Suicidi in carcere, 2018 da record. Serve una legge per prevenire solitudine e abusi di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 27 dicembre 2018 Come ogni anno di questi tempi, arriva il solito triste bilancio sui suicidi in carcere. Quante persone si sono tolte la vita nelle carceri italiane in questo 2018? Sono state 65, più di tutti gli anni scorsi fino al 2011 quando, ancora in piena emergenza sovraffollamento, furono 66. Non voglio scendere nei dettagli del conteggio, che mi paiono davvero poco interessanti, con il Ministero che chiede di calare di qualche numero perché forse non intende calcolare quale suicidio il decesso del signore di 75 anni che si è lasciato morire di fame nel carcere di Paola o quelli dei due detenuti morti per asfissia da gas, piuttosto imputati a tentativi di sballo. Né voglio dare colpe a condizioni di vita banalmente inadeguate (non ci si suicida perché la doccia del bagno è ammuffita) o a mancati controlli, secondo una logica che vorrebbe il povero agente di sezione responsabile di scelte tanto intime e disperate. Vorrei solo che ci fermassimo un momento a riflettere sulle persone che stipiamo nelle nostre galere e per le quali invochiamo quella certezza della pena di cui tanto parla chi poco conosce. Uno degli ultimi suicidi, avvenuto in Sicilia, ha riguardato un uomo di 47 anni arrestato alla fine dello scorso settembre. Era accusato di rapina impropria. L’uomo veniva chiamato “il ladro di merendine” o anche “serial kinder”. Aveva rubato merendine in un supermercato di Catania. Non era la prima volta che lo faceva. Certo, non si rubano le merendine. I nostri genitori ce lo dicevano quando eravamo piccoli. Ma valeva la pena di rinunciare a una vita umana per usare in maniera così cieca e bieca il sistema penale e quello penitenziario? O non era più sano intervenire con politiche sociali e di sostegno, anche psicologico o psichiatrico se ce ne fosse stata la necessità, in una situazione di evidente disagio ed emarginazione? I ladri di merendine in carcere sono la stragrande maggioranza. Basta vedere le statistiche sulla provenienza geografica, sul livello di istruzione, sul reato commesso. Buttandoli in una cella non siamo in grado di intercettarne la disperazione. Oramai i detenuti hanno superato la soglia delle 60mila unità. Nessuna attenzione individuale può essere loro garantita dal sistema. Le vite umane continueranno a sfuggire dalle maglie. Antigone ha inviato a tutti i componenti delle commissioni Giustizia di Camera e Senato una proposta di legge volta a prevenire i suicidi in carcere. Se la prevenzione primaria è quella di riservare la detenzione alle situazioni che davvero la meritano, una volta dentro si può però agire sui seguenti due fronti: innanzitutto, il potenziamento dei contatti con gli affetti esterni. Il senso di solitudine in carcere è paradossalmente estremo. Se la pena consiste nella limitazione della libertà, non si vede perché a essa bisogna aggiungere la lontananza forzata da genitori, coniuge e figli o la privazione totale di una vita sessuale. La proposta di legge di Antigone prevede un aumento del tempo da trascorrere con i propri cari, anche in modalità riservate. In secondo luogo, la riduzione al minimo del ricorso all’isolamento, tanto quello giudiziario che quello disciplinare. È nelle celle di isolamento che avviene il maggior numero di suicidi. L’isolamento fa male alla salute mentale e troppe volte in passato ha nascosto abusi e violenze. Vari parlamentari ci hanno risposto dicendosi disponibili a discutere le proposte e a portarle in Parlamento. Ci auguriamo si possa fare in tempi brevi. Ci auguriamo che quando ragioneremo sul bilancio del 2019 questi 65 suicidi saranno solo un drammatico ricordo. Coordinatrice associazione Antigone* Suicidi in cella: 3 negli ultimi giorni. Tra loro il “ladro di merendine” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 dicembre 2018 L’anno ancora non è finito, ma siamo giunti a 66 suicidi nelle patrie galere. È dal 2011 che non ci raggiungeva questo triste record. L’ultimo suicidio è avvenuto il 21 dicembre scorso al carcere di Trento e riguarda El Abidi Sabri, un 32 enne tunisino. Appena è giunta la notizia, una sessantina di detenuti ha inscenato una protesta e una parte di loro sono stati trasferiti in altre penitenziari del Triveneto e dell’Emilia Romagna. Nonostante la calma apparente, i problemi al carcere Spini restano. La direttrice denuncia la mancanza di educatori, psicologi e medici. Lo stesso giorno si è suicidato un altro detenuto, questa volta a Messina. Si chiamava Rosario Martino, ergastolano, e più volte aveva già tentato di togliersi la vita. La perizia psichiatrica, chiesta dalla difesa e disposta nel luglio scorso dal gip distrettuale di Catanzaro nell’ambito del processo in abbreviato nato dall’operazione antimafia “Outset”, aveva tuttavia concluso con la capacità di Martino di partecipare scientemente al processo. Nessun disturbo mentale, quindi, per il perito che non aveva riscontrato crisi depressive o sintomi che potessero preannunciare un suicidio come invece avvenuto ieri sera. Sarà l’inchiesta della Procura ad accertare eventuali errori di valutazione del caso. Alle due morti, quella di Trento e quella di Messina, va aggiunto un altro suicidio sempre in Sicilia. Questa volta nel carcere di Catania Piazza Lanza e si chiamava Daniele Giordano, 47 anni, un ladro di merendine. Sì, perché rubava i prodotti dolciari, tanto da essere stato ribattezzato “serial Kinder”. L’uomo, sottoposto alla sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno, è stato notato da una pattuglia della Squadra Cinofili, mentre si allontanava precipitosamente dal parcheggio di un discount, trainando un carrello della spesa pieno di merende ed era inseguito dal responsabile del supermercato. Aveva appena rubato 68 confezioni di merendine, per un valore complessivo di 200 euro. Rispedito in carcere, si è poi suicidato nel bagno della cella, con un lenzuolo legato alla finestra. L’associazione Antigone lancia l’allarme. Il tasso di suicidi nelle persone libere è pari a 6 persone ogni 100mila residenti. In carcere ci si ammazza diciannove volte in più che nella vita libera. Benché i suicidi dipendano da cause personali che non è possibile generalizzare, è facile immaginare come le condizioni di detenzione possano contribuire al compimento di questo atto estremo. “Più cresce il numero dei detenuti - dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - più alto è il rischio che essi siano resi anonimi. L’alto numero delle persone recluse aumenta il rischio che nessuno si accorga della loro disperazione, visto che lo staff penitenziario non cresce di pari passo, anzi. I suicidi non si prevengono attraverso pratiche penitenziarie (celle disadorne o controlli estenuanti) che alimentano disperazione e conflitti. Né si prevengono prendendosela con il capro espiatorio di turno (di solito un poliziotto accusato di non sorvegliare il detenuto in modo asfissiante). Va prevenuta la voglia di suicidarsi più che il suicidio in senso materiale”. “La prevenzione dei suicidi - prosegue Gonnella - richiede l’approvazione di norme che assicurino maggiori contatti con l’esterno e con le persone più care, nonché un minore isolamento affettivo, sociale e sensoriale. Il carcere deve riprodurre la vita normale. Nella vita normale - sottolinea il presidente di Antigone - si incontrano persone, si hanno rapporti affettivi ed intimi, si telefona, si parla, non si sta mai soli per troppo tempo”. Per questo Antigone ha presentato ai componenti della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica una proposta di legge che punti a rafforzare il sistema delle relazioni affettive, ad aumentate le telefonate, a porre dei limiti di tempo ai detenuti posti in isolamento. “Abbiamo pensato ad un articolato molto breve che, andando a modificare la legge che regola l’ordinamento penitenziario approvata nel 1975, consenta di prevenire i suicidi nelle carceri”, conclude Patrizio Gonnella. Tribunali sorvegliati da agenti penitenziari fino a maggio 2019. Proroga decisa dal Dap di Errico Novi Il Dubbio, 27 dicembre 2018 “Poi toccherà alle guardie giurate”. La questione non è nuova. Riguarda l’uso “improprio” della polizia penitenziaria. In particolare il” dirottamento” di molti agenti, che dal lavoro nelle carceri vengono ormai da anni utilizzati per sorvegliare i varchi d’accesso ai Tribunali. Otto giorni fa una nota interna firmata dal capo del dipartimento Amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini, aveva preannunciato di voler recuperare addirittura già dal 1° gennaio le “risorse umane impiegate in servizi diversi da quelli prettamente istituzionali”, che consisterebbero appunto nella sorveglianza all’interno dei penitenziari”. È di ieri una correzione di rotta sui tempi: la “liberazione” degli agenti dalla vigilanza degli uffici giudiziari ci sarà, ma a partire da “inizio maggio 2019”. Nel frattempo, “d’intesa con il ministro della Giustizia”, lo stesso Basentini valuterà il ricorso a servizi di vigilanza privata per presidiare gli ingressi di Tribunali e Procure. Caso difficile, per uno dei più importanti dipartimenti dell’amministrazione pubblica, quel Dap che da alcuni mesi il guardasigilli Alfonso Bonafede ha affidato a Basentini. Sono in allarme i magistrati, ma anche gli avvocati. Con i primi particolarmente preoccupati per le conseguenze che potrebbero derivare dall’utilizzo di semplici guardie giurate in quei veri e propri crocevia dell’insicurezza che ormai tanti uffici giudiziari sono diventati. L’allarme si è diffuso in pochi giorni soprattutto in una di quelle sedi per le quali l’attenzione del Dap è più elevata, vale a dire la Capitale. È da Piazzale Clodio infatti che verrebbe prelevata una percentuale notevole di quel “centinaio di agenti” la cui attuale anomala destinazione, secondo Basentini, va a “grave discapito alle necessità della polizia penitenziaria, che nelle carceri è sistematicamente vittima di aggressioni e violenze”. Gli altri due epicentri dell’emergenza sono il Tribunale di Napoli e quello di Napoli Nord. Così come a Roma, anche nelle due sedi del capoluogo campano, recitava ancora la nota diramata dal Dap lo scorso 19 dicembre, la situazione attuale “deve cedere il passo alle esigenze di sicurezza e di incolumità del personale che presta servizio negli istituti penitenziari”. Non sembra azzardato dire che la decisione di Basentini, assunta d’intesa con Bonafede, è sollecitata anche dall’impennata del sovraffollamento negli istituti di pena, che rischia in effetti di aggravare le tensioni proprio per lo stato sempre più indegno in cui i detenuti sono costretti a vivere. Ma dall’altra parte c’è il fantasma dell’insicurezza che preoccupa avvocati e soprattutto magistrati, con lo spettro impossibile da scacciar via della tragedia consumata nell’aprile del 2015 al Palazzo di Giustizia di Milano, quando un imputato, Claudio Giardiello, uccise tre persone: il giudice Fernando Ciampi, l’avvocato Lorenzo Alberto Claris Appiani e il coimputato Giorgio Erba. Anche per attenuare questi allarmi, dunque, Basentini ieri ha tenuto a chiarire che “sarà prorogato fino a inizio maggio 2019 il servizio di controllo dei varchi di accesso ai Tribunali italiani da parte di personale di Polizia penitenziaria”. Nel frattempo il capo del Dap e il ministro Bonafede procederanno a “quantificare e valutare l’economicità di una soluzione che preveda l’appalto a servizi di vigilanza