“Per fare giustizia bisogna accorpare e depenalizzare” di Claudio Laugeri La Stampa, 26 dicembre 2018 Le ricette del Procuratore generale e del presidente della Corte d’Appello di Torino. L’attività è rallentata dalla carenza cronica di togati e amministrativi. Cause arretrate. Rischio prescrizione. Difficoltà di personale. Strutture inadeguate. Nel distretto di Corte d’Appello di Piemonte-Valle d’Aosta, la Giustizia è in affanno. Come nel resto d’Italia. La soluzione? Il procuratore generale Francesco Saluzzo non ha dubbi: “Bisogna proseguire con l’accorpamento dei tribunali”. Sa che le sue parole potranno sollevare polemiche, come è avvenuto in altre occasioni. Ma questo non gli ha mai impedito di esprimere il proprio pensiero. I progetti La linea è quella tracciata dalla riforma voluta dall’ex ministro Andrea Orlando, che aveva già portato a chiudere vari tribunali in Piemonte. Il distretto di Corte d’Appello comprende anche la Valle d’Aosta, “ma quella è una Regione autonoma”, prosegue Saluzzo. E ha già un’idea sulla mappa del distretto che vorrebbe. Sette tribunali, compresa Torino: “Novara e Biella potrebbero essere uniti a Vercelli, in posizione più centrale rispetto agli altri due. Ivrea dovrebbe ricadere sotto Torino, anche perché deve coprire una zona sovradimensionata rispetto alle forze a disposizione”. Effetto proprio dell’ultimo accorpamento della “legge Orlando”. Nel suo disegno, resterebbero aperti tutti gli altri. Compreso il tribunale di Verbania. “È piccolo, ma lontano. Non possiamo costringere la gente a viaggiare due ore per far valere i propri diritti”, aggiunge. In questo modo, il procuratore generale è convinto che sia possibile abbattere “il tasso di prescrizione. Siamo vicini al 30 per cento, considerando le cause che finiranno in quel modo nel giro di tre anni”. “Ogni prescrizione è una sconfitta per la Giustizia”, aggiunge il presidente della Corte d’Appello, Edoardo Barelli Innocenti. A lui e ai colleghi è toccata la corsa contro il tempo, per erodere la montagna di arretrato. “Nel 2016, c’erano 22 mila e 900 fascicoli pendenti. A giugno di quest’anno siamo arrivati a 17 mila e 700”, spiega. Ma i processi sono comunque tanti. E lui è convinto che la soluzione sia nella “depenalizzazione di molti reati. Quel tipo di sanzione deve essere riservata ai reati più gravi”. Poi, ci sono i problemi di organico, certo. Cambiando l’organizzazione, ha ridotto le sezioni da quattro a tre, “ma a pieno organico, in modo da velocizzare i processi”. I risultati gli hanno dato ragione. Le soddisfazioni maggiori arrivano dal settore civile: “È un po’ la nostra punta di diamante. Arrivano avvocati da fuori distretto e ci raccontano di udienze fissate per “precisazioni e conclusioni” (ultimo atto del processo civile, ndr) per il 2023-24, da noi le date arrivano al 2020”. “Qualche problema c’è anche nel civile, ma può essere risolto”, dice Michela Malerba, presidente dell’Ordine degli avvocati di Torino. Ancora: “Il processo civile telematico andava bene, ma da qualche tempo ci sono rallentamenti nelle assegnazioni dei giudici e poi per l’emissione dei decreti ingiuntivi. Attese anche di due mesi, prima in meno di una settimana era tutto risolto”. Per gli avvocati, poi, la prescrizione “non è una manna. Difendiamo gli accusati, ma anche le parti offese. Il sistema necessita di riforme, ma vorremmo che fossero studiate da tutte le toghe, magistrati, giudici e avvocati. Senza bandiere politiche, soltanto un confronto tra persone che vogliono far funzionare la Giustizia nell’interesse di tutti. A Torino, questo confronto c’è e mi sembra positivo”. Per avvicinare la gente alla Giustizia, l’Ordine ha avviato varie iniziative: “Abbiamo aperto uno “sportello” per le persone offese e uno lo sarà a breve per informare sul “diritto antidiscriminatorio”. Mettiamo a disposizione la nostra esperienza, gli avvocati che lo faranno non potranno prendere come clienti le persone conosciute in questo modo. Non è questione di fare soldi, bisogna diffondere la cultura della legalità”. La giustizia sotto l'albero di Valeria Zeppilli studiocataldi.it, 26 dicembre 2018 Per assaporare lo spirito delle feste, diamo un'occhiata alle più simpatiche sentenze a tema natalizio. Attenti alle renne in giardino - Per caso, per rendere originale il proprio Natale, qualcuno ha pensato di mettere una renna in giardino? Bene: forse è il caso che decida di tornare sui propri passi. Con la sentenza numero 50137/2018, infatti, la Corte di cassazione ha affermato che, a prescindere dalla concreta pericolosità e dall'effettiva nocività dell'animale, detenere una renna costituisce un pericolo per la salute o la pubblica incolumità, anche se la custodia è fatta con tutte le premure. La detenzione non autorizzata di animali selvatici costituisce reato di pericolo presunto, punito dall'articolo 6 della legge numero 150/1992 con l'arresto fino a sei mesi o con l'ammenda da 15mila a 300mila euro. Attenzione a rivelare che babbo Natale non esiste - Anche rivelare a un bambino che banno Natale non esiste può far adirare i genitori, con conseguente denuncia penale. Lo sa bene un operatore di call-center, il cui comportamento è giunto qualche anno fa sui tavoli della questura: a non essere andato giù a mamma e papà è stato il turbamento del bambino che, rispondendo al telefono della propria abitazione, si era sentito dire dal suo interlocutore: “Marmocchio, passami la mamma o vengo a prenderti. E, comunque, Babbo Natale non esiste”. Vietato minacciare che la Befana non porterà regali - Basti considerare che la sentenza della Corte di cassazione numero 42653/2010 ha confermato la condanna di un uomo che aveva offeso un altro soggetto, affiggendo sulla bacheca sindacale della ditta presso la quale lavorava un avviso contenente varie offese che delineavano la chiara volontà di esporre a ridicolo la vittima. Tra le frasi incriminate, anche quella in cui il colpevole affermava, diretto al collega, che “non esiste alcun Babbo Natale o Befana che concedano regali a personaggi come lei”. Dare della Befana può costare caro - Evitate di lasciarvi ispirare dalle decorazioni e rivolgersi a una donna chiamandola Befana. Con la sentenza numero 2597/2013, la Cassazione ha ritenuto che inviare sms che contengono epiteti offensivi e nei quali si dà della Befana alla destinataria è un comportamento che, a certe condizioni, può integrare il reato di molestie. In altri casi, chiamare una donna Befana può invece costare una condanna per ingiuria (vedi, ad esempio, la sentenza numero 1642/2009 del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere) o, per i lavoratori, una bella sanzione disciplinare. A tale ultimo proposito, ci si riferisce alla vicenda giunta all'attenzione del TAR Campania e decisa con la sentenza numero 839/2015, che vedeva come protagonista un carabiniere che, mentre era a lavoro, si era rivolto nei confronti di una cittadina chiamandola Befana. Regali di Natale a tutti i costi, ma se dimentichi i figli in auto è reato - È costata cara la corsa dell'ultimo minuto per acquistare i regali di Natale ad una donna milanese. Per aver lasciato la figlioletta di 4 anni in auto per andare a fare lo shopping natalizio, la stessa si è beccata infatti una bella condanna per il reato di abbandono di minore. Decisivo per la Cassazione (sentenza n. 42254/2014), il “periodo di tempo non trascurabile”, in cui la povera bambina era rimasta chiusa in auto, in una situazione a rischio data la tenera età, l'orario serale e le temperature in atto. Le forze dell'ordine infatti avevano ritrovato la piccola in preda alle lacrime e all'agitazione. E a nulla sono valse le difese della madre che sosteneva di aver lasciato la figlia in macchina per punirla per non averle obbedito nel seguirla nello shopping natalizio (leggi: “Lascia la figlia in auto e va a fare i regali di Natale. Per la Cassazione è reato di abbandono di minore”). Giocare a carte a Natale? Meglio non esagerare, si rischiano separazione e addebito - Quale occasione migliore per giocare a carte se non nel periodo natalizio, divertendosi tra amici? Attenzione, però, a non esagerare, perché se il gioco diventa “vizio”, può