Migliorare le condizioni delle madri detenute e dei loro figli è una battaglia di democrazia di Cristina Ornano* huffingtonpost.it, 25 dicembre 2018 “Non parlarmi degli archi, parlami delle tue galere”. Questo monito di Voltaire ci ricorda come niente più del sistema carcerario rappresenti la cartina di tornasole della condizione di una democrazia. E all’interno del mondo del carcere, ancora più indicativa dello stato di salute di una democrazia è la realtà vissuta dalle detenute, dalle detenute madri e dai loro bambini in particolare, soprattutto quando queste madri sono affette da disturbi psichici. Perché voglio parlare di loro? Perché si tratta di soggetti massimamente deboli e come tali considerati portatori di diritti deboli, poiché il loro potere “contrattuale” è considerato zero. Proprio per questo, nell’ottica di chi ha scelto di amministrare la giustizia e crede nella Costituzione, loro devono rappresentare una priorità. La cronaca più recente ce ne ha ricordato l’esistenza, rompendo la narrazione fiabesca, spingendoci alla frontiera del grande mistero della sofferenza della mente e costringendoci di fronte alla difficoltà drammatica che, spesso, sottende i rapporti fra madre e figli, soprattutto quando questi rapporti sono costretti ad esistere (e resistere) dietro le sbarre di un carcere, soprattutto quando nascono all’ombra della sofferenza mentale. Mi riferisco alla giovane donna che, a settembre, e dentro Rebibbia, ha ucciso i suoi due figli. Un fatto che ci ha sconvolto, che ha dominato la cronaca per diversi giorni. Poi, di nuovo, silenzio. Le donne in carcere sono quasi 2500, ben 904 sono straniere. Gli istituti femminili sono appena cinque (Empoli, Pozzuoli, Roma, Trani, Venezia), perché il resto della popolazione carceraria femminile è detenuta in reparti speciali nelle carceri maschili. Molte di loro soffrono di malattia mentale. Molte vivono una condizione di forte marginalità e di solitudine perché straniere e prive di riferimenti all’esterno. Rispetto a tale quadro così complesso, l’assistenza e l’offerta trattamentale, sempre insufficienti in carcere, lo sono a maggior ragione per le donne detenute, costrette ad adattarsi ad una realtà organizzata e pensata al maschile. Di questa umanità fanno parte 52 madri e 62 minori. Una trentina vivono negli Icam, degli altri trenta una metà a Rebibbia, la restante parte è dislocata in diversi istituti. Nel 2011, con la legge 62, è stato innalzato da 3 a 6 anni il limite di età dei bambini che possono vivere in carcere con le loro mamme. Sempre questa norma consente poi la possibilità di scontare la pena negli Icam, che sono istituti a custodia attenuata che consentono appunto alle madri di vivere con i propri figli in istituti carcerari ‘leggeri”, o in case famiglie protette attraverso cui si cerca di creare una dimensione familiare normale, con l’inserimento nella società. Gli Icam sono solo 5 (Avellino, Milano, Venezia, Torino e Cagliari). Le case famiglia sono esperienze rare. Il risultato è che vi sono ancora bambini che vivono in carcere, dietro le sbarre, con gravi conseguenze sul loro sviluppo psico-fisico, con spesso drammatiche conseguenze sulla loro stessa vita, come testimonia la vicenda di Rebibbia. Noi dobbiamo investire nell’attuazione piena della legge, condurre i bambini fuori dal carcere, favorire la creazione di case famiglia, approvare la riforma dell’ordinamento penitenziario. Iniziare anche ad interrogarci su come favorire il rapporto parentale quando le madri non possono più tenere con sé i figli negli Icam e nelle case famiglia. Dobbiamo investire e potenziare e articolare l’assistenza anche psicologica e l’offerta trattamentale all’interno del carcere e delle altre strutture alternative, pensare alle donne, pensare alle donne madri con i loro figli, pensare alle donne madri che soffrono psichicamente. E lo dobbiamo fare perché stiamo parlando di vite umane, per altro innocenti, ma anche perché ci giochiamo il senso stesso e la qualità della nostra democrazia. *Magistrato e segretario nazionale di Area Democratica per la Giustizia Trento: rivolta in carcere, la direttrice “servono più educatori e psicologi” di Linda Stroppa rainews.it, 25 dicembre 2018 Iniziato il trasferimento dei detenuti verso altri penitenziari, i problemi però restano. Gli insegnanti del Liceo Rosmini ricordano Sabri, il 32enne tunisino morto in cella. Una cinquantina di detenuti già trasferiti in altri penitenziari del Triveneto e dell’Emilia Romagna, altre decine in attesa. Uno spostamento necessario per permettere il ripristino dei locali e delle stanze gravemente danneggiati dalla rivolta scoppiata sabato mattina a Spini di Gardolo. Identificati i carcerati che l’hanno fomentata, la situazione pare essere tornata alla normalità. Confermata la messa di Natale: verrà celebrata dall’arcivescovo Lauro Tisi intervenuto sulla vicenda: “Questo Natale ci ricorda che i nostri sbagli e il dolore non sono mai l’ultima parola. Soffro per il detenuto che si è tolto la vita e sono vicino alla sua famiglia. È inimmaginabile il dolore che lo ha attraversato”. Nonostante la calma apparente, i problemi a Spini restano. Quello di Trento è un carcere fra i più moderni di italia, “ma una struttura all’avanguardia non è tutto”. “Mancano educatori (al momento sono solo 3), psicologi e medici, spiega la direttrice Francesca Gioieni, contro cui si scagliano alcuni agenti di polizia penitenziaria. “L’escalation è avvenuta negli ultimi tre mesi, tra incendi nelle celle e tentativi di suicidio”; dice Andrea Mazzarese del Sinappe che critica un clima troppo permissivo. Funziona bene invece il percorso scolastico. E proprio gli insegnanti del Liceo Rosmini di Trento che lavorano in carcere hanno voluto ricordare Sabri, il 32enne tunisino che venerdì notte si è tolto la vita nella sua cella. “Aveva una figlia, voleva rivederla prima di Natale. Gli piaceva cucinare. Certo a lezione, scrivono gli insegnanti, faceva fatica, ma diceva: in classe con voi non mi sento più solo. La scuola per lui era un riscatto, un’occasione per diventare migliore. È un vero dramma che il tempo del carcere continui ad essere, per la maggior parte, tempo di punizione, frustrazione e ingiustizia. Bisogna fare di più. Non possiamo restare a guardare”, si legge nella lettera. Trento: carcere devastato, gravi danni. Già trasferiti i capi della rivolta ladige.it, 25 dicembre 2018 Una calma sinistra - speriamo non apparente - è tornata sul carcere di Trento all’indomani della rivolta che sabato ha coinvolto tra 200 e 300 detenuti. I segni della protesta, devastante, sono evidenti in cinque “bracci” su otto. Ci vorranno settimane, anzi mesi e molte risorse, difficili da trovare per il Dipartimento dell’amministrazione finanziaria, per rimettere tutto a posto. Intanto sono cominciati i trasferimenti, un po’ perché alcune celle sono inagibili, un po’ per collocare altrove i detenuti ritenuti gli organizzatori o comunque i “duri” della protesta. Sono una cinquantina di reclusi, quasi tutti di nazionalità tunisina, come il 32enne che con il suo suicidio ha dato fuoco alle polveri della protesta. La procura della Repubblica ha aperto due inchieste. Il primo fascicolo è relativo alla morte di Sabri El Abidi. Diciamo subito che non ci sono dubbi sul fatto che il giovane detenuto si sia tolto la vita per soffocamento. Ma in questi casi l’esame autoptico è necessario non solo per avere una conferma della dinamica, ma anche per valutare l’eventuale assunzione di sostanze stupefacenti. L’incarico è stato affidato alla dottoressa Alessandra De Salvia dell’Istituto di medicina legale del policlinico di Borgo Roma (Verona). Ieri