privata di tale attività di controllo, nell’ottica di individuare una soluzione univoca per tutti i Tribunali, nonché di recuperare un cospicuo numero di agenti da reimpiegare negli istituti penitenziari per mitigare, almeno in parte, la lamentata carenza di personale”. Sul piano della decisione, l’avvicendamento fra agenti e guardie private pare insomma irreversibile. Così come difficili da scardinare sembrano le perplessità che la scelta continuerà fatalmente ad alimentare. “Lo spazza-corrotti è solo il primo passo, ora avanti col processo penale” di Antonio Pitoni La Notizia, 27 dicembre 2018 Intervista al ministro Bonafede: “Azzerare le distanze tra cittadini e giustizia”. “Far recuperare ai cittadini la fiducia nella giustizia”. Il Guardasigilli, Alfonso Bonafede, sintetizza così lo scopo della sua mission. Il primo passo è già stato fatto con il via libera alla legge spazza-corrotti, assicura il ministro del Movimento 5 Stelle sebbene la strada sia ancora lunga. C’è da assicurare “una giustizia che azzera le distanze” con i cittadini, “anche fisicamente”. Anche attraverso il piano degli sportelli di prossimità. Senza contare la riforma del processo penale e di quello civile. Non è una priorità, invece, la separazione delle carriere dei magistrati. Lo è semmai “quella fra giudici e politici”, spiega il ministro che punta ad eliminare “le porte girevoli” fra politica e magistratura. Progetti ambiziosi, che richiedono tempo. Magari un’intera legislatura. Nonostante in molti siano pronti a scommettere che questo Governo non arriverà alla naturale scadenza della legislatura. Una scommessa che, però, il ministro Bonafede sconsiglia di fare. “Quante volte chi è stato eletto ha completamente messo da parte il programma? Qui invece il programma, il contratto, viene prima delle forze politiche. Siamo nella terza Repubblica”. Il ddl anticorruzione con dentro il daspo ai corrotti è diventato legge. Lo slogan che lo ha accompagnato è stato: “Tratteremo i corrotti come i mafiosi”. Possiamo considerare questo provvedimento come il manifesto programmatico del suo mandato ministeriale? “La legge spazza-corrotti nasce da lontano, dalle battaglie di legalità di Beppe Grillo e del Movimento. Mafia e corruzione sono due facce della stessa medaglia. Oggi come allora riteniamo che la corruzione sia un male che deve essere debellato. Per i suoi risvolti economici, sul mercato interno e gli investimenti esteri, e sociali. Il mio obiettivo come ministro è far recuperare ai cittadini la fiducia nella giustizia, questo è certamente un fondamentale passo avanti in questo senso”. Eppure ci sono voluti tre passaggi parlamentari per cancellare al Senato la norma salva-Lega sul peculato introdotta in prima lettura alla Camera col voto segreto. Evidentemente, tra i vostri alleati, qualcuno aveva piani diversi sull’argomento? “Questo non posso saperlo, perché il voto era segreto, quello che posso dire è che in seguito a questo ‘incidentè la legge è stata approvata ben prima del previsto. Va detto, infatti, che la Lega ha mantenuto la parola e prima di Natale abbiamo approvato la legge. In tutto il percorso della legge Salvini si è dimostrato un partner affidabile”. Dai penalisti sono arrivate critiche contro questo provvedimento, in particolare contro la norma che blocca la prescrizione dopo il primo grado di giudizio. Erano critiche attese? “Sì, per questo abbiamo deciso, anche accogliendo le loro istanze, di farla entrare in vigore a gennaio 2020, il tempo utile a varare la riforma del processo penale, così come d’accordo con la Lega. Già la scorsa settimana ho incontrato il ministro Bongiorno e abbiamo gettato le basi. Mi confronterò con tutti gli addetti ai lavori, ascolterò tutti, poi tireremo la linea”. Meno attese erano, forse, le critiche contenute in un parere del Csm alla norma blocca-prescrizione. Lei nei mesi scorsi aveva detto senza giri di parole che parte delle toghe fa politica: la recente decisione del Csm conferma la sua convinzione? “Rispetto il parere di tutti, figuriamoci quello del Csm. Ho deciso di tirare fuori la giustizia dal pantano in cui la politica l’ha tenuta per vent’anni e resto di questa idea, per cui non faccio polemica. In ogni caso non è vero che i magistrati sono contrari, è stata una delle richieste dell’Anm e i magistrati che ho incontrato mi hanno dato pareri favorevoli”. A proposito di magistratura, il tema della separazione delle carriere tra requirenti e giudicanti si è riproposto ciclicamente, negli anni, nell’agenda politica. Qual è la sua posizione sull’argomento e ritiene che il Governo debba intervenire ed eventualmente in che modo? “Più che sulla separazione delle carriere fra magistrati, farei quella fra giudici e politici: dovremmo eliminare le porte girevoli fra politica e magistratura. Dopo che si è fatta politica non si può tornare a fare il pm o il giudice, la naturale neutralità di cui deve essere ammantato un magistrato viene meno agli occhi dei cittadini”. Dopo la riorganizzazione degli Uffici giudiziari, e il conseguente taglio delle sedi, varata nella passata legislatura, avete avviato la sperimentazione dei cosiddetti sportelli di prossimità per colmare le distanze, anche geografiche, tra cittadini e Giustizia. L’obiettivo è ambizioso, la cura prescritta sarà sufficiente? “Tengo molto al progetto degli sportelli di prossimità, ho detto agli uffici di impegnarsi molto in questo senso con l’obiettivo, un po’ ambizioso, di aprirne mille nel prossimo anno. Il concetto degli uffici di prossimità risponde all’esigenza di una giustizia che azzera le distanze ed è più vicina ai cittadini. Anche fisicamente. L’effetto moltiplicatore dei servizi che possono essere erogati e l’auto-sostenibilità del progetto mi fanno ben sperare. Mi rendo conto che non è sufficiente a rimarginare le ferite ancora aperte lasciate dalla chiusura di tante sedi giudiziarie, infatti ho concesso la proroga a quelle sedi che ancora non erano state chiuse”. Riforma del processo civile: a che punto siamo e che tempi prevede? “Abbiamo delle idee che riteniamo possano incidere in maniera decisiva sulla velocizzazione dei tempi del processo civile, anche su un nuovo approccio al processo. Puntiamo a giungere alla decisione del giudice in pochissime udienze e alla soluzione stragiudiziale di molte controversie. L’obiettivo è presentare la riforma del processo civile e del processo penale entro giugno”. La Manovra è in dirittura d’arrivo. Governo e M5S hanno portato a casa la misura simbolo del proprio programma con il reddito di cittadinanza. Eppure in questi primi mesi di legislatura, i sondaggi hanno registrato una costante crescita della Lega e una flessione del Movimento. Come se lo spiega e la preoccupa? “Sa bene che non abbiamo mai guardato troppo i sondaggi, non cominceremo certo ora. Il Movimento 5 Stelle è impegnato a realizzare quanto promesso, parlano i fatti e sono certo che i cittadini sapranno premiarlo al momento del voto. Ci stiamo occupando dei problemi della gente e del Paese, ciò di cui non si sono occupati i partiti fino a oggi, chiusi a riccio a risolvere i propri di problemi”. Chiusa la sessione di Bilancio inizierà la corsa verso le Europee di primavera. Con quali obiettivi? “L’obiettivo è la creazione di una nuova famiglia europea, sul solco di quelli che sono i principi ispiratori del Movimento 5 Stelle. Ci sono tante forze in Europa che si ispirano a noi, è ora di riunirle tutte insieme per provare a cambiare veramente l’Ue. Un’Europa dei cittadini, un progetto non ha a che vedere né con la destra sovranista, né con la sinistra. Restiamo coerenti con noi stessi”. Vi ritroverete alleati di Governo con la Lega in Italia, ma avversari in campagna elettorale per le Europee… “Anche nelle elezioni locali ci troviamo contrapposti. Il tema è chiaro: il governo è retto da un contratto sottoscritto dai due schieramenti sul livello nazionale. Per il resto ognuno per conto suo”. Secondo l’opposizione e diversi commentatori, le Europee potrebbero segnare la fine dell’Esecutivo. Lei è davvero convinto che il Governo Conte durerà cinque anni e perché? “Io credo nell’innovazione portata dal Governo Conte. Per la prima volta tutti gli impegni di Governo sono scritti nero su bianco e tutti i cittadini possono leggere e verificare in prima persona se quegli impegni sono stati rispettati o meno. Quante volte chi è stato eletto ha completamente messo da parte il programma? Qui invece il programma, il contratto, viene prima delle forze politiche. Siamo nella terza Repubblica”. Marcello Bruzzese, il fratello di un pentito di ‘ndrangheta ucciso a colpi di pistola di Carlo Macrì Corriere della Sera, 27 dicembre 2018 Il 51enne è stato assassinato da due uomini incappucciati mentre parcheggiava l’auto in garage. La vittima era sotto protezione ed era sfuggito a un agguato alla metà degli anni Novanta dove era morto il padre. Ma sulla buca delle lettere c’era il suo cognome. Un omicidio per vendetta o un regolamento di conti? La sentenza di morte contro Marcello Bruzzese apre scenari inquietanti sul versante investigativo e pone l’accento anche sulla tutela e protezione dei familiari dei pentiti. Marcello Bruzzese aveva piccoli precedenti e da quando viveva a Rizziconi frequentava i Crea. A Pesaro era arrivato nel 2008 e svolgeva apparentemente una vita normale. Non aveva un lavoro stabile e qualche anno fa andò via per tornarci di recente. I suoi assassini, forse due, incappucciati, l’hanno atteso in via Bovio, in pieno centro storico. Hanno sparato 30 colpi con una calibro 9, tutti andati a segno. Bruzzese non ha avuto scampo. Alcuni residenti della zona hanno detto di aver udito gli spari, ma credevano fossero petardi. Il pentimento del fratello Girolamo Biagio risale al 20 ottobre 2003, quando si consegnò ai carabinieri di Polistena, dopo aver sparato al boss di Rizziconi, Teodoro Crea, che si salvò nonostante fosse stato colpito alla testa. Girolamo Bruzzese subito dopo l’agguato corse a costituirsi. Le sue dichiarazioni hanno permesso di ricostruire la storia criminale dei Crea: gli assassini compiuti per legittimare la loro posizione e le attività illecite per incrementare, attraverso estorsioni e appalti, la “bacinella” della famiglia. La cosca fu decimata dagli arresti. Girolamo Bruzzese era il killer preferito di Teodoro Crea che considerava comunque il giovane come “uno di famiglia”, “battezzato” con il grado di “camorrista”. Girolamo Bruzzese si convinse a uccidere il suo “padrino” quando questi gli chiese di assassinare esponenti di famiglie di ‘ndrangheta vicini alla cosca Bruzzese. “Non volevo che si scatenasse una nuova faida”, disse all’epoca. La sua famiglia, infatti, si scontrò a colpi di lupara con gli Ascone di Taurianova. Il padre del collaboratore Domenico e suo genero, Nino Modafferi, furono assassinati da Elio Ascone nelle campagne di Cittanova il 7 luglio del 1995. In quell’occasione rimase ferito anche Marcello Bruzzese. A distanza di 36 ore la risposta all’agguato: l’autore del duplice omicidio fu ucciso. Da quel giorno iniziò la latitanza di Girolamo Bruzzese durata otto anni e tre mesi e finita nel 2003. Undici anni dopo l’inizio della sua collaborazione suo suocero, Giuseppe Femia, fu assassinato. Per gli investigatori quell’omicidio fu la risposta dei Crea all’attentato del capo famiglia. L’omicidio di Natale in una città tranquilla come Pesaro ha scatenato le reazioni del mondo politico. Il sindaco della città marchigiana Matteo Ricci (Pd) in un tweet ha duramente criticato il