comportare anche il rischio di vedersi addebitata una separazione dal coniuge. In questo senso si è pronunciata la Cassazione (sentenza n. 5395/2014), nei confronti di un uomo che giocava assiduamente spendendo molto denaro, sottraendolo alla sua famiglia. Certo in ballo c'erano anche diverse relazioni extraconiugali, ma i giudici hanno chiarito che anche il gioco d'azzardo, ripetuto ed eccessivo, viola in modo grave gli obblighi matrimoniali sino a rendere la convivenza intollerabile e a far scaturire separazione e consequenziale addebito. Meglio, quindi, giocare responsabilmente! (leggi: Giocare a carte a Natale: attenti a non esagerare! Si rischia anche l'addebito della separazione!”). Attenti all'albero di Natale - Fioccano le sentenze anche in materia di risarcimento danni da insidia stradale, provocata dall'albero di Natale! In una recente sentenza (n. 21398/2014), la stessa Cassazione ha ribadito la responsabilità per custodia in una vicenda relativa a danno da “schiacciamento” cagionato ad un ragazzo, dalla base di cemento di un albero di Natale allestito da un Comune durante le feste, e poi rimosso e abbandonato in un'area non recintata. Dando ragione ai genitori del ragazzo, il Palazzaccio ha ritenuto che la responsabilità dell'amministrazione custode non potesse essere esclusa dal mero “animus derelinquendi”, né dalla circostanza che la cosa in sé non fosse pericolosa. Rompere i piatti a Capodanno, non porta sempre bene - Non sempre seguire le tradizioni, è di buon auspicio, se si esagera le conseguenze possono essere anche di una certa gravità. L'antica tradizione, infatti, di rompere i piatti e i bicchieri la notte di Capodanno, è finita infatti sotto la lente della Corte di Cassazione. La vicenda ha per protagonista l'avventore di un ristorante che qualche anno fa fu colpito dalla scheggia di un piatto mentre era in corso tra i commensali la tradizionale pratica distruttiva. A rimetterci, oltre al cliente, è stata anche la proprietaria del ristorante che a causa dell'incidente è rimasta coinvolta in un lungo processo, conclusosi per sua fortuna, con il rigetto delle domande risarcitorie del ferito. Per gli Ermellini infatti (sentenza n. 2312/2003) la proprietaria non poteva essere ritenuta responsabile delle lesioni riportate dall'avventore per il solo fatto di aver posto i piatti vuoti sui tavoli che avevano dato luogo all'evento imprevedibile, in quanto finiti lanciati ripetutamente per terra per festeggiare il capodanno. Quindi per chi vuole seguire le tradizioni, meglio controllare che la zona di lancio sia libera onde evitare spiacevoli danni. Venezia: nel carcere di Santa Maria Maggiore lavora solo un detenuto su cinque genteveneta.it, 26 dicembre 2018 Solo in pochi riescono ad essere occupati durante la giornata. Poche unità nelle attività di laboratorio e una cinquantina nei lavori legati ai servizi carcerari. Tutti gli altri non fanno nulla. In questa “fotografia” sta buona parte del problema delle persone detenute nel carcere di Santa Maria Maggiore. La “fotografia” è fatta da Nicola Pellicani, deputato veneziano in forza al Pd, che la mattina di Natale ha visitato la casa circondariale veneziana. “Ho trovato - dice Pellicani - una struttura dignitosa, curata, ma decisamente obsoleta che, a quasi cento anni dalla sua attivazione - avvenuta nel 1926 - è complessivamente inadeguata ad accogliere un carcere”. La carenza di occasioni di lavoro all’interno del carcere, propone Pellicani, si affronta ampliando “i progetti di collaborazione anzitutto con il Comune, con il mondo del volontariato e cooperativo che. Non dimentichiamo la funzione rieducativa della pena, previsto dalla Costituzione (art 27). Ma i dati purtroppo dimostrano come le percentuali di recidiva in Italia siano ancora molto elevate, attorno al 70 per cento. Bisogna fare di più”. Poi c’è la questione del sovraffollamento, cronica a Santa Maria Maggiore. Attualmente sono ospitati 249 detenuti a fronte di 161 posti: 96 sono italiani, mentre i 153 stranieri sono di varie nazionalità, tra cui 34 tunisini, 25 rumeni, 25 albanesi, 16 marocchini. “La direzione e il personale tutto - prosegue il deputato - fanno miracoli per cercare di far funzionare al meglio il carcere, ma i limiti appaiono evidenti, anzitutto nella struttura. Perciò presenterò un’interrogazione urgente al ministro della Giustizia per sapere cosa intende fare del Piano Carceri, fermo da troppo tempo, e per chiedere maggiori risorse da destinare al lavoro per i detenuti”. Trento: disagio tra i detenuti, mancano gli psichiatri ladige.it, 26 dicembre 2018 Sono a disposizione la palestra, il teatro, due biblioteche. Ma si contano anche cento detenuti oltre la capienza prevista: un sovrannumero - all'interno del carcere di Trento, struttura progettata per 240 persone ed inaugurata nel 2011 - che è d'ostacolo all'organizzazione completa delle attività (anche di quelle lavorative) e contribuisce ad alimentare tensioni. Fino allo scoppio della rivolta di sabato: coinvolti più della metà dei detenuti; un centinaio quelli che rischiano di essere spostati in altri penitenziari. Il Sinappe, sindacato nazionale autonomo polizia penitenziaria, da sempre in prima linea per migliorare la situazione nel carcere di Spini di Gardolo, punta il dito sul sovraffollamento della struttura e sul conseguente disagio patito dai detenuti, oltre che sulla mancanza di un numero adeguato di figure di sostegno, dagli educatori agli psichiatri, la cui presenza è stata calcolata per una struttura con capienza inferiore al numero dei detenuti di oggi, quasi 350. “Questi specialisti hanno un lavoro maggiorato del 35%” evidenzia il sindacato. Un esempio su tutti: “Ora uno psichiatra anziché visitare un detenuto in difficoltà una volta alla settimana, può vederlo ogni quindici o venti giorni”. Proprio di medici ci sarebbe necessità in carcere a Trento: per arrivare ad una copertura 24 ore su 24 (ora non c'è presidio notturno) e per garantire assistenza specialistica. “Fino a qualche anno fa c'erano gli ospedali psichiatrici giudiziari, gli Opg, mentre ora i detenuti che hanno problemi finiscono negli istituti di pena. Dunque ci troviamo ad avere a che fare con persone che avrebbero bisogno di uno psichiatra regolarmente e che invece si interfacciano con agenti della polizia penitenziaria. Noi ci mettiamo la buona volontà, ma non siamo preparati - spiega il segretario regionale del Sinappe Andrea Mazzarese, responsabile del sindacato per il Triveneto - Ciò non toglie che questo non può giustificare la distruzione quasi totale di un istituto penitenziario. Come Sinappe, chiediamo che ci sia un trattamento differente tra detenuti meritevoli e detenuti che non dimostrano la capacità di vivere in comunità. Questi ultimi dovrebbero essere allocati in regime detentivo con camere chiuse, come previsto dal regolamento di sorveglianza per coloro che commettono reati di particolare gravità, ad esempio per danneggiamenti e distruzione all'interno dell'istituto penitenziario. Il Sinappe ha sempre sostenuto che la rieducazione non può che passare da questo: dare, ossia concedere agevolazioni, a chi si comporta bene, mentre punire come previsto dalla legge chi si comporta male”. Nel carcere di Trento le camere sono aperte ed i detenuti per almeno otto ore al giorno possono stare sul corridoio o spostarsi in altre stanze. Tutti, anche coloro che manifestano problemi di equilibrio, hanno a disposizione lamette da barba. “Il Sinappe ha insistito anche in passato affinché si torni al regolamento di qualche anno fa, con la distribuzione ed il ritiro quotidiano delle lamette evitando il rischio che possano essere utilizzate per gesti di autolesionismo o per l'utilizzo contro gli altri, dando comunque ai detenuti il tempo necessario per radersi”. Riguardo al sovraffollamento della struttura il sindacato evidenzia la mancanza di spazi e di aule. “Le camera di pernottamento, quelle che una volta venivano chiamate celle, sono ammobiliate con armadietti per due o tre persone. Ora si ritrovano a dormire nella stessa camera in quattro o cinque detenuti, che non sanno dove mettere la loro biancheria. Sono costretti a lasciarla nel sacco