatta “in concomitanza col caso Consip”. “Ogni volta che qualcuno del Pd veniva ascoltato, qualcuno del Pd tendeva a tagliare la linea. Riscriveremo la norma” sulle intercettazioni “attraverso un percorso partecipato. Ho scritto una lettera a tutte le Procure distrettuali d’Italia, al Consiglio Forense, ho già ricevuto contributi importantissimi, arriveremo ad una riscrittura che troverà un punto di equilibrio tra tutti i diritti in gioco”, aveva poi aggiunto Bonafede, sottolineando come “la norma che abbiamo bloccato ledeva tutti i diritti in gioco”. Immediata era stata la replica di Ermini: “Il blocco servirà soltanto a lasciare le cose come sono. Cioè, senza tutela per i cittadini onesti e perbene che, pur non essendo coinvolti nelle indagini, si troveranno sbattuti in prima pagina e continueranno ad avere la loro vita privata rovinata senza che nessuno ne risponda mai. Sarebbe gravissimo. A chi giova che le cose rimangano così come sono? Bonafede risponde alle esigenze dei cittadini o pensa di continuare a promettere tutto a tutti come faceva dall’opposizione?”. La riforma Orlando, nelle intenzioni, prevedeva maggiori garanzie per l’imputato e tutela del diritto alla privacy. In pratica consentiva di escludere da verbali e ordinanze “ogni riferimento a persone solo occasionalmente coinvolte dall’attività di ascolto e di espungere il materiale non rilevante a fini di giustizia”. Erano previste pene fino a 4 anni di reclusione per la divulgazione fraudolenta di quei contenuti. La riforma non aveva fatto i conti l’Anm e con il Fatto Quotidiano, che avevano immediatamente bollato il testo come “legge bavaglio”. A rincarare la dose la presidente pentastellata della Commissione giustizia della Camera, Giulia Sarti: “È necessario potenziare le intercettazioni, strumento essenziale, soprattutto in quei casi in cui, come nei reati di corruzione, l’impiego è ancora limitato”. Con un emendamento alla legge di Bilancio in approvazione questo fine settimana il nuovo termine è stato fissato al prossimo primo agosto, in concomitanza con l’inizio della sospensione feriale. Nel primo semestre 2019 dovrebbero vedere la luce la riforma del codice penale, del processo civile e di quello penale. Non resta che attendere. Quei 78 esiliati di Stato. Il dramma dei testimoni di giustizia in Italia di Luciana Matarese huffingtonpost.it, 28 dicembre 2018 La vita impossibile da “bersagli viventi”, la rabbia nel sentirsi accomunare ai pentiti, la richiesta di protezione. Parlano all’Huffpost Aiello, Ciliberto, Conticello e Cutrò. Bersagli viventi, morti che camminano, vite ridotte a matricole, esiliati di Stato. Si definiscono così e non ce n’è uno che non ti spieghi, mettendo in fila fatti e circostanze, quanto la decisione di denunciare la criminalità gli abbia stravolto l’esistenza. Sono i testimoni di giustizia, coloro che hanno segnalato le infiltrazioni mafiose, camorristiche, ‘ndranghetiste, nelle proprie aziende, o cittadini che hanno deciso di accusare pubblicamente i clan, puntando l’indice contro boss e affiliati nelle aule di tribunale. Settantotto nel nostro Paese, secondo i dati forniti ad Huffpost dal Ministero dell’Interno, protetti insieme a 255 familiari. Con i parenti stretti e i conviventi dividono una vita che, dai racconti che ne fanno, per molti di loro è ormai ridotta a una fila di giorni da scontare come una pena, segnati da paura, rinunce, disguidi quotidiani. E la rabbia, che sale ogni volta che vengono accostati ai collaboratori di giustizia - in Italia protetti in 1.277 con 4.915 familiari - “che hanno denunciato la criminalità, ma dopo averne fatto parte, averla pagata o averci fatto affari. Noi siamo testimoni, non pentiti. Due figure ben diverse, eppure ancora confuse”, è la premessa da cui partono tutti. L’ultima legge, in vigore dal 21 febbraio scorso, distingue nettamente i collaboratori dai testimoni e assicura tutela, sostegno economico, reinserimento sociale e lavorativo, procedure adeguate alla situazione di ciascun testimone. Garanzie che, a ripercorrere le storie di molti, per ora sembrano rimaste sulla carta. La quotidianità è costellata di intoppi e ostacoli: assistere al fallimento delle proprie aziende, essere lasciati da partner che non ce la fanno a sopportare le conseguenze della denuncia, ottenere contributi irrisori e aspettare rimborsi sanitari per anni, vedere i propri beni ipotecati, non poter salutare per l’ultima volta un parente morto o far visita a un figlio in ospedale. L’ottimismo di Salvini, l’omicidio di Pesaro, la scorta di Conticello - Mentre l’attualità racconta dell’uccisione a Pesaro del fratello di un pentito di ‘ndrangheta, che viveva sotto protezione e in un domicilio segreto, del Ministro dell’Interno, Matteo Salvini, che preconizza la sconfitta delle mafie di qui a qualche anno, della revoca “per cessato pericolo” e attraverso comunicazione solo verbale, della scorta all’imprenditore siciliano e testimone di giustizia, Vincenzo Conticello, che continua a chiedere un documento scritto. Subito dopo aver saputo che di lì a poco sarebbe rimasto privo di protezione, Conticello, che denunciò i suoi estorsori e riconobbe alla sbarra i mafiosi che lo avevano minacciato di morte - arrestati nel 2006, aveva dato appuntamento per il 27 dicembre in piazza a Palermo, davanti all’antica focacceria “San Francesco” che un tempo era la sua attività, con l’invito, provocatorio, “a festeggiare la sconfitta della mafia”. Poi ci ha ripensato, ha lasciato la città. “Non ci sarà nessuna festa, ho paura - spiega ad HuffPost - non vorrei che qualcuno approfittasse della confusione per farmi qualcosa e non vorrei offrire palcoscenici per passerelle ad autorità o politici. Mi hanno detto che il pericolo è cessato, per me e i miei familiari, ma il contesto non è cambiato rispetto a quando ho denunciato, anzi. Ho pensato di ricorrere al Tar come ha fatto Ultimo”. Di recente, proprio il Tar ha restituito la scorta al colonnello Sergio De Caprio, il capitano Ultimo che arrestò Totò Riina, “ma senza un documento è impossibile avviare l’iter”, sospira Conticello, l’indice puntato contro “il sistema dei comitati di sicurezza. I testimoni non ricevono informazioni aggiornate, io ho saputo da miei ex dipendenti che persone arrestate grazie alla mia testimonianza erano a piede libero. Devono mettermi per iscritto il motivo per cui mi hanno revocato la scorta”. Il “muro di gomma”, l’annuncio di una nuova legge - Un concetto sul quale, parlando con HuffPost, hanno insistito anche altri testimoni di giustizia storici. Come Pino Masciari, Piera Aiello. Il primo, ex imprenditore calabrese - “Dopo aver denunciato le pressioni ‘ndranghetiste, ho perso la mia azienda e la mia libertà”, spiega - sottolinea come “gli imprenditori che denunciano non possono essere visti come un costo, vanno tutelati e sostenuti in vita, non solo ricordati dopo morti”. Piera Aiello, cognata di Rita Atria, la testimone di giustizia che si uccise a 17 anni poco dopo la morte del giudice Paolo Borsellino, ha denunciato gli assassini del marito, figlio del mafioso Vito Atria. Oggi è deputata del Movimento Cinque Stelle, prima parlamentare con lo status di testimone di giustizia. “È necessario che qualunque cosa debbano dirci sia scritta - spiega - Purtroppo al novanta per cento le comunicazioni avvengono solo verbalmente, io chiedo che tutto ciò che riguarda me venga sempre messo nero su bianco. Ho l’impressione - scandisce - che vogliano murarci, come se volessero farci scomparire”. Ha annunciato che presenterà la proposta per una nuova legge, “che tuteli i testimoni di giustizia, i loro diritti violati e i loro familiari, spesso dimenticati e non sia, come accade a quella attuale, interpretata troppo spesso a favore dello Stato - puntualizza - Si sono accorti che mia figlia doveva essere iscritta alle elementari quando frequentava la terza. Se non ci avessi pensato io a suo tempo, sarebbe rimasta fuori”. La deputata grillina che ha fatto della difesa “dei compagni di viaggio” - li definisce così - il senso del suo mandato, ha dichiarato di “non essere ancora riuscita a fare nulla, ho trovato un muro di gomma”, ad HuffPost dice di essere “pronta a lasciare il Movimento Cinque Stelle, che non mi ha mai ostacolato, qualora dovesse arrivare un veto”. Che vuol dire “muro di gomma”? “Gli uffici del Servizio centrale di protezione sono blindati - risponde la deputata - diversi testimoni mi hanno raccontato di aver chiesto, invano, di parlare con i responsabili. Ho incontrato il sottosegretario Luigi Gaetti (presidente della Commissione centrale per la definizione e l’applicazione delle misure di protezione, ndr), mi è parso motivato e disponibile, ma è circondato da una Commissione vecchia, che non mi sembra voglia affrontare davvero la questione, direttamente collegata alla lotta alle mafie”. Ma in un Paese in cui il ministro dell’Interno dichiara che la criminalità organizzata sarà cancellata, ha ancora senso il testimone di giustizia? “Mi auguro che quanto previsto da Salvini accada, ma è pura fantasia - sbuffa Piera Aiello - contro mafia, camorra e ‘ndrangheta servono strumenti precisi. Come si fa a vincere se si scoraggia la testimonianza, se i testimoni di giustizia e i loro parenti non vengono tutelati?”. Per Nadia Furnari, cofondatrice dell’Associazione antimafie “Rita Atria”, una nuova legge per i testimoni di giustizia non serve, “basterebbe applicare quelle che già esistono”. Quanto a Salvini, “a mio avviso non sa di cosa parla. Di mafia si discute seriamente troppo poco e ancora meno si analizza il fenomeno. Penso che bisogna chiedersi, e cercare le risposte che i cittadini hanno diritto ad avere: dove si lavano i soldi, come si assegnano gli appalti? La figura del testimone di giustizia è fondamentale per combattere la criminalità, ma purtroppo lo Stato tratta la questione con grande sciatteria. Abbiamo chiesto al Campidoglio la cittadinanza onoraria per Rita Atria, morta a Roma sola come un cane, ci hanno ignorato”. La vendetta sui familiari - A Ignazio Cutrò i fatti di Pesaro hanno riportato subito in mente quel che potrebbe succedere alla sua famiglia. In un post su Facebook, l’ex imprenditore siciliano, testimone di giustizia dal 2006 dopo aver denunciato e fatto arrestare i suoi estorsori e presidente dell’Associazione nazionale Testimoni di giustizia, ha scritto: “Sui familiari, lo denunciamo da anni, le mafie vogliono abbattere la loro violenza per vendicarsi dell’affronto subito dopo che li abbiamo fatti condannare. Come non pensare alla mia famiglia lasciata priva di qualsiasi protezione?”. Anche lui da aprile è senza scorta. “Quando l’hanno tolta a mia moglie, ai miei figli, non l’ho voluta più neanche io - dice ad HuffPost - e ora vivo con addosso la paura che accada qualcosa, soprattutto a loro. In un’intercettazione emersa durante un’operazione che ha portato all’arresto di diversi mafiosi agrigentini, si sente distintamente uno di loro che dice: “Appena lo Stato si stanca che gli toglie la scorta poi vedi che poi.... È o non è una minaccia?”