ministro dell’Interno: “Caro ministro Salvini c’è la città di Pesaro sconvolta per l’omicidio di un uomo sotto protezione, fratello di un collaboratore di giustizia. Quando ha finito pane e nutella vorremmo avere qualche informazione e rassicurazione”. Il ministro ha annunciato che oggi sarà in città: “Se qualcuno muore in mezzo alla strada in centro è mio dovere esserci, per analizzare la situazione”. La famiglia di Marcello Bruzzese è stata trasferita in un’altra città. La Procura ha aperto un fascicolo contro ignoti, l’ipotesi è di omicidio premeditato con l’aggravante mafiosa. Si cercano due killer, anche attraverso le immagini delle telecamere di sorveglianza. Le indagini sull’agguato a Marcello Bruzzese sono state estese anche in Calabria. E, in particolar modo, si stanno setacciando gli ambienti vicini alla cosca Crea. Dopo l’arresto di Teodoro Crea, nel 2006, le redini della famiglia sono state prese dai due figli Giuseppe, arrestato due anni fa, e Domenico, latitante da 10 anni. Piazza della Loggia, Maggi se ne va con tutti i suoi misteri di Andrea Priante Corriere del Veneto , 27 dicembre 2018 L’ex leader di Ordine Nuovo stava per compiere 84 anni. Per i giudici fu il regista della strage. Assolto per Piazza Fontana (assieme all’altro veneto Delfo Zorzi), è stato condannato all’ergastolo come mandante per la strage di Piazza della Loggia. È morto Carlo Maria Maggi, che fu capo della cellula veneta di Ordine Nuovo e mandante della strage di Piazza della Loggia. Se n’è andato il giorno di Natale nella sua Venezia, portando forse con sé molti segreti legati alla stagione del terrorismo nero. Sabato avrebbe compiuto 84 anni. Le sue condizioni di salute, da sempre precarie a causa di una neuropatia congenita, negli ultimi decenni l’avevano costretto su una sedia a rotelle. Lascia due figli, Marco e Lorenzo. Laureato in medicina, Maggi esercitò per trent’anni all’ospedale geriatrico Giustinian di Venezia e come medico di base nell’isola della Giudecca. Il suo nome è comparso in diverse inchieste sull’eversione di destra, da Piazza Fontana alla strage di Peteano (rispetto alla quale fu condannato a 12 anni di carcere per reato associativo), fino alle morti di piazza della Loggia. Nel 1988 gli fu anche inferta una condanna a nove anni per ricostituzione del partito fascista. Ma è per le otto vittime della bomba esplosa il 28 maggio del 1974 a Brescia, che - dopo l’iniziale assoluzione per insufficienza di prove - nel 2015 la Corte d’appello lo condannò all’ergastolo come mandante, assieme a uno degli esecutori materiali, Maurizio Tramonte. Sentenza confermata in Cassazione nel 2017, sebbene nel Furono otto i morti provocati dall’ordigno fatto esplodere in piazza della Loggia a Brescia il 28 maggio 1974 frattempo le sue condizioni di salute, ormai compromesse, gli consentirono di evitare il carcere. Per i giudici, il medico della Giudecca “era l’unica figura che, all’epoca dei fatti” aveva a disposizione il carisma, gli uomini, le armi, i canali di approvvigionamento e le complicità tali da organizzare la strage. “Ho sempre creduto alla sua innocenza”, ha ribadito anche ieri l’avvocato che lo difese nel processo, Mauro Ronco, che lo ricorda come “una persona generosa”. Intervistato dal Corriere del Veneto all’indomani del rinvio a giudizio, nel 2008, Maggi si lasciò andare a un lungo sfogo: “Finirà con un’assoluzione perché le accuse sono inconsistenti: il mio nome spunta dalle dichiarazioni di un pentito mentitore come era Carlo Digilio (...) Come si può essere condannati per una cosa del genere? Io non c’entro nulla con queste stragi, è ora di finirla. È una persecuzione che dura da una vita, basta”. A chi gli chiedeva dove avesse sbagliato Ordine Nuovo, rispondeva: “Non ho niente da rimproverarmi e rifarei tutto quello che ho fatto. Perché anche le dimostrazioni di piazza si risolvevano con qualche schiaffone, qualche pugno”. Eppure, per i giudici Ordine Nuovo fu molto di più. Furono le bombe. E la figura di Maggi finì per essere invocata ogni volta che, in un’aula di tribunale, si discuteva dell’epoca in cui le esplosioni insanguinarono l’Italia. Come la strage della Questura di Milano, avvenuta il 17 maggio del 1973: condannato in primo grado all’ergastolo (come mandante) fu poi assolto. Per i giudici “pur dando per scontato che quell’attentato rientrasse nei programmi di Ordine Nuovo” mancò “la prova di apporto personale del Maggi”. Ma il nome del medico veneziano è legato anche ai diciassette morti della strage della Banca Nazionale dell’Agricoltura, in Piazza Fontana a Milano, del 12 dicembre 1969. Nel giugno 2005 la Corte di Cassazione ha stabilito che la strage fu opera di “un gruppo eversivo costituito a Padova nell’alveo di Ordine Nuovo” e “capitanato da Franco Freda e Giovanni Ventura”. Ma nel 2001 per quei morti furono condannati all’ergastolo Delfo Zorzi (come esecutore) e Carlo Maria Maggi come organizzatore. Sentenza ribaltata tre anni dopo, quando i giudici assolsero entrambi lasciando il mistero sui mandanti della strage. “Maggi avrebbe potuto contribuire a disvelare verità complesse su quegli anni di terrorismo, eppure si è sempre rifiutato di farlo”, dice Manlio Milani, presidente dell’associazione familiari vittime della Strage di Piazza Loggia. Dice di provare “grande rispetto di fronte alla sua morte” ma non dimentica le sue responsabilità: “Anziché aiutare questo Paese ad avere risposte, ha preferito portarsi i suoi segreti e i tanti misteri nella tomba. E questo è davvero inaccettabile”. Una scelta dettata, forse, “da un senso del dovere. Del resto, la ragion di Stato ha spesso imposto di coprire, tacere, piuttosto che svelare verità scomode. E lui, Carlo Maria Maggi, pur non essendo un uomo delle istituzioni in senso stretto, vi era legato. Proprio a coloro che questo “disegno” l’hanno sempre coperto”. Il pensiero dei familiari delle vittime della bomba di Brescia, corre a Maurizio Tramonte, 66 anni, ex infiltrato dei Servizi, in carcere a Fossombrone. È lui l’unico colpevole della strage ancora in vita. “È vero, ma ancora non sappiamo chi è l’esecutore materiale dell’attentato”, ricorda Manlio Milani. Resta aperto un nuovo filone d’inchiesta, che porta a due veronesi all’epoca giovanissimi: Roberto Zorzi, da tempo negli Usa (che avrebbe aderito ad Anno zero negli Anni di Piombo) e Marco Toffaloni, che oggi vive in Svizzera. Salerno: detenuto domiciliare teme il rimpatrio, suicida il giorno Natale di Salvatore De Napoli La Città di Salerno, 27 dicembre 2018 Aziz era stato due anni in cella per aver rubato un portafoglio poi ritrovato. A gennaio sarebbe stato libero. Teme di essere espulso dall’Italia e s’impicca. Questo il probabile movente della tragedia di Natale a Brignano, frazione collinare di Salerno. A togliersi la vita un trentasettenne marocchino che era agli arresti domiciliari alla “Domus Misericordiae”. L’uomo era stato detenuto al carcere di Salerno e da metà novembre scorso, per espiare la pena residua, era stato ammesso alla struttura alternativa alla carcerazione gestita da don Rosario Petrone e dai suoi volontari. Massimo entro il 13 gennaio sarebbe stato libero. Ma doveva fare ritorno forzato a casa. La scomparsa. L’extracomunitario era scomparso tra la tarda mattina di Natale e il primo pomeriggio. Autorizzato ad allontanarsi dalla Domus Misericordiae dalle 10 alle 12, alle 13 era stata segnalata alle autorità la sua assenza. In quegli istanti, proprio presso la struttura ospitata in un’ex scuola materna, a pochi metri dalla parrocchia Sant’Eustachio di Brignano, si trovava anche l’arcivescovo Luigi Moretti, che trascorreva il Natale assieme alla comunità di detenuti e non solo. Aziz Alhini, questo il nome del marocchino, da giorni si era sempre più incupito: la notizia dell’avvio delle pratiche per il suo rientro forzato in patria lo avevano profondamente provato. Il trentasettenne, infatti, in Italia si sentiva come a casa, pur non avendo parenti, e la comunità di Brignano era diventata la sua famiglia. Aveva pure guadagnato pochi euro che aveva spedito alla madre rimasta in Marocco. Una sua fuga sembrava improbabile per i gestori della struttura di accoglienza: era prossima la fine della detenzione, la comunità favorisce il reinserimento e soprattutto, non aveva portato con sé denaro, cellulare e sigarette. Avviate le ricerche, nulla era stato trovato nei pressi della chiesa o della scuola dove c’erano tante persone vista la presenza dell’arcivescovo Moretti. Anche l’avvocato Riccardo Fiore, legale dello straniero, non riusciva a comprendere il perché dell’allontanamento. “Doveva beneficiare di una riduzione di pena di tre mesi per buona condotta - ha affermato il difensore - e si aspettava da un momento all’altro la sua liberazione”. In carcere da due anni per un portafogli. Come ricorda l’avvocato Fiore, il 37enne marocchino era finito a Fuorni dopo essere stato condannato per una rapina impropria di un portafogli. Una vicenda dai contorni mai chiariti, commessa poco più di un paio di anni fa a Capaccio dove abitava l’extracomunitario insieme ad un connazionale. Avrebbe potuto beneficiare da tempo di misure alternative al carcere ma non avendo parenti o amici in Italia non sapeva dove andare e quindi era impossibile tenerlo ristretto fuori dai confini carcerari. Quegli anni passati dietro le sbarre per un reato certamente non gravissimo, li aveva trascorsi con grande tranquillità, tanto da meritare anche lo sconto di pena per buona condotta. “A Fuorni ha conosciuto don Rosario, che. come è noto, è anche il cappellano della casa circondariale di Fuorni - e si è aperto un mondo nuovo - ha ricordato l’avvocato Fiore -. Ha avuto così la possibilità di andare alla “Domus Misericordiae” dove si era comportato sempre bene e dove stava bene. Non mi aveva mai confidato momenti di sconforto”. Il ritrovamento. Poco prima delle otto di ieri, un uomo che portava a spasso il suo cane in un’area verde al di sotto della grande piazzola antistante il sagrato della chiesa di Sant’Eustachio di Brignano ha fatto la macabra scoperta. In una rientranza della piazzola, penzolante lungo il muro di contenimento in direzione del cimitero c’era il corpo esamine del povero trentasettenne, probabilmente deceduto da ore. Per impiccarsi con una corda, era entrato nell’area del sagrato, aveva oltrepassato un piccolo parco di giostrine, era andato alle spalle di alcune baracche percorrendo uno strettissimo corridoio che solo chi è del posto conosce, aveva scavalcato la ringhiera e si era lasciato cadere giù da cinque metri d’altezza, morendo sul colpo. Sul posto, poco dopo sono arrivati un’ambulanza, i carabinieri e i vigili del fuoco per recuperare la salma. Le indagini. I carabinieri del maggiore Pietro Paolo Rubbo e del tenente Bartolo Taglietti hanno ascoltato anche alcune persone per ricostruire gli ultimi giorni di vita del marocchino, tra i quali don Rosario. Il sacerdote ha ricordato come l’uomo si fosse particolarmente chiuso in se stesso una volta ricevuta la telefonata della Questura, nei giorni successivi alla festività dell’Immacolata. per il probabile rimpatrio dopo l’espiazione della pena, fino a deprimerlo: chissà cosa aveva affrontato per raggiungere il nostro Paese e cosa significava in termini umani quel rientro forzato in Marocco. Le indagini degli inquirenti stabiliranno il momento esatto del decesso dell’uomo e le cause precise. Trento: rivolta in carcere, gli indagati sono 30 di Dafne Roat Corriere del Trentino, 27 dicembre 2018 Contestati danneggiamento, violenza