sono stati eseguiti i primi accertamenti preliminari, oggi l’autopsia. Del 32enne tunisino sappiamo poco: era a Trento da un paio di anni per scontare un cumulo di pena per reati legati allo spaccio di stupefacenti disposto dalla procura generale di Venezia. Era un detenuto “problematico”, arrivato con una lunga lista di sanzioni e richiami per una condotta turbolenta anche se a Trento, dove avrebbe commesso una sola infrazione, pare si fosse calmato. Sperava in uno sconto di pena che però, visto il suo “curriculum” penitenziario, difficilmente sarebbe stato pieno. Il fine pena per Sabri El Abidi era a maggio, ma il giovane - tossicodipendente come molti detenuti - a quella agognata data non è arrivato. Il secondo fascicolo riguarda la rivolta in carcere. La procura ha chiesto alla polizia penitenziaria una relazione dettagliata sui fatti. Le indagini sono già iniziate per avere un quadro esatto dei danneggiamenti (che riguardano il 60% della struttura) e per capire chi tra i detenuti abbia aizzato la protesta. Ieri sono iniziati i primi trasferimenti di detenuti. Sabato si era ipotizzato di ricollocare circa 180 persone in altri istituti di pena. Questi numeri sono stati ridimensionati anche perché i danni maggiori li hanno subiti le parti comuni (con plafoniere sradicate, sistemi di sorveglianza danneggiati, porte scardinate, termosifoni vandalizzati e zone allagate). Ora si ipotizza il trasferimento di un centinaio di detenuti che in parte già hanno lasciato il carcere di Trento. L’organizzazione è molto complessa e delicata, avvolta dal più stretto riserbo. Tutto questo è stato possibile grazie all’impegno della polizia penitenziaria, molti sono gli agenti rientrati dalle ferie per affrontare l’emergenza. Napoli: famiglia malato terminale morto dopo scarcerazione presenta esposto in Procura di Gaia Martignetti napoli.fanpage.it, 25 dicembre 2018 Ciro Rigotti è morto lo scorso 18 ottobre a casa sua, a Ponticelli, quartiere della periferia orientale di Napoli, dopo un calvario durato mesi: il 62enne, detenuto malato terminale di cancro, ha dovuto lottare per vedergli accordato il diritto di morire nella sua abitazione. Ora, la sua famiglia ha deciso di presentare un esposto alla Procura partenopea per verificare come sia stato gestito tutto l’iter della sua malattia, dalla diagnosi alle cure che gli sono state fornite, sia nel carcere di Poggioreale che all’ospedale Cardarelli. Parco Conocal, quartiere Ponticelli, Napoli. Ad aprirci la porta è Nunzia Rigotti, tra le mani stringe una cartella clinica, diagnosi, visite e dati in cui sono raccontati gli ultimi mesi di vita di suo padre Ciro, detenuto di Poggioreale, malato terminale, che ha lottato per morire a casa nel suo letto e non in una cella. Della sua vicenda Fanpage.it se n’è occupata a settembre, fino al momento in cui Rigotti si è spento tra le braccia di sua figlia, a casa, a causa di un tumore. Ora, in quella stessa casa, Nunzia ci spiega che il suo avvocato, Bruno Carafa, ha presentato un esposto alla Procura di Napoli, perché verifichi com’è stato gestito il paziente e “se ci siano state negligenze dal momento della diagnosi a quello delle cure. In materia di neoplasia, il tempo d’intervento è vita”, aggiunge l’avvocato Carafa, che sottolinea come non si punti il dito contro nessuno, con questo esposto. “L’ho promesso a mio padre in punto di morte. Non lo faccio solo per lui, ma per tutti. Tutti dovremmo avere il coraggio di cercare la verità, dovremmo diventare una sola famiglia. Non dico che si sarebbe salvato, prosegue Nunzia, ma magari avrebbe potuto vivere qualche mese in più”. Ciro Rigotti è morto il 18 ottobre dopo un interminabile pellegrinaggio tra il carcere di Poggioreale, dove stava scontando una pena di 9 anni per spaccio e l’ospedale Cardarelli. Prima della sua morte in tanti avevano chiesto che gli fossero concessi gli arresti domiciliari, per permettergli di morire a casa. Otterrà prima i domiciliari ospedalieri il 4 ottobre nel reparto cure palliative del Cardarelli. Aveva bisogno di cure che altrove non avrebbe potuto ricevere. Pur riconoscendo questa verità, in tanti poi chiesero che potesse lasciare quel letto d’ospedale, tra cui anche il garante dei detenuti della Regione Campania Samuele Ciambriello che, proprio ai microfoni di Fanpage.it, arrivò a parlare di un recluso che “illegittimamente si trova, in quelle condizioni, agli arresti domiciliari ospedalieri”. Il 16 ottobre dopo estenuanti lotte, Rigotti torna a casa, morendo due giorni dopo. A sollevare il caso fin dalle prime ore, è stato l’attivista per i diritti dei detenuti Pietro Ioia, oggi ancora accanto alla famiglia Rigotti per lanciare un appello alla politica. “Spero possano appoggiare la denuncia di Nunzia. Bisogna fare rete”. Rigotti negli ultimi mesi di vita, come testimoniato anche in alcuni video pubblicati da Fanpage.it, aveva perso peso e chiedeva solo di poter tornare a casa. La figlia più volte aveva ribadito che il padre aveva sbagliato e che era giusto pagasse, “ma non in questo modo”. Oggi Ciro Rigotti avrebbe compiuto 64 anni e Nunzia si dice quasi certa che suo padre non avrà giustizia. Civitavecchia (Rm): detenuta suicida, Ispettrice assolta per non aver commesso il fatto civonline.it, 25 dicembre 2018 Prescrizione del reato per gli altri imputati. La Corte d’Appello di Roma, dopo quasi 10 anni dai fatti, ha ribaltato la sentenza di primo grado emessa nel 2015 dal tribunale di Civitavecchia che aveva condannato per omicidio colposo tre dei quattro imputati. Soddisfatti gli avvocati Francesca e Pier Salvatore Maruccio: “Abbiamo rinunciato alla prescrizione proprio perché convinti dell’assoluta innocenza della nostra assistita”. Assolta per non aver commesso il fatto. Dopo quasi dieci anni di clamore e di grande sofferenza, si chiude nel migliore dei modi la vicenda giudiziaria che ha visto coinvolta l’ispettrice Cecilia Ciocci, imputata (art. 533, 535, 538, 539 cpp) insieme ad altre tre persone (Patrizia Bravetti, Marco Celli e Paolo Badellino) di omicidio colposo per il suicidio di Anna Toracchi, una 35enne affetta da sindrome bipolare che si trovava reclusa presso il carcere di Civitavecchia. Una vicenda sulla quale si concentrò una grande attenzione dei media. Il fatto suscitò infatti molto clamore sfociando in un processo, sviluppatosi a Civitavecchia, particolarmente importante e che oggi può ritenersi antesignano rispetto al ben noto “processo Cucchi”, per una vicenda comunque diversa, nella quale il 20 giugno del 2009 la ragazza, che era internata presso il carcere della città portuale, si tolse la vita con l’ausilio degli slip, a distanza di pochi giorni da un precedente tentativo. Venerdì sera c’è stata la sentenza della Corte d’Appello di Roma che, accogliendo il ricorso degli avvocati Francesca e Pier Salvatore Maruccio in rappresentanza dell’ispettrice Ciocci - coordinatrice della sezione femminile del carcere, vale a dire colei che aveva il diretto controllo della detenuta, ha di fatto stravolto la sentenza del tribunale di Civitavecchia che nel 2015 aveva condannato ad un anno di reclusione e al pagamento delle spese processuali tre dei quattro imputati (assolto lo psichiatra Paolo Badellino che aveva in cura la donna): oltre all’ispettrice Ciocci, il giudice monocratico Monica Ciancio aveva condannato per omicidio colposo in ragione delle loro funzioni, anche la direttrice del carcere Patrizia Bravetti, accusata di non aver disposto un regime di sorveglianza adeguato a scongiurare la tragedia, e il comandante delle guardie del penitenziario Marco Celli, comportando ai tre grandi problemi dal punto di vista amministrativo e della carriera. La