. Ogni mattina, racconta, teme che allo scatto del cancello che si richiude alle loro spalle si accompagni una raffica di colpi di arma da fuoco, ogni sera che qualcuno gli si introduca in casa “perché le mafie non dimenticano coloro che denunciano”. Cutrò non ha mai voluto lasciare la sua terra, Bivona, provincia di Agrigento, ma ha dovuto rinunciare alla sua azienda. Dall’ottobre 2015, usufruendo di un decreto legge che permette ai testimoni di giustizia di essere assunti nella pubblica amministrazione, è dipendente della Regione Sicilia e lavora nel Centro per l’impiego del paese. Da presidente dell’associazione nazionale, negli anni ha assistito a quella che definisce “una rivalutazione” delle scorte assegnate. Molte sono state tolte, altre potrebbero essere revocate: HuffPost ha chiesto anche questi dati, il Ministero dell’interno si è riservato di comunicarli. Nel frattempo, dal Viminale è arrivato l’ottimismo di Salvini. “Si dirà che quella del ministro è una dichiarazione “di troppo” - ha scritto Cutrò - Penso, invece, che siamo di fronte a un percorso, sul piano politico e culturale, che le mafie potrebbero leggere come una resa dello Stato. Di mafia si muore, io rifarei quello che ho fatto perché lo Stato siamo noi non le mafie, ma le istituzioni non riescono o non vogliono giungere alla verità, lasciando soli uomini che hanno avuto il coraggio civile di testimoniare nei processi”. “Ministro, rinunci alla scorta” - Anche Gennaro Ciliberto, napoletano, ha affidato a Facebook le sue considerazioni sull’assassinio di Pesaro rivolgendosi direttamente a Salvini per invitarlo a informarsi “su come vivono i testimoni di giustizia, i loro familiari e tutti quelli che hanno denunciato le mafie. Rinunci alla scorta e vedrà cosa significa vivere con il terrore”. Dal 2010 quando, da responsabile della sicurezza nei cantieri di una ditta che lavorava in subappalto per Autostrade per l’Italia spa, denunciò infiltrazioni camorristiche e corruzione negli appalti e anomalie nella costruzione di varie opere autostradali, vive in una località segreta, sotto il controllo del Servizio centrale di protezione del ministero dell’Interno. Ciliberto sperava che con il governo giallo-verde le cose per i testimoni di giustizia volgessero al meglio. Ricorda “quando i Cinquestelle Di Maio, Fico, Sarti, non ancora al potere, protestavano contro le mafie, ora dei testimoni non si ricordano più”, ma credeva soprattutto in Salvini. “Ho sbagliato a fidarmi delle sue idee, mi ha deluso”, dice ad HuffPost. Sulla base della sua esperienza - “otto anni che nessuno mi ridarà indietro vissuti come un uomo invisibile, con un altro nome, attento a non creare legami stretti, a non lasciare tracce, anche se questo ha significato andare a comprare un medicinale in un’altra regione, iscrivere i figli a mie spese in una scuola privata sganciata dall’anagrafe scolastica nazionale - aggiunge in un fiato - chi vuole denunciare deve sapere bene a cosa va incontro, io col senno di poi ci penserei cento volte”. Due anni fa ha fatto ricorso al Tar per il cambio totale di nominativo, lo status economico e il livello di scorta. L’udienza è fissata il 19 novembre 2019. Un altro anno, Ciliberto è sfiduciato. “Chissà che per me o per qualche altro testimone non arrivi prima la vendetta della criminalità - considera - Tanto per lo Stato siamo solo matricole, ci hanno abbandonato rendendoci bersagli a vita”. Collaboratori di giustizia e parenti, un esercito di 6 mila persone di Francesco Grignetti La Stampa, 28 dicembre 2018 La figura introdotta a inizio anni 90 per contrastare Cosa nostra. La spesa annua per le casse statali è di circa 100 milioni di euro. Sono più di milleduecento i pentiti di mafia e quasi cinquemila i loro congiunti sotto la protezione dello Stato. La figura del collaboratore di giustizia discende da una legge del 1991, creata all’epoca dei primi grandi pentiti, vedi Tommaso Buscetta o Salvatore Contorno, che contribuirono a disarticolare Cosa Nostra. Da allora sono stati oltre seimila i pentiti che hanno collaborato con la giustizia italiana e presumibilmente oltre venticinquemila i famigliari che li hanno seguiti. Mai come in questo caso, però, i numeri non rendono giustizia a un fenomeno complesso quale la gestione di intere famiglie che dalla mattina alla sera devono scomparire nel nulla. Esiste presso il ministero dell’Interno una divisione apposita, il Servizio centrale protezione, articolato in Nuclei operativi. Sono i Nuclei a preoccuparsi di pagare l’assegno di mantenimento o seguire le pratiche di inserimento al lavoro, e poi di curare le spese scolastiche, sanitarie, di alloggio, i trasferimenti, i fornitori. Li devono assistere, ma allo stesso tempo proteggere. Sono loro a pagare l’affitto per 1974 immobili dove risiedono i pentiti, oppure gli onorari ai 220 avvocati che li seguono nei processi. Si stima che lo Stato spenda circa 100 milioni di euro all’anno per l’insieme delle attività di protezione. Il problema dei problemi è che queste persone sono criminali che decidono di dare un taglio con il passato, ma in genere altro non sanno fare che delinquere. Per forza di cose, sono persone con un terribile pedigree criminale, altrimenti non sarebbero così appetibili per lo Stato. Non è difficile dargli documenti con i nuovi nomi. Complicato è fargli accettare d’improvviso le regole. E perciò i loro “custodi” sono costretti a continui salti mortali perché c’è stata una telefonata importuna al vecchio amico che è rimasto al paese, o perché si fanno nuovamente cattive amicizie o ancora perché sul lavoro le cose vanno per il verso sbagliato. E poi ci sono i problemi di una quotidianità assurda: bambini che devono adattarsi a una nuova città e a una nuova scuola; medici o dentisti che si trovano a curare pazienti un po’ particolari; mogli che non si riconoscono nei nuovi panni. Per i parenti dei pentiti, lo choc è doppio : pagano il prezzo dello sradicamento - costretti a fuggire nella notte per evitare le vendette dei clan - senza essere mai protagonisti delle scelte del loro congiunto. Ne discendono crisi famigliari, abuso di psicofarmaci, ricorso a cure psicologiche. Tutto sotto l’incubo della vendetta mafiosa. Se la giustizia scende a patti, e taglia loro le pene, infatti, è perché questi collaboratori fino al giorno prima erano personaggi di spicco di un clan. Tradendo, permettono ai magistrati di squadernare intere organizzazioni. Di contro, proprio perché il loro tradimento crea danni irreversibili, i pentiti sono l’incubo dei capi-clan. Si adottano strategie raffinate per limitare i danni. Il calabrese Gaetano Albanese, il cui ruolo è stato fondamentale per ricostruire i rapporti criminali tra i Piromalli-Molè di Gioia Tauro e i Mancuso di Limbadi (Vibo Valentia), raccontò di essere stato raggiunto dai Mancuso durante il periodo di protezione in una località segreta e “invitato” a ritrattare. Avrebbero potuto ucciderlo. Ma era meglio usarlo come cavallo di Troia. Delitto di Pesaro, quanto vale l’omicidio di un pentito di Roberto Saviano La Repubblica, 28 dicembre 2018 Uccidere un collaboratore di giustizia è dannoso per un’organizzazione mafiosa. Perché uccidendo chi ha reso una testimonianza su un clan o un suo parente si convaliderebbe il contenuto della confessione. La morte di Bruzzese potrebbe essere una vendetta per ciò che ha fatto e non per ciò che ha detto. Le organizzazioni mafiose hanno solo da perdere a uccidere un collaboratore di giustizia. Per quanto possa sembrare contro-intuitivo e sia più logico credere che la vendetta verso chi parla sia ammazzarlo, è la cosa più dannosa per una cosca. Perché? Perché uccidendo colui che ha reso una testimonianza su un clan, o ammazzandone un parente, si convaliderebbe il contenuto di tutta la sua confessione. L’atto militare che il pentito o il suo sangue subiscono concederebbe all’istante autorevolezza alla sua dichiarazione. Il collaboratore di giustizia Maurizio Prestieri, braccio destro del boss di Scampia Paolo Di Lauro, racconta che fu proprio all’inizio della sua collaborazione che uomini dello Stato gli spiegarono questo meccanismo: “Se dovessero toccarla, tutte le cose che lei ha detto diventerebbero insindacabili”. È lo stesso motivo per cui la famiglia Schiavone di Casal di Principe non ha mai ucciso Carmine Schiavone, responsabile delle rivelazioni che hanno portato al processo Spartacus, il maxi-processo contro il clan dei Casalesi. Meglio provare a smontarle, le sue dichiarazioni, in anni di processo che uccidere lui. Le organizzazioni cercano di fare la lotta ai collaboratori di giustizia nei tribunali o sulla stampa. Non solo: da alcuni anni, negli Stati Uniti, le organizzazioni mafiose italoamericane (a iniziare dalla famiglia Genovese) hanno autorizzato i loro membri a collaborare con la giustizia entro certi limiti stabiliti prima dell’arresto. In pratica, le famiglie mafiose sfruttano la necessità di un giudice e di una procura di portare in tempi brevi lo scalpo di una vittoria, approfittano della necessità della politica di sbandierare di aver sgominato un clan per averne un ritorno in termini di consenso. I mafiosi si organizzano non per mentire, ma per dire una verità parziale: sacrificano alcuni uomini e una parte degli affari, li danno in pasto allo Stato permettendogli di urlare al successo, e una volta intascato lo sconto di pena, rientrano nell’organizzazione e non da infami. Questo fa la mafia newyorkese. Ma non è sempre andata così e non va sempre così. Quando si pentì il primo vero leader di un’organizzazione criminale organizzata, Tommaso Buscetta, gli fecero sparire i due figli, gli ammazzarono il fratello, quattro nipoti, il genero e un cognato. I corleonesi in quel caso dovevano fermarlo e potevano ancora farlo, perché prima di Buscetta prove dell’esistenza della cupola di Cosa nostra e della sua struttura non esistevano. Le sue dichiarazioni erano quindi fondamentali: morto o zittito Buscetta, sarebbero finite anche le confessioni su Cosa nostra e probabilmente i processi importanti. La vendetta non avrebbe fermato dunque solo le dichiarazioni di un pentito, ma le rivelazioni che i tribunali ancora non avevano e, non avendole, il rischio di fallimento del procedimento penale era molto alto. Diverso è quando lo Stato ha già riconosciuto con centinaia di sentenze un’organizzazione e ha già informazioni chiare su una famiglia: uccidere, in questo caso, non può che essere dannoso. Nel caso di Marcello Bruzzese, ucciso a Pesaro a Natale, si potrebbe trattare anche di una vendetta che prescinde dalla collaborazione del fratello, ossia di un omicidio che vendica il tentativo di suo fratello di ammazzare il boss Teodoro Crea. Se così fosse, Bruzzese sarebbe stato ucciso per ciò che suo fratello ha fatto e non per ciò che ha detto. A portare a questa ipotesi è il giorno scelto: Natale, appunto. Le vendette si celebrano sempre in un giorno importante: Natale, compleanni, onomastici...così la famiglia, a ogni anniversario, in quella giornata che dovrebbe essere di festa, ricorderà inevitabilmente il dolore. Ma potrebbe anche trattarsi di un omicidio di purificazione, che nel linguaggio ‘ndranghetista indica un omicidio fatto per punire il sangue che ha avvelenato la ‘ndrina con un infame. In ogni caso, questo omicidio è in controtendenza con la prudenza che le mafie hanno verso i pentiti. Per esempio, quando Domenico Bidognetti ‘o Bruttaccione si pentì nel 2007 e iniziò a confessare i suoi oltre 60 omicidi, il gruppo Setola, che voleva egemonizzare la camorra casertana, gli uccise il padre Umberto, anche se quell’omicidio ormai non poteva fargli più ritrattare le sue dichiarazioni. Ucciderlo fu controproducente, ma il gruppo Setola voleva innanzitutto “promuovere l’immagine” del clan. Per questa ragione è fondamentale difendere i collaboratori di giustizia e i loro parenti. Bruzzese aveva il nome sulla buca delle lettere e si rendeva riconoscibile da tutti, come mai tanta imprudenza? Qui bisogna fare approfondimenti, perché capita che i parenti dei pentiti, anche se aiutati dallo Stato, vogliano comunicare la loro presa di distanza dal familiare collaboratore. Spesso non si rinuncia alla propria identità appunto per evitare eventuali vendette o l’isolamento: nel 1995 la figlia di Carmine Schiavone, Giuseppina, inviò una lettera ai giornali in cui scrisse: “Mio padre è un megalomane infame”; più recentemente, nel 2017, Salvatore Ridosso, camorrista di Scafati e figlio di un collaboratore di giustizia, ha rifiutato la protezione dicendo: “Non voglio essere figlio di un collaboratore e mi astengo dalle