a pubblico ufficiale e sequestro di persona. Caccia ai “capi” Trasferiti 49 detenuti. Eseguita l’autopsia sul giovane suicida. Danni al vaglio, aree ancora senza luce. Sono trenta gli indagati per la rivolta di sabato scorso nel carcere di Spini di Gardolo. Si indaga per danneggiamento, violenza a pubblico ufficiale e sequestro di persona. Finora sono 49 i detenuti trasferiti in altre strutture, mentre si contano i danni: sono stati distrutti cinque “bracci” su otto. Alcune aree sono ancora senza luce. Si temevano nuove rivolte, altri danni. I detenuti poche volte credono alle promesse, fa parte del loro vissuto. Ma non saranno solo promesse, hanno garantito il nuovo commissario del governo Sandro Lombardi e il questore Giuseppe Garramone che sabato dopo sei ore di trattative sono riusciti a sedare la rivolta. A Spini di Gardolo è tornata la calma, almeno per ora, il Natale è passato anche per loro, i reclusi, ma la sommossa, che ha coinvolto duecento detenuti ha lasciato il segno e ci sarà chi pagherà per quanto accaduto. C’è di dovrà rispondere della devastazione. Sono stati distrutti cinque “bracci” su otto, alcuni sono pesantemente danneggiati altri un po’ meno, sono 49 i detenuti trasferiti fino ad ora. La Procura da sabato sta lavorando senza sosta e ha già identificato una trentina di detenuti, perlopiù di origini tunisine, che sono indagati per danneggiamento aggravato, violenza e minaccia a pubblico ufficiale pluriaggravata, incendio e sequestro di persona. Nel corso della sommossa, quando gli animi erano più surriscaldati e la tensione era alle stelle, alcuni detenuti avrebbero rinchiuso in lavanderia un dipendente impedendogli di uscire da locale. Poi ci sono gli agenti feriti. I detenuti rischiano pene pesanti. Ancora non si sa di preciso chi ha fomentato la rivolta, ma al vaglio della Procura ci sono tre, quattro nomi. L’allarme era scattato nelle prime ore del mattino, poco dopo le otto, quando nel penitenziario si era diffusa la notizia della morte di Sabri El Adibi, il trentaduenne di origini tunisine che si è tolto la vita nella notte tra venerdì e sabato nella sua cella. Un gesto estremo a pochi mesi dalla libertà. La tragedia ha acceso gli animi dei detenuti. Sono stati alcuni connazionali, secondo una prima ricostruzione, a iniziare la sommossa che in pochi istanti ha coinvolto tutti gli altri. È partita dal terzo piano, con piccoli focolai accesi, materassi e suppellettili dati alle fiamme, poi i detenuti hanno alzato il tiro. I danni sono ingentissimi e per il Dipartimento dell’amministrazione finanziaria serviranno mesi per rimettere tutto a posto. Ci sono aree ancora senza luce, servono risorse e tante. È difficile per ora fare una stima dei danni, ma sono molto ingenti. Nei prossimi giorni verrà ultimato l’inventario. Ma non sono solo i danni materiali a preoccupare, la sommossa di sabato ha lasciato segni indelebili, una ferita aperta anche tra chi opera all’interno della struttura, a partire dalla polizia penitenziaria. “Ci sono stati agenti minacciati e feriti” denuncia il sindacato. La nuova sommossa inoltre apre nuovi interrogativi. Proprio la vigilia della sommossa la Provincia aveva deliberato di incaricare l’Osservatorio permanente sulla sanità penitenziaria di predisporre le linee di indirizzo provinciale per la prevenzione del rischio di suicidio rinviando l’approvazione del piano provinciale. Nel frattempo proseguono le indagini anche sulla morte del tunisino, la Procura sta aspettando gli esiti dell’autopsia eseguita la vigilia di Natale. Non ci sembrano esserci dubbi sulla causa della morte, ma la Procura, che ha affidato l’incarico alla dottoressa Alessandra De Salvia dell’Istituto di medicina legale del policlinico di Borgo Roma, ha chiesto approfondimenti per valutare l’eventuale assunzione di stupefacenti. Trento: “Il medico h24 non risolve. Quei suicidi sono disperati, non affetti da patologie” di Dafne Roat Corriere del Trentino, 27 dicembre 2018 I detenuti lamentano carenza di assistenza sanitaria, ma “mettere un medico h24 non risolve il problema”. Claudio Agostini, primario di psichiatria, da 5 anni è in servizio una volta a settimana in carcere: “Un bubbone che una parte della comunità trentina mal sopporta”, afferma. Primario, i detenuti in rivolta hanno lamentato una carenza di assistenza sanitaria. È un problema reale? “Non condivido la visione secondo la quale ci dovrebbe essere una presenza medica h24, non è questo il nodo. Non sono d’accordo neppure sul fatto che quanto sta accadendo sia frutto di psicopatologie non adeguatamente trattate. Il suicidio in carcere non è ascrivibile in prima battuta a patologie, ma alla disperazione che è un insieme di stile di relazioni, livelli di dignità, opportunità rieducative e misure alternative carenti. Sono questioni che attengono a tutta la società civile”. Cosa spinge un detenuto a togliersi la vita a pochi mesi dalla libertà? “La mancanza di una speranza. E in tutto questo anche la magistratura di Sorveglianza deve sforzarsi al massimo e decidere in tempi ragionevoli, ma dovrebbe compiere uno sforzo anche chi lavora dentro il carcere per poter offrire speranza. È una responsabilità trasversale. La maggior parte dei detenuti a Spini sono persone che devono scontare pochi anni, se non vengono promossi dei percorsi rieducativi, non solo il carcere non assolve alla sua funzione, ma si alimenta la disperazione. Ci sono detenuti che devono aspettare mesi per poter lavorare, o per fare una telefonata ai propri congiunti perché il sistema è complicato”. Il carcere di Spini è moderno e nuovo eppure statisticamente a Trento c’è un tasso di suicidi molto più alto che nel resto d’Italia.. “Bisogna partire da chi sono i detenuti, dalla loro storia. La maggior parte ha una biografia segnata, alcuni hanno attraversato il Mediterraneo a bordo di barconi, hanno dovuto arrangiarsi per sopravvivere. Sono degli invisibili e vivono di espedienti che la maggior parte delle volte sono illegali; se dentro il carcere non trovano un’opportunità quando escono ricominceranno a fare le stesse cose. Su questo ognuno deve sentirsi interpellato. Anche i più ottusi, chi è convinto che debbano pagare per i reati commessi, dovrebbero considerare il rischio di reiterazione. Non possiamo lasciarli nell’inferno della solitudine”. Il carcere di Bollate è un esempio virtuoso... “C’è quello e ce ne sono anche altri, è dimostrato che laddove ci sono percorsi rieducativi efficaci i tassi di reiterazione dei reati sono infinitamente bassi”. Perché il carcere di via Pilati, pur fatiscente, era migliore di questo? È una struttura nuova, moderna con stanze più ampie. “Perché non è affatto bello, è alienante. Io lo trovo bruttissimo, freddo, con questi lunghi corridoi grigi, inoltre essendo tutto centralizzato i contatti umani sono rarefatti. È un paradosso, ma quello di via Pilati aveva una dimensione più umana”. C’è anche un problema di radicalizzazione? “È documentato. In carcere si alimenta questo fenomeno, crescono gli affiliati a gruppo estremi. Spero che queste tragedie siano l’occasione per porsi delle domande e fare di più, tutti nel loro ruolo”. Trento: Spini di Gardolo, il carcere-modello rimasto scatola vuota di Tristano Scarpetta Corriere del Trentino, 27 dicembre 2018 Costruita a spese della Provincia, costò 112,5 milioni. Doveva essere un esempio per l’Italia. Nei sotterranei, in via Pilati a Trento, ci sono ancora le celle dell’Impero austroungarico, quelle con un anello di ferro saldamente ancorato al muro. Non che il 21 dicembre 2010 — quando i detenuti vennero trasferiti a Spini di Gardolo - venissero ancora usate, ma anche risalito qualche piano, di modernità se ne avvertiva davvero poca. Eppure, il carcere dei suicidi non era quello vecchio, freddo e angusto. È il carcere modello, quello che se non fosse per le sbarre potrebbe anche sembrare un ospedale. Via Cesare Beccaria, così fu battezzata la strada del nuovo carcere, quello di Spini. Il simbolo dell’illuminismo italiano per un’epoca, quella del dellaismo trionfante, che illuminista era fino al positivismo. Sulle macerie delle galere imperiali, sarebbe sorto il polo della giustizia, una struttura di vetro che avrebbe trasmesso l’idea di trasparenza e luce. In un Paese, l’Italia, dotata di carceri vergognose, la Provincia autonoma accettò di spendere 112,5 milioni per costruire un carcere nuovo, una struttura modello. Così fu. In 4 anni, sorsero 18.000 metri quadrati di superfici coperte per “soli” 244 detenuti, spazio verde, tecnologie all’avanguardia e risparmio energetico. “Si tratta di riempirli di contenuti” commentò l’allora direttrice, Antonella Forgione, riferendosi agli spazi a disposizione. Il finale si discosta dal copione. Il polo della giustizia non è mai nato, bloccato per tutelare il patrimonio storico imperiale. Gli spazi da riempire sono rimasti vuoti per mancanza di personale come vuote di attività e di senso sono le ore degli “ospiti”. Di un modo diverso di scontare la pena è rimasta solo la scatola, la cui efficienza ingegneristica non è sufficiente a salvare dalla disperazione chi passa le giornate ad ascoltare l’eco del vuoto della propria stessa vita. Venezia: Pellicani (Pd) “carcere piccolo, serve una nuova struttura” Il Gazzettino, 27 dicembre 2018 Serve un nuovo carcere che sostituisca Santa Maria Maggiore, troppo piccolo e obsoleto per gli scopi cui è stato realizzato. Il giorno di Natale il parlamentare del Pd Nicola Pellicani è andato in visita al carcere veneziano per sentire le voci di detenuti e personale penitenziario. “Ho trovato una struttura dignitosa, curata, ma decisamente obsoleta che a quasi cento anni, complessivamente inadeguata ad accogliere un carcere. Ho parlato con i detenuti e il personale di servizio, rilevando molti criticità. Si sta riproponendo il tema del sovraffollamento: attualmente sono ospitati 249 detenuti a fronte di 161 posti: 96 sono italiani, mentre i 153 stranieri sono di varie nazionalità”. Ma è soprattutto la situazione del personale ad aver colpito di più il deputato. “Organico ridotto all’osso, gente costretta a fare regolarmente ore in più. E, cosa peggiore, la caserma dove vive parte del personale penitenziario, si trova all’interno della casa circondariale. “È pazzesco - dice - gli agenti sono costretti a vivere come detenuti: sbarre alle finestre e costretti a passare una serie infinita di sbarre per uscire nel giorno libero. È il momento di fare scelte urgenti, visto che questa struttura non è più adeguata, anche per l’impossibilità di offrire occasioni di lavoro ai detenuti (la cui pena non supera mai i 5 anni). Serve - conclude - un nuovo carcere nella Città metropolitana e chiederò con un’interrogazione al ministro della Giustizia che fine abbia fatto il Piano delle carceri e che cosa intenda fare”. Napoli: quelle code della vergogna davanti a Poggioreale di Gennaro Scala Cronache di Napoli, 27 dicembre 2018 Centinaia in fila di notte per incontrare i parenti detenuti. L’ultimo colloquio prima dì Natale. La notte tra il 22 e il 23 dicembre, centinaia di persone l’hanno passala al gelo. Aspettavano, come sempre, di entrare in carcere e poter salutare i propri cari. Una testimonianza dì quelle drammatiche scene clic si ripetono, settimana dopo settimana. come in un loop infernale, l’ha fornita Pietro Ioia, presidente degli ex Don documentando con uno scatto cosa accadeva alle 4 del mattino all’esterno di quello che da sempre definisce come il “mostro di cemento”, ovvero la casa circondariale di Poggioreale. Di