storia è nota: la donna, pur avendo una serie di problematiche di carattere psicologico, comportamentale e psichiatrico, venne trasferita dal carcere di Rebibbia (attrezzato per determinate patologie) a quello di Civitavecchia, del tutto privo di supporti di conforto per i disagi mentali. La 35enne arrivò a Civitavecchia il 13 giugno del 2009 e il giorno stesso tentò il suicidio mentre veniva registrata presso il carcere: prese il cavo del televisore che si trovava lì e se lo avvolse intorno al collo, tentando di togliersi la vita. Intervenne lo psichiatra e lei fu messa in una cella senza suppellettili. Fu soprattutto ordinato, per evitare che ci fossero altri problemi analoghi, che si trattenesse in cella senza vestiti, cioè completamente nuda. Questa circostanza, che a primo impatto poteva sembrare inumana, era l’unica possibilità che aveva lo psichiatra, e quindi il carcere, di poter contenere la donna in ragione delle sue condizioni; di poter cioè evitare azioni autolesionistiche. Trascorsero altri quattro giorni, allorché la detenuta ripeté un gesto autolesionistico: venne cioè sorpresa a battere la testa contro il muro. Venne così richiesto che la donna fosse sottoposta ad una “sorveglianza speciale”, ma il carcere di Civitavecchia non era attrezzato, non avendo nemmeno il personale specializzato a casi di tale natura. La donna, quindi, non venne sottoposta ad una sorveglianza 24 ore su 24 come invece necessitava. Di fronte a questa situazione, dopo tre giorni la ragazza si suicidò, approfittando di un momento di disattenzione per togliersi la vita utilizzando, secondo l’accusa e secondo quanto emerso, i propri slip. “Siamo andati in appello rinunciando alla prescrizione, - spiegano gli avvocati Francesca e Pier Salvatore Marucci, difensori dell’ispettrice Ciocci - Nonostante le vicende risalissero al 2009 e quindi si fossero ampiamente prescritte, abbiamo avuto il coraggio, la testardaggine e il merito di resistere. La nostra è stata una scelta mirata. Da sempre siamo stati convinti dell’assoluta innocenza dell’ispettrice Ciocci. In questo momento di insistente giustizialismo, la sentenza di assoluzione per non aver commesso il fatto restituisce un po’ di sano equilibrio alla confusione che nella generalità delle persone si sta verificando. Siamo molto soddisfatti di aver contribuito a dare finalmente serenità alla signora Ciocci dopo dieci anni di grande sofferenza”. Gli altri due imputati, Bravetti e Celli, venerdì in Corte d’Appello sono andati in prescrizione. “Noi - aggiungono gli avvocati Francesca e Pier Salvatore Maruccio - abbiamo invece espressamente rinunciato alla prescrizione e sostenuto la discussione in maniera molto puntuale e la Corte d’Appello ha riconosciuto le nostre ragioni assolvendo la Ciocci per non aver commesso il fatto: con la formula, cioè, più ampia possibile, e rivoluzionando completamente la sentenza di primo grado”. Campobasso: visita in carcere dei Radicali “assicurare l’assistenza sanitaria” primonumero.it, 25 dicembre 2018 Celle strapiene, condizioni precarie. Un’ulteriore conferma delle criticità in cui versa il carcere di Campobasso arriva dopo la visita dei Radicali. L’altro ieri - 23 dicembre - hanno varcato la soglia di via Cavour per una ricognizione della Casa circondariale la delegazione composta da Gianmarco Cimorelli, Piernicola Di Iorio, Giancarlo Iemma e Mario Pietrunti, assieme ai consiglieri regionali Filomena Calenda (Lega) e Nico Romagnuolo (Forza Italia). “Come radicali siamo da sempre impegnati per il rispetto dei diritti umani e per lo Stato di diritto. Purtroppo il sistema carcerario italiano - il commento di Mario Pietrunti, dirigente nazionale di Radicali Italiani - è ancora orientato all’afflizione del recluso, mentre invece dovrebbe mirare a reintegrarlo nella società: altrimenti si alimenta soltanto violenza e crimine”. Dopo aver ringraziato “il comandante del carcere di Campobasso e tutto il personale per la cortesia e disponibilità nel corso della visita”, Gianmarco Cimorelli, coordinatore di Radicali Molise, evidenzia che “come la maggior parte degli istituti italiani, l’istituto presenta problemi di sovraffollamento, resi più gravi dall’inadeguatezza di alcune strutture interne e dalla carenza di un adeguato numero di persone adibite di sorveglianza. Siamo pertanto molto felici di aver avuto i consiglieri Calenda e Romagnuolo accanto a noi nella visita: la Regione può fare molto per rendere più umana la condizione carceraria, ad esempio migliorando l’assistenza sanitaria, di competenza regionale o promuovendo buone pratiche di reintegrazione nella società civile. Oggi quindi iniziamo un percorso che ci porterà nei prossimi mesi a visitare anche gli altri penitenziari della regione, ma ci auguriamo anche che sia un primo passo per avviare un dialogo costruttivo con tutte le realtà che gravitano intorno all’ambiente carcerario molisano, per portare avanti iniziative che nel concreto migliorino la condizione di vita e di lavoro in un’istituzione così importante per la nostra società”. Tappa in Sicilia invece per la deputata molisana Giuseppina Occhionero: accompagnata da Antonello Nicosia del Comitato nazionale Radicali italiani, ha ispezionato l’Ucciardone di Palermo, la casa circondariale di Sciacca, di Trapani e Agrigento. “Ho incontrato una grande umanità - racconta la parlamentare - di persone che vivono in spazi angusti e in una situazione igienica che è riduttivo definire precaria. Il sistema delle carceri in Italia non è degno di un Paese occidentale e ha assoluto bisogno di interventi, sia sul piano dell’amministrazione che dal punto di vista legislativo”. Bollate (Mi) “Amici di Zaccheo”, da 10 anni animano le giornate dei reclusi di Luisa Bove chiesadimilano.it, 25 dicembre 2018 Diverse le iniziative e i servizi: dal giornale “SaluteinGrata” allo Sportello salute, dai laboratori maschili e femminili alla squadra di volley. E poi il cineforum, il corso di fotografia e il coro. Non si contano a Bollate le associazioni, cooperative sociali e i progetti avviati in diversi reparti e che coinvolgono la popolazione carceraria. Gli “Amici di Zaccheo”, presenti fin dal 2008, nel tempo hanno moltiplicato le loro proposte. Si parte dalla redazione del giornale “SaluteinGrata”, dieci numeri all’anno. Spiega il presidente Nicola Garofalo: “Si occupa della tematica della salute a 360 gradi e ha lo scopo di informare anzitutto i detenuti, ma anche chi ci legge fuori”. Scritto in modo semplice, perché sia comprensibile a tutti, è redatto all’interno da una decina di reclusi, mentre la stampa è esterna. “Io sono l’editore come presidente dell’associazione, il direttore è un volontario e poi c’è una giornalista che dà una mano”. L’abbonamento costa 30 euro all’anno e le copie vengono spedite direttamente a casa (info: amicidizaccheo-lombardia.it). “Abbiamo anche lo Sportello salute - continua Garofalo, aperto un pomeriggio alla settimana, gestito da un medico volontario e da un detenuto, che fa consulenza a chi la richiede”. Lo scopo è soprattutto quello di dare informazioni, ma l’associazione organizza anche incontri con specialisti sui temi della salute. Al reparto maschile un gruppo di uomini è impegnato nel laboratorio di bigiotteria, mentre al femminile le donne realizzano filati, lavori all’uncinetto, sciarpe, grembiuli, maglioncini, venduti a mercatini interni o esterni a Bollate, anche in occasione del Natale. “Esiste anche una squadra di volley, le “Tigri di Bollate” - spiega il presidente -. Sono 12 ragazze del reparto femminile che si allenano da marzo a settembre una volta alla settimana con allenatrici volontarie”. Le partite sono giocate dentro