dichiarazioni che ha fatto papà”. A fronte di questo c’è la crisi del sistema di protezione. Poche risorse, personale sempre più ridotto, complicazioni burocratiche infinite per cambiare documenti, avere nuovi domicili, gestire il proprio difficile quotidiano non solo per i collaboratori di giustizia ma anche per i testimoni di giustizia (che niente hanno a che fare con le organizzazioni criminali, se non il fatto di averne denunciato i crimini). Il sistema di protezione è in enorme affanno e spesso è tutto caricato sulle spalle e la buona volontà dei funzionari. Qualunque cronista locale, in contatto quotidiano con le forze dell’ordine, può arrivare a conoscere le informazioni più sensibili delle persone sottoposte a protezione e in questo modo esporle a ricatti e minacce. La politica non ne fa mai un tema, perché parlarne significherebbe svelare dei dettagli che l’opinione pubblica non conosce o conosce poco. I boss mafiosi, quando si pentono, ricevono uno stipendio e una capitalizzazione finale che è una specie di buonuscita che lo Stato dà al collaboratore quando il percorso è terminato, in modo da aiutarlo ad avviare una vita normale. Tutto questo è necessario perché senza collaboratori di giustizia la lotta alle mafie sarebbe impossibile. L’argomento del “ma come, centinaia di crimini e omicidi, e in più lo Stato li paga pure bene?”, non è accettabile. Matteo Salvini sta portando avanti da mesi una messa in scena antimafiosa con proclami ridicoli: “Sconfiggeremo la mafia fra qualche mese, al massimo fra qualche anno”. Fesserie che da Mussolini a Berlusconi sono state continuamente ripetute, mentre la mafia continua a essere la forza economicamente più rilevante del Paese e più antica dello Stato unitario (e già, sono venute prima le mafie e poi l’Italia). Salvini sfrutta inchieste partite molti anni prima, non da sue battaglie politiche e non realizzate con il suo contributo; sale sulla ruspa per abbattere le ville dell’organizzazione dei Casamonica - per quanto violenta e criminale, marginale rispetto alle altre mafie - trasformando la demolizione in una sceneggiata propagandistica. Con Salvini abbiamo a che fare con un ministro tutt’altro che impegnato nella lotta antimafia: proprio lui è leader di un partito in più momenti complice del potere ‘ndranghetista nel Nord Italia. Stiamo parlando di un segretario di partito che non ha avuto alcuna attenzione antimafia nello scegliere i suoi rappresentanti in Calabria e che con le sue scelte in materia di immigrazione sta perpetrando la diffusione del crimine. Demonizzare gli immigrati in fuga dai loro Paesi significa spingerli nelle mani delle organizzazioni, esattamente come accadde ai migranti italiani negli Usa o in Canada: più erano isolati e abbandonati, più venivano avvicinati dai clan. Sono cent’anni che le mafie sanno che arresti e sequestri sono parte della grammatica del loro potere: finisce il boss, continua il sistema. Se la politica si accontenta di qualche scalpo, di qualche villa di nomade usuraio abbattuta, allora cerca solo una messa in scena per raccogliere qualche voto di chi ci casca. Se invece vuole davvero aggredire i meccanismi e i capitali mafiosi, allora deve dismettere le sceneggiate e iniziare a ragionare come Salvini non fa, come questo governo tutto non sta facendo. Caso Mastrogiovanni, dalla Cassazione tutta la disumanità della contenzione di Giuseppe Galzerano Il Manifesto, 28 dicembre 2018 Rese note le motivazioni della Suprema Corte per le condanne contro medici e infermieri che uccisero, legandolo per 87 ore, il maestro Francesco Mastrogiovanni nell’ospedale di Vallo della Lucania (Salerno). La contenzione dei pazienti negli ospedali e delle persone in qualsiasi luogo non solo non è ammessa, ma è sequestro di persona e chi vi ricorre commette un grave reato. Si tratta di un’illegittima privazione della libertà personale. Inoltre è necessario annotare la contenzione nella cartella clinica che “dev’essere redatta chiaramente con puntualità e diligenza, nel rispetto delle regole della buona pratica clinica, e contenere, oltre ogni dato obiettivo relativo al decorso della patologia, tutte le attività diagnostico terapeutiche ed assistenziali praticate”, perché l’omessa annotazione dà “luogo ad una falsa rappresentazione di una realtà giuridicamente rilevante”. È quanto ha stabilito la V Sezione della Corte di Cassazione, presieduta dal Consigliere Dr. Maurizio Fumo, nelle motivazioni del 20 giugno 2018 nella sentenza n. 50497 contro i sei medici e gli undici infermieri dell’ospedale-lager “San Luca” di Vallo della Lucania (Sa), responsabili della prematura morte di Francesco Mastrogiovanni, il maestro elementare anarchico, deceduto in seguito ad una lunga, illegittima e ininterrotta contenzione di 87 ore, tenuto legato senza alcuna ragione contemporaneamente ai quattro arti in un luogo di cura, senza alleviare la sofferenza né con un sorso d’acqua e né un pezzo di pane. Oltre ai medici sono stati condannati anche gli undici infermieri, i quali, come i medici, hanno l’obbligo di “proteggere” il paziente e di segnalare all’autorità competente maltrattamenti o privazioni, soprattutto della libertà personale, insieme all’obbligo di “attivarsi per far cessare la coercizione” in quanto sono “più frequentemente a contatto con il paziente ed in grado di constatare da vicino le sofferenze che la limitazione meccanica gli cagionava”. In primo grado i medici erano stati condannati a pene variabili da due a quattro anni di reclusione e gli infermieri assolti, poi condannati dalla Corte d’Appello di Salerno. I medici e i loro difensori avevano tentato di giustificare la contenzione come risposta all’aggressività del paziente, continuando anche in Cassazione, a denigrare Mastrogiovanni definendolo - in maniera infondata - violento, drogato, asociale, abbandonato dalla famiglia (solo un avvocato lo ha sempre definito correttamente “il professore Mastrogiovanni); arrivando finanche a chiedere l’incriminazione dei familiari per lite temeraria e sostenendo che la contenzione è una pratica terapeutica. Nelle motivazioni viene affermata e riconosciuta la verità: Mastrogiovanni non aveva messo in atto nessuna aggressività, anzi aveva implorato aiuto ai medici, ma nessuno - a partire dal primario - gli aveva dato ascolto. Viene anche riconosciuto che nell’ospedale di Vallo della Lucania la contenzione era una “prassi radicata” tale da diventare terapia e medicina quotidiana. Invece delle cure, ai pazienti veniva praticata la pedagogia della contenzione. Storia impensabile e incredibile quella di Francesco Mastrogiovanni. Il 31 luglio 2009 è sottoposto ad un TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio) illegittimo e illegale ordinato non dai medici come prescrive la norma, ma dall’allora sindaco di Pollica, Angelo Vassallo, che fa sconfinare i vigili in un campeggio del comune di San Mauro Cilento, dove Mastrogiovanni è tranquillamente in vacanza. Accusato di essere entrato con la macchina nell’isola pedonale di Acciaroli, ne sarebbe uscito a folle velocità, senza causare un graffio a nessuno. Inseguito e braccato alla stregua di una belva e di un pericoloso criminale, entra nel mare di Acciaroli, che abbandona dopo due ore. Solo allora un medico, capovolgendo la norma, assecondando la richiesta del sindaco, prescrive il TSO e una dottoressa, specializzata in medicina dello sport, lo conferma. Prima di salire sull’ambulanza Mastrogiovanni - come ha testimoniato Licia Musto, proprietaria del campeggio - supplica profetico: “Non mi fate portare all’ospedale di Vallo della Lucania, perché là mi ammazzano”, ma nessuno dà peso alle sue parole. All’ospedale, nonostante sia intestato a San Luca, inizia il suo tragico calvario. Anche se è tranquillo, mentre dorme, viene contenuto contemporaneamente ai polsi delle mani e ai piedi, con lacci di plastica in dotazione dell’ospedale che gli procurano ferite profonde un centimetro. Resterà sempre legato fino alla morte. Addirittura la contenzione supera la vita e da morto resta legato per altre sei ore, prima che la mattina del 4 agosto 2009 i medici si accorgano che il suo cuore - nell’indifferenza, nella barbarie e nella disumanità - ha cessato di battere a causa di un edema polmonare, dal quale poteva essere salvato. La tragica e incredibile morte di Mastrogiovanni è documentata in un lungo e inoppugnabile video disponibile su internet e nel documentario “87 ore” di Costanza Quattriglio trasmesso da Rai 3, che minuto dopo minuto raccontano le agghiaccianti atrocità alle quali - senza nessuna ragione - viene sottoposto, senza annotare la contenzione fisica in cartella. Mastrogiovanni, alto un metro e 94, era un maestro pacifico e non violento di grande umanità e sensibilità, che sognava una società libera e anarchica. I suoi gli alunni lo avevano affettuosamente definito nei loro disegni “il maestro più alto del mondo”. Dopo questa importante e storica sentenza, dovuta al sacrificio di Francesco Mastrogiovanni, non sarà più possibile contenere i pazienti. Occorre infine sottolineare che nessuno dei medici coinvolti ha subito un giorno di carcere, né sono stati sospesi dal lavoro e uno di loro è indagato per altre due morte sospette sempre per TSO, avvenute recentemente nel reparto dell’ospedale dove lavora. Gratuito patrocinio anche per i non indagati Italia Oggi, 28 dicembre 2018 Il gratuito patrocinio si applica anche alle persone non inizialmente indagate o imputate, ma che ne assumono la qualità nel corso di un interrogatorio da parte della polizia o di altre autorità. Lo prevede un decreto legislativo di “Attuazione della direttiva (Ue) 2016/1919 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 ottobre 2016, sull’ammissione al patrocinio a spese dello Stato per indagati e imputati nell’ambito di procedimenti penali e per le persone ricercate nell’ambito di procedimenti di esecuzione del mandato d’arresto europeo” approvato in esame preliminare il 21 dicembre scorso dal Consiglio dei ministri, su proposta del ministro per gli affari europei Paolo Savona e del ministro della giustizia Alfonso Bonafede. Il decreto, spiega una nota della presidenza del Consiglio, intende garantire l’effettività del diritto di avvalersi di un difensore, assicurando che le spese per l’assistenza legale, in casi specifici, siano poste a carico dello Stato. Il testo tutela il diritto di informare un terzo al momento della privazione della libertà personale, il diritto delle persone private della libertà di comunicare con terzi e con le autorità consolari e rafforza le garanzie procedurali per i minori indagati o imputati nei procedimenti penali. Ingiusta detenzione: non simbolici 2mila € al giorno per il luminare di fama mondiale di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 28 dicembre 2018 Corte di cassazione - Sezione IV - Sentenza 27 dicembre 2018 n. 58298. L’indennizzo da ingiusta detenzione va calibrato sul caso specifico. Tuttavia non può ritenersi inadeguata la cifra di 2 mila euro riconosciuta al gastroenterologo di fama internazionale, per un solo giorno di carcere preventivo, nell’ambito di una procedimento che vedeva coinvolto il professore con l’accusa di peculato e truffa in relazione alla sua attività di ricerca per presunta manipolazione di lavori scientifici con conseguente sviamento di fondi. Un’accusa dalla quale il docente era stato assolto con formula piena. La Suprema corte (sentenza 58298) ricorda che il giudice non può dare un indennizzo simbolico, né seguire il criterio strettamente matematico della giornata di lavoro “persa”. Nella valutazione pesa il danno all’immagine, amplificato dal clamore mediatico della notizia e dall’eco che questa aveva avuto soprattutto nel mondo accademico. Tuttavia malgrado i rilevanti incarichi ricoperti dal ricorrente la Cassazione ha considerato