sovraffollamento si parla tutti i giorni. Ne parlano le istituzioni, le associazioni, i sindacati. Ognuno nella propria chiave di lettura a volte strumentalizzando il problema. Ma se ne parla anche da dentro. Di sovraffollamento. dentro e fuori, parlano anche gli stessi detenuti. “Si fa presto a scrivere dì sovraffollamento quando non si sa di cosa si sta parlando o di cosa quest’effetto provochi direttamente o indirettamente”. Così inizia la lettera ricevuta poco tempo fa dal nostro giornale da alcuni detenuti del carcere di Poggioreale. Parole scritte al chiuso di una cella, aspettando il giudizio, tra rabbia e sconforto. “Dalla fila che sono costretti ad affrontare i parenti nel giorno dei colloqui (anche fino ad quindici ore)” continua la missiva. Espressioni dure, frutto di esperienze altrettanto difficili che segnano intere vite. Perché se dentro si soffre, fuori non va meglio. Niente cellulari o dispositivi elettronici. Niente liquidi, neppure nelle buste trasparenti. Come all’aeroporto, ma da qui non si parte per nessun luogo. È questo l’inferno delle code per i colloqui all’esterno del carcere dì Poggioreale. Un inferno a cadenza settimanale. “Siamo qui da ieri pomeriggio” racconta una donna. Sul marciapiede sì affollano visi e occhi colmi di rassegnazione e dolore. “Così deve andare, va sempre così”. Il giovedì tocca ai parenti dei detenuti reclusi nei padiglioni Milano e Livorno. “Sì, uno dei giorni peggiori” racconta Antonella. Ha un viso fresco, un trucco leggero. Si è preparata per incontrare il suo fidanzato. “È il mio convivente - specifica - abitiamo a Giugliano”. È una delle tante ragazze che ogni giorno affollano il marciapiede davanti alla imponente struttura di pietra lavica. “Oramai ci conosciamo un po’ tutti, siamo sempre gli stessi... ci ritroviamo ogni settimana e puntualmente assistiamo a scene indegne del vivere civile” specifica. “Quando aprono le porte succede il delirio - racconta un’altra donna. Le persone si accalcano, altre se ne fregano del fatto che noi siamo rimasti in fila un’intera notte... siamo come animali al macello. Qui c’è chi soffre e sta male, malgrado tutto viene a trovare il marito, i figli, i fratelli... e qual è la risposta? Ci abbandonano a noi stessi, senza regole e senza la dignità di persone. Come stanno “dentro”, così stiamo noi fuori... viviamo una doppia condanna”. E c’è chi quella “condanna” la sconta da olire dieci anni. Dolore e rassegnazione. “Vogliamo solo che la nostra dignità non sia calpestata” dice Anna. Lei è in fila per incontrare il fratello. La ‘lunga fila della vergogna” non risparmia nessuno. Neppure chi in quella fila non dovrebbe trovarsi. “Mio figlio è stato trasferito dal carcere di Monza e si trova qui da un mese - racconta un uomo. In quella struttura bastava che esibissi il mio certificato di invalidità per evitare di fare la fila. Qui la cosa pare non abbia rilevanza”. Più avanti, fuori dalla coda mia donna su una sedia a rotelle aspetta paziente che arrivi l’ora dell’apertura. Lei ha una “corsia preferenziale” causa la dalla disabilità. “Sono venuta per incontrare mio marito - racconta. Sta molto male e stiamo cercando dì fargli avere i domiciliari. Chissà se ci ascolteranno”. Accanto a lei, in piedi, c’è un’altra donna. È anziana e acciaccata. Ma all’ingresso si applica la “regola della carrozzella”. Le corsie preferenziali senza la sedia a rotelle “non si applicano”. “Vedrete quello che succede, quando stanno per aprire le porte qua succede l’inferno”. Tutto per poter augurare buon Natale ai propri cari. Bergamo: i Dolci Sogni dei detenuti hanno il sapore del pane fresco di Elena Conti bergamopost.it, 27 dicembre 2018 È stato inaugurato sabato 15 dicembre in via Locatelli, a Nembro. È “Dolci Sogni”, il nuovo bar con laboratorio per la produzione di prelibatezze da forno sia dolci che salate. L’obiettivo è vendere i prodotti realizzati da detenuti del carcere di Bergamo e da persone diversamente abili della Val Seriana. Il bar laboratorio “Dolci Sogni” è nato grazie alla collaborazione tra diverse realtà no profit del territorio, prima fra tutte la cooperativa sociale Calimero di Albino, che già gestisce il progetto “Dolci Sogni Liberi” al carcere di via Gleno. “Siamo partiti quattro anni fa con il forno alla Casa Circondariale di Bergamo - spiega Rosalucia Tramontano, Responsabile Cooperativa Calimero - perché crediamo nel valore generato dall’inserire nel mondo del lavoro persone svantaggiate come chi sta scontando una pena o ha appena finito di scontarla. Inserire queste persone in un contesto produttivo come questo è un modo concreto per entrare a pieno titolo nel sistema sociale che non solo promuove la legalità, ma si occupa anche di prevenzione e recupero. Ai detenuti offriamo la possibilità di partecipare a un’attività lavorativa che consenta loro di acquisire competenze per una prossima emancipazione attraverso il proprio lavoro. La ricetta è semplice: il lavoro al forno “Dolci Sogni Liberi” aumenta l’autostima e la fiducia in se stessi, rafforzando qualità come la puntualità e l’affidabilità e promuovendo l’interazione con le persone”. L’iniziativa ha avuto successo? Eccome. “Sempre più persone richiedevano i nostri prodotti, che vendevamo all’interno di negozi equosolidali dove facevamo anche rifornimento per la materia prima - racconta la responsabile di Calimero - ma non bastava. Da qui l’idea di aprire un punto vendita solo nostro, con annesso un piccolo laboratorio che affiancherà quello già ben avviato nella Casa Circondariale. È aperto non solo a detenuti o ex detenuti, ma anche a persone con disabilità, in particolare che riguardano lo spettro autistico. Prato: dieci anni di teatro nel carcere, nasce una mostra fotografica gonews.it, 27 dicembre 2018 Talking Crap, “Parlare di fesserie”, nasce dallo studio e dalla lettura delle opere di Samuel Beckett che in questi due anni hanno accompagnato il laboratorio di ricerca che Metropopolare conduce all’interno del carcere maschile di Prato, intrecciandosi ad un approfondito lavoro di scrittura di scena. Il riferimento immediato va in particolare all’opera “Krapp’s Last Tape”, L’ultimo nastro di Krapp, da cui la nostra riscrittura prende le mosse per poi spostarsi in un racconto frutto di un confronto continuo tra regista e attore. Il risultato di questo lavoro è una sorta di diario intimo, che prende le mosse dal vissuto raccolto in carcere e dall’opera del grande autore irlandese per poi diventare metafora e riflessione tragicomica sulla fragilità dell’uomo in contrapposizione alla macchina e sulla parola che qui diviene oggetto da graffiare, contenuto da sbeffeggiare, in un rapporto sofferto e pieno di nostalgia per un passato lontano in cui in essa si poteva ancora riporre fiducia. Qui la parola delude e ferisce, e viene per questo martoriata e smembrata, ridotta e declassata a puro suono, a lamento infantile; qui si parla di “fesserie”. Note di regia “Quest’anno la mia avventura con Metropopolare all’interno del carcere maschile di Prato compie 10 anni di attività e inevitabilmente è tempo di bilanci e di ricordi. Mi guardo indietro scoprendo quasi per incantamento quanta strada ho percorso insieme ai miei formidabili compagni di viaggio. Festeggiamo costruendo per la prima volta un monologo, che sia pieno di ricordi, i nostri, quelli miei, quelli dell’attore-autore che lo interpreterà, quelli dei nostri compagni. Ad accompagnarci ed illuminarci in questa impresa, un autore a noi assai caro, Samuel Beckett, la cui lettura sarà stimolo e domanda continua, proprio come solo il teatro e la buona letteratura sanno fare”. Roma: a Rebibbia il pranzo di Natale lo cucinano i detenuti di Stefano Liburdi Il Tempo, 27 dicembre 2018 La torrefazione nel carcere si ferma per un giorno e ospita la “festa”. Reclusi e ospiti ascoltano il sax di Di Battista. Tra i partecipanti anche Frongia. L’aroma di caffè e la calda accoglienza dei detenuti fanno subito dimenticare quel peso fisso sullo stomaco, provocato dal tonfo netto e metallico del blindo all’ingresso del carcere di Rebibbia N.C. mentre si richiudeva alle nostre spalle. Poi un pulmino della polizia penitenziaria, costeggiando il muro di cinta del penitenziario, ci aveva accompagnato al capannone dove c’è la torrefazione. Qui ogni giorno una quindicina di reclusi lavora per produrre il caffè “Galeotto”. Il caffè viene tostato, pulito, fatto riposare per tre o quattro giorni all’interno dei silos, dove finisce di fermentare e infine imbustato. Ma oggi non è un giorno come gli altri, oggi all’interno della fabbrica di caffè, è tutto pronto per il pranzo di Natale. Il Tempo è stato invitato a partecipare insieme a volontari, autorità, personale del carcere e ai detenuti che hanno preparato il cibo e curato ogni minimo dettaglio. Dieci tavoli da 6/7 persone, occupano in maniera ordinata lo spazio centrale del capannone. Sono già apparecchiati e il colore rosso delle tovaglie contribuisce a rendere meno “pesante” un ambiente che con il passare dei minuti diventa sempre più caldo. I detenuti ci accolgono con sorrisi e un calice di prosecco, alcuni passano con dei vassoi colmi di pizza e rustici, naturalmente fatti tra quelle mura. Davanti a noi, l’assessore Daniele Frongia è intento a stringere le mani dei ragazzi e a parlare con Mauro Pellegrini fondatore della Pantacoop, che attraverso il caffè “Galeotto” e altre attività, fornisce lavoro stabile a circa trenta detenuti con punte che arrivano a sessanta unità con i progetti a termine. Accanto a loro, la direttrice del carcere Rosella Santoro e il Garante comunale Gabriella Stramaccioni. Gli invitati prendono posto, noi capitiamo proprio vicino a dei sacchi di caffè che, uno sull’altro, delimitano un palco con un tappeto verde su cui sono piazzati degli strumenti. Mentre arriva la prima portata, un’invitante lasagna ai funghi e tartufo, Pellegrini prende il microfono, dà il benvenuto agli ospiti e annuncia la sorpresa della giornata: ad accompagnare il pranzo di Natale sarà la musica di un artista di fama internazionale come Stefano Di Battista e la sua band. Di Battista comincia a soffiare nel suo sassofono producendo sonorità che fanno subito capire ai presenti che l’esperienza che stanno vivendo difficilmente si potrà dimenticare. Il piano di Andrea Rea accompagna il suono dolce del sax, la batteria di Luigi Del Prete ne scandisce il ritmo e il basso di Daniele Sorrentino lancia note che vibrano fin dentro la pancia degli ospiti. Lucio Dalla, Stevie Wonder, Morricone, Pino Daniele, la musica popolare si fonde nel jazz e invade la torrefazione. Le emozioni sono sempre più difficili da controllare. I ragazzi reclusi a Rebibbia mangiano, parlano e ridono. Per loro è un giorno importante ma stando lì, cominciamo a capire che questo evento può essere ancora più importante per la società esterna entrata in quel luogo solo per poche ore. Il pranzo di Natale prosegue con vitella, patate arrosto e una mousse di crema e pan di Spagna. Naturalmente non manca il caffè. La festa finirà a breve, ma quelle persone che hanno commesso degli errori, rimarranno lì dove ogni giorno è uguale all’altro. Gli operatori ci spiegano come sia importante che la pena non sia solamente punitiva, ma serva a far intraprendere un percorso al detenuto che lo porti al reinserimento nella società civile, esattamente come detta la Costituzione. Dare al detenuto una cultura diversa da quella criminale e una formazione lavorativa, significa ridare dignità alla persona, avere un delinquente in meno