e fuori dalle mura della Casa di reclusione. Finora hanno quasi sempre perso, ma d’altra parte le pallavoliste hanno età varie e, allenandosi solo il sabato pomeriggio, non possono pretendere di sconfiggere in campo avversarie troppo forti. “Però ce la mettono tutta”, assicura Garofalo. Gli Amici di Zaccheo gestiscono anche il cineforum al reparto maschile, con la proiezione di film a tema e una discussione finale che coinvolge di solito 7/8 uomini. “Insieme ad altre associazioni - continua il presidente, ci occupiamo dell’accoglienza dei “nuovi giunti”, uomini e donne che arrivano da altri istituti di pena (San Vittore, Opera, Vigevano) e che ricevono dai volontari tutte le informazioni necessarie per vivere nel carcere di Bollate, ma anche le attività offerte dalle varie realtà attive all’interno”. Infine è stato avviato anche un corso di fotografia cui partecipano 4 o 5 detenuti e due volontari, mentre l’ultima novità è il coro, composto al momento da una dozzina di voci. Verbania: “I colori del riscatto”, gli scatti dei detenuti a Villa Olimpia verbanonews.it, 25 dicembre 2018 “I Colori del Riscatto. Non solo fotografia”, raccoglie una quarantina di scatti e pensieri dei detenuti nel carcere di via Castelli esposti fino a mercoledì 27 sotto il portico di Villa Olimpia. Il tema della mostra è stato ricamato a mano da uno di loro. Le immagini che mostrano la vita interna alla casa circondariale di pena sono accompagnate da note esplicative come quella ad inizio percorso espositivo: “La forza del Riscatto. Quando si giunge alla fine di un tunnel, specchio amaro di scelte sbagliate, esiste una possibilità grande per ogni detenuto, quella di riscattare il proprio essere, estrapolare la sua vera linfa vitale, sana e pulita, quella dell’io vero”. Gli scatti in mostra sono il prodotto del corso di fotografia all’interno del carcere tenuto dall’ex presidente del cine foto club Verbania Tonino Zanfardino. Nutrita la presenza, ieri all’inaugurazione dei volontari di “Camminare Insieme” che assistono i detenuti nei loro bisogni materiali, di tutto l’associazionismo che ruota attorno al carcere. A rappresentare il comune la vicesindaco Marinella Franzetti, presenta la garante dei detenuti Silvia Magistrini. Reggio Calabria: Associazione Biesse vicino alle detenute e ai loro bambini citynow.it, 25 dicembre 2018 Biesse vicino alle donne detenute e ai loro bambini dona panettoni, torroni e dolci natalizi. Un piccolo gesto per far sentire meno la solitudine. Biesse Associazione Culturale Bene Sociale come ogni anno porta la propria vicinanza alle donne detenute della casa circondariale reggina diretta dalla Dott.ssa Carmela Longo sempre attenta e sensibile,esempio di professionalità ed umanità. L’anno passato avevamo donato cinque enciclopedie multimediali che hanno arricchito la biblioteca della Casa Circondariale G. Panzera, ormai è una consuetudine per Biesse portare la propria vicinanza a chi vive recluso afferma la Presidente Biesse Bruna Siviglia- Natale deve essere per tutti “nessuno escluso mai “diceva il grande Don Italo Calabrò, è con questo spirito che dobbiamo avvicinarci al Santo Natale. Natale deve essere tutti i giorni continua Bruna Siviglia ognuno di noi è chiamato ad essere portatore di speranza, la speranza di essere uomini e donne del fare come ci insegna l’Arcivescovo Fiorini Morosini. Insieme alla Presidente Siviglia nel momento della consegna oltre la Direttrice Carmela Longo erano presenti anche il Dott. Antonio Enrico Squillace socio dell’associazione e il Dott. Emilio Campolo Educatore della casa circondariale che tanto fa con amore e spirito di abnegazione per i detenuti e le detenute del carcere reggino. Lecce: doni di Natale per i bambini in visita nel carcere leccezionale.it, 25 dicembre 2018 Giornata dedicata alla consegna delle strenne ai bambini che si recano in visita ai propri genitori detenuti nella struttura di Borgo San Nicola. Un carico di doni è arrivato nel giorno della Vigilia di Natale nel carcere di Lecce. L’Amministrazione Penitenziaria della Casa Circondariale di Borgo San Nicola ha infatti organizzato per oggi una giornata per consegnare i regali ai bambini in visita ai propri genitori detenuti. I giochi - donati da Leo Club Maglie, Città del Sole di Lecce e la società di informatica Link - saranno consegnati nella Biblioteca dei Bambini di recente realizzazione. “È un’iniziativa che va in direzione di una maggiore attenzione che l’Istituto vuole rivolgere ai bambini che, quotidianamente, fanno visita al proprio genitore detenuto - afferma la direttrice Rita Russo. Ci stiamo impegnando affiché i piccoli visitatori (centinaia ogni settimana) arrivino in un luogo non ostile, lo stiamo facendo attrezzando il carcere con spazi e occasioni per i bambini e per le loro famiglie, sposando convintamente proposte e progetti in collaborazione con associazioni ed enti pubblici e privati. Crediamo nella tutela dell’infanzia e nella riconnessione famigliare come potente fattore di riabilitazione sociale dei nostri detenuti”. Le iniziative dedicate ai bambini e ai ragazzi in visita, proseguiranno con l’annuale appuntamento della consegna della calza della Befana a cura della Comunità Speranza, con l’inaugurazione a gennaio di un nuovo spazio per le famiglie in collaborazione con il Rotary di Lecce e con le attività in programma tutto l’anno con il progetto “Giallo, Rosso e Blu” - promosso dall’associazione Fermenti Lattici insieme alla Casa Circondariale - allo scopo di creare un modello di accoglienza per i minori in visita. Volterra (Pi): il legame tra i detenuti e i bambini di Aleppo di Gian Paolo Donzelli La Repubblica, 25 dicembre 2018 Forse i detenuti del carcere di Volterra quando hanno pensato di organizzare un pranzo di beneficenza in favore dei bimbi mutilati di Aleppo, in cuor loro devono averli sentiti singolarmente vicini. Forse hanno intravisto, leggendo le notizie di quella guerra lontana, il segno embrionale e confuso di un comune destino: quello di vivere entrambi prigionieri di barriere insuperabili. A Volterra la mura del carcere, ad Aleppo le orrende menomazioni della guerra, che sprofondano nella terra quello che resta di quei corpi mutilati. Segni e memorie di un unico sottosuolo dell’anima, nella quale, secondo Fedor Dostoevskij, non penetra nessuna luce e che non riusciamo a capire, prima ancora che governare. Ma questi uomini che fanno gli “onori di casa” in questa fortezza un po’ tetra tutto sono fuorché inattivi o rassegnati. Sembrano avere fatto pace con se stessi e con la società, di cui si sentono, nonostante tutto, parte ancora attiva. Il valore rieducativo della pena con loro sembra una realtà e non una utopia. Come forse i lettori sanno, già nel 2017 la Fondazione Meyer ha avviato un importante intervento umanitario ad Aleppo, assicurando assistenza medica e cure, nel progetto più ampio “Bambini nel Mondo”. Quest’anno, grazie alla collaborazione nata con Unicoop Firenze e per il suo tramite con la Fondazione “il Cuore si scioglie” e con la Fondazione Giovanni Paolo II e Arci Toscana, il progetto si consolida, intensificando l’aiuto per quei bambini che, a causa del conflitto e, in particolare, delle mine disseminate per colpire indistintamente militari e popolazione civile, hanno perso l’uso di gambe o braccia. Ventiquattro mila bambini in sei anni di guerra hanno perso la vita, le liste dei mutilati si allungano ogni giorno. In questi giorni di festa che si vorrebbero sereni il pensiero corre verso chi già non aveva niente e oggi non ha nemmeno la vita. Vedete allora il video che trovate sul sito della Fondazione Il Cuore si scioglie. Come a Volterra un’altra fortezza