nero, che viene sistemato sotto il letto oppure sopra l'armadietto degli altri - prosegue Mazzarese - Il disagio legato alla mancanza di spazi si ripercuote anche sul personale della polizia penitenziaria. Quando i detenuti erano 240 o 250 non si verificavano episodi di malessere e di violenza con questa frequenza. Negli ultimi due mesi abbiamo avuto due suicidi ed un tentativo di suicidio: in quest'ultimo caso la polizia penitenziaria è intervenuta in tempo e con le manovre di primo soccorso ha salvato il detenuto”. Il Sinappe infine ringrazia gli agenti di polizia penitenziaria che sabato sono rimasti in servizio dalle 8 del mattino alle 7 di sera per l'emergenza e tutte le forze dell'ordine intervenute. Sciacca (Ag): Marinello (M5S) “indispensabile la costruzione di un nuovo carcere” agrigentonotizie.it, 26 dicembre 2018 Il senatore: “Ripartiamo da capo dopo che i governi precedenti hanno dirottato altrove le risorse”. Della Casa Circondariale di Sciacca si sta occupando il senatore del Movimento 5 Stelle Rino Marinello che negli scorsi mesi ha prodotto una relazione attraverso la quale ha già interessato gli organi governativi competenti. “La questione è nota da oltre un trentennio, la struttura esistente, infatti, non è adatta agli scopi cui è destinata, - afferma il senatore - l’attuale carcere non risulta rispondente alle esigenze dell’amministrazione di Grazia e Giustizia ed in particolare ai principi sanciti dalla legge sulla riforma dell’ordinamento carcerario. Come se non bastasse, sono necessarie continue opere di manutenzione ordinaria, straordinaria e di adeguamento degli impianti (elettrico, idrico e di sicurezza)”. Il parlamentare Cinque Stelle denuncia: “I fondi erano stati individuati e l’area per la costruzione di un nuovo carcere era già stata indicata in contrada Cozzo Tabbase in Sciacca, ma i Governi precedenti hanno inopinatamente dirottato gli stessi fondi verso altre destinazioni. Adesso si deve ripartire da capo ed è proprio quello che stiamo cercando di fare con il Movimento 5 Stelle”. Allo stato, la struttura penitenziaria è ubicata in un convento delle Carmelitane, adiacente alla Chiesa del Carmine, nel centro abitato di Sciacca. Si tratta di luoghi che hanno rivestito da sempre un ruolo centrale per la città di Sciacca. “La costruzione della nuova Casa Circondariale nell’area già individuata, conclude Rino Marinello - oltre a restituire alla fruizione pubblica un importante bene storico/artistico, costituisce una misura assolutamente indispensabile. Un presidio di questo tipo, infatti, rappresenta un forte deterrente contro la criminalità e contro i malavitosi. Per questo sono disposto ad attuare ogni azione politica per arrivare a questo obiettivo, peraltro, da decenni, fortemente voluto tutta la cittadinanza”. Porto Azzurro (Li): concussione nel carcere, tutti assolti quinewselba.it, 26 dicembre 2018 Assolti l'ex direttore del carcere Mazzerbo, Zottola, Madonna e Piga, per le vicende legate alla cooperativa San Giacomo. Tutto era iniziato nel 2010. A pochi giorni dal Natale si è concluso con l'assoluzione degli imputati il processo per concussione contro Carlo Mazzerbo, ex direttore del carcere di Porto Azzurro, Domenico Zottola, educatore, Sergio Madonna, assistente capo della Polizia penitenziaria e il docente Paolo Piga. Sono stati tutti assolti perché il fatto non sussiste. La sentenza è stata emessa venerdì 21 Dicembre dal Tribunale di Livorno a firma del giudice Carlo Cardi. Tutto era iniziato nel 2010 quando due detenuti del carcere di Porto Azzurro, che avevano lavorato nella cooperativa San Giacomo ed erano stati, secondo loro puniti senza motivo, avevano rilasciato delle dichiarazioni contro varie persone fra cui il direttore del carcere di allora Carlo Mazzerbo, l'educatore Domenico Zottola, l'assistente Madonna e il docente Piga. Erano poi scattate delle indagini nei confronti di 14 persone che hanno poi portato all'accusa di concussione che ha visto protagoniste loro malgrado le persone che sono state assolte. Le accuse erano state costruite intorno alla tesi di un abuso del proprio ruolo di funzionari dello Stato che sarebbe stato esercitato sui detenuti che lavoravano nella cooperativa San Giacomo. L'ipotesi accusatoria era quella che ci fossero state minacce nei confronti dei detenuti che lavoravano presso la cooperativa, in particolare attraverso la richiesta di lavoro superiore a quanto previsto dal contratto con ore di straordinario non retribuito. Le indagini erano state condotte dalla Polizia penitenziaria e dalla Guardia di Finanza ed erano stati interrogati anche altri detenuti. Il processo, avviato con un' udienza preliminare nel 2012, si è concluso venerdì 21 Dicembre 2018 ed in totale è durato 7 anni con lunghi dibattimenti. Milano: “Un Porto a San Vittore”, fotografie per scoprire un luogo “di transito” di Rolla Scolari Il Foglio, 26 dicembre 2018 L'associazione Amici della Nave organizza incontri e attività per i detenuti. Sono tre omoni quelli che abbozzano posizioni di yoga tra gli scaffali di una biblioteca. I loro muscoli gonfi, le canottiere e i calzoncini mimetici raccontano palestre e storie di quartiere. È evidente che, in equilibrio maldestro sui quegli stretti tappetini, ci stiano veramente provando. L’immagine è parte di un racconto emozionante che porta a scoprire una realtà nel cuore di Milano, separata però dalla città da alte mura grigie e arancioni: il carcere di San Vittore. Per oltre un anno, il fotogiornalista Nanni Fontana, milanese, classe 1975, ha avuto accesso a un luogo speciale della prigione. La Nave è un reparto di trattamento avanzato per la cura dei detenuti con problemi di dipendenza, gestito dal Servizio dipendenze della Asst Santi Paolo e Carlo. La mostra “In Transito. Un Porto a San Vittore” è parte di una rassegna, “Ti Porto in Prigione”, creata dall’associazione Amici della Nave e che prevede anche un programma di conversazioni pubbliche e dibattiti, con detenuti ed ex detenuti, e altre iniziative come la possibilità di entrare a San Vittore (su prenotazione) dove è allestita la mostra “Gianni Maimeri: la musica dipinta” fino al 20 gennaio in Triennale. Le fotografie di Fontana raccontano la vita nel terzo raggio, un spazio diverso nel panorama carcerario italiano: celle aperte 12 ore al giorno, i detenuti che partecipano ad attività psicoterapeutiche, a gruppi di studio su droga, dipendenze, legalità, a gruppi di canto, musica, teatro, scrittura, yoga, palestra, cartonaggio, la redazione di un giornale (L'Oblò). La Nave, ci racconta Fontana, fa pensare a un percorso, un orizzonte. I detenuti sono “in transito” anche perché San Vittore non è carcere, bensì casa circondariale: accoglie individui in attesa di giudizio. “Sei in transito perché è lì che costruisci il cambiamento che vuoi portare a te stesso. I detenuti che si avvicinano al terzo raggio sanno che è arrivato il momento di fare un percorso”, di trovarsi in maldestro equilibrio sui tappetini di yoga, fuori dalla loro comfort zone. La macchina fotografica di Fontana racconta questo percorso con l’effetto senza tempo del bianco e nero e dettagli di vivida tenerezza: l’acquarello del Golfo di Napoli dipinto da un detenuto, l’abbraccio dell’anziana volontaria mentre studia con un carcerato, i libri di Irwin Shaw in biblioteca, gli adesivi di Ian Solo e Chewbecca sulla porta di ferro della cella aperta, la riunione di redazione del giornale. La mostra insiste sul senso di un luogo che non vuole essere punitivo, come suggerisce la stessa Costituzione, nell’articolo 27: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. C’è la fotografia di una finestrella all’entrata dell’esposizione. Sul davanzale, tra le sbarre, ci sono pomodorini ancora nella loro scatola di plastica, le zucchine. La stanza è minuscola, l’immagine accanto appositamente troppo grande per il luogo angusto. Ci sono i rumori del carcere: i catenacci di ferro che sbattono, la confusione delle voci. Il senso di costrizione è forte, prima di entrare in una sala ampia, piena di luce, che racconta un’altra storia: quella di detenuti con tagli di capelli da mohicano, tatuaggi minacciosi sulle mani - “revenge” - che