nella strade quando la pena sarà terminata e un risparmio in termini economici per lo Stato. A dirlo sono i dati: fra i detenuti accolti in realtà lavorative, meno del 5% torna a delinquere, per chi invece non ha beneficiato di una formazione professionale, il tasso di recidiva supera il 70%. Il concerto, come il pranzo si avvia alla conclusione. Prima però Di Battista chiama a suonare Fernando con la sua fisarmonica. Fernando è un detenuto che scrive musica. “Ha un linguaggio musicale fluido e semplice, - spiega il sassofonista - capace di entrare dentro”. La fisarmonica intona “Libertango” del grande Astor Piazzolla, gli altri strumenti la seguono. I titoli di coda scorrono nella mente di ogni partecipante. I detenuti che ci hanno accolto e curato, sorridono mentre salutano e ora quel blindo che ci “chiude fuori”, fa un po’ meno paura. Le maglie strette del rancore recensione di Marco Revelli Il Manifesto, 27 dicembre 2018 “Nel labirinto delle paure”, un saggio di Aldo Bonomi e Pierfrancesco Majorino per Bollati Boringhieri. Tra politica, precarietà e immigrazione: quando la solidarietà diventa reato e la crudeltà virtù civica Un’opera di Alfredo e Isabel Aquilizan. “Quanto più la paura non trova luoghi sociali di decantazione e di elaborazione emotiva, tanto più tende a trasformarsi in rancore e odio verso l’altro da sé”. Nel labirinto delle paure. Politica, precarietà, immigrazione (Bollati Boringhieri, pp. 159, euro 15) ruota intorno a questo focus ed è il volume - bello e terribile - di Aldo Bonomi e Pierfrancesco Majorino. Un viaggio “di lavoro” dentro il “labirinto del sociale muto” alla ricerca del punto germinale di questa inedita cattiveria che tutti oggi ci colpisce: noi, osservatori che attoniti ci chiediamo cosa mai sia successo; loro, gli oggetti, le vittime di quanto in Europa, nel XXI secolo, non si aspettavano di subire. E forse anche gli altri, gli attori dell’odio, quelli che dopo un lungo ciclo di “italiani brava gente” oggi si ritrovano tra gli haters, irriconoscibili a se stessi nei luoghi che non riescono più a riconoscere, a ostentare come uno straccio di bandiera i propri peggiori sentimenti. Un sociologo di territorio e un amministratore metropolitano, entrambi col gusto delle interrogazioni radicali, s’immergono nel magma sociale che ha sostituito la vecchia società di classe alla ricerca del punto di caduta in cui “il percorso della paura si è fatto rancore e razzismo”. E dal “rovesciamento antropologico” che nell’ultimo ventennio del ‘900 ha trasformato l’Italia da Paese di emigranti in meta di immigrati si è passati all’”inversione morale” di questi tempi ultimi, quando la solidarietà diventa reato e la crudeltà (non più solo l’indifferenza, la crudeltà ostentata) virtù civica, proclamata dai palazzi del governo. Lo cercano, quel punto cieco, testardamente. Con un accanimento che non è solo culturale e scientifico, ma anche etico e politico, sapendo che i vecchi strumenti giacciono a terra inutilizzabili: il “termometro del lavoro”, ormai incapace di dirci la temperatura sociale dopo che il suo oggetto è stato travolto dalla “lotta di classe dall’alto” che ne ha annientato la soggettività e la capacità di far racconto di sé; l’antico “sistema ordinatorio delle classi” dopo che il salto di paradigma del Capitale le ha triturate in un pulviscolo indecifrabile; lo stesso conflitto - il grande “nominatore” dei processi sociali nell’età industriale, ora diventato opaco, persino torbido, fattosi orizzontale, competizione intraspecifica, non più basso verso alto, lavoro versus capitale, poveri contro ricchi, ma forma raggrumata del rancore e dell’invidia sociale indirizzata verso il vicino o, come antidoto, l’inferiore, il più povero, il più marginale, il più “nudo”. E alla fine lo trovano quel punctum dolens, grazie alla consapevolezza che per uscire dal labirinto - o quantomeno per sapersi orientare nei suoi meandri - “occorre avere il coraggio di inoltrarsi nel salto d’epoca”. Esso si chiama “apocalisse culturale” - nel senso usato da Ernesto De Martino, di fine di un mondo, crisi della presenza - ed è il lato oscuro della globalizzazione, quello non raccontato dalle narrazioni apologetiche da fine della storia ma sperimentato da milioni di atomi sociali, fatta di declassamento, dequalificazione dei lavori tradizionali e loro messa fuori corso, erosione del reddito, precarizzazione mascherata da flessibilità, logoramento dei luoghi sotto la spinta sradicante dei flussi, incertezza che si fa paura e, nella solitudine degli individui, psicosi individuale e collettiva. Sarebbe stata necessaria una rete a maglie strette di ammortizzatori sociali, un welfare rimodulato sulla prossimità e la resilienza del legame sociale (un welfare di comunità), una narrativa risarcitoria nei confronti delle vittime di quel terremoto (i loser dimenticati nel racconto dei winner). In sostanza una ridefinizione in chiave post-industriale del vecchio patto socialdemocratico, per tenere insieme “il senso della convivenza e l’utile degli interessi”. Invece niente. Anzi, il contrario, con l’affermarsi del modello feroce dell’austerità, del calcolo micranioso del dare e avere all’insegna dei Guai ai vinti! La narrativa dei vincitori (pochi, al vertice della piramide, sempre più in alto) fattasi norma, anzi grundnorm, costituzione materiale del nuovo mondo “nell’epoca dell’individualismo compiuto e dell’egologia”. E al polo opposto, in basso e in mezzo, il rancore che cresceva, e si faceva odio sociale indifferenziato, riflesso cannibalico di una società lasciata sola. Liquida, come scrive Bauman, di una “liquidità al mercurio” come dice Bonomi, tossica, avvelenata e avvelenante, passata senza quasi accorgersene, senza riflessione politica né allarme sociale, dall’originario istinto all’accoglienza quando ancora all’inizio degli anni ‘90 si profilarono i primi migranti (e Bonomi lo registrò in uno studio pionieristico), alla successiva prevalenza dell’intolleranza e poi alla “xenofobia, al razzismo, alla guerra civile molecolare, alla guerra di civiltà” finché ti ritrovi nel labirinto delle paure. Stretti tra “l’adattivismo senza visione politica” del sociale e il narcisismo predatorio delle élites (quello che in Francia è entrato nel mirino dei gilet jaunes), con in mezzo niente. O quasi. Soltanto un immenso sommerso che non è solo quello del lavoro nero e dell’evasione o elusione fiscale ma è soprattutto il rendersi invisibile di un gigantesco reticolo sociale: “invisibili ai poteri, alle tasse, ai mercati, così confluendo, come detriti, nel fiume dei tanti precipitati nel sommerso della povertà, della società dello scarto e dei dannati della terra, il cui fiume è diventato il cimitero Mediterraneo”. Sono quelli che si era ancora riusciti a tracciare nei successivi cicli di discontinuità, “dal fordismo alla città fabbrica” fino al “postfordismo dei distretti e delle piattaforme produttive” quando ancora si sviluppavano saperi, competenze, conflitti, forme di rappresentanze sociali, economiche, politiche, adeguate ai tempi delle dissonanze, ma di cui poi si sono perse le tracce nel labirinto del “lavoro e dei lavori nell’industria 4.0, del lavoro autonomo di prima generazione che si fa maker, di quello di seconda generazione che si fa partita iva terziaria e di quello di terza generazione uberizzato e messo al lavoro nella dittatura dell’algoritmo”. Caduti gli uni, quelli posizionati sul fronte avanzato del tempo - quelli che dovrebbero “mangiare futuro” - nella crisi della presenza di chi brancola “nel dilagare delle opportunità inafferrabili”; gli altri, quelli che non si riconoscono più in quello che gli era abituale, in un’elaborazione del lutto che “non produce nostalgia consapevole ma depressione disperante”. Sono loro le componenti di una moltitudine che non produce soggettività ma che, anzi, della crisi della soggettività è il prodotto (o il sintomo). In qualche modo la forma. I conflitti cui darà origine, se ci saranno, saranno conflitti ambigui - “sporchi”, nel senso di non limpidi - in qualche misura molto destabilizzanti e poco costituenti. Che tuttavia come segni di vita dovranno essere colti, da chi non si arrende alla dittatura dell’esistente. A noi, che ci chiediamo ogni giorno Che fare, il libro indica la strada del mettersi in mezzo, lavorare a forme di comunità di cura che siano anche operose, innestate nel tessuto della società liquida diventata tossica, per tentare la via della ricostruzione di brandelli almeno di legame ed evitare che tra l’avvelenamento del sociale e il narcisismo del politico resti il vuoto. La rivolta del volontariato contro la tassa sulla solidarietà di Caterina Pasolini La Repubblica, 27 dicembre 2018 Cresce la protesta sul raddoppio dell’aliquota Ires per le organizzazioni non profit. La Comunità di Sant’Egidio, che a Natale ha offerto 60mila pasti ai poveri: un tradimento. “Quella tassa è una vergogna, una patrimoniale sulla solidarietà. Il conto lo pagheranno i più poveri” Sono queste le parole che rimbalzano nel mondo del volontariato. Ogni giorno che passa si allarga la protesta contro la norma nel maxiemendamento che cancella l’Ires agevolata (portandola dall’attuale 12% al 24%) per istituti di assistenza sociale, fondazioni, enti ospedalieri, istituti di istruzione senza scopo di lucro. E che prevede un esborso di circa 120 milioni per il terzo settore. “La Camera dovrebbe ripensarci. Tante attività così non saranno più sostenibili. Temo che si sia sottovalutato l’impatto di questa norma, una sorta di patrimoniale” dice la portavoce del Forum del Terzo Settore Claudia Fiaschi. La decisione del governo tocca 6.220 tra enti, istituti e associazioni: dalla Croce Rossa ai centri di ricerca come l’Ieo e Humanitas, dal don Gnocchi alle federazioni dei disabili, dalle Misericordie alle scuole cattoliche alle piccole onlus che rischiano di finire in ginocchio. Un pezzo importantissimo del mondo dell’impegno a favore dei più bisognosi, fatto da laici e religiosi, che ora - tutti insieme - chiedono al governo un ripensamento. Netto. “Il paese è in crisi e così si aggrava la situazione. Che senso ha cercare le risorse per il sociale prendendole dal mondo della solidarietà che già le mette a disposizione degli ultimi?”, si domanda Luciano Gualzetti della Caritas Ambrosiana che con cinquemila volontari si occupa di 50mila bisognosi. “È brutto questo clima di sospetto, questa idea che c’è chi lucra sulla solidarietà: così si finisce a punire chi se ne occupa in modo trasparente, e soprattutto i meno fortunati”. “Una norma ingiusta, rischia di far sentire traditi dalle istituzioni migliaia di volontari”, dice Roberto Zuccolini portavoce della Comunità di Sant’Egidio che ha messo a tavola il giorno di natale 60mila tra bisognosi e operatori. “Davanti alla crescente povertà è giusto che lo stato intervenga ma stando accanto a chi già aiuta. Questo provvedimento invece va nella direzione opposta”. A dare un’idea di quello che rischia di accadere è Luca Degani, presidente Uneba (raccoglie 350 fondazioni per servizi ai minori, anziani e disabili). “Una realtà come la Girola che con i proventi degli immobili ogni anno garantisce 150 borse di studio per orfani, vedendosi raddoppiare la tassazione da 200mila a 400mila euro, sarà costretta a tagliare: 50 ragazzi non avranno gli studi pagati e un futuro diverso. La Restelli di Rho che gestisce assistenza domiciliare per anziani, ad esempio, avrà 60mila euro in meno da spendere, significa meno assistenza per tutti. E l’associazione