ha resistito alla distruzione: è la antica cittadella fortificata. Per il resto Aleppo è solo polvere e pietre, cumuli di macerie avvolte da un innaturale silenzio. Eppure, una madre che ha visto il figlio morire per mano di un cecchino, trova parole di dolorosa serenità: “Se ci fosse stata pace nell’animo delle persone questa guerra non sarebbe mai scoppiata”. Questa madre non vuole finire nel sottosuolo, vuole ostinatamente coltivare ancora la speranza. Così come è incredibilmente forte e ammirevole una giovane, sepolta una sera al rientro dal lavoro sotto le macerie di casa: “Sono piena di sogni e mi aspetto molto dalla vita”. Sembrerebbe un errore di traduzione, se ci si limitasse a guardare il suo viso devastato, i denti persi, le cicatrici che rendono il suo sorriso penoso. Ecco un’altra che non vuole finire nel sottosuolo, nell’accidia e nella commiserazione. Forse non ha letto Dostoevskij, ma ne sa per esperienza più dello scrittore russo: la sofferenza è sempre irrazionale, è sempre meglio vagheggiare la felicità, anche se appare irraggiungibile. Sentire queste storie, vedere quei volti continuare a sorridere in mezzo alle macerie e alla morte, dà la misura della grandezza dell’animo umano, e della sua vocazione indomabile per la felicità e la bellezza. Non è un caso che i frati francescani, che sono voluti rimanere ad Aleppo, soccorrono i corpi ma non dimenticano di allietare l’anima con spettacoli, arte e cultura, un po’ come fanno i detenuti di Volterra con la loro Compagnia della Fortezza. Spoleto (Pg): spariscono le barriere tra papà detenuti e figli di Sara Fratepietro tuttoggi.info, 25 dicembre 2018 “La storia di papà” è il progetto culminato con una canzone scritta da 9 detenuti insieme a Chiara Napolini, Elisa Montelatici e Francesco Morettini | Emozionante incontro con i loro figli. Alcuni di loro i propri papà li hanno incontrati sempre e soltanto dietro le sbarre del carcere, tutti dovranno aspettare ancora anni prima di poterli rivedere a casa. Ma l’affetto tra padre e figlio quelle sbarre non possono comunque ridurlo. Lo si vede dai loro occhi, durante i colloqui: quegli sguardi colmi d’amore fanno essere inutile ogni parola, ogni spiegazione. Ed è proprio sul rapporto tra padre e figlio che è stato incentrato il progetto che è stato realizzato all’interno della casa di reclusione di Maiano di Spoleto. Antonino, Carmine, Fortunato, Franco, Giuseppe, Lorenzo, Raffaele, Santo e Simone sono nove padri. Nella loro vita hanno sbagliato ed ora stanno scontando la loro pena, con la speranza di uscire un giorno ed essere uomini migliori. Sono detenuti nel circuito dell’alta sicurezza, condannati per reati vari e in alcuni casi molto gravi, ed in carcere dovranno passare molti anni. Sono quasi tutti molto giovani ed hanno figli adolescenti o piccoli. Ma qual è il rapporto che un padre recluso ha con i propri figli? Ha voluto indagare proprio questo aspetto l’iniziativa “La storia di papà”, culminata con la realizzazione, da parte dei nove detenuti coinvolti, di una canzone scritta e cantata da loro stessi, fatta ascoltare alle proprie famiglie durante un emozionante incontro avvenuto all’interno del carcere spoletino. Emozionante per le famiglie, emozionante per chi ha accompagnato i nove detenuti in questo percorso ed emozionante anche per gli esterni che hanno partecipato. L’obiettivo del progetto, che è stato coordinato dall’artista Chiara Napolini e dalla psicologa Elisa Montelatici con la supervisione del funzionario giuridico pedagogico Sonja Tortora, era quello di tutelare la relazione tra genitore detenuto e figlio in età evolutiva (3-12 anni) ed ha visto il contributo della Presidenza del Consiglio regionale dell’Umbria e del Consorzio della Bonificazione umbra. I detenuti hanno tirato fuori le proprie emozioni, parlando del rapporto con i propri figli ma anche di quello con i propri genitori, trasformandole poi in parole e musica. A musicare la canzone che ne è uscita fuori è stato il maestro Francesco Morettini, mentre la copertina del cd è stata realizzata dalla studentessa Alessia Norgini. “Grazie a lei” è il titolo della canzone. “Lei” intesa in vari modi: la sofferenza data dall’essere padri imperfetti ed assenti, grati allo stesso tempo per questa “lei” che in qualche modo si occupa dei piccoli al posto loro, fungendo e da filo conduttore e da mediatore, ed il cui senso è stato inteso volutamente in maniera generica; lei appunto è anche una madre, una sorella, una moglie, è l’arte, la musica, la lettura”. Gli incontri si sono tenuti da marzo a dicembre 2018 sia per i detenuti di media sicurezza (i quali hanno invece prodotto un calendario per i propri figli con testi e disegni originali e tenuto dalla dottoressa Chiara Napolini e dalla dottoressa Clotilde Buceti) che per quelli appunto di alta sicurezza che qualche giorno fa hanno finalmente incontrato i loro figli per presentar loro la canzone in vista delle festività natalizie. È stata una vera e propria festa per otto papà (il nono non ha potuto partecipare per impegni processuali), mogli e figli, alla presenza dell’Area trattamentale della casa di reclusione di Maiano, del magistrato di sorveglianza Grazia Manganaro e del personale interno ed esterno all’istituto che ha collaborato al progetto. “È stato un progetto meraviglioso, che ci ha dato emozioni ineguagliabili” ha spiegato Santo, uno dei detenuti coinvolti. “Grazie di averci regalato questa opportunità, ero stonato ma mi sono messo in gioco, ho superato alcuni limiti - ha detto invece un altro dei papà, Antonino - vivere questa emozione è una cosa straordinaria, anche questo incontro oggi con i nostri figli”. “Mi ha reso felice vedere l’evoluzione di un gruppo che all’inizio ha avuto difficoltà ad aprirsi e poi invece lo ha fatto in modo spontaneo” ha evidenziato Sonja Tortora. “Chiara Napolini ha tradotto a livello artistico - ha aggiunto il funzionario - quello che è emerso, è stato scritto un testo poi musicato dal maestro Morettini. Oggi siamo qui per trasmettere all’esterno quello che si fa di positivo qua dentro, per far capire che non ci sono barriere nel rapporto tra genitori e figli”. “Durante gli incontri - ha spiegato la psicologa Elisa Montelatici - abbiamo affrontato il tema della genitorialità attraversando anche tematiche dolorose. I papà si sono fidati di noi, si è creato un gruppo”. E proprio la nascita di un “gruppo in cui tutti abbiamo messo qualcosa” è quanto ha rilevato anche Chiara Napolini, che ha voluto fare i complimenti ai nove padri detenuti interessati dall’iniziativa: “non mi interessa chi erano fuori, ma quello che ho davanti. Ai bambini dico: siete fortunati, avete dei grandi papà”. “Per me è stato un privilegio lavorare qui dentro - ha commentato Francesco Morettini che ha musicato la canzone e l’ha registrata insieme ai detenuti all’interno del carcere spoletino - cito un mio collega per dire: la musica è la via di uscita tra il bene e il male, la musica è la via di uscita”. Nuoro: furto sacrilego, colletta in carcere per ripagare il danno di Luciano Piras La Nuova Sardegna, 25 dicembre 2018 I detenuti di Badu e Carros si quotano per ripagare il danno subito dalla chiesa della beata Gabriella. Appena hanno saputo del furto messo a segno nella chiesa parrocchiale della Beata Maria Gabriella Sagheddu, tra i detenuti di Badu e Carros è subito scattato il tam-tam. E in quattro e quattro otto, radio carcere ha diffuso la proposta partita dalla sezione Alta sicurezza: promuovere una colletta per racimolare il bottino rubato qualche notte fa dal tempio sacro di via Biasi, a poca distanza dalla Casa circondariale. Il passa parola da una cella all’altra