cantano in un coro ordinati come chierichetti, si allenano in palestra, partecipano a una lezione di teatro. Un prigioniero guarda attraverso il reticolato fitto di una finestra. Là fuori ci sono piazzale Aquileia, il traffico di viale Papiniano e di una Milano abituata a sfrecciare indifferente accanto a quel carcere in Area C, senza sapere che al suo interno ci sono anche storie di rinascita. “La Nave è un reparto creato ben 16 anni fa: non è un caso che accada a Milano, una città che guarda sempre avanti”, spiega Fontana. Pino ha 41 anni, 15 passati in carcere. Oggi è uno dei volontari presenti alla mostra. È stato due volte alla Nave: “Ciò che funziona là dentro - ci dice - è che ti svegli la mattina e come le persone normali hai un lavoro, una responsabilità che ti fa capire che la vita è fatta di scadenze e impegni. Il ritmo non è quello della larva buttata su una branda. Il carcere però non è questo, questa è la Nave. Se la Nave potesse essere il carcere, sarebbe un successo della nostra società: occorre rieducare la persona, altrimenti esce come è entrata”. Milano: Salone della Triennale in collegamento con la Rotonda di San Vittore raiscuola.rai.it, 26 dicembre 2018 L’evento artistico-musicale che il 15 gennaio si svolgerà in collegamento audiovideo tra il Salone d’onore del Palazzo della Triennale e la Rotonda del carcere di San Vittore a Milano, in modo che i due spazi possano dialogare tra loro, rappresenta l’appuntamento conclusivo della mostra-rassegna “Ti porto in prigione”, iniziata il 13 dicembre scorso con esposizioni, mostre e una serie di incontri con magistrati ed esperti, partendo dalla tematica del lavoro fino a parlare di “recupero” come strumento di sicurezza sociale. Ad ispirare l’iniziativa la proiezione, ogni anno in questo spazio del complesso carcerario milanese, della “prima” della Scala di Milano. In programma un breve concerto eseguito da un coro di 80 detenuti, 20 tra operatori e volontari del carcere insieme a musicisti professionisti che si svolgerà nella Rotonda, preceduto da un dibattito sul tema della “Bellezza” tra Stefano Boeri, presidente della Triennale; Luigi Pagano, provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria; Giacinto Siciliano, direttore del carcere di San Vittore e alcuni ospiti. Modera la giornalista Daria Bignardi. Il progetto che, oltre alla Casa Circondariale di San Vittore e La Triennale di Milano, vede il coinvolgimento del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria e dell’associazione Amici della Nave, prevede un percorso ragionato che vuole richiamare il vero significato del concetto di pena carceraria: il recupero e il reinserimento del detenuto nella società. Le prospettive della minaccia terroristica islamica in Europa di Lorenza Formicola analisidifesa.it, 26 dicembre 2018 Nel 2016, circa il 75 per cento delle vittime del terrorismo islamico si registravano in Medio Oriente e Africa, poco meno di un quarto nel sud e sud-est asiatico, circa l’uno per cento in Europa e meno dello 0,5% nelle Americhe. Dati recenti che comunque ci raccontano come quello del terrorismo islamico sia un fenomeno d’importazione per l’Occidente. Il 2017 è stato testimone di un aumento di carneficine in Europa, rispetto all’anno precedente e probabilmente non sarà battuto dal 2018. Rispetto al primo rapporto prodotto dall’Europol nel 2007 in relazione al clima e allo stato del terrorismo in Europa, molte cose sono cambiate. In primis il ruolo che internet gioca nella radicalizzazione, e poi i terroristi che hanno iniziato a prediligere i congegni esplosivi improvvisati. Il panorama terroristico si è così ulteriormente diversificato e la minaccia è cresciuta. Negli ultimi anni il Vecchio Continente ha assistito ad un aumento della frequenza degli attacchi jihadisti, ma, allo stesso tempo, ad una meno sofisticata preparazione ed esecuzione degli stessi. Eppure capaci di causare più morti e vittime. Gli ultimi rapporti raccontano che la firma sotto le varie stragi è di jihadisti radicalizzati una volta valicati i confini europei, e per la maggior parte si tratta di individui che non hanno mai viaggiato per unirsi a gruppi terroristi all’estero. Sempre più spesso le menti e gli attori degli attentati sono nati addirittura in Europa e non hanno collegamenti diretti con lo Stato islamico o qualsiasi altra organizzazione jihadista. Nel 2017 sono stati sventati 205 attentati solo in Europa. Tra andati a segno o meno, solo nel Regno Unito ne sono stati contati 107; 54 in Francia; 16 in Spagna; 14 in Italia; 8 in Grecia; in Belgio e Germania 2; in Svezia e Finlandia 1. Sessantotto i morti e 844 i feriti. A gennaio del 2018 il rapporto pubblicato dal Janès Terrorism and Insurgency Center (JTIC) provava, invece, a mettere in guardia circa i rischi del terrorismo in Europa per l’anno appena iniziato, ponendo l’accento su quanti erano andati a combattere in Iraq e Siria e s’apprestavano a ritornare. “In una prospettiva da qui ai prossimi cinque anni, i paesi europei dovranno affrontare un’elevata minaccia terroristica rappresentata da detenuti radicalizzati, combattenti stranieri di ritorno e altri rimpatriati che hanno legami diretti con quel che resta dello Stato islamico”, ha dichiarato Otso Iho, analista senior del JTIC. Il rischio di detenuti islamici che stanno radicalizzando i colleghi nelle carceri, ve lo avevamo già denunciato, a più riprese, su queste pagine, ma quelli del JTIC tengono le antenne rizzate per i rilasci che ci saranno tra il 2019 e il 2023. Sulla base dei dati analizzati, infatti, un numero considerevole di detenuti terroristi saranno presto a piede libero. Pertanto, oltre alla immediata minaccia alla sicurezza rappresentata dal ritorno dei combattenti stranieri, è molto probabile che emerga un ulteriore significativo rischio rappresentato dai radicalizzati che usciti di prigione si uniranno alle reti islamiste esistenti in territorio europeo. “Il loro contributo e la loro leadership potrebbero consegnare, plausibilmente, ai gruppi che in passato avevano svolto un ruolo di supporto - finanziamento, facilitazione dei viaggi, diffusione della propaganda - compiti operativi: creare cellule, acquisire armi, fornire strutture e case sicure per la costruzione di esplosivi e reclutare militanti per gli attacchi in Europa”, ha dichiarato Iho. Prima dell’attentato di Strasburgo, l’attività jihadista in Europa pareva dormiente, al punto che alcuni analisti già speculavano circa la riuscita missione di aver quasi debellato il terrorismo islamico. Ma il numero e la gravità degli attentati non sono sintomatici della veridicità dell’assioma, il “peggio è passato”. Tutt’altro. I cosiddetti “attentati a bassa capacità”, gli ordigni esplosivi improvvisati (IED), gli attentati con veicoli presi in affitto o rubati, i furgoni, i crimini da coltello e, più in generale, le aggressioni con armi leggere, fanno da corollario ad un teorema che ci spiega come poco importa se il “Califfato” sia in forma o meno: il credo jihadista si è così tanto radicalizzato in Occidente che gli individui e le piccole cellule sono pronti a colpire senza alcun coordinamento con la cellula madre. Il sedicente Stato Islamico è nato come tentativo di dare un riferimento gerarchico all’islam che non è solo una religione, ma un partito politico. L’islam è privo di un’autorità con cui negoziare a nome di tutta la comunità religiosa, pertanto i suoi discepoli agiscono anche liberamente in nome di un’ideale a cui sono stati educati fin da bambini. L’attentato del 2015 di Charlie Hebdo a Parigi ha rappresentato un nuovo 11 settembre per l’Europa, portandola ad una nuova realtà del terrorismo. Un terrorismo ibrido. Da quel momento sono seguiti attentati su piccola scala a Bruxelles, Berlino, Barcellona, Londra, ancora Francia, diluendo la paura e la minaccia islamica in episodi più o meno ravvicinati, ma aumentando la tensione. Senza un attentato considerato anche dall’intelligence “di rilievo” - perché non ha causato più di 10 morti dall’estate del 2017 - il terrorismo islamico ha abbandonato le prime pagine e persino le menti dei cittadini europei. Diminuendo rispetto allo scorso anno, è quasi