Arca che tra le altre attività garantisce 3mila pasti al giorno non potrà più farlo”. E se dal mondo legato alla Chiesa il no all’emendamento è secco, ancor più dure sono state le parole di Giuseppe Guzzetti presidente dell’Acri e di fondazione Cariplo: “Così rubano il futuro ai bambini, con la tassa il settore non profit diminuisce l’attività e chi ne pagherà il conto saranno i più deboli”. A Natale 240mila poveri (60mila in Italia) ai Pranzi di Sant’Egidio Avvenire, 27 dicembre 2018 In 77 Paesi del mondo: dai senza dimora ai migranti arrivati con i corridoi umanitari, ai bimbi delle bidonville sudamericane e africane, si è rinnovata la tradizione iniziata nel 1982. Oltre 240 mila persone in 77 Paesi del mondo, 60 mila in Italia, hanno partecipato ieri ai Pranzi di Natale con i poveri di Sant’Egidio. A partire dalla basilica di Santa Maria in Trastevere, dove questa tradizione è stata avviata nel 1982 con un piccolo gruppo di anziani che altrimenti, il giorno più bello dell’anno, sarebbero rimasti soli, la Comunità è riuscita a far sedere tanti, diversi tra loro, alla stessa tavola: dai senza dimora ai rifugiati venuti con i corridoi umanitari in Europa, ai bambini di strada e ai minori in difficoltà delle grandi bidonvilles dell’Africa e dell’America Latina. Nel Natale del cinquantesimo anniversario di Sant’Egidio, sono state coinvolte un centinaio di grandi e piccole città italiane tra cui Roma, Napoli, Genova, Messina, Milano, Bari, Firenze, Torino, Novara, Padova, Catania, Palermo, Trieste, Reggio Calabria. “È un popolo in cui chi aiuta si confonde con chi è aiutato - ha commentato il presidente della Comunità, Marco Impagliazzo, una grande famiglia in cui c’è posto per tutti. La larga partecipazione di quest’anno dimostra che è possibile rispondere alla cultura della rassegnazione e della chiusura, che a volte sembra dominante, restituendo a tanti la speranza di un futuro da costruire insieme”. Webeti, cyberbulli e politici arroganti, l’Italia in rete di Arturo Di Corinto Il Manifesto, 27 dicembre 2018 Aggressioni verbali e minacce nei social, quando si scambia la libertà d’espressione con la libertà d’insulto. Dopo Jamal Khashoggi un altro giornalista saudita, Turki Bin Abdul Aziz Al-Jasser, è morto. Rintracciato dal suo account anonimo su Twitter, era stato torturato per aver denunciato le violazioni dei diritti umani in Arabia Saudita. Nei paesi autoritari si muore per essersi permessi di esprimere, in quelli democratici si abusa della libertà d’espressione. In Italia aumenta ogni giorno il numero di chi si rende colpevole di fenomeni di cyberbullismo, cyberstalking, hate speech, revenge porn. Solo nel 2017 i casi conclamati di cyberbullismo sono stati 354. Pochi giorni fa i reati degli aguzzini di Carolina Picchio, quattordicenne suicidatasi per le offese ricevute sui social dopo la diffusione di un video imbarazzante, sono stati dichiarati estinti. La legge del 2017 sul cyberbullismo, gli interventi del Garante per la privacy, le campagne di comunicazione non sembrano bastare. I social network continuano a calamitare la rabbia e l’aggressività repressa di chi si sente defraudato di qualcosa da qualcuno. I bersagli preferiti rimangono i politici, i professori, i giornalisti, chiunque incarni l’autorità o una presunta élite. Complice l’immobilità sociale, la crisi economica, l’incapacità di comprendere fenomeni globali come l’immigrazione, la rabbia esplode cercando bersagli a casaccio. Aiutati da un atteggiamento antiscientifico, un vasto sentimento anticasta, comizi online basati sul vaffanculo, e una profonda ignoranza di come funzioni davvero il Web, molti, troppi, pensano che sulle reti sociali si possa dire di tutto. Così al riparo di un presunto anonimato si confonde la libertà d’espressione con la libertà di insulto e il matematico Piergiorgio Odifreddi diventa uno pseudo-intellettuale, Gianni Riotta un bufalaro, Laura Boldrini una donnaccia e il virologo Burioni un mercenario. Tanto per fare degli esempi. Spesso sono gli stessi parlamentari della Repubblica a fare post e commenti sopra le righe. Salvini ha riciclato ed esasperato la critica renziana ai gufi e ai professori mentre Di Maio e Di Battista hanno promosso i giornalisti a “puttane, pennivendoli, infimi sciacalli”. Con questi esempi non ci si può aspettare che il popolo bue dotato di smartphone possa rinunciare a esprimere con minacce e male-parole un disagio che andrebbe curato nei consultori. Facebook, Twitter, Instagram, sono progettati per farci reagire in maniera emotiva e, quando non si hanno molte occasioni di confrontarsi e di ragionare, l’impulso a litigare sui social durante la guardia al capannone, l’attesa del cliente che entra in negozio, tra un’email di lavoro e un’altra, fa uscire fuori il lato peggiore di noi. Pensando di condizionare il dibattito sui social, colpevolmente usati come fonte d’informazione dai media tradizionali, si arriva a manifestazioni estreme, augurando perfino la morte dell’interlocutore. Ma c’è un però. Nessuno è al di sopra dalla legge che, se vuole, ha tutti gli strumenti per indagare e sanzionare chi, abusando della libertà della Rete, è autore di comportamenti grossolani che sfociano in reati veri e propri. Però non basta. E non è solo per le lentezze, i costi e le contraddizioni della giustizia nostrana. La soluzione è la cultura. In Italia, seconda in Europa per analfabeti funzionali, penultima nella classifica dei laureati, con basso indice di lettura di libri e giornali, bisogna trovare un’altra strada. Un primo tentativo lo hanno fatto le Biblioteche di Roma con la Polizia di Stato e il Cini, trasformando la biblioteca Marconi della capitale in un centro di divulgazione su privacy e sicurezza informatica. Chissà che non diventi un modello. Il ritiro Usa dalla Siria complica tutto (anche per Israele) di Davide Frattini Corriere della Sera, 27 dicembre 2018 Netanyahu deve adesso gestire isolato la situazione dall’altra parte del confine. Una della basi militari dove sono dispiegate le forze speciali statunitensi è quella di Tanf nel sud della Siria: è la presenza degli americani che ha impedito ai Pasdaran di creare un corridoio tra l’Iran, l’Iraq, la Siria e il Libano. La campagna elettorale di Benjamin Netanyahu è cominciata tra i fedelissimi. Nei corridoi della Knesset ha illustrato ai deputati del Likud quali suoi pregi (ri)vendere agli israeliani da qui al voto del 9 aprile. Il primo ministro ha spiegato di voler conquistare il quinto mandato anche vantando l’amicizia con Donald Trump. Il rapporto confidenziale è di sicuro ricambiato, ma il presidente americano è un partner volubile, propenso a prendere decisioni geostrategiche nel giro di una telefonata. È andata così con l’ordine di ritirare le truppe dai deserti della Siria, retromarcia affrettata che ha portato alle dimissioni dell’ex generale Mattis da capo del Pentagono e a un calo nella fiducia da parte degli israeliani verso l’amico americano di Netanyahu. Che adesso deve gestire isolato la situazione dall’altra parte del confine. Una della basi militari dove sono dispiegate le forze speciali statunitensi è quella di Tanf nel sud della Siria: è la presenza degli americani che ha impedito ai Pasdaran di creare un corridoio tra l’Iran, l’Iraq, la Siria e il Libano. Senza quell’avamposto gli israeliani si sentiranno costretti a intervenire ancora di più per impedire il trasferimento di armamenti iraniani all’Hezbollah libanese attraverso la Siria. Com’è successo con il bombardamento nella notte tra martedì e mercoledì alla periferia di Damasco. L’abdicazione di Trump a mantenere gli anfibi sul terreno e un ruolo nella partita mediorientale lascia Vladimir Putin come Zar unico della contesa. Il paradosso è che la presenza americana a Tanf serviva anche a lui per premere sui generali iraniani. Adesso il leader russo dovrà trovare altri mezzi per convincere gli ayatollah a ridurre le operazioni e per moderare le sortite aree israeliane. Potrà farlo da solo decidendo le carote da offrire e soprattutto i bastoni da brandire. Stati Uniti. Un bimbo di otto anni muore al confine. Trump: avanti col muro di Paolo Mastrolilli La Stampa, 27 dicembre 2018 Felipe era arrivato dal Guatemala con il padre. È deceduto la notte di Natale, Felipe è morto alle 23 e 48 minuti della notte di Natale. E anche senza scivolare nella retorica del paragone col bambino che invece era nato 2018 anni fa nella mangiatoia di Betlemme, definito un “rifugiato” dalla deputata democratica Ocasio, è evidente che la crisi dei migranti sta diventando il banco di prova della democrazia americana. Perché, da una parte il presidente Trump insiste sulla richiesta di costruire il muro lungo il confine col Messico, deciso a continuare la serrata del governo federale fino a quando non otterrà i fondi, perché metà delle sue possibilità di rielezione nel 2020 dipendono da questa promessa. Dall’altra, l’opposizione lo sfida, per ragioni umanitarie come quelle gridate dalla tragedia di Felipe, ma anche perché piegare il capo della Casa Bianca su questo punto significherebbe indebolirlo e forse iniziare a sconfiggerlo. La detenzione - Felipe Alonzo Gomez era nato otto anni fa in Guatemala, e il 18 dicembre scorso era stato arrestato dallo US Customs and Border Protection, dopo aver attraversato illegalmente il confine con il padre nella zona di Paseo del Norte. Secondo il rapporto del Cbp, alle 16,30 del pomeriggio erano stati detenuti nel centro locale per le gestione dei migranti, dove avevano ricevuto cibo caldo, snack, succo di frutta e acqua. Gli agenti avevano controllato sei volte le loro condizioni. Giovedì erano stati trasferiti alla stazione di El Paso, dove erano rimasti due giorni, e domenica erano arrivati nel centro di Alamogordo, New Mexico, per completare la registrazione. Lunedì mattina il bambino aveva dato i primi segni di malessere, ed era stato portato al Gerald Champion Regional Medical Center di Almogordo. I sanitari avevano fatto l’esame per lo streptococco, ma lo avevano dimesso diagnosticando un raffreddore e prescrivendo il Tylenol. Poi però avevano notato che la febbre era salita a 103 gradi Fahrenheit, quasi 40 Celsius, e quindi gli avevano dato antibiotici e Ibuprofen. Padre e figlio erano stati riportati in un centro di detenzione, dove il bambino aveva ingerito medicine verso le 17. Alle 19 aveva vomitato, ma il padre aveva declinato ulteriore assistenza medica. Alle 22 Felipe era diventato letargico, e quindi lo avevano riportato all’ospedale. Lungo la strada aveva vomitato ancora e perso conoscenza. All’arrivo i medici hanno tentato di rianimarlo, ma non ci sono riusciti, e dodici minuti prima della mezzanotte lo hanno dichiarato morto. I suoi sintomi sono stati simili a quelli di Jakelin Caal, bambina guatemalteca di 7 anni morta l’8 dicembre scorso sempre mentre era detenuta dalle autorità americane, e questo fa nascere il sospetto di una possibile epidemia, o di una mancanza di assistenza ripetuta. Il deputato democratico del Texas Joaquin Castro, che ha rivelato l’identità di Felipe, ha commentato che “molte domande restano senza risposta, inclusa quella di quanti bambini siano morti mentre erano nella custodia del CBP”. Centotrenta ore - La legge prevede che i piccoli non possano essere detenuti per più di 72 ore, ma Gomez lo è stato per almeno 130 ore, sfruttando l’abituale pratica di trasferirli da un centro all’altro per non superare mai le 72 ore ed essere costretti al rilascio. Il CBP ora ha ordinato la revisione della