equo il criterio adottato: la somma base di circa 235 euro era stata elevata a 600 euro. Una quantificazione che non poteva definirsi simbolica o irrisoria. Tanto più che la remissione in libertà il giorno seguente alla data dell’arresto è un forte segnale “in senso contrario, proprio dal punto di vista mediatico e in relazione al contesto socio-culturale di riferimento”. Censura per il Pm che non si astiene malgrado l’amicizia con il legale di parte di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 28 dicembre 2018 Corte di cassazione - Sezioni unite - Sentenza 27 dicembre 2018 n. 33537. Via libera alla sanzione della censura per la toga che non si astiene dal procedimento, malgrado il rapporto di amicizia con un legale di parte. Partendo da questo principio le sezioni unite della Cassazione (sentenza 33537) hanno confermato le legittimità della decisione con la quale il Consiglio superiore della magistratura ha “punito” con la censura il Pm Simona Merra, per non avere fin da subito, fatto un passo indietro nel procedimento relativo al grave disastro ferroviario avvenuto tra Corato e Andria, nel quale erano morte 23 persone. Il magistrato non lasciò l’inchiesta nonostante il sua rapporto confidenziale e di amicizia con l’avvocato di uno degli indagati, fosse stato reso noto con la pubblicazione delle foto che ritraevano il legale intento a baciare un piede del Pm durante una festa e mentre la teneva in braccio. La Pm si era astenuta solo in seguito alle proteste sollevate dai parenti delle vittime. Un altro addebito riguardava le dichiarazioni rilasciate ad un giornalista del Corriere della Sera: l’incolpata aveva definito le riserve espresse dai parenti delle vittime “pettegolezzi e chiacchiericcio da mercato”. La Cassazione precisa che dovere della pubblica accusa non è solo quello di essere imparziale ma anche di apparire tale. Il magistrato deve ispirare la propria condotta solo ai fini istituzionali, e non può dunque dare l’impressione di avere obiettivi o scopi personali “ingenerando una situazione tale da indurre a sospetti di compiacenza nei confronti di taluna delle parti private del procedimento o di uno dei difensori di esse”. Il conflitto - precisa la Corte - può essere configurabile quando, per un verso, l’interesse, anche solo potenziale, abbia un carattere di attualità e di oggettività, concretamente rilevabile. Per un altro verso - conclude la Cassazione - occorre che l’interesse personale sia tale, da far sorgere nella pubblica opinione sospetti, anche se infondati, di mancanza di serenità d’animo e di compiacenza nei confronti di soggetti interessati al procedimento del quale il magistrato si occupa. E, nello specifico, la sezione disciplinare dell’organo di autogoverno dei giudici ha dato conto della concreta rilevabilità di un rapporti di grande confidenza e complicità tra il Pm e l’avvocato. Il sospetto, nel caso esaminato c’era, ed era tale da pregiudicare l’ordine giudiziario, ancora di più in una vicenda processuale di notorietà nazionale. Piemonte: carceri sovraffollate, ma più di 270 posti sono inutilizzabili torinoggi.it, 28 dicembre 2018 Mellano: “Ristrutturiamo prima di costruire penitenziari nuovi”. Il Garante dei Detenuti: “Nella maggior parte dei casi abbiamo registrato un’insufficienza di spazi dedicati alla socialità, all’incontro tra i reclusi e le loro famiglie, a locali per attività scolastiche, formative e lavorative”. “Nelle carceri piemontesi ci sono ben 273 posti non disponibili per problematiche strutturali e igieniche: si tratta della dimensione di un penitenziario di media grandezza. Prima di ipotizzare la costruzione di nuovi strutture sarebbe più opportuno e economico intervenire sull’esistente e renderlo così disponibile”. A lanciare l’allarme è il Garante Regionale dei detenuti Bruno Mellano, in occasione della presentazione del dossier sulle criticità 2018 negli istituti penitenziari del Piemonte e sulle priorità per il 2019. “Nella maggior parte dei casi - ha spiegato Mellano - abbiamo registrato un’insufficienza di spazi dedicati alla socialità, all’incontro fra i detenuti e le loro famiglie, a locali per attività scolastiche, formative e lavorative”. “A questa grave mancanza strutturale - ha aggiunto - si potrebbe fare fronte attraverso appunto il recupero degli spazi inutilizzati, utilizzando la mano d’opera degli stessi detenuti per adeguarsi in tempi rapidi, a costi bassi e assolutamente sostenibili”. Nei 13 istituti penitenziari della nostra regione ci sono 4.468 persone, la capienza regolamentare è di 3.976 posti, ma quelli disponibili sono 3.703, con un tasso di sovraffollamento del 120,65%. Casi emblematici di mancato utilizzo sono le strutture di Alba, Biella ed Ivrea. “L’Istituto albese - ha commentato il garante Alessandro Prandi - chiuso tre anni fa per un’epidemia di legionella e poi riaperto parzialmente a giugno 2017, attende da tempo chiarezza sui lavori di rifacimento dell’impianto idrico per tornare a piena operatività: la capienza regolamentare è di 142 posti, ma all’interno sono presenti solo 46 detenuti su 33 posti disponibili”. Oltre alla mancanza di spazi, ha aggiunto Mellano, c’è una carenza di “mediatori, interpreti, educatori e direttori”. Il 2018 ha fatto poi segnare il record negativo, degli ultimi dieci anni, per numero di suicidi: su 144 morti, ben 66 sono detenuti che hanno deciso di togliersi la vita. Trento: Sabri, il detenuto che sognava un Natale con sua figlia ladige.it, 28 dicembre 2018 Sabri El Abidi sognava di passare il Natale con sua figlia. Invece, nella notte tra venerdì e sabato, il 32enne tunisino - che pure seguiva un percorso trattamentale e sperava nella liberazione anticipata - si è tolto la vita nella sua cella. Il suicidio ha innescato la rivolta di oltre 200 detenuti. Qui di seguito pubblichiamo il toccante ricordo dei docenti del “Rosmini” di Trento che insegnano all’interno della Casa circondariale nei percorsi di alfabetizzazione, scuola media, corso alberghiero e liceo economico sociale. Sabri da quasi 3 anni era un loro studente. Vorremmo dare voce al nostro dolore, perché oltre al fatto che Sabri non ci sia più, riteniamo ingiusto che nessuno sappia com’era veramente questo ragazzo, con i suoi difetti, ma anche un cuore pieno d’amore per la sua bambina e per gli altri. Venerdì era l’ultimo giorno di scuola e avevamo organizzato un saluto natalizio. Appena l’ho visto mi ha detto: “Come sto con la barba? A mia figlia piacerà la barba, speriamo” “Ma sì, Sabri dirà che bel papà!”. Si è scusato per le assenze, non aveva la testa... Gli ho detto: “Sabri vieni a scuola almeno stai con noi e non in cella da solo”. Poi mi ha chiesto di andare in cucina a vedere cosa avevano preparato con la classe seconda alberghiero. Con il permesso di un agente e dello chef mi ha mostrato i dolci, come un esperto del mestiere. Poi ha cominciato dirmi: “Non ce la faccio più, voglio vedere mia figlia, non mi fanno sapere niente”. Era in attesa della concessione della liberazione anticipata, che se fosse arrivata, gli avrebbe permesso di uscire libero. Ho cercato di sostenerlo, di tranquillizzarlo. Gli ho detto che sicuramente gli ultimi giorni sono i più duri, gli ho citato un proverbio napoletano e lui me ne ha detto uno simile in tunisino. Poi lo chef sorridendo gli ha detto che doveva lavorare, e lui prometteva di andare, ma voleva parlare ancora. L’ho abbracciato e gli ho detto: “Ti prego non fare sciocchezze”, pensando ai gesti autolesionisti che altre volte aveva fatto. Ho cercato di farlo sfogare, parlare. Poi nel corridoio mi ha chiesto di aiutarlo a scrivere un testo e leggerlo al microfono “Quando sono a scuola io non mi sento più solo”. Come si dice quando una persona fa qualcosa, e questo lo fa diventare migliore? Forse riscatto. La scuola per lui era un riscatto. Sabri venerdì mattina, vestito da cuoco, orgoglioso nella sua divisa, ha voluto dire parole di ringraziamento. Eppure Sabri in questi due anni ci ha fatto tanto “tribolare”. Raramente studiava quello che doveva studiare ed era dove doveva stare. Spesso entrava in aula e chiedeva se poteva sedersi anche se quella non era la sua classe. Studiava poco, ma poi chiedeva insistentemente di poter recuperare, anche in estate. Sabri voleva imparare. Sabri voleva essere valorizzato. A Sabri piaceva tanto mangiare, oltre che cucinare. In cucina amava storpiare il nome dei piatti. E ci riusciva. E ci faceva ridere. Sabri aveva slanci di affetto e di fiducia e qualche volta cadeva nella disperazione. Tante volte ci ha fatto preoccupare perché sfogava le sue delusioni sul suo corpo. Sabri faceva tante cose di testa sua. Talvolta invece si lasciava accompagnare. Sabri voleva rivedere sua figlia, assolutamente, prima di Natale. “Ti porto un biglietto di Natale per la tua bambina, Sabri?”. “No professora, grazie, quest’anno il Natale lo passo con la mia bambina”. È a lei, soprattutto, che va il pensiero in questo Natale. Non è questo il modo di perdere il proprio papà. E poi parlavi della tua mamma, della Tunisia, della pizzeria che avresti aperto una volta fuori. E un pensiero alla sua mamma, la persona che più gli è stata vicina in questi anni di carcere, diceva lui. Perché non è questo il modo di perdere nemmeno un figlio. È un vero dramma che il tempo del carcere continui ad essere, per la maggior parte, tempo di punizione, frustrazione e ingiustizia. Bisogna fare di più. Non possiamo restare a guardare. Intanto Sabri ti salutiamo. Ci mancherai. Molto. I docenti del “Rosmini” di Trento Bari: in carcere a 15 anni, tenta il suicidio tre volte di Silvio Russo internapoli.it, 28 dicembre 2018 Ha tentato tre volte il suicidio in carcere, per questo un giovane detenuto di 15 anni, cresciuto in un contesto sociale assai complicato, è stato sottoposto ad una perizia psichiatrica che ha attestato una personalità fragile incompatibile con il regime detentivo. Il tribunale dei minori di Salerno ha così accolto la richiesta degli avvocati e ha concesso al giovane la possibilità di intraprendere un percorso di recupero scolastico e psicologico. Il giovane ha iniziato a delinquere a 14 anni: furti e spendita di monete false tra i reati contestatigli che gli sono valsi la detenzione nel carcere minorile di Nisida, poi continuata ad Airola dopo aver denunciato alcuni suoi “compagni” che utilizzavano cellulari all’interno del penitenziario napoletano. Tre i tentativi di suicidio per il 15enne che ha prima tentato di togliersi la vita ingerendo del sapone liquido, poi realizzando un cappio con un lenzuolo legato alla finestra. Poi in una comunità di Castellabate, a causa di una lite con alcuni compagni l’adolescente, dopo aver rubato tutti i soldi che trova, sale a bordo del furgone in uso ai gestori della comunità e scappa. Di lui non si hanno più notizie per oltre due settimane quando, finalmente, viene rintracciato a Buonabitacolo e, dopo un inseguimento con i carabinieri, finisce nuovamente dietro le sbarre dell’istituto minorile di Bari dove, per la terza volta, tenta il suicidio. I suoi legali chiedono il trasferimento in un istituto penitenziario più vicino a Salerno, luogo di residenza della madre, e pongono l’intera vicenda all’attenzione della Procura del tribunale per i minori di Salerno che dispone finalmente una perizia per valutare lo stato psicologico del minore. Padova: l’Oasi rischia la chiusura “ex detenuti senza tetto” di Luisa Morbiato Il Gazzettino, 28 dicembre 2018 I Padri Mercedari chiedono aiuto al Comune: “le nostre attività rendono quasi nullo il numero di recidivi”. Dal 1965 l’Oasi, la struttura voluta dai padri Mercedari, accoglie detenuti a fine pena che rimarrebbero sulla strada o sottoposti a misure alternative offrendo un servizio alla città nella sua sede di via Righi 46. Una missione che i Mercedari hanno sempre sostenuto con mezzi propri