sembrato che l’Europa avesse vinto contro la minaccia dello Stato islamico. Ma non è così. Mettendo da parte i limiti che le forze dell’ordine francesi hanno manifestato con l’attentato di Strasburgo, è un errore comune pensare di misurare la minaccia terroristica in base al numero di attentati effettuati. Per comprendere la portata e la natura della minaccia bisogna anche considerare i complotti sventati dall’antiterrorismo. Finora nel 2018, l’Europa ha dovuto affrontare almeno 12 trame terroristiche jihadiste ben documentate. Sei di queste hanno portato ad attentati. E risultano anche altre 11 trame che sono ancora troppo poco documentate per poter essere analizzate. Si tratta di un calo complessivo di circa il 50 percento rispetto allo scorso anno. Ma come i numeri e l’Europol certificano, non significa che la minaccia stia scemando. Anzitutto, la diminuzione segue un picco drammatico nel 2017, con il maggior numero di complotti e attentati jihadisti negli ultimi 25 anni. Rispetto a qualsiasi anno prima del 2015, il numero di aree ad alto rischio in Europa sono ancora tante, e nonostante le massicce spese dei governi europei per ridimensionare il terrorismo. L’attività degli attentatori radicalizzati e di potenziali aggressori, nel 2018, dimostra che l’islam è deciso ad attaccare i propri nemici in Europa in qualsiasi modo possibile. La maggior parte dei perpetratori sono legati direttamente all’Isis o ne sono sostenitori attivi. Molti altri hanno legami con estremisti nazionali e combattenti stranieri, e di solito si servono delle varie piattaforme online per rimanere in contatto con le reti jihadiste. Nel 2018 abbiamo assistito ad attentati guidati da uomini solitari armati, poliziotti bersagliati, convertiti all’islam che hanno aggredito poliziotti mentre erano in libertà vigilata, trame terroristiche che hanno coinvolto veicoli e coltelli, auto contro i pedoni - fortunatamente senza successo - a Oxford Street a Londra e contro la pista di pattinaggio a Karlsruhe, in Germania. E persino l’arresto di sette sostenitori dello Stato islamico nei Paesi Bassi che stavano complottando per attaccare un evento pubblico con fucili d’assalto e bombe a mano. E avevano anche pianificato di far esplodere un’autobomba altrove. Ma se l’antiterrorismo in Europa sta indebolendo la capacità di alcune reti, risulta ancora inefficace contro le reti di radicalizzati dentro i confini dell’Unione. E secondo alcuni analisti inglesi, come i primi attentati nel Vecchio Continente hanno avuto come movente “l’invasione dell’Iraq nel 2003”, la scomparsa quasi totale dello Stato Islamico causata dalla coalizione anti-Isis, causerà nel medio e breve termine ulteriori ritorsioni. Alla base dello strano paradosso ci sarebbe la ragione della nascita di nuove reti, “persino più forti”, dicono. Il potenziale sarebbe giustificato dall’esodo di 5.000 combattenti stranieri europei in Siria che presto potrebbero gettare le basi per una futura mobilitazione. “Soprattutto, la lotta straniera ha prodotto un gruppo di persone che potrebbero diventare imprenditori di reti e cellule future”. Sarebbe stato meglio far crescere e operare indisturbato lo Stato islamico? In realtà gli studi sul jihadismo europeo hanno dimostrato che l’esistenza o meno del Califfato poco importa. Sono i gruppi come “Sharia4”, in un modus operandi pensato da al-Qaeda e estraneo a Daesh, che hanno iniziato a lavorare alla radicalizzazione dell’Europa, ponendo tra le varie basi, le carceri, quelle che anno dopo anno, da prima del 2014, hanno iniziato a riempirsi di jihadisti. Provando, poi, anche a legare insieme imam, fedeli e jihadisti già formati e continuare a fare proselitismo allo scopo di islamizzare l’Occidente. Uno degli ultimi rapporti definisce che il numero di estremisti islamici “ufficiali” in Germania è pari a 25.000, di cui 2.240 sono considerati jihadisti. Secondo l’UE, il Regno Unito ospita 25.000 estremisti islamici, di cui 3.000 sono considerati una minaccia e 500 sono sotto stretta sorveglianza. In Francia, dove circa 1.400 sono partiti per diventare combattenti jihadisti in Siria e Iraq, la situazione è almeno altrettanto preoccupante. Più di 20.000 persone sono i radicali violenti e 4.000 di loro sono considerati pericolosi e monitorati da vicino. Tutti dati aggiornati agli ultimi mesi. I jihadisti in Europa si sono dimostrati notevolmente resilienti. Anche se le nuove e più severe misure anti-terrorismo sembrano aver indebolito la capacità dello Stato islamico al momento, sarebbe un pio desiderio dichiarare fino in fondo vinta la guerra al terrorismo. Migranti. Natale nel Mediterraneo per due navi delle Ong. La Stampa, 26 dicembre 2018 La Sea Watch: “Serve un porto sicuro”. Dopo il no di Malta e Italia, la Open Arms naviga verso la Spagna con oltre 300 migranti a bordo. Nuovo appello dell’associazione tedesca che ospita 33 persone. “Abbiamo bisogno di un porto sicuro”. La ong tedesca Sea Watch ribadisce il suo appello, dal momento che la nave Sea Watch 3, con a bordo 33 migranti salvati al largo della Libia, si trova da sabato nel Mediterraneo in attesa di un porto sicuro dove attraccare. Nei giorni scorsi Malta e l’Italia hanno detto no. Il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, ha ribadito oggi la sua posizione: l’Italia “ha aperto il cuore e anche il portafoglio abbondantemente. Ora tocca agli altri”, ha detto. “Contiamo sui tedeschi, sugli spagnoli, sugli olandesi, sui francesi. L’Italia negli anni passati ha fatto sbarcare più di 700mila persone. Direi che il cuore e il portafoglio li abbiamo aperti abbondantemente: adesso tocca agli altri”, ha proseguito. Natale in mare anche per la Open Arms - Natale in mezzo al mare anche per l’equipaggio di Open Arms, la nave della Ong spagnola Proactiva, e gli oltre 300 migranti a bordo, tanti bambini, in viaggio verso il porto spagnolo di Algeciras dopo il rifiuto di Malta e Italia di accoglierli. “Oggi è #Natale. Celebriamo la Vita con la maiuscola, il regalo più grande per chi è a bordo #OpenArms. Grazie a tutte le persone che rendono possibile il nostro lavoro, siete il motore che ci fa andare avanti ogni giorno, grazie a voi continuiamo a difendere la vita”: questo il messaggio postato su Twitter dall’associazione, insieme a un video in cui si vedono le persone sul ponte, alcune ancora addormentate, altre già in piedi, avvolte nelle coperte. Si sente distintamente un “thank you” (grazie). La Open Arms naviga verso Algeciras - Sul profilo della Proactiva Open Arms altri video e foto sono stati postati nelle ultime 24 ore, mostrando i volontari - con tanto di cappelli da Babbo Natale - che giocano con i bambini, l’apertura dei regali, i canti natalizi. “La loro gioia e la loro allegria sono il regalo più bello. Buon Natale!”, si legge in un altro messaggio mentre i più piccoli vengono ripresi mentre partecipano con l’equipaggio a “Tio” de Nadal’, una tradizione catalana che prevede la “bastonatura” di un tronchetto di legno dal quale escono regali. In questo caso pastelli e libri da colorare, che hanno fatto la felicità dei bambini. Domenica, il comandante della nave aveva annunciato che il porto di sbarco sarebbe stato Algeciras e che martedì li avrebbe raggiunti la barca a vela Astral con cibo, coperte e medicine. Insieme sono in rotta verso la costa spagnola. “È stata una giornata molto intensa, trascorro sempre il Natale con la mia famiglia, ma quello che sto facendo lo compensa, mi fa sentire molto felice”, ha confessato Ayelen Gaikwoski, una dei volontari che, come il resto dell’equipaggio, è impegnata al massimo per aiutare il più possibile e rendere meno duro il viaggio per gli oltre 300 migranti a bordo che hanno salvato alcuni giorni fa. “Pensare che stavano per morire, vivere con loro, è qualcosa di molto speciale”. Droghe. Il pusher globale è il web di Nadia Ferrigo La Stampa, 26 dicembre 2018 Così le droghe invisibili conquistano i ragazzini. In vendita migliaia di sostanze legali che non rientrano nelle tabelle ministeriali degli stupefacenti. Gli spacciatori fanno girare la “roba” senza il rischio di essere arrestati: i locali sono zone franche. Le nuove droghe si comprano online, in