è stato velocissimo: tant’è vero che i detenuti hanno già raccolto un po’ di soldi, mettendoli da parte per consegnarli appena possibile direttamente nelle mani del parroco don Pietro Borrotzu. “Un segnale di speranza” è il commento a caldo del sacerdote. “Questo sta a significare che la linea di demarcazione tra il bene e il male è molto sottile anche all’interno della stessa persona”. “Bisogna anche riflettere sul detto comune che vuole i cattivi in carcere e in buoni fuori” punzecchia questo prete di frontiera, da sempre impegnato nella pastorale sociale e del lavoro. Lo stesso parroco che da diversi anni ha messo su, davanti alla chiesa che guida dal 1989, una struttura pionieristica di prima accoglienza per i familiari dei detenuti e per i detenuti stessi che escono in permesso dal carcere. Lo stesso prete coraggio che sta facendo della giustizia riparativa un unico verbo civile prima ancora che cristiano, un esperimento concreto di confronto tra rei e vittime che da Nuoro sta interessando il resto dell’Italia. E forse è proprio per questo che i detenuti di Badu e Carros hanno reagito con tanta tempestività alla notizia del furto sacrilego. Hanno saputo, in particolare, che quel migliaio di euro rubato dalle cassette delle offerte era il frutto di una raccolta fatta qualche giorno fa tra i bambini della parrocchia per aiutare i missionari in giro per il mondo e i più poveri, magari quelli del quartiere nuorese che ingloba il penitenziario. Ospiti più volte di don Borrotzu, sono loro, ora, i detenuti che ridanno il sorriso al parroco, già provato dalla “tristezza e lo sconcerto” che lo ha investito mercoledì scorso, vedendo quanto era successo la notte precedente nel santuario intitolato alla suora di Dorgali. Un colpo messo a segno da professionisti dello scasso, una banda di perfezionisti che conosceva a menadito la chiesa. Alleggerito il simulacro della beata Maria Gabriella Sagheddu dagli ex voto che portava quale segno di ringraziamento dei suoi numerosi fedeli, i malviventi avevano poi svuotato le cassettine delle offerte. Un migliaio di euro in soldi contanti, più il valore degli ori e argenti rubati alla beata. Entrati in azione attraverso una finestra laterale, i ladri di fede non hanno lasciato alcuna traccia di se: né impronte né alcuna immagine del sistema di videosorveglianza, dotato di ben quattordici telecamere. Sfilati i cavi con particolare maestria, stando attenti a non causare danni al sistema computerizzato, i ladri hanno rubato anche l’hard disk. Palermo: il regalo delle deputate 5 Stelle ai detenuti del Pagliarelli palermotoday.it, 25 dicembre 2018 Un tavolo da ping pong, giochi e 150 libri. Così le deputate del M5S Valentina D’Orso e Roberta Alaimo: “Le istituzioni devono farsi presenti con chi vive l’esperienza della detenzione”. Ieri mattina le deputate del M5S Valentina D’Orso e Roberta Alaimo hanno partecipato alla messa celebrata dal Vescovo di Palermo, Monsignor Lorefice, nel carcere Pagliarelli. Il M5S di Palermo nel mese di dicembre ha raccolto, grazie all’iniziativa “LiberaMente, un libro per il riscatto” e al generoso contributo di simpatizzanti e attivisti del territorio palermitano, 150 libri e 4 giochi da tavolo che nei prossimi giorni saranno consegnati, insieme a un tavolo da ping pong, alla direttrice, Francesca Vazzana, per i detenuti della struttura. “Le istituzioni - dicono D’Orso e Alaimo - devono farsi presenti con chi vive l’esperienza della detenzione, che non deve essere pensata esclusivamente come tempo di espiazione della pena, ma come percorso di rieducazione e reinserimento sociale. Oggi (ieri, ndr), partecipando alla celebrazione della Santa Messa in preparazione del Natale, abbiamo avuto modo di vivere con emozione un momento di condivisione e di speranza di riscatto interiore per tanta gente che ogni giorno deve trovare la forza di vivere col sorriso. E proprio un semplice sorriso abbiamo voluto donare ai detenuti consegnando loro libri e giochi da tavolo. Vogliamo ringraziare il direttore della casa circondariale Pagliarelli di Palermo, tutto il personale della polizia penitenziaria, lo staff di supporto socio-psico-pedagocico e i tanti volontari che abbiamo incontrato in queste occasioni”. Torino: “Liberi di imparare”, il Museo Egizio e il carcere collaborano cinquecolonne.it, 25 dicembre 2018 Repliche degli oggetti della collezione realizzate dagli studenti-detenuti della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno in mostra al Museo Egizio. È stata inaugurata la mostra temporanea “Liberi di imparare. L’antico Egitto nel carcere di Torino”. L’esposizione, aperta gratuitamente al pubblico fino al 21 gennaio 2019, ospita repliche di papiri, cofanetti, vasi e altri oggetti significativi del corredo della tomba dell’architetto Kha e di sua moglie Merit, riprodotti fedelmente dai detenuti della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno, che frequentano i percorsi scolastici interni al carcere. La mostra è una tappa del progetto Liberi di imparare nato dalla collaborazione del Museo Egizio con la Direzione del carcere e l’Ufficio della Garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Torino, nell’ambito dei programmi di formazione per garantire ai detenuti il diritto alla fruizione del patrimonio culturale della città. L’Istituto tecnico Plana e il Primo Liceo Artistico di Torino sono presenti da molti anni con sezioni scolastiche presso la Casa Circondariale dove, nel 2018, le classi si sono trasformate in laboratoriche hanno coinvolto alcuni detenuti nella realizzazione e decorazione di repliche di reperti della collezione del Museo Egizio. Una volta individuate le opere che meglio si prestavano alla riproduzione, gli studenti delle classi di falegnameria e arti decorative hanno seguito lezioni introduttive sulla storia e le tecniche costruttive dell’antico Egitto e si sono dedicati alla realizzazione dei manufatti esposti in mostra, sotto la guida dei propri insegnanti. Alcune delle repliche sono impiegate anche in attività parte del programma “Il Museo fuori dal Museo”, che mira a portare l’Egizio fuori dalle sale per rendere accessibili i contenuti della collezione a coloro che non possono visitare il Museo, come, ad esempio, i pazienti dell’Ospedale Infantile Regina Margherita di Torino. Prato: “Talking Crap”, il nuovo spettacolo di Metropopolare coi detenuti pratosfera.com, 25 dicembre 2018 Una rilettura di Beckett: al Magnolfi il nuovo spettacolo di Teatro Metropopolare, che festeggia 10 anni di lavoro nel carcere di Prato. La rassegna Prato Festival, progetto dell’Assessorato alla Cultura del Comune, propone un doppio appuntamento con lo spettacolo Talking Crap della compagnia Teatro Metropopolare, in programma giovedì 27 e venerdì 28 dicembre alle ore 21 al Teatro Magnolfi (ingresso libero). Ispirato a “L’ultimo Nastro di Krapp” di Samuel Beckett, la pièce è frutto di un lavoro realizzato assieme ai detenuti della casa circondariale La Dogaia di Prato, all’interno della quale il collettivo artistico pratese lavora da dieci anni. Talking Crap nasce dallo studio e dalla lettura delle opere di Beckett che, in questi ultimi due anni, hanno accompagnato il laboratorio di ricerca artistica, intrecciandosi ad un approfondito lavoro di scrittura di scena. Per la prima volta è stato costruito un monologo pieno di ricordi della regista Livia Gionfrida, dell’attore detenuto e co-autore del testo Robert Da Ponte. Il risultato di questo lavoro è una sorta di diario intimo, che prende avvio dal vissuto raccolto in carcere e dall’opera del grande autore irlandese per poi diventare metafora e riflessione tragicomica sulla fragilità