ma che ora rischia la chiusura. “Siamo una sorta di pronto soccorso per chi esce dal carcere e non sa dove andare. Offriamo 18 mesi massimo di ospitalità unita a percorsi di reinserimento al lavoro, eroghiamo 90 ore di aiuto psicologico per affiancare la persona all’uscita ed attuiamo un piano risparmio: ogni mese una parte della somma percepita dall’ex detenuto viene accantonata in modo che alla fine del percorso la persona ha una base dalla quale partire - spiega il direttore, padre Giovanni. Gli ospiti sono 27 e le spese aumentano, gli ospiti versano 200 euro al mese ma, ad esempio, solo di utenze spendiamo circa 39 mila euro l’anno, somma coperta dal Comune che si è riservato sette posti per persone disagiate. Siamo in grave difficoltà e ci vedremo costretti a chiudere rimandando gli ospiti in strada”. L’Oasi ha avviato corsi di restauro, di saldatura e coltivazione biologica di ortaggi, quest’ultimo affidato a Coishla. Organizza inoltre due corsi di informatica ad alto livello ed eroga sette borse lavoro. “Riceviamo anche commesse da ditte, ad esempio per realizzare pannelli per insonorizzazione ma la stretta economica di riflesso colpisce anche noi - continua il direttore - Con tutte queste attività le persone che ospitiamo trovano un lavoro. In tanti anni di attività i riscontri sono positivi: gli ex detenuti che sono risultati recidivi sono solo tre. Siamo la struttura più grande del Veneto che si occupa di questo tipo di reinserimento”. I padri Mercedari si rivolgono al Comune per non chiudere sottolineando anche che le persone che non potessero più trovare ospitalità andrebbero a totale carico dell’amministrazione. “La Cariparo sostiene con 100 mila euro l’anno il Progetto Carcere in città - conclude padre Giovanni - quello che chiediamo è un’integrazione per continuare a svolgere il nostro importante compito”. Verbania: il Garante regionale dei detenuti “nel carcere mancano spazi” vcoazzurratv.it, 28 dicembre 2018 La struttura di via Castelli ritenuta “disagevole” e per questo poco appetibile da direttori e psicologi. Mancano spazi per garantire una buona vivibilità dei detenuti ospitati all’interno del carcere di Verbania. Lo dice il dossier del Garante dei detenuti illustrato oggi a Torino. La struttura di via Castelli ospita 64 detenuti a fronte di una capienza di 53 posti. Il tasso di affollamento è superiore al 120%. Numeri che da sempre la classificano come il più piccolo istituto di pena del Piemonte. “La casa circondariale di Pallanza sorta in un ex convento, in centro città, non lascia intravedere possibilità di espansione “ dice il garante. Mancano spazi per praticare sport. Poche le aree destinare a laboratori. C’è un progetto, già approvato negli anni scorsi dalla Cassa Ammende, che prevede il recupero e la bonifica del cortile ormai inutilizzato da tempo, ma non ci sono tempi certi relativamente al finanziamento delle opere. Per il garante sarebbe la priorità assoluta, perché potrebbe migliorare la vita dei detenuti. Il documento sottolinea come il lavoro dei volontari sia l’unica valvola di sfogo per le persone recluse. “Alcuni detenuti - ha spiegato Bruno Mellano nella sua relazione - hanno anche segnalato l’inadeguatezza della collocazione del telefono. Situato in un angolo di passaggio al secondo piano”. C’è poi una questione più organizzativa. La struttura carceraria pallanzese è quella di essere considerata sede “ disagevole”. Questo fa sì che vi sia una cronica carenza di figure professionali specialistiche. Il dossier del garante recita testualmente: “Oltre all’assenza del direttore, dello psicologo, del ragioniere manca da tempo e del tutto un funzionario giuridico-pedagogico. L’area trattamentale è in ginocchio da oltre un anno. A Verbania arriva da scavalco a Ivrea un educatore ma le ore sono insufficienti rispetto alle ore di ascolto, accoglienza e sportello che spetterebbero ai detenuti. Resta l’assoluta necessità di una figura di riferimento stabile, poiché in sua assenza viene a mancare la capacità progettuale e di pianificazione dell’identità stessa dell’Istituto penitenziario”. Arienzo: i Radicali “burocrazia e mancanza di fondi non fermano l’impegno della direttrice” di Fabrizio Ferrante Ristretti Orizzonti, 28 dicembre 2018 Lo scorso 22 dicembre un gruppo di militanti dei Radicali per il Mezzogiorno europeo si è recato in visita presso il carcere casertano di Arienzo. Pur essendo una Casa circondariale, Arienzo ospita in prevalenza detenuti condannati in via definitiva, tutti di media sicurezza (i cosiddetti “comuni”). La capienza del penitenziario è di 100 ristretti e al momento della visita i detenuti erano 88 di cui sette stranieri. Gli educatori sono appena due, tra cui una psicoterapeuta in servizio per soltanto 26 ore al mese. Dal carcere è pressoché unanime (dal direttore agli stessi operatori) la richiesta affinché aumentino gli educatori e in generale sia rimpolpato un personale ritenuto ad oggi scarno. Il numero di agenti della polizia penitenziaria ad Arienzo è di 60 unità a fronte di una pianta organica di 50. Tuttavia la struttura chiede da anni la revisione della pianta organica in quanto questa comprende anche gli agenti impegnati nei trasferimenti. Il direttore, Mariarosaria Casaburo che ha accompagnato la delegazione radicale in visita, ha affermato che ad Arienzo si mette al centro la persona umana e che il carcere deve servire per reintegrare in società i detenuti. Le celle sono tutte da due persone con bagno in camera. Celle che sono risultate pulite con intonaci integri e nessuna traccia di umidità o muffa. Alcuni detenuti hanno raccontato ai Radicali di essere soddisfatti del funzionamento della scuola. La struttura offre scuola elementare, scuola media e una preparazione di base fino al quinto anno delle superiori. Sono altresì attivi corsi di giornalismo, scrittura, giocoleria, lettura, edilizia, ristrutturazione e arte della pizza. Il regime delle celle aperte è in vigore dalle nove alle 18 con l’eccezione delle celle chiuse un’ora durante i pasti. La direttrice, responsabile anche del carcere di Vallo della Lucania, ha spiegato che sei anni fa al momento del suo insediamento, trovò un regime molto chiuso e di stampo punitivo nel carcere di Arienzo. Per superare tale impostazione, ha aggiunto, sono serviti anni di lavoro anche con la collaborazione della polizia penitenziaria. Ovviamente gli agenti sono sempre “armati” di chiavi e di taccuino per i rapporti ma, secondo la dottoressa Casaburo, instaurando un rapporto di fiducia coi detenuti è possibile migliorare la vita dei ristretti, il lavoro degli agenti e in generale il clima nel carcere. Clima che alla delegazione radicale è apparso effettivamente tranquillo. I detenuti stessi hanno confermato di essere in ottimi rapporti con gli agenti e nessuno ha memoria di episodi di violenza o prevaricazione. Anche i detenuti stranieri hanno ribadito tale stato di cose, non si sentono discriminati e risultano perfettamente integrati con gli italiani. Il carcere di Arienzo si è inoltre dotato di un nuovissimo appartamento dove un tempo c’era una caserma della polizia penitenziaria. Questo è riservato ai detenuti in articolo 21 (lavoro esterno) e può ospitare sei persone per altrettanti posti letto. Tuttavia al momento è presente un solo detenuto in quanto per accedere al lavoro esterno occorrono specifici requisiti e numerosi permessi che compongono un lungo iter burocratico. A tal proposito la direttrice ha sottolineato la scarsa presenza dell’Uepe (ufficio esecuzione penitenziaria) circostanza che comporta tempi lunghissimi per ottenere le relazioni di sintesi che permettono ai detenuti di lavorare all’esterno. Il carcere, nel frattempo, ha già stilato due protocolli d’intesa per lo svolgimento di lavori di pubblica utilità con il comune di Arienzo e con quello di Cancello. La direttrice ha inoltre precisato che la trasformazione della caserma in appartamento è avvenuta proprio avvalendosi del lavoro dei detenuti, pagati in qualità di operai, imbianchini e per altre mansioni. Il carcere di Arienzo è costituito da due piani, ciascuno dei quali dotato di stanze adibite alla socialità oltre a una piccola stanza con qualche attrezzo da palestra. Palestra poco attrezzata a causa della mancanza di fondi per l’acquisto di nuovi macchinari. Alla delegazione radicale non è sfuggita la mancanza di spazi verdi nel carcere e anche i passeggi avvengono in luoghi totalmente cementificati. La struttura è d’altronde piccola. Una lamentela pressoché unanime dei detenuti riguarda qualcosa che all’esterno può apparire futile ma che in carcere riveste grande importanza contro la routine di giornate spesso monotone: i televisori posti nelle celle sono risalenti agli anni 90 e i canali a disposizione sono pochissimi. Altra richiesta in tema di elettrodomestici, oltre a tv nuove, riguarda la possibilità finora negata di avere in cella dei piccoli frigoriferi. Al momento vi sono due congelatori, uno per piano, dove però è difficile conservare tutti i cibi provenienti dai familiari dei detenuti, specialmente durante i periodi di festa e in estate. Sia per le tv che per i frigoriferi, servono risorse che il Ministero della Giustizia al momento non sembra voler erogare. Il carcere di Arienzo ha creato alcune vere e proprie tradizioni: ogni anno, in occasione della festa del papà o di San Valentino, sono creati spazi e occasioni d’incontro fra i ristretti e i loro cari con in più momenti di intrattenimento grazie a cantanti invitati dalla direttrice e pranzi speciali. Un anziano detenuto ha rivolto un appello direttamente alla delegazione radicale, affinché in carcere arrivino grandi romanzi classici francesi come ad esempio le opere di Balzac. La direttrice ha affermato che il problema principale con cui fare i conti nella gestione di un carcere italiano è la mancanza di prospettiva. Molti detenuti tornano a delinquere una volta fuori, in quanto non sanno altrimenti come mantenere la propria famiglia. La mancanza di lavoro è un dramma e lo è ancora di più per chi ha la fedina penale sporca. La direttrice ha inoltre ricordato la frase pronunciata qualche anno fa da un giovane detenuto: “Direttrice io non ho scelta, il cinque esco e il sei vado a rubare”. Un carcere umano, secondo la direttrice Casaburo, è un carcere che dà un futuro ed è necessario - ha aggiunto - far capire alla società civile ma soprattutto alla classe politica il valore estremo delle misure alternative. Misure che permetterebbero a chi è privato della libertà di non perdere legami col territorio col fine anche di non uscire dal circuito lavorativo. “In carcere si perde il senso del mondo”, ha aggiunto la direttrice “e noi direttori purtroppo molto spesso ci sentiamo impotenti poiché deteniamo solo una fetta dell’esecuzione penale. In verità chi detiene le redini dell’esecuzione sono i magistrati di sorveglianza dai quali dipende qualsiasi tipo di permesso e le cui decisioni risultano talvolta arbitrarie”. In conclusione, la visita della delegazione radicale ha portato alla luce un carcere dalle tante impressioni positive gestito da una direttrice dalla mentalità illuminata che molto bene sta operando per rendere il carcere di Arienzo sempre più efficiente e volto alla piena rieducazione dei detenuti. Reggio Calabria: bambini e carcere, il plauso della Garante dei minori alla Direttrice strill.it, 28 dicembre 2018 “Una piccola notizia ma estremamente significativa ha segnato positivamente le festività natalizie sul fronte della tutela e del rispetto dei diritti dei minori. Quest’anno, infatti, nella sezione femminile del nostro istituto penitenziario non si è registrata la presenza di bambini dietro le sbarre e per un piccolo nucleo familiare ciò ha significato la possibilità di ricongiungersi e vivere questi giorni in un contesto più idoneo rispetto