milligrammi. Niente passaggi furtivi di contanti al parchetto, ma carta di credito. Nessun rischio con la polizia, perché arrivano per posta. Così è semplice giocare al piccolo chimico e pensare pure che non possano fare male, considerato che sono legali. I siti le promuovono con la promessa di una serata eccitante a pochi euro. Ne conosciamo 800, con un ritmo che sta tra le sessanta e le settanta nuove molecole l’anno. Quasi una a settimana. Nascono e vanno sul mercato talmente in fretta che i dipartimenti ministeriali non riescono a tracciarle. Il menu a disposizione dei clienti virtuali è ricco, se le sigle disorientano basta leggere descrizioni e recensioni. Dieci pastiglie di 3-MMC sono 35 euro, un grammo in polvere 25. Sui tre grammi, c’è lo sconto. La “Blue Stuff”, la “Roba blu” invece è un “blend di sostanze”. Ai clienti di Chem.eu è piaciuta. Quattro recensioni a cinque stelle. “Ottimo servizio, bella confezione”. “Il bagno più divertente della mia vita”. Seguito da una faccetta che strizza l’occhio. La “roba” si vende in cristalli, ma come sale da bagno. Anche se non c’è scritto di preciso quali siano le molecole che la compongono, il principio attivo è l’ethylphenidate. Un farmaco psicostimolante molto simile al metilfenidato. Ancora non vi viene in mente niente? È come sniffare il Ritalin, discusso psicofarmaco usato per i deficit di attenzione e iperattività. Da maggio in Italia questa molecola è classificata come stupefacente, ma le alternative fioccano. C’è un’intera sezione del portale dedicata a cosa è legale e cosa no, paese per paese. Ad esempio per l’Italia “quattro volte più forte del Ritalin, venduto in cristalli ed esclusivamente per ricerche scientifiche” di nuovo c’è il Mdpv. Poi le bustine di 2-Al, analogo delle anfetamine come il 3-FEA. L’elenco è infinito, pare criptico, ma per orientarsi basta conoscere l’inglese e Wikipedia. Le droghe legali, meglio non illegali, in circolazione sono migliaia. I ricercatori le chiamano Nps, Nuove sostanze psicoattive, per chi invece le compra sul web la parola chiave è research chemicals o legal highs. Con una composizione chimica leggermente diversa dalle droghe tradizionali, sono tecnicamente lecite. Seducono in fretta chi cerca online eccitanti, performanti. Pastiglie colorate e cristalli che danno reattività aumentata ed eccitazione. Sono legali perché non rientrano ancora nelle tabelle ministeriali delle sostanze stupefacenti e psicotrope, e quindi non sono regolamentate. Per etichettarle come nuove droghe bisogna seguire dei processi lunghi - e costosi - di analisi e osservazione. Per ricostruirne la pericolosità ci vogliono mesi, in alcuni casi anni. L’ultimo aggiornamento è dello scorso 17 novembre, disposto “a seguito dei casi di decesso registrati in Europa e in considerazione dei rischi connessi alla diffusione, riconducibile a sequestri”. Morti per overdose Sono morti - registrate in Svezia, Polonia e Slovenia tra il 2016 e il 2017 - che hanno a che fare con le molecole derivate dal Fentanil, oppioide sintetico mortale nell’eroina da spaccio. Nel decreto ministeriale, oltre all’elenco delle “nuove” droghe, c’è un’allerta. La diffusione di “molecole sintetizzate simili al Fentanil per aggirare il divieto internazionale” è motivo di “allarme sanitario”. Nel 2017 sono stati studiati dall’Osservatorio europeo cinque derivati, disponibili addirittura come spray nasale. Sono più potenti dell’originale, ma chi li assume spesso nemmeno lo sa. Se le droghe tradizionali si misurano in grammi, per le molecole si parla di milligrammi. Difficili da dosare non solo per chi le usa. I vantaggi per chi le vende però sono impagabili: anche piccoli quantitativi si traducono in migliaia di potenziali dosi. Se poi sono legali, i rischi sono a zero. Secondo il Libro Bianco sulle droghe presentato a giugno, il consumo nel 2017 è raddoppiato tra gli adulti e quadruplicato tra i minorenni. L’Italia è il terzo Paese in Europa dove si consuma più cannabis, il secondo se si considera la fascia di età tra i 15 e i 34 anni. Siamo al quarto posto per la cocaina. La ricerca di Espad, stima che nell’ultimo anno in Europa circa tre ragazzi su cento abbiano provato una di queste sostanze psicoattive. E solo in Italia quasi 41 mila ragazzi hanno preso una sostanza senza sapere cosa fosse. Nel 2017 dieci adolescenti tra i 15 e i 19 anni sono morti per droga, 1334 i minorenni segnalati alle forze dell’ordine, 300 gli stranieri. Compaiono i baby spacciatori, 54 under 14 fermati, triplicati rispetto al 2016. La prima assunzione ormai avviene tra gli 11 e i 12 anni. Il nuovo pusher globale è Internet. In alcuni Paesi, come Gran Bretagna e Olanda, queste attività sono lecite. Ma il business sta nel forzare i limiti legali, navigando nella zona grigia della chimica e del nome delle sostanze. Si gioca con le legislazioni diverse. E l’apparente legalità restituisce al consumatore una percezione di sicurezza. Se c’è un sito, si può pagare con la carta di credito, non c’è alcun rischio per la salute segnalato, cosa mai potrà succedermi di male? Il vecchio mondo degli spacciatori di strada non scompare, ma si aggiunge. Quando arriva una nuova droga, il meccanismo è quello dell’affiancamento. Mai della sostituzione. Il poli-consumo dei giovani Le vecchie sostanze si mescolano. Cambia il modello di consumo. Non si è più dipendenti da una sostanza, ma dalla dipendenza. Su Internet si trovano moltissime informazioni su come combinare i farmaci in casa per potenziarne gli effetti. Così per ogni festa c’è una droga diversa. Lo sciroppo per la tosse, mischiato con codeina e Sprite, è il beverone viola cantato nella trap. “Sciroppo cade basso come l’Md/bevo solo Makatussin nel bicchiere” è un verso della canzone “Sciroppo” di Sfera Ebbasta. Il rapporto tra droga e musica non è una novità. L’immaginario non è più dominato da marijuana e cocaina. Non c’è solo l’eccitazione, la voglia di divertirsi, ma anche la voglia di stordirsi. Isolarsi. E così accanto agli eccitanti crescono i farmaci oppiacei derivati dalla morfina o antistaminici. “Perché ci droghiamo? Perché siamo umani” è la risposta di Josè Bardini sul mensile “Vita”. È il responsabile della Comunità Pars, quella di Pamela Mastropietro. Una ragazza di 18 anni che seguiva un percorso terapeutico per disintossicarsi dall’eroina. Non ce l’ha fatta. “L’alcol e la droga si sono configurati come paradisi artificiali del mondo moderno - ragiona Bardini. Il messaggio è: l’uomo può fare ciò che vuole, purché risponda alle proprie voglie. Nella testa di un ragazzo è una bomba atomica. Ma è il mondo adulto ad averglielo raccontato”. Amnesty International. Le migliori buone notizie del 2018 25 dicembre 2018 amnesty.it, 26 dicembre 2018 25 gennaio - Una corte d’appello dell’Iran annulla la condanna a morte di Saman Naseem, giudicato colpevole di un omicidio commesso a 17 anni. Nel febbraio 2015 gli appelli (quasi 300.000 complessivamente da Amnesty International) avevano consentito la sospensione all’ultimo minuto dell’impiccagione. La condanna a morte è stata sostituita da una pena detentiva di cinque anni. 22 febbraio - Yusuf Ruzimuradov - il giornalista dell’Uzbekistan da più anni in prigione al mondo dopo che l’anno prima era stato rilasciato un altro giornalista uzbeco, Muhammad Bekzhanov - viene rilasciato dopo 19 anni di carcere. Nel 1999 era stato giudicato colpevole di “sedizione”, al termine di un processo politico, per gli articoli pubblicati sul quotidiano “Erk” (Libertà), poi messo al bando. 13 marzo - Maira Verónica Figueroa, torna in libertà a seguito della decisione di un tribunale di El Salvador di dimezzare la sua condanna. Nel 2003 era stata condannata a 30 anni di carcere per il reato di omicidio aggravato dopo aver dato alla luce un bambino nato morto. 5 aprile - Tadjadine Mahamat Babouri, un blogger del Ciad conosciuto da tutti come Mahadine, è rilasciato su decisione dell’Alta corte in quanto la sua detenzione preventiva aveva ecceduto i limiti previsti dalla legge. Era in carcere dal 30 settembre 2016 con le accuse di aver minacciato l’ordine costituzionale, l’integrità territoriale e la sicurezza nazionale nonché di aver collaborato con un movimento insurrezionalista, per le quali rischiava l’ergastolo. 