dell’uomo in contrapposizione alla macchina e sulla parola, che qui diviene oggetto da graffiare, contenuto da sbeffeggiare, in un rapporto sofferto e pieno di nostalgia per un passato lontano in cui in essa si poteva ancora riporre fiducia. Nei giorni scorsi Gionfrida ha, inoltre, ricevuto un grande riconoscimento per la compagnia pratese: la regista ha vinto il premio Anct 2018, assegnatole dall’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro. Un premio dedicato al lavoro fatto con passione fuori e dentro la casa circondariale di Prato, dove ha creato una residenza artistica che negli anni ha portato in scena opere tratte da Shakespeare, Tennessee Williams e Beckett, partecipando a grandi festival nazionali dedicati al teatro carcere. Per ripercorrere e festeggiare questi primi dieci anni di lavoro, Metropopolare allestirà durante le due serate una mostra all’interno delle sale del Teatro Magnolfi con immagini tratte dai vari spettacoli e un brindisi al termine di ogni replica. Lo spettacolo Talking Crap è stato realizzato con il sostegno della Regione Toscana Progetto Teatro in carcere e in collaborazione con la Casa Circondariale La Dogaia di Prato. Taranto: i detenuti escono per realizzare il presepe nella chiesa vicina di Marina Luzzi Avvenire, 25 dicembre 2018 Don Emanuele: così sono a servizio della comunità e possono incontrare i loro figli, in attesa di poter ripartire sulla giusta strada. Nella Città vecchia di Taranto, gioiello incastonato tra due mari, isola fisica e spesso anche sociale, la consuetudine è dividere gli amici, i conoscenti, i parenti, tra chi sta dentro e chi sta fuori. Perché nella comitiva d’infanzia, tra i compagni di scuola o addirittura in famiglia, c’è sempre chi ha tirato dritto e chi ha preso una brutta strada. Gianni, 49 anni, 3 figli maschi e due nipotini di 5 anni e di appena un mese, dentro ci sta da parecchio. "Già a 16 anni ero nei clan - racconta. Gli studi li ho fatti in galera. Mia moglie per me è la cosa più importante. Stiamo insieme dal ’90. Lei lavora, io fra due mesi finisco (di scontare la pena, ndr) e mi metto a fare volontariato in parrocchia. Anche se penso spesso che se dal carcere si esce, dalla condanna no. Dal dolore che ti porti dentro, dal giudizio degli altri, non si esce mai". Si confida Gianni, mentre sistema la paglia nel presepe monumentale che sta allestendo insieme ad altri detenuti e a Damiano, Angelo, Vincenzo, Francesco e Giuseppe, cinque giovani volontari del quartiere. Lavorano nei locali adiacenti alla storica chiesa di san Domenico, che custodisce la Madonna dell’Addolorata, veneratissima in città. "Il progetto di far collaborare i detenuti all’allestimento di questo grande presepe che resterà fisso e visitabile per tutto l’anno - spiega don Emanuele Ferro, parroco del Duomo di san Cataldo e cuore pulsante di un progetto voluto dall’arcivescovo della diocesi ionica Filippo Santoro - è nato dall’incontro con i figli di queste persone che sono in carcere. Il periodo delle feste, per chi ha un parente detenuto, è sicuramente il più difficile. La direttrice del carcere, Stefania Baldassari, ha sposato l’idea". Così ogni giorno, per tutta la mattinata, si lavora all’allestimento del grande presepe, appartenuto al signor Montanari, un ufficiale dell’aviazione in riposo, oggi deceduto. Si trovava nella sua casa ed i figli hanno voluto donarlo alla chiesa locale, perché la passione del padre diventasse patrimonio comune. "Ai bambini - prosegue don Emanuele - si dà la possibilità di vedere che il padre non sarà sempre tra le sbarre ma può essere come tutti gli altri papà, che si spendono per la propria comunità, per la parrocchia". Il permesso straordinario dura fino alle ore 16, così "dopo la mattinata di lavoro, ci raggiungono le famiglie e pranziamo tutti insieme in casa canonica. Questo incoraggia i detenuti, a cui viene data una possibilità e una grande fiducia da parte di chi gestisce la loro riabilitazione e poi solleva le stesse famiglie, che respirano una condizione di normalità". L’iniziativa, che si vorrebbe replicare in altre zone della città di Taranto, è diventata presto, oltre che un’occasione di riscatto per chi ha sbagliato, anche un segno di attenzione rivolto dalla comunità a chi sta percorrendo la via non facile del riscatto dopo gli errori commessi. "Il mio sogno è trovarmi un lavoro e tornare a stare accanto alle mie bambine - afferma Giovanni, 29 anni, padre di tre figlie piccole - e pensare che se dal lavoretto al minimarket e con il peschereccio ho iniziato a delinquere, era proprio per garantire un futuro meno precario a loro". "È la prima volta che sono fuori, dopo tanto tempo. All’inizio mi sentivo spaesato - confessa Nicola 34 anni, da 3 in carcere - ma è bello vedere la famiglia tutti i giorni. Mi piacerebbe tanto tornare a stare a casa e ricominciare ad andare per mare". “La speranza oltre le sbarre. Viaggio in un carcere di massima sicurezza” di Chiara Pastori aggiornamentisociali.it, 25 dicembre 2018 Il testo di M. Gronchi e A. Trentini. Edizioni San Paolo, pp. 179, € 16. “Seminare speranza. Sempre, sempre. Aiutare a seminare la speranza di reinserimento, e questo ci farà bene a tutti. Ogni pena dev’essere aperta all’orizzonte della speranza. Per questo non è né umana né cristiana la pena di morte” (p. 175). Queste sono le parole pronunciate da papa Francesco in occasione della visita alla casa circondariale di Regina Coeli per la Messa in Coena Domini. La parola speranza è la chiave di lettura di questo libro. La giornalista Angela Trentini dà vita al volume in seguito a un’inchiesta nel supercarcere di Sulmona decidendo di dare voce alle storie di sette detenuti condannati per stragi che hanno profondamente mutato la storia italiana, come ad esempio la morte del giudice Falcone presso Capaci nel 1993. Se inizialmente il mero scopo che aveva spinto l’A. a realizzare le interviste era quello di conoscere la condizione carceraria, sin da subito esse aprono un dialogo spontaneo ed efficace dal quale emerge l’umanità degli uomini condannati. Inoltre durante questi colloqui, cercando di trovare le motivazioni che hanno spinto queste persone a compiere azioni delittuose, pare evidente che nella maggior parte dei casi la causa scatenante è la sete di vendetta, altre volte invece sono la storia dell’individuo, i suoi principi, il legame con la famiglia. Quindi la stanza dove avvengono le interviste diventa “non un luogo di pena ma un luogo di speranza” (p. 8): è la speranza di potere ottenere un riscatto, la speranza di essere perdonati. Con il perdono si approda alla seconda tematica importante del libro, la quale viene affrontata dal punto di vista sia dei carcerati sia delle famiglie delle vittime. Viene quindi fatta un’analisi profonda su come sia possibile perdonare dopo tanto dolore subito o procurato, dove si trovi la forza di chiedere e di donare il perdono. La richiesta di perdono viene vista come un’azione necessaria da parte di chi si è veramente pentito, in quanto permette a chi l’effettua di sperimentare una libertà interiore. La parte conclusiva del volume è costituita da alcuni interventi di papa Francesco sul mondo carcerario, commentati da Maurizio Gronchi, dai quali è evidente la necessità da parte del sistema giudiziario di poter garantire una speranza oltre le sbarre ai detenuti condannati a vita. Il libro consente di riflettere attentamente sulla condizione umana e su come, qualunque azione sia stata commessa, a tutti debba essere concessa la speranza e la possibilità di credere in un futuro migliore. È infatti sbagliato reputare che nessun uomo sia in grado di cambiare e di ammettere sinceramente le