all’ambiente carcerario”. Lo scrive il Garante dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza del Comune di Reggio Calabria, Giovanna Campolo. “Si tratta di un momento molto importante che va nella direzione auspicata e prevista dalla stessa Carta dei diritti dei figli dei genitori detenuti che, com’è noto, riconosce formalmente il diritto di questi minorenni alla continuità del proprio legame affettivo con il proprio genitore detenuto e, al contempo, ribadisce il diritto alla genitorialità dei detenuti. Un convinto plauso, in tal senso, sento di doverlo rivolgere all’organizzazione carceraria reggina, con in testa la direttrice dott.ssa Maria Carmela Longo, per aver gestito e coordinato questo delicato processo con competenza e sensibilità favorendo un percorso che guarda con particolare attenzione all’interesse superiore del bambino. Occorre proseguire su questa strada rafforzando in chiave sinergica l’azione degli attori istituzionali coinvolti con l’obiettivo di perfezionare e rendere sempre più efficienti e funzionali le procedure di accoglienza e cura dei bambini all’interno delle sedi carcerarie. È un tema di grande rilievo sociale e culturale che tocca da vicino circa 100mila bambini che in Italia vivono la separazione dal genitore detenuto. È dunque necessario che le istituzioni siano pronte e preparate alla gestione di una problematica che riveste un ruolo particolarmente importante nel percorso, ancora non del tutto ultimato, che punta alla costruzione di una comunità davvero inclusiva, solidale e attenta ai bisogni dei più deboli”. Roma: Cpr Ponte Galeria, negata l’autorizzazione alle attività culturali per le festività Ristretti Orizzonti, 28 dicembre 2018 Il rammarico del Garante regionale per la mancata autorizzazione ministeriale ad attività culturale per le festività. Dichiarazione di Stefano Anastasìa, Garante delle persone private della libertà nella regione Lazio: “Spiace che il Ministero dell’interno non abbia autorizzato lo svolgimento di un’attività di balli di gruppo all’interno del Centro di permanenza per il rimpatrio di Ponte Galeria, a Roma. Si trattava di un progetto proposto dal Cemea del Lazio nell’ambito di un bando pubblico promosso da questo ufficio per alleviare le condizioni di solitudine e di sofferenza nei luoghi di privazione della libertà della regione Lazio nel corso delle festività natalizie e di fine anno. Lo scorso anno, lo stesso progetto era stato autorizzato dalla prefettura di Roma, con la partecipazione di una quindicina di donne ospiti del Centro e senza alcun problema di alcun genere. Non si capiscono, quindi, le ragioni di questo diniego, tanto più che le recenti modifiche alla disciplina dei trattenimenti nei Cpr, approvate con il decreto sull’immigrazione, prolungandone i tempi, aumentano la necessità di un’offerta di attività culturali, ricreative e di assistenza, senza le quali facilmente quella forma di privazione della libertà può risolversi in un trattamento inumano e degradante. Spero, quindi, che la mancata autorizzazione di questo progetto non costituisca un negativo precedente e che anzi possa essere riconsiderata dal Ministero e dalla Prefettura”. Larino (Cb): i detenuti si mettono alla prova in cucina quotidianomolise.com, 28 dicembre 2018 Una cena per festeggiare il Natale con le persone all’esterno e mostrare la varietà dei prodotti che sono realizzati dai detenuti-studenti e, soprattutto, aprirsi ancora di più a un percorso di reinserimento nell’ambito lavorativo. Quasi 200 persone a cena e una grande macchina organizzativa che ha funzionato alla perfezione all’interno del carcere di Larino per la cena di beneficenza che tutti gli anni vede coinvolti i detenuti che frequentano i corsi dell’istituto Alberghiero e di quello Professionale per l’Agricoltura. 45 i detenuti che sono stati impegnati nelle varie fasi dell’organizzazione dell’evento, dalla cucina al guardaroba, passando per l’accoglienza e il servizio in sala, il tutto sotto l’occhio vigile e attento non solo della direttrice del carcere di Larino, Rosa La Ginestra, ma anche dei professori che durante l’arco dell’anno seguono i loro progressi. “Siamo al sesto appuntamento con tutti i volontari, le scuole, i professori e il mondo che gira attorno a questa comunità - ha affermato La Ginestra - e si tratta di un modo dei detenuti per fare gli auguri al mondo che li supporta”. Una cena che nasce anche con la finalità di “sperimentare in maniera pratica quello che i ragazzi imparano all’interno dove frequentano le due scuole imparando le arti dei due settori. La gran parte dei prodotti che sono stati cucinati, infatti, sono stati realizzati dal settore agrario come marmellate, liquori, verdure, confetture e formaggi ma sono stati confezionati dai ragazzi dell’Alberghiero sapientemente guidati da due chef che abbiamo all’interno”. Un menù ricco e vario accompagnato da un vino di produzione locale che è stato particolarmente apprezzato dai tanti ospiti che hanno preso parte alla manifestazione. “I detenuti ogni anno sono contenti di prendere parte a questa manifestazione - ha proseguito la direttrice - c’è da fare purtroppo una selezione ed è brutto perché tutti vorrebbero partecipare ma gli studenti che frequentano le due scuole sono più di 120 e visti gli spazi ridotti sarebbe impossibile consentire a tutti di partecipare all’iniziativa”. Di qui la necessità di sceglierne alcuni e quest’anno sono stati 45 quelli che hanno partecipato all’evento che ha aperto le porte delle festività natalizie che all’interno del carcere di Larino hanno significato prima di tutto condivisione. “Abbiamo fatto una disposizione tale da consentire ai detenuti di stare per la maggior parte delle feste insieme. Abbiamo aperto delle stanze grandi che chiamiamo di socialità presenti su ogni piano in maniera tale da trascorrere le feste in compagnia”. Lecce: allenatore e calciatori dietro le sbarre in visita ai detenuti lecceprima.it, 28 dicembre 2018 Una folta delegazione del club Lecce Calcio ha raccolto l’invito della direzione della Casa circondariale. Incontro nel teatro e poi visita alle sezioni. Non è un mistero per nessuno che calcio abbia salvato molti ragazzi dai pericoli della strada. Talvolta avere talento, o avere la fortuna di incrociare qualcuno che se ne accorga, è l’unico modo di per non finire nei guai. Quando vivi in quartieri periferici, soprattutto in alcune città del Mezzogiorno, un campo di calcio ricavato tra il cemento e i pali dell’illuminazione può essere il solo trampolino di lancio per un futuro diverso da quello insito in un destino che per molti, troppi, sembra essere ancora predeterminato dalle condizioni economiche della propria famiglia. E così è stato per molti dei calciatori professionisti di oggi, e quelli del Lecce non fanno eccezione. Ecco perché la visita presso la casa circondariale di Borgo San Nicola, per la delegazione del club giallorosso che oggi ha varcato le soglie del carcere, non è stata soltanto una iniziativa “politicamente” corretta, ma la testimonianza di come lo sport abbia un significato sociale ancora molto profondo, nonostante tutte le nefandezze che ne corrodono l’essenza originaria, tra milionarie derive commerciali e frequenti atti di violenza e discriminazione. Con l’allenatore Fabio Liverani, il vice Manuel Coppola, il team manager Claudio Vino e l’allenatore dei portieri, Luigi Sassanelli, c’erano Franco Lepore, Marco Bleve, Giuseppe Torromino e Marco Armellino, Jacopo Petriccione, Mauro Vigorito, Marco Calderoni e Ciccio Cosenza. Il club ha accolto l’invito della direttrice e del vice direttore della casa circondariale, Rita Russo, nell’ambito del progetto “Padroni di nessuno e soci di tutti”. Un incontro, alla presenza di fra Paolo Quaranta e del giornalista Mario Vecchio, si è tenuto nella sala teatro della struttura, sul tema della socializzazione. Al termine i calciatori e i tecnici hanno visitato anche le sezioni per un incontro personale con i detenuti. Tassa sul volontariato. Il governo ci ripensa: “Abbiamo sbagliato” di Rocco Vazzana Il Dubbio, 28 dicembre 2018 Niente raddoppio delle imposte per le Associazioni del Terzo settore. “Quella norma va cambiata nel primo provvedimento utile”. Ora il governo, col vicepremier Luigi Di Maio in testa, fa retromarcia. Il raddoppio dell’Ires per le organizzazioni di volontariato senza fini di lucro, inserito in manovra, è sbagliato. Perché tassare chi fa assistenza sociale come se fosse una Spa con la classica aliquota al 24 per cento - potrebbe essere controproducente, oltre che ingiusto. “Si volevano punire coloro che fanno finto volontariato e ne è venuta fuori una norma che punisce coloro che hanno sempre aiutato i più deboli”, spiega adesso il capo politico del Movimento 5 Stelle. “Non possiamo intervenire nella Legge di bilancio perché si andrebbe in esercizio provvisorio. Ma prendo l’impegno di modificarla nel primo provvedimento utile”. A convincere Di Maio dell’opportunità di un ripensamento sono state probabilmente le proteste di chi opera lavora quotidianamente col disagio economico e sociale. Ad alzare maggiormente la voce sono state le organizzazioni cattoliche, particolarmente numerose nel settore. Come la comunità dei Frati di Assisi, che il vicepremier grillino si impegna a incontrare presto. Per padre Mauro Gambetti, custode del “Sacro Convento”, il raddoppio dell’Ires “colpisce al cuore il popolo del Poverello”, dice senza giri di parole, in perfetta sintonia con quanto scrive sull’Huffington Post padre Enzo Fortunato, direttore sala stampa del convento: “Si cerca di distruggere il bene, si cerca di destabilizzare chi vuol essere strumento di bontà, si cerca di tagliare la possibilità di fare di più”, scrive Fortunato. “Si tratta di migliaia di istituzioni senza fini di lucro che partono dal nord al sud dell’Italia e coprono come un manto gli enormi bisogni ed esigenze: da quelli ambientali e a quelli sanitari, da quelli che sorreggono la coesione sociale al contrasto delle povertà, da quelli educativi a quelli ricreativi”. Mettersi contro i francescani, da un punto di vista politico, potrebbe non essere una buona idea, neanche per chi viaggia ancora col vento favorevole dei sondaggi. Lo sa bene anche Matteo Salvini che, dopo aver ascoltato il tono delle proteste, ha ritenuto opportuno concedere qualcosa: “Garantisco l’impegno del governo a intervenire per aiutare le tante associazioni di volontariato che utilizzano solo a scopi sociali i loro fondi, ci sarà invece massimo rigore con i “furbetti” che fanno altro”, dice il leader del Carroccio confermando la linea già annunciata da Di Maio. A quel punto manca solo la “ratifica” della decisione da parte del capo del governo. Che puntualmente arriva. “In merito alla norma sull’Ires formulata nella legge di Bilancio attualmente in discussione alla Camera dei deputati, provvederemo quanto prima, a gennaio, a intervenire per riformulare e calibrare meglio la relativa disciplina fiscale”, scrive Giuseppe Conte su Facebook. “Le iniziative di solidarietà degli enti non profit, anche alla luce del principio di sussidiarietà, rappresentano uno strumento essenziale per un’efficace politica di inclusione sociale e di effettiva promozione della persona. Il governo ha ben presente tutto questo e al Terzo settore sin dall’inizio ha dedicato grande attenzione”. Per le opposizioni, il ripensamento della maggioranza è solo l’ennesima prova dell’incompetenza dell’esecutivo. La presidente dei deputati azzurri, Mariastella Gelmini, non usa mezze misure su Twitter: “La manovra non è stata ancora approvata dalla Camera e già Conte, Di Maio e Salvini annunciano modifiche. Si sono finalmente accorti che l’aumento dell’ Ires per gli enti no profit è un’idiozia. Chissà a quante altre correzioni di errori assisteremo in futuro. Sempre più dilettanti