15 maggio - In Malaysia viene rilasciato Anwar Ibrahim, il più noto oppositore politico del paese. Per 20 anni le autorità del paese, attraverso accuse e condanne pretestuose per sodomia e corruzione, avevano cercato di tappargli la voce. Sin dal 1998 Amnesty International lo aveva adottato come prigioniero di coscienza. 26 giugno - Noura Hussein, donna condannata a morte in Sudan per aver ucciso in un atto di autodifesa il marito stupratore che era stata costretta a sposare da minorenne, ha ottenuto la commutazione della pena in cinque anni di reclusione e un risarcimento di circa 7200 euro alla famiglia della vittima. 4 luglio - Otto ex militari vengono condannati a 18 anni di carcere da un tribunale del Cile per il sequestro e l’omicidio del cantautore, direttore teatrale e docente universitario Víctor Jara. 20 agosto - Dopo oltre 700 giorni di carcere un provvedimento di grazia del re della Cambogia libera Tep Vanny, la leader del movimento per il diritto alla casa condannata a due anni e mezzo di carcere nel febbraio 2017 per il pretestuoso reato di “violenza intenzionale aggravata”. 27 settembre - Dodici stati dell’America Latina e dei Caraibi firmano l’Accordo di Escazú, il primo trattato vincolante in materia di protezione del diritto a ricevere informazioni, partecipazione delle comunità e accesso alla giustizia su questioni ambientali e che contiene precise disposizioni a tutela dei difensori del diritto all’ambiente. 30 ottobre - Haytham Mohamdeen, difensore dei diritti umani e avvocato del lavoro in Egitto, è rilasciato dopo oltre cinque mesi di carcere. Era stato arrestato il 18 maggio per “protesta non autorizzata” e “appartenenza a gruppo terroristico” nel contesto di una serie di manifestazioni pacifiche contro le misure di austerità adottate dal governo, nonostante non vi avesse preso parte. 13 novembre - Il parlamento del Libano approva la Legge sulle sparizioni forzate. Si tratta del primo riconoscimento ufficiale della sofferenza dei parenti delle oltre 17.000 persone scomparse durante il conflitto armato durato 15 anni, dal 1975 al 1990. 17 dicembre - La Corte suprema della Tailandia dichiara innocente e assolve Denis Cavatassi, il cittadino italiano arrestato nel 2011 e condannato alla pena di morte nel 2016 con l’accusa di essere il mandante dell’omicidio del suo socio d’affari. Kenya. La polizia: “Silvia Romano è viva ed è ancora nel Paese” La Stampa, 26 dicembre 2018 La cooperante italiana è stata rapita il mese scorso nel villaggio di Chakama. La polizia kenyota è convinta che la cooperante italiana, Silvia Romano, rapita il mese scorso nel villaggio di Chakama, nel sud-est del Paese, sia “ancora viva” e che “non sia stata portata fuori dal Kenya”. Lo ha riferito, in un briefing sulla sicurezza, il comandante della polizia della costa, Noah Mwivanda. “Abbiamo informazioni cruciali, che non vi possiamo rivelare, che ci fanno pensare con certezza che Silvia Romano sia ancora viva e che la troveremo”, ha spiegato. “Abbiamo sul campo tutte le risorse necessarie per l’operazione e sappiamo che è ancora in Kenya”, ha assicurato. Nelle scorse settimane nella caccia ai rapitori di Silvia Costanza Romano, la polizia keniana ha compiuto un centinaio di arresti e fermi in un paio di villaggi. Il capo dello Stato Uhuru Kenyatta “si è detto fiducioso in una soluzione positiva” della vicenda in un colloquio con il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani. Il presidente keniano “mi ha assicurato tutto il suo impegno” per salvare la giovane, ha riferito lo stesso Tajani. “Stiamo facendo tutto il possibile con tutti i mezzi che uno Stato ha a disposizione per riportare a casa Silvia. Siamo fiduciosi”. ha detto il ministro dell’Interno, Matteo Salvini ai microfoni di Rainews24. “So - ha aggiunto - che il ministero degli Esteri lavora giorno e notte. Ma ci hanno chiesto di non entrare nel merito delle iniziative in corso”. Libri al posto dei cannoni, Dante Alighieri arriva in Libano di Pier Luigi Vercesi Corriere della Sera, 26 dicembre 2018 Dopo l’accordo con il ministero della Difesa, è in partenza con il progetto “Biblioteca della pace” un contingente di volumi per militari della missione Unifil e giovani locali. Le casse vengono sistemate sul volo militare in partenza dall’aeroporto di Pratica di Mare per il Libano. È il primo “contingente” con cento speciali munizioni destinate a combattere una guerra tutta particolare in una delle aree più calde del mondo. Non è dunque un caso che l’operazione scatti a pochi giorni dal Natale. Ed è solo l’inizio. Le casse sono state riempite a Palazzo Firenze, a Roma, dove ha sede la Società Dante Alighieri, fondata nel 1889 da Giosuè Carducci e da allora impegnata nella missione di diffondere la lingua e la cultura italiane all’estero. Negli ultimi anni, sotto la spinta del presidente Andrea Riccardi (fondatore della Comunità di Sant’Egidio) e del segretario generale Alessandro Masi, si è arricchita di un’ulteriore vocazione: fare della lingua italiana uno strumento della diplomazia di pace. Così, dopo l’accordo firmato con il ministero della Difesa, la Dante ha avviato un progetto di formazione linguistica per i contingenti internazionali di pace Unifil in collaborazione con le Forze armate libanesi. Durante la cerimonia d’inaugurazione del piano didattico alla base Millevoi di Shamaa (Tiro, nel sud del Libano), con decine e decine di militari libanesi che, in tre semestri di studio, impareranno a parlare perfettamente l’italiano, ci si è accorti che mancavano centri di aggregazione che potessero promuovere relazioni culturali tra i militari impegnati nei teatri di guerra. Occorrevano forse dei bar? Delle sale giochi? No, la richiesta era di biblioteche, di luoghi dove i militari e i locali potessero prendere a prestito volumi e scambiarsi impressioni sulle letture, sia di classici sia di autori contemporanei, convinti che i processi di pace passino necessariamente attraverso l’abbattimento delle barriere culturali. Si sa - è provato scientificamente - che i libri moltiplicano l’esperienza dell’altro e aumentano notevolmente l’empatia tra persone di differenti estrazioni religiose e sociali. Mentre gli adolescenti locali, tra il rullare di tamburi e il lontano richiamo alla preghiera del muezzin, intonavano per l’occasione la canzoncina Ci vuole un fiore imparata in quattro giorni, il segretario generale Masi stringeva accordi per dare una soluzione al problema: mille libri (in italiano) saranno spediti dall’Italia per costituire il primo nucleo di un progetto pilota che, già nel 2019, si estenderà ad altre missioni militari Unifil nelle aree di crisi, dal Kosovo all’Afghanistan, dall’Iraq alla Somalia, dalla Libia al Mali. La scelta dei libri non è casuale. Ci concedono di curiosare tra le scatole prima che vengano sigillate per essere imbarcate a bordo dell’aereo militare: ecco Benedetto Croce, ecco Luigi Pirandello, una Divina Commedia illustrata, La ragazza con la Leica, vincitrice quest’anno del premio Strega, le Metamorfosi di Ovidio e le Storie di Erodoto, le Stanze e logge di Raffaello; c’è anche un Viaggio sentimentale nella letteratura italiana e Troppo belle per il Nobel: la metà femminile della scienza, nonché, in fondo alla scatola, un libro dall’eloquente titolo Viva il congiuntivo!. Sulle casse è stampigliato il nome della missione: “Biblioteca della pace”. La speranza è che le case editrici italiane diano una mano a integrare i volumi raccolti dalla Dante. “Non è una forzatura - tiene a precisare il presidente Riccardi -, l’italiano si sta dimostrando in più parti del mondo una lingua di pace e relazioni. Sarà perché è la lingua di Roma, sarà che i nostri militari, per loro indole, hanno facilità di dialogo con i locali, con un approccio che ispira più fiducia dei contingenti di altre nazioni. Ce ne siamo accorti e abbiamo capito che dovevamo premere il piede sull’acceleratore. I nostro comitato di Amman, in collaborazione con l’Ufficio della Difesa presso l’ambasciata d’Italia in Giordania, ad esempio, ha avviato corsi di italiano per ufficiali delle Forze armate giordane. Pur