salute di tutti i bambini detenuti, ma nessuno conosce il numero esatto, potrebbero essere migliaia. La tragedia di Felipe assume un inevitabile peso politico, perché è avvenuta proprio mentre cominciava lo shutdown del governo voluto da Trump, per costringere i democratici a stanziare i 5 miliardi richiesti e cominciare la costruzione del muro. Lui dice che serve a frenare gli illegali e il narcotraffico, e sostiene che la linea dura scelta vuole essere anche un deterrente per prevenire questi drammi: “Il governo - ha detto a Natale - resterà chiuso fino a quando non mi daranno i soldi”. La prossima Speaker della Camera, Pelosi, ha risposto che il muro non serve a nulla, oltre ad aiutare la sua propaganda, anche perché 700 miglia di barriera sono già state costruite nelle zone più esposte. Su questa sfida si giocherà buona parte della presidenza Trump, ma anche dell’immagine degli Usa nel mondo. Tunisia. Rivolta nelle città dopo il suicidio in diretta del giornalista precario di Sara Volandri Il Dubbio, 27 dicembre 2018 Scontri con la polizia e decine di arresti. C’è un clima in Tunisia che ricorda quello infuocato del 2011, poco prima che scoppiasse la Rivoluzione dei gelsomini che fece rotolare il regime di Ben Alì e innescò il domino delle Primavere arabe. E l’antefatto, tragico, sembra un sinistro copia- incolla a distanza di sette anni; se all’epoca ci fu il suicidio del commerciante Mohamed Bouazizi che si diede fuoco davanti alla sede del governatorato di Sidi Bouzid per protestare contro il sequestro della propria merce da parte delle autorità, stavolta il “protomartire” della rivolta potrebbe essere Abderrazak Zorgui, il cameraman 32enne precario che la vigilia di Natale sulla piazza dei Martiri di Kasserine si è cosparso di benzina e poi si è incendiato per protestare contro la disoccupazione. Anche se la transizione democratica del paese nordafricano è l’unica che si è compiuta nel mondo arabo post 2011, la crisi sociale continua a mordere la socità tunisina dove aumenta la povertà e l’esclusione. E naturalmente la rabbia, specialmente da parte delle giovani generazioni che non vedeono alcuna prospettiva. Dopo l’ondata di proteste e scontri che proprio dalla città al confine con l’Algeria si sono allargati anche a Tunisi, c’è stato il primo arresto per la morte del reporter. Le ipotesi vanno dall’omissione di soccorso all’istigazione al suicidio e all’omicidio, capi d’imputazione abbastanza sommari. Nel paese sta invece dilagando la contestazione ispirata dall’immolazione del reporter di Telvza Tv che aveva postato su Facebook un appello ai disoccupati della regione a scendere in piazza per reclamare il loro diritto al lavoro e ad un futuro migliore. A Tunisi sono state arrestate decine di persone negli scontri con le forze di sicurezza, ha reso noto il ministero dell’Interno. Altre 13 persone sono state fermate a Kasserine e cinque a Tebourba, 30 chilometri a nord della capitale, durante le manifestazioni notturne di protesta. A Foussana, sempre nell’area di Kasserine, i manifestanti hanno lanciato pietre e bottiglie molotov contro la sede del distretto di polizia locale e costretto le forze dell’ordine ad usare gas lacrimogeni per disperdere i più facinorosi. Prima di darsi fuoco, Abderrazak Zorgui ha accusato il governo tunisino di trascurare Kasserine con il pretesto della lotta al terrorismo nella regione. Il sindacato nazionale dei giornalisti tunisini (Snjt) ha minacciato uno sciopero generale e ha accusato lo Stato di contribuire a trasformare il settore dei media in un “focolaio di denaro sporco che serve interessi particolari senza controllo e senza rispetto per leggi e normative sul lavoro”. La Tunisia deve ancora fronteggiare una grave crisi economica e sociale gravissima, con la disoccupazione giovanile al 35% e una corruzione diffusa nella pubblica amministrazione. Il governo ha recentemente ottenuto un prestito di due miliardi e mezzo al FMI, ma in cambio ha dovuto garantire una serie di riforme nel segno dell’austerità. Un copione già noto che non promette nulla di buono. Sudan. Dilaga la protesta sociale, la polizia spara sui manifestanti Il Manifesto, 27 dicembre 2018 Secondo il rapporto dell’ong sono “almeno 37” i morti negli scontri partiti da Atbara. Neanche il mandato d’arresto della Corte penale internazionale aveva impensierito tanto Omar al Bashir. Il presidente sudanese, al potere da quando, 29 anni fa, rovesciò da colonnello il governo di Sadiq al Mahdi (e che però ancora nel 2015, alle ultime elezioni, si è “democraticamente” riconfermato con uno schiacciante 94,5%), si trova a fronteggiare una rivolta sociale senza precedenti partita dalla città di Atbara una settimana fa, che quotidianamente occupa le strade anche nella capitale Khartoum. La dura reazione della polizia anti sommossa ha provocato fin qui 12 morti “ufficiali”, cifra che Amnesty lunedì rettificava in “almeno 37”. Il bilancio degli scontri che ancora ieri infuriavano intorno al palazzo presidenziale, con uso di gas lacrimogeni e pallottole “a salve”, è fermo al momento in cui scriviamo a “decine di feriti”. Le rivendicazioni sono principalmente economiche: aumenti dei generi alimentari (triplicato il prezzo del pane) e della benzina al posto delle riforme promesse e neanche mai illustrate da al Bashir. “Le masse hanno capito che c’è una forte relazione tra economia e politica” ha detto Sidki Kabilo del Partito comunista sudanese a al Jazeera. Un fronte di opposizione mai così unito, che comprende i sindacati e gli islamisti moderati del partito Umma, punta ormai apertamente a rovesciare il regime. Giappone. Eseguite altre due condanne a morte, 15 in tutto dall’inizio dell’anno Nova, 27 dicembre 2018 Due detenuti condannati a morte sono stati giustiziati in Giappone nella mattinata di giovedì, stando a fonti giudiziarie citate dall’agenzia di stampa Kyodo. Le due esecuzioni portano a 15 il totale delle condanne a morte eseguite in Giappone nel 2018; dall’inizio del mandato del premier Shinzo Abe, nel 2018, sono state eseguite in tutto 36 condanne a morte. I nomi dei due detenuti la cui condanna è stata eseguita giovedì non sono noti, ma stando alle fonti l’esecuzione è avvenuta per impiccagione a Osaka. All’inizio di questo mese la Dieta ha istituito un gruppo per discutere il futuro della pena di morte nel paese, cui partecipano circa 50 deputati di maggioranza e opposizione. Le autorità giudiziarie hanno eseguito a sorpresa il 6 luglio scorso la condanna a morte di Shoko Asahara, il fondatore della setta religiosa giapponese Aum Shinrikyo, riconosciuto come il mandante dell’attentato con il gas sarin alla metropolitana di Tokyo. L’attentato del 20 marzo 1995 aveva causato la morte di 13 persone e l’avvelenamento di altre 6.200. Il 63enne Asahara è stato giustiziato tramite impiccagione assieme a sei dei suoi seguaci, anch’essi condannati a morte per l’attentato di Tokyo, un attentato analogo a Matsumoto e altri omicidi e reati commessi nell’ambito della setta, che in tutto hanno causato 29 vittime. Le autorità giapponesi, frattanto, hanno aumentato la vigilanza sull’organizzazione nata dalla costola di Aum Shinrikyo, “Aleph”. Asahara era stato arrestato nel maggio del 1995, due mesi dopo l’attentato alla metropolitana di Tokyo. La condanna a morte è stata pronunciata in via definitiva nel 2004. Le esecuzioni sono avvenute senza preavviso per i condannati e per l’opinione pubblica, come da pratica consolidata in quel paese. Cina. L’avvocato dei diritti processato dal regime di Victor Castaldi Il Dubbio, 27 dicembre 2018 Alla sbarra Wang Quanzhang, storico difensore di oppositori e dissidenti. Il processo che si è aperto a Tianjin contro uno dei più noti avvocati per i diritti in Cina, Wang Quanzhang è in un certo senso emblematico di quanto i protagonisti del diritto alla difesa siano tra i principali bersagli dei regimi illiberali in tutto il mondo. Anche il fatto che la prima udienza si tenga durante la pausa natalizia quando molti diplomatici occidentali non sono a Pechino non è casuale e rivela una malcelata malafede da parte delle autorità che da una parte esercitano una forte repressione nei confronti della dissidenza politica ma dall’altra non vogliono puntare i riflettori su dei sistemi condannati dalla gran parte dei suoi partner internazionali. Arrestato nel luglio 2015, durante una maxi-operazione di polizia che ha portato all’arresto di circa 250 persone tra avvocati e attivisti dei diritti civili in Cina, Wang è stato accusato di “tentata sovversione dell’ordine statale” nel 2016, un capo d’imputazione vago e generico riservato a chiunque aiuti gli oppositori politici anche se in modo perfettamente legale come può essere la difesa di un imputato in un processo penale. L’avvocato Quanzhang lavorava per lo studio legale Fengrui, al centro della repressione del 2015 e noto per avere accettato casi sensibili e molto conosciuti anche all’estero: lo stesso Wang aveva rappresentato legalmente diversi attivisti politici e, in passato, anche membri della setta religiosa del Falun Gong, messa fuori legge in Cina dal 1999. L’accesso al tribunale dove si tiene il processo è stato impedito anche alla moglie dell’avvocato, Li Wenzu, che chiede libertà per il marito e lancia un appello alla comunità internazionale. “Mio marito è innocente”, ha detto Li, all’uscita dal palazzo in cui abita a Pechino, nelle prime ore del mattino, dove ha trovato circa venti agenti di polizia ad attenderla. “È stato arrestato illegalmente e detenuto per tre anni e mezzo. In questo periodo le autorità hanno continuato a violare la legge, e vietare agli avvocati di vederlo. Lo hanno privato dei suoi diritti più elementari”. La donna ha scritto su Twitter, lunedì scorso, di avere conosciuto solo all’ultimo momento la data del processo al marito, che, come è avvenuto in altri casi di questo tipo, si potrebbe concludere in un giorno solo, in attesa della sentenza, pronunciata peraltro in seguito. Qualcosa di davvero inconcepibile per chi agisce nella cornice dello stato di diritto. Un agente di polizia giudiziaria si sarebbe offerto di portare a Tianjin sia lei che la moglie di un altro avvocato detenuto con lo stesso capo di accusa, avvertendole, però, che il processo non sarebbe stato aperto al pubblico. Nei giorni scorsi, le mogli di quattro avvocati detenuti da 2015, tra cui la stessa Li, hanno manifestato la loro protesta per il trattamento a cui sono sottoposti i mariti, radendosi il capo in un parco a Pechino, gesto che ha attirato l’attenzione dei media nonostante il clima di censura che aleggia costantemente in Cina. “Possiamo vivere senza capelli, ma non senza legge”, hanno denunciato, sfruttando l’assonanza delle parole “legge” e “capelli” nella lingua cinese. Non è la prima volta che il processo nei confronti di un attivista si tiene in questo periodo dell’anno in cui diversi diplomatici e osservatori sono fuori dal Paese per il periodo natalizio: era già successo nel 2009, quando il giorno di Natale, l’attivista per i diritti in Cina, Liu Xiaobo, era stato condannato a undici anni di carcere. Liu è morto lo scorso anno, dopo la scarcerazione, ma non in regime di libertà, dopo avere ricevuto il premio Nobel per la Pace nel 2010, un riconoscimento di estrema importanza che ha messo in grande imbarazzo le autorità di Pechino. Sempre lo scorso anno, il giorno dopo Natale venne condannato a otto anni di carcere l’attivista per i diritti umani Wu Gan, sempre con l’accusa di “tentata sovversione dell’ordine statale”.