allo sbaraglio”. La tassa sul volontariato: una punizione senza senso di Giangiacomo Schiavi Corriere della Sera, 28 dicembre 2018 Non c’era nessuna ragione per trattare la solidarietà come si fa con un nemico. Adesso che Conte, Salvini e Di Maio annunciano una retromarcia, è difficile trovare un motivo per giustificare l’assurdo raddoppio delle tasse sul volontariato voluto dal governo, equiparando il non profit, come ha scritto Gian Antonio Stella, a un bene di lusso. Bisognerebbe sapere nome e cognome di chi l’ha voluto, di chi ha detto che questa era una buona idea, di chi non si è mai chiesto come mai nel nostro traballante Paese resiste un esercito di persone che supplisce alle assenze dello Stato e offre un aiuto a chi non ce la fa, evitando una gigantesca bancarotta sociale. Perché il raddoppio dell’Ires previsto dalla Finanziaria è figlio di una cultura che va nella direzione contraria a quella di ogni società civile, che dovrebbe essere quello di ridurre il peso della tassazione sulla beneficenza e alleggerire la fiscalità a chi fa del bene, per togliere un onere allo Stato e risolvere un problema. Non c’era nessuna ragione per trattare la solidarietà come si fa con un nemico, a meno di vedere il volontariato come tale, perché estraneo ai populismi e ai sovranismi, qualcosa di non governabile e di non politicamente assimilabile, e per questo non meritevole di ascolto o di aiuto. Una logica distruttiva, più vicina a quella dello sceriffo di Nottingham, il nemico di Robin Hood che toglie ai poveri per dare ai ricchi (in questo caso identificati nel calderone dello Stato) che a quella di chi dovrebbe incoraggiare un sano e disinteressato civismo. Il ravvedimento, arrivato con le parole del premier Conte e la dichiarazione del ministro Di Maio, corregge ma non spiega le ragioni di una norma che ha innescato la protesta del Terzo settore. “Si volevano punire coloro che fanno finto volontariato”, ha detto il vice premier, supportato dalle dichiarazioni del ministro dell’Interno Salvini: “Aiuteremo chi fa del bene, ma ci sarà il massimo rigore con i furbetti che fanno altro”. Giustificazioni un po’ di maniera verso quel mondo elogiato ogni volta che si devono affrontare calamità e avversità, perché sempre pronto a rimboccarsi le maniche e a intervenire davanti ai bisogni emergenti, come ha ricordato padre Enzo Fortunato dei frati minori di Assisi, determinante, a quanto sembra, nel cambio di rotta governativo. “Con questo provvedimento si cerca di destabilizzare chi vuole essere strumento di bontà”, aveva scritto, lasciando intendere che privare il non profit di un capitale da investire in pubblica utilità, come i servizi ai più deboli, la ricerca e l’assistenza, sarebbe una palese iniquità. Lo ha ricordato più volte il presidente Mattarella: “Un Paese dove si spezzano i fili che uniscono le persone minando la coesione sociale, è un Paese impaurito e fragile. Il volontariato è, al contrario, un antidoto alle chiusure e agli egoismi che si generano nei momenti di difficoltà”. Meno male che è arrivato il ripensamento: se questa tassa si poteva evitare, ora si deve certamente rivedere. Il razzismo negli stadi e la battaglia culturale di Antonio Polito Corriere della Sera, 28 dicembre 2018 Il nostro errore, l’errore di tutti noi che amiamo il calcio e pensiamo ogni giorno al calcio, o addirittura viviamo di calcio, è di aver dato un alibi all’integralismo degli ultrà di aver accettato la loro narrativa, di credere che lo facciano davvero per i colori delle loro squadre. “Papà, perché fischiano sempre Koulibaly?”. Mio figlio, nove anni, doveva essere il protagonista della serata. Viaggio premio da Roma a San Siro per farlo esordire da interista nel tempio del Meazza. “Boxing day”, l’avevano chiamato, e io ci avevo creduto: Natale col calcio, festa e bambini allo stadio. Gli ho risposto: “Lo fanno perché ha la pelle nera, e loro sono razzisti”. E lui: “Ma allora perché non fischiano anche Asamoah?”. Il quale, pur essendo nerazzurro, è effettivamente nero quanto Koulibaly. Logica stringente. D’altra parte avevamo fatto il viaggio in metro fino a San Siro chiacchierando schiacciati l’uno contro l’altro con un ragazzo di colore di Capetown, Sudafrica, turista e tifoso interista. Ed eravamo seduti affianco a due cinesi, ma non cinesi di Milano, cinesi cinesi, tifosi nerazzurri. Ed eravamo lì per una squadra che si chiama Internazionale perché fu frutto della scissione dal Milan di un gruppo di soci che non accettavano la chiusura autarchica e sciovinista agli stranieri. Come si fa ad essere razzisti e interisti? E infatti il razzismo non spiega tutto ciò che è successo a Milano dentro e fuori lo stadio. C’è una logica precedente, tribale e belluina, nei comportamenti degli ultrà. Essi si ritengono tribù in guerra per il territorio con tutte le altre, e soprattutto con la tribù dei poliziotti, che odiano sopra ogni altra cosa. Quindi la regressione è a prima del razzismo, che è un frutto malato dell’Ottocento. Il modello è l’orda barbarica, che marca il terreno come fanno gli animali, con l’esibizione rituale quando va bene e con il sangue quando va male. L’insulto razziale, o “territoriale” come dice il codice sportivo, è usato per eccitare la violenza. Nero o napoletano fa lo stesso: purché sia nemico. Come altro si può spiegare la spedizione punitiva organizzata ed eseguita ore prima della partita, quindi senza alcuna connessione con gli eventi sportivi sul campo, a danno di una carovana di tifosi napoletani? E i cori indegni di incitamento al Vesuvio, stupidi come le vecchie barzellette? Come comprendere altrimenti la presenza ai fatti di ultrà del Varese e perfino del Nizza, pare aggregatisi per vecchi conti da regolare con i tifosi partenopei? Il nostro errore, l’errore di tutti noi che amiamo il calcio e pensiamo ogni giorno al calcio, o addirittura viviamo di calcio, è di aver dato un alibi all’integralismo ultramico, di aver accettato la loro narrativa, di credere che lo facciano davvero per i colori delle loro squadre. Ieri tanti bravi e onesti tifosi nerazzurri ripetevano sui social di “vergognarsi” peri “buuu” contro Koulibaly. Vergognarsi? Dunque ritengono gli autori di quei cori parte della loro stessa comunità? Solo del comportamento di un connazionale, o di un correligionario, o di un parente, ci si può vergognare. E noi, interisti anonimi, che cosa abbiamo in comune, oltre all’umana pietà per una vita distrutta e per due bambini rimasti orfani, con un uomo che militava in un gruppo chiamato Blood and Honour, aveva già alle spalle due Daspo ed era campione di un’arte marziale chiamata “giacca e coltello”? Perché non riusciamo neanche noi ad uscire da una concezione tribale e territoriale del tifo, come se fossimo servi della gleba cui la nascita assegna un destino, e gli interisti, o gli juventini, o i napoletani, fossero una specie a sé, antropologicamente distinta? Anche noi, che pure non siamo ultrà, ci scherziamo su per tutta la settimana, ci provochiamo sui social: partecipiamo al gioco. Questo errore lo fa anche il mondo del calcio ufficiale, quando accetta che l’alibi degli ultrà invada la giustizia sportiva, e giustifica o condanna un comportamento arbitrale, una ammonizione o una punizione, in relazione a ciò che succede sugli spalti. Perfino la “responsabilità oggettiva”, istituto giuridico che esiste solo nel calcio, e a dire il vero neanche nel calcio nella maggioranza dei paesi europei, accetta la stessa logica quando punisce la società e il pubblico di una squadra per ciò che fanno gli ultrà: senza nessun risultato tangibile, a dire il vero, ma con l’aggravante di consegnare in mano a un gruppo di violenti un’arma di ricatto formidabile nei confronti delle società e dei presidenti, ché se non fanno ciò che vogliono succede il casino (ricatto che abbiamo visto più volte funzionare). La vera battaglia culturale da ingaggiare è un’altra: scacciare la logica tribale dagli stadi. Carlo Ancelotti, con la sua cultura cosmopolita acquisita sui campi di mezza Europa, forse oggi l’uomo più maturo e razionale del nostro pallone, l’aveva detto qualche mese fa, in tempi non sospetti: basta con gli insulti. Pur non essendo di colore, gli avevano dato del “maiale” in uno stadio italiano, per la semplice ragione che contro quella squadra lui aveva vinto una Champions. Sospendiamo le partite al primo insulto, aveva proposto. Chiudiamo le curve, se sono il territorio dei fuorilegge. Portiamo anche tra i calciatori il principio secondo cui civiltà ed educazione vengono prima di tutto (e che a terra non si sputa). Ora che abbiamo un “duro” al Viminale non dovrebbe essere difficile: essendo a sua volta ultrà, conosce bene la materia. L’emergenza migranti e i luoghi comuni da sfatare di Luca Tremolada Il Sole 24 Ore, 28 dicembre 2018 Gli sbarchi di questa estate con il loro corollario tragico hanno portato domande e pulsioni che il nostro Paese non aveva mai conosciuto nella sua storia. Per provare a mettere nero su bianco i pochissimi numeri che abbiamo a disposizione (i clandestini non sono censiti in quanto clandestini ndr) abbiamo scelto quattro Info Data e quattro grafici per sfatare alcuni luoghi comuni legati più alla propaganda politica che alla realtà fattuale. Il primo? Siamo davvero oggetto di una invasione di migranti dai Paesi dell’Africa e de Medio Oriente? Per dare le dimensioni di chi arriva nel nostro paese sia nel tempo che rispetto alle altre nazioni del continente possiamo per esempio partire dai dati dell’Ocse, e più esattamente dell’International Migration Outlook 2018. Per quanto riguarda l’Italia, negli anni troviamo che il numero di persone cui è stato fornito un permesso di soggiorno è drasticamente calato, e in effetti risulta solo leggermente in aumento dal 2014 al 2016 poco sopra quota 250mila. Per fare un confronto, però, nel 2000 lo stesso indicatore si era fermato appena sotto il mezzo milione di persone: oggi è dunque la metà di allora. Questo numero contiene tuttavia due tendenze opposte. Da un lato registriamo un notevole calo di coloro che vengono in Italia per ragioni di lavoro, dall’altro invece proprio dal 2014 crescono i permessi di soggiorno concessi ai richiedenti asilo. Il calo si è verificato per tutti i generi di impiego: sia permanenti che stagionali. Per parte loro, i permessi concessi per ragioni di protezione internazionale erano rimasti a lungo sotto le 50mila unità l’anno, per poi arrivare a un massimo poco sopra le 120mila nel 2016. La somma di queste due tendenze opposte è, nel complesso, di un deciso calo nel numero totale di ingressi. I richiedenti asilo vogliono venire tutti in Italia. Come scrive Davide Mancino, che gruppi di richiedenti asilo vengano trasferiti da un paese all’altro, e in particolare verso le nazioni di “primo arrivo”, non è esattamente una novità. Si tratta in effetti di una procedura prevista dal trattato di Dubino, entrato in vigore nel 1997, e alla base di spostamenti di richiedenti asilo che vanno avanti ormai da tempo. Il principio base consiste nell’evitare, per quanto possibile, che i rifugiati facciano domanda in più paesi alla volta, e che a occuparsi delle loro richieste di asilo siano le nazioni in cui essi sono arrivati per la prima volta. Diventa quindi possibile, sotto determinate condizioni, trasferirne alcuni verso tali nazioni. Naturalmente si tratta di un accordo politico, e come tale né scritto nella pietra né per forza la soluzione migliore possibile: finché esso resta in vigore, però, va rispettato. Se - legittimamente - non piace, esistono appositi strumenti politici e democratici per modificarlo, ma certo non si può far finta che non esista. Usando i dati Eurostat, reperiti grazie al ricercatore dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale Matteo Villa, possiamo per esempio ricostruire facilmente