non essendo presenti con una sede in Kosovo, su richiesta dell’Esercito italiano presente in loco, la Dante ha già inviato centinaia di libri nella città di Peja. E siamo solo all’inizio, con l’operazione “Biblioteche della pace”, al posto delle munizioni, mettiamo libri nei cannoni”. “Mentre preparavamo le casse - conclude Masi - mi tornava in mente una frase di Ismail Kadaré: “L’occupazione italiana dell’Albania è stata meno dolorosa perché ci hanno portato Dante”. Ecco, noi vorremmo portare Dante a tutti, ma senza occupazione”. Stati Uniti. La carovana dei migranti resta ferma in Messico di Lucia Capuzzi e Nicola Nicoletti Avvenire, 26 dicembre 2018 No dei giudici al piano di Trump che impediva le richieste di asilo agli illegali. Ma gli Usa restano “chiusi”. Bloccati a Tijuana in 2.600, altri puntano su Juárez. “Vuol dire che ci faranno entrare?” La voce di Harlin si entusiasma per un momento quando gli viene annunciata l’ultima decisione della Corte Suprema. Cinque giudici su quattro, venerdì, hanno bocciato la stretta voluta dal presidente Donald Trump il 19 novembre, con cui si impediva a chiunque entrasse illegalmente negli Usa via terra di presentare richiesta d’asilo. Nemmeno lo stop dei magistrati - un “regalo di Natale”, sottolineavano i media -, però, è in grado di consegnare al popolo della Carovana le chiavi della “gabbia dorata” statunitense. Dei diecimila, partiti dall’honduregna San Pedro Sula il 13 ottobre e arrivati a metà novembre a Tijuana, al confine con gli Usa, sono rimasti in 2.600. Gli irriducibili, li hanno soprannominati. Attendono ostinati nel rifugio El Barretal, dove li hanno alloggiati le autorità dopo l’allagamento della precedente sistemazione. “Arriverà, alla fine, il nostro turno di chiedere asilo, no? In Honduras, ho denunciato la gang che taglieggiava il mio quartiere. Non posso tornare: mi ucciderebbero”, racconta Harlin, 24 anni, fuggito da San Pedro Sula con la prima - e più numerosa - delle diverse Carovana in marcia verso Nord. I requisiti, però, contano poco. Giovedì, un accordo tra i governi di Washington e Città del Messico ha rivoluzionato le “regole del gioco”. I richiedenti asilo negli Usa non aspetteranno più la risposta nel Paese. Prima, dato l’ingolfamento dei tribunali, gli immigrati venivano lasciati in libertà in attesa dell’udienza che, in genere, arrivava dopo anni. La cancellazione della cosiddetta pratica del “catch and release” è da sempre uno dei cavalli di battaglia dell’attuale Amministrazione. Tanto da spingerla all'adozione di misure controverse, dalla separazione delle famiglie immigrate, all'ampliamento dei centri detentivi. Stavolta, Trump sembrerebbe aver trovato “la quadratura del cerchio”. Con l’aiuto, imprevisto, del vicino messicano. Quest’ultimo accoglierà i richiedenti asilo sul proprio territorio fino al verdetto Usa e darà loro un visto provvisorio. Il nuovo presidente, Andrés Manuel López Obrador, ha precisato che l’accordo è stato raggiunto per “ragioni umanitarie” e la misura è provvisoria. Per i carovanieri, però, il sogno americano, così “a portata di piede”, sembra inesorabilmente allontanarsi. “La sera, si vedono le luci di San Diego e del resto della California. È così vicina... Non perdo la speranza. Soprattutto ora che è Natale”, sottolinea Harlin. Già Natale. Lontani quattromila chilometri dalle famiglie, prigionieri di un labirinto burocratico, gli ospiti di El Barretal non rinunciano a celebrarlo con le tradizionali “posadas”: rappresentazioni della Natività spesso attualizzate. Non sorprende, dunque, che abbiano messo particolare enfasi nella non accoglienza, da parte degli abitanti di Betlemme, della Sacra Famiglia. “Anche qui da noi ci saranno le posadas”, afferma padre Javier Calvillo, direttore della Casa del migrante di Ciudad Juárez, sempre sulla frontiera, ma oltre mille chilometri più a est. Nel rifugio sono giunte, nelle ultime settimane, alcune centinaia di immigrati della Carovana, ansiosi di lasciarsi alle spalle “l’imbuto Tijuana”. A Juárez, la fila per presentare istanza di fronte alle autorità Usa è stata più fluida, almeno fino all'entrata in vigore delle nuove regole. Anche per loro, però, ora, il futuro è incerto. “Per sollevare il morale, abbiamo invitato la comunità locale a condividere le prossime serate con i nostri ospiti - dice padre Javier -. Tanti hanno chiesto di poter portare regali per i bambini. Altri delle specialità. Anche gli immigrati cucineranno i loro piatti tipici”. “Pure noi abbiamo coinvolte le famiglie, le parrocchie e il seminario: tutti ci danno una mano per non far sentire la solitudine ai nuovi arrivati”, aggiunge Linda Flor, prima laica a guidare la Pastorale migranti di Chihuahua, dove sono approdati diversi transfughi della Carovana. Non tutti, però, sono riusciti a trovare posto nei rifugi. Axel e la famiglia hanno lasciato il gruppo a Città del Messico e hanno puntato su Matamoros, dove dormono in un garage di conoscenti. “Ci avevano detto che era più facile “passare”“, afferma il 14enne che ha fatto la marcia in stampelle. Il 27 luglio, un proiettile della polizia nicaraguense gli ha tolto l’uso delle gambe. “Ma se verrò operato negli Usa, so che potrò guarire. Non mi importa quanto dovrò aspettare al freddo, per quanto tempo dovrò mendicare un po’ di cibo. Dio mi darà la forza di resistere, senza perdere la speranza”. Tunisia. Reporter si dà fuoco in piazza per denunciare i diritti dimenticati dei giovani La Stampa, 26 dicembre 2018 A Kasserine, il suo gesto alimenta una rivolta contro il governo poi sedata dalle forze di polizia. Per spingere i disoccupati della regione a scendere in piazza e reclamare il loro diritto al lavoro e a un futuro migliore, un giovane reporter tunisino di Telvza tv, Abderrazak Zorgui, si è dato fuoco in piazza dei Martiri a Kasserine, postando su Facebook - poco prima di appiccare le fiamme - un video. Zorgui è morto poche ore dopo il trasporto in ospedale. Nel video il giornalista spiega le ragioni del suo drammatico gesto: accusa il governo centrale per aver dimenticato Kasserine, spesso mascherandosi dietro alla lotta al terrorismo nella regione. Il suo tragico gesto ha innescato disordini a Kasserine: le forze dell’ordine sono state costrette a usare i gas lacrimogeni per disperdere un gruppo di giovani manifestanti scesi in piazza per rivendicare il loro diritto all’occupazione, spronati dal reporter. Solo in serata è tornata la calma. I media locali parlano di almeno tre arresti e pneumatici dati alle fiamme. Abderrazak Zorgui, prima di darsi fuoco con la benzina, si rivolge ai giovani disoccupati di Kasserine incitandoli a scendere per le strade per reclamare i propri diritti e denunciare la situazione di marginalizzazione in cui si trovano, 8 anni dopo la rivoluzione che non ha mantenuto le promesse di garantire un futuro migliore per tutti. Il giovane spiega il suo gesto con la precarietà sociale ed economica cui era costretto nonostante un impiego come corrispondente alla tv. Il sindacato nazionale giornalisti tunisini (Snjt) a seguito della notizia del decesso del giovane corrispondente ha annunciato in un comunicato la possibilità di indire uno sciopero generale della categoria. Per il sindacato infatti, è lo Stato che ha “contribuito a diffondere la corruzione e il denaro sospetto nel settore dei media assoggettandoli ad alcuni interessi”. Lo stato tunisino inoltre, secondo quanto si legge nel comunicato, ha fallito nel controllare i media e la loro conformità alle leggi sul lavoro a scapito dei giornalisti. Otto anni dopo la cd rivoluzione dei gelsomini la situazione socio-economica in Tunisia, specie nelle zone marginalizzate, continua ad essere difficile, con una disoccupazione giovanile con punte del 30%. Il gesto del giovane reporter tunisino di Telvza tv ricorda quello analogo del venditore ambulante, Mohamed Bouazizi, che per protesta contro le autorità che gli avevano sequestrato la merce, il 17 dicembre 2010. Bouazizi si diede fuoco a Sidi Bouzid, dando poi vita ad una serie di proteste popolari che sfociarono nella Rivoluzione dei gelsomini che costrinse, neanche un mese dopo, l’allora presidente Ben Ali alla fuga dal Paese.