di cosa si tratta, e che dimensioni ha la questione. Gli ultimi numeri disponibili fanno riferimento al 2017, e puntano alla Germania come paese verso cui avviene il maggior numero di trasferimenti. Segue a una certa distanza l’Italia, e poi tutti gli altri molto più indietro. Che fine fanno i migranti una volta arrivati in Italia? Quarantadue insediamenti informali in Italia che “accolgono” complessivamente dalle 6.000 alle 10.000 persone in 24 insediamenti costituiti da edifici, 2 da baracche e 2 da casolari, 3 da tendopoli, 2 fra container e roulotte e 9 campi dove le persone dormono all’addiaccio. Nella metà dei casi senza acqua corrente e senza elettricità e in un terzo dei casi con donne e bambini. A Foggia e a Catania sono presenti insediamenti dove vivono bambini e non ci sono né elettricità né acqua corrente. È questa la situazione al 1 settembre 2018 (ma si tratta di numeri da prendere non al dettaglio data l’estrema fluidità di queste dinamiche) fotografata dall’ultimo rapporto “Fuoricampo” di Medici Senza Frontiere. “Chi arriva in Italia non fugge dalla guerra. È un migrante economico, cerca solo una vita migliore”. In questo la risposta è interlocutoria. Se guardiamo ai flussi è vero che non fuggono tutti dalle guerre. Ma è altrettanto vero che le guerre nel mondi ci sono. Tra il 2017 e il 2018, ricorda Filippo Mastroianni, circa 193.000 persone sono morte in Africa, Asia e Medio Oriente, a causa di conflitti a fuoco di diversa natura. Questo il quadro raccontatoci dai dati dell’Armed Conflict Location & Event Data Project. Acled è un progetto di raccolta, analisi e mappatura delle crisi armate. Raccoglie date, attori, tipologia delle violenze, luoghi e vittime segnalate in Africa, Asia meridionale, Sud-est asiatico e Medio Oriente. Nella grafica le informazioni mappate mostrano il quadro generale. Con l’ausilio delle icone relative alle tre aree principali (Africa, Asia, Medio Oriente) è possibile aggiornare la mappa e i numeri per scoprire quali sono le regioni più pericolose del mondo. Afghanistan, Siria, Iraq, Yemen e alcune regioni dell’Africa registrano un alto numero di vittime negli ultimi due anni. In particolare, le prime due sono praticamente appaiate con numeri decisamente superiori alle altre nazioni prese in esame. Entrambe contano oltre 71.000 decessi dovuti a conflitti armati, superando di diverse unità Iraq (36.891) e Yemen (33.353). Migranti ragazzini soli in Italia, oltre 4.000 sono irreperibili di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 dicembre 2018 La denuncia della Caritas in un dossier. Sono 11.339 quelli censiti nel nostro paese. nel testo si evidenzia che sono numerosi i ragazzi che, con un viaggio insidioso, sono giunti sulle nostre coste senza adulti di riferimento. “Mancano strutture adeguate, operatori qualificati, percorsi educativi. L’esito più preoccupante di questa inadeguatezza è il cosiddetto esercito degli invisibili, o degli scomparsi”. Così denuncia la Caritas in un dossier sui minori stranieri soli, presentando dati, testimonianze e proposte, evidenziando in particolare i flussi verso l’Unione Europea e la situazione dei Balcani. Giunti in Europa, per vie illegali, molti di questi minori non accompagnati non ricevono le condizioni minime di assistenza necessaria, prima fra tutte la protezione da abusi e violenze. Mancano strutture di accoglienza adeguate, operatori qualificati in grado di assisterli, percorsi educativi pensati per loro che limitino il rischio di emarginazione e sfruttamento, interpreti e mediatori culturali in grado di facilitare le relazioni tra sistema di assistenza e minori. L’esito più preoccupante di questa inadeguatezza è il cosiddetto esercito degli invisibili, o degli scomparsi. In particolare i minori non accompagnati arrivati in Italia poi diventati irreperibili sono 4.307, di ben 23 etnie diverse. Oltre quattromila bambini spariti, di cui non si sa più nulla, alcuni probabilmente rimpatriati, altri probabilmente fuggiti al compimento dei 18 anni. Caritas Italiana partecipa al Tavolo Minori Migranti, una rete nazionale di organizzazioni impegnate a diverso titolo nella promozione e tutela dei diritti dei minori migranti, richiedenti asilo e rifugiati, in particolare non accompagnati, e dei giovani giunti in Italia come minori non accompagnati. Nella rete delle Caritas in Europa e insieme a tante altre organizzazioni della società civile ha anche formulato proposte - richiamate del Dossier - per proteggere i bambini migranti e rifugiati oggi e aiutarli ad affrontare il loro futuro. Inoltre Caritas Italiana da anni collabora e sostiene le diverse Caritas che nell’Europa dell’Est sono impegnate in programmi multisettoriali volti all’assistenza dei migranti, in particolare a seguito dell’emergenza del 2015 quando circa un milione di profughi attraverso la “rotta balcanica” per raggiungere il nord Europa (Germania, Austria, Paesi scandinavi) partendo dalla Turchia e risalendo la regione balcanica attraverso Grecia, Macedonia e Serbia. Le Caritas della Grecia, Albania, Bosnia ed Erzegovina e Serbia in particolare sono state impegnate sin da subito nel far fronte alle molteplici necessita delle persone che hanno attraversato questi Paesi, con specifica attenzione alle famiglie e ai tanti adolescenti non accompagnati, che erano privi di qualsiasi supporto familiare. Dall’ottobre 2017 in particolare è stato possibile finanziare ulteriori interventi grazie alla Campagna Liberi di partire liberi di restare promossa dalla Conferenza Episcopale Italiana che, grazie a fondi dell’ 8xmille alla Chiesa Cattolica, appoggia programmi in favore di migranti nei Paesi di origine, di transito e di destinazione, con un’attenzione specifica ai minori non accompagnati. Il dossier spiega che sono numerosi i ragazzi e i bambini che hanno affrontato un viaggio particolarmente insidioso giungendo sulle coste italiane senza adulti di riferimento. Nel 2017 la maggior parte delle richieste di asilo di minori stranieri non accompagnati è stata fatta in Italia, che ha ricevuto il 32% del totale delle domande di asilo fatte in Europa. Il ministero del Lavoro lo scorso novembre ha pubblicato i dati relativi alle accoglienze dei Msna in Italia. Ad oggi secondo i dati sono ben 11.339 i minorenni non accompagnati censiti che si trovano in Italia, per lo più giunti sulle coste italiane. Di questi, il 92% sono maschi, il 29% hanno 16 anni, il 59% 17 anni. Secondo un recente studio dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim), il 91% dei minori intervistati in Italia nei primi mesi del 2017 ha dichiarato di essere stato vittima di violenza, contro il 75% nel 2016. Infatti, come per gli adulti, la chiusura dei confini li spinge a percorrere vie sempre più pericolose. Egitto. Amal Fathy torna a casa, ma il 30 l’attende un altro processo di Riccardo Noury Corriere della Sera, 28 dicembre 2018 Dopo oltre sette mesi di carcere preventivo e un ritardo immotivato di nove giorni, poiché il rilascio era stato disposto il 18 dicembre, finalmente ieri sera Amal Fathy è tornata a casa. Amal è la moglie di Mohamed Lotfy, direttore della Commissione egiziana per i diritti e le libertà, l’organizzazione per i diritti umani che fornisce consulenza legale alla famiglia Regeni e che per questo ha subito intimidazioni e arresti di suoi esponenti. La coppia era stata arrestata la notte tra il 10 e l’11 maggio, insieme al loro figlio di tre anni. Lotfy e il bambino erano stati rilasciati poche ore dopo. Nell’indagine nell’ambito della quale ha ottenuto la libertà con la condizionale, Amal deve rispondere di accuse gravissime quanto pretestuose: “adesione a un gruppo terrorista”, “diffusione di notizie false e dicerie per danneggiare la sicurezza pubblica e gli interessi nazionali” e “uso di Internet per istigare a compiere atti di terrorismo”. Le condizioni per la scarcerazione prevedono che Amal Fathy debba presentarsi una volta alla settimana presso una stazione di polizia e non possa lasciare la sua abitazione se non, appunto, per recarsi alla polizia o per visite mediche. Sabato 30 è Amal attende l’esito dell’appello contro la condanna a due anni di carcere emessa a fine settembre per aver denunciato, in un video pubblicato su Facebook, le molestie sessuali da lei subite e aver criticato il governo per il mancato contrasto alla violenza di genere. Il verdetto di primo grado aveva anche previsto una multa e una cauzione per sospendere la pena: entrambe pagate. Per Amnesty International Amal è una prigioniera di coscienza: non avrebbe dovuto trascorrere neanche un minuto in carcere ed è giunto davvero il momento che sia assolta da ogni accusa. Il sacrificio del reporter che si dà fuoco scuote la Tunisia: “Serve un’altra rivolta” di Francesco Battistini Corriere della Sera, 28 dicembre 2018 Abderrazek s’era dato al giornalismo, cameraman, sognava un Paese libero di parlare come d’arricchirsi. Ha postato su Facebook il testamento del suo martirio. “Oggi, farò una rivoluzione per conto mio...”. Otto anni fa, nella prima delle Primavere arabe, Abderrazek Zergui era sceso in piazza anche lui. Ci aveva creduto: la Tunisia dei Gelsomini rifioriti e d’un regime che finalmente appassiva. Abderrazek aveva raccolto la sfida dell’ambulante che aveva acceso la rivolta, quel Mohamed Bouazizi che s’era dato fuoco morendo da Jan Palach, facendo cacciare il dittatore Ben Ali. Quante speranze: Abderrazek s’era dato al giornalismo, cameraman, sognava un Paese libero di parlare come d’arricchirsi. Quante illusioni: a Kasserine, nella più povera e arrabbiata delle città, Abderrazek la vigilia di Natale s’è messo col volto cupo davanti al cellulare. 32 anni, un lavoro precarissimo a Telzva TV, si è ripreso neanche fosse un terrorista: “Parlo per tutti quelli che non hanno da mangiare, che se protestano vengono accusati di terrorismo”. E infine ha postato su Facebook il testamento del suo martirio: “Sono otto anni che aspettiamo. Stop. Qui la gente muore di fame. Non siamo esseri umani? Ci sono regioni in cui le persone sono vive fuori, ma morte dentro”. Lui era una di queste: “Fra venti minuti mi immolerò. Chi mi vuole sostenere, è il benvenuto. Se una persona otterrà un lavoro grazie a me, sarò contento. E dopo questo, forse, lo Stato si occuperà un po’ di più di Kasserine”. Dopo questo, Abderrazek s’è cosparso di benzina. Clic, con l’accendino. Nel centro di Kasserine, che si chiama piazza dei Martiri. Impossibile spegnerlo: è arrivato in ospedale in agonia, è morto in poche ore e, come Bouazizi, ha incendiato di nuovo la Tunisia. Ci vuole poco perché questa parte del Paese vicina all’Algeria si rivolti: fu la prima a farlo contro Ben Ali, si ripeté nel 2016, scatenò un anno fa la rivolta del pane. “Non siamo esseri umani?”: qui non lavora nessuno, l’unico futuro è fumare al bar, prendere un gommone per l’Italia oppure arruolarsi coi jihadisti in Libia, figurarsi fare il cameraman precario. L’appello è servito. Da Kasserine questa nuova, piccola Rivoluzione della Dignità s’è subito propagata a Thala, Fouchana, Oued Borji, Kairouane, Bonderies, Jebeniana. Un altro poveraccio ha provato a incendiarsi nella regione di Sfax. A Tunisi, sono scesi a urlare “basta, il popolo vuole la caduta del regime!”. Lacrimogeni, copertoni bruciati, sassaiole, molotov. Decine di feriti e d’arrestati. Il governo schiera l’esercito, denuncia chi avrebbe istigato il giornalista a uccidersi. Ma può poco, davanti a una torcia umana che ne illumina la corruzione e le incapacità: solo qualche giorno fa, ha chiesto all’Ue di scongelare i tesori all’estero del clan di Ben Ali. Si prepara un grande sciopero per il 14 gennaio, anniversario della Rivoluzione. L’ennesimo. Faouzi Mahbouli, editore e voce critica dell’opposizione, vede nero: “Come sorprendersi, se nel 2019 la Tunisia si solleverà di nuovo?”.