proprie colpe. Se si dovesse rimanere bloccati a questa convinzione, la nostra società non avrà spazio per un miglioramento ma tenderà sempre di più ad arretrare. “Non fare come me”, un libro testimonianza dal carcere di Porto Azzurro greenreport.it, 25 dicembre 2018 Mi chiamo “Dan” e sono uno degli “ospiti” del carcere di Porto Azzurro, nonché parte componente del gruppo Legambiente. Dal momento del mio ingresso in carcere, mi sono sentito così male che non vedevo nessun futuro nella mia vita. Tutto buio, in più la disperazione per il giorno successivo, consapevole di avermi rovinato la vita, mi faceva pensare alle misure estreme; volevo farla finita, ma… Forse per la mia fortuna o forse per la voglia del nostro Creatore ho incontrato delle persone meravigliose che svolgevano dei lavori di volontariato in carcere (in quel periodo ero a Verona) i quali mi hanno aiutato a guardare la vita con altri occhi, più responsabili e più umani, senza però giudicare il mio reato. Con loro ho imparato a lavorare su di me e sul mio passato scoprendo insieme tutti i miei pregi e difetti. Da loro ho preso consapevolezza e volontà di aiutare gli altri, così come io sono stato aiutato. Insieme a loro ho partecipato a un progetto di prevenzione giovanile che si chiamava V.S.P (“Vedo, sento, parlo”). Incontravamo delle classi intere di studenti liceali di Verona, ai quali raccontavamo le nostre esperienze di vita; negative, sì, ma che per loro potevano diventare positive perché con tale esperienza sarebbero riusciti a evitare i nostri errori, che ci hanno rovinato la vita. Io sono uno che non conosceva nulla del “pianeta carcere”, nemmeno le conseguenze catastrofiche che arrivano dopo una scelta sbagliata e nessuno ha voluto aprirmi gli occhi con delle informazioni utili, prima di provocare lo “tsunami” che ha travolto la mia vita lasciando indietro solo lacrime e sofferenza; di qui la mia decisione di provare a dare agli altri le informazioni utili, per far sì che almeno loro possano evitare di provare l’inferno carcerario a loro spese. Nei nostri incontri si ragionava tanto su come o cosa sia successo per arrivare a compiere certi reati, ma il mio volere era di lasciare non solo parole orali, ma anche scritte, perciò ho proposto di provare a far nascere un qualcosa di più di un giornale. Tale pensiero non si è mai realizzato a Verona, anche perché sono stato trasferito a Porto Azzurro, ma una volta qui e avendo visto un tipo di terra fertile, ho iniziato a parlare con i miei compagni del liceo, nonché con dei professori che condividevano e incoraggiavano tale progetto. Il nostro lavoro ha fatto nascere il libro *Non fare come me*, che è destinato non solo al nostro prossimo, ma a tutti coloro che sono curiosi di sapere chi sta dentro questi muri spessi e cosa succede quando non si rispettano i limiti. Spero tanto di trovare delle persone alle quali il libro possa essere d’aiuto e spero anche che in tanti prendano le nostre iniziative di cambiare qualcosa. Mi sono iscritto al gruppo di Legambiente con le stesse motivazioni, essendo sicuro che più siamo e meglio è. Penso anche a mia figlia e ai figli della mia figlia che rischiano di vivere in un mondo avvelenato da tutte le porcherie buttate a caso senza renderci conto dei contraccolpi che possono nascere. Sempre a Porto Azzurro ho attivato un progetto per un orto didattico liberando e lavorando un pezzo di terra pieno di erbacce e macerie e dove in tanti possono lasciare libera la fantasia e l’amore di curare la terra. Il verde fra i muri spessi ci dà l’immagine di un piccolo paradiso nel cuore dell’inferno e non sono in pochi a fermarsi per guardare, fascinati dalla bellezza del cambiamento. Ho raccontato tutti questi fatti per provare a far capire a voi, i lettori del mio messaggio, che tutto si può concretizzare se esiste la voglia e che ognuno di noi nel nostro piccolo ha come debito umano per i nostri prossimi l’obbligo di lasciare il mondo almeno così come lo ha trovato, se non di migliorarlo. La nostra voglia e determinazione può far nascere l’antibiotico naturale necessario per una prevenzione nonché rimedio, semplice e fondamentale. Libia. Quel Gheddafi ancora in carcere che può cambiare il Medio Oriente di Mauro Indelicato occhidellaguerra.it, 25 dicembre 2018 Uno strano, ma fino ad un certo punto, incrocio tra gli Assad ed i Gheddafi, tra Siria e Libia. Un Paese, quello siriano, che non è stato abbattuto dalla primavera araba, l’altro invece che ancora oggi piange i postumi di una fine traumatica dei 42 anni di regno del Raìs. Oggi lo strano incrocio tra Damasco e Tripoli avviene per via delle sorti del quartogenito di Muammar Gheddafi. Hannibal, dal passato tutt’altro che sereno e fuori dai riflettori, si trova incarcerato oramai da tre anni a Beirut. E nei giorni scorsi, come si legge sull’Adnkronos, il governo siriano ha inviato una dura lettera a quello libanese richiedendo il rilascio del figlio di Gheddafi. Nato nel 1975, Hannibal Gheddafi in Europa è noto per alcune scorribande non certo passate inosservate nello scorso decennio. A Parigi è stato beccato alla guida ubriaco a 140 km/h sugli Champs-Élysées, con il quartogenito del Raìs che evita il carcere solo per l’immunità diplomatica a lui rilasciata in Libia. Una notte, quella parigina, culminata, secondo le cronache dell’epoca, con un’irruzione di Hannibal nel commissariato dove risultano recluse le sue guardie del corpo. Anche in Italia, nel 2001, avviene un fatto simile con il figlio di Gheddafi coinvolto in una rissa a Roma all’uscita di una discoteca. Nel 2008 viene arrestato per presunte percosse contro alcuni camerieri in un albergo di Ginevra. Per ripicca il padre, pochi mesi dopo, arriva a chiedere nientemeno che lo scioglimento della federazione elvetica. Poi arriva il 2011, con la fine dell’era Gheddafi e anche al giovane rampollo del rais non si perdona più nulla. Viene arrestato nell’agosto di quell’anno, ma riesce a fuggire e si ripara con la famiglia in Algeria. Da lì poi, va a vivere a Damasco. Una scelta, come raccontato in seguito dalla moglie, un’ex modella libanese, per rimanere vicino alla famiglia di lei ed al tempo stesso per restare più nell’anonimato. Ma lì, nella capitale siriana, qualcosa va storto. Come racconta la stessa consorte in un’intervista a Vanessa Tomassini, l’11 gennaio 2015 Hannibal Gheddafi viene portato via da alcuni uomini armati. “Si tratta della banda armata sotto la guida di Hassan Yacoub - racconta la moglie - Lo hanno portato in Libano per avere informazioni sull’imam Al Sadr”. Ciò che si sa è sempre frutto del racconto della consorte, che vive ancora a Damasco ma che non può recarsi a Beirut per vedere il marito: “I rapitori lo hanno consegnato alle forze libanesi. Da allora è trattenuto in carcere, sta scontando una pena di un anno e mezzo per oltraggio alla magistratura”. La donna afferma di non averlo più visto dal momento della sparizione e di comunicare con lui soltanto grazie ad un cellulare fornito ad Hannibal dalle autorità libanesi. Spesso le storie, soprattutto in Medio Oriente, si intrecciano. In questo caso ad intrecciarsi non sono soltanto le storie di Siria e Libia, così come degli Assad e dei Gheddafi, ma a riaffiorare è un caso datato addirittura 1978. Si tratta dell’imam sciita, nato in Iran ma di famiglia libanese, Musa Al Sadr. Non è un imam di poco conto nella storia recente della religione sciita. Soprattutto, non è di poco conto per la storia sia del Libano, dove decide di risiedere dal 1960, sia della Siria. A Damasco lo lega soprattutto una dichiarazione del 1974, con la quale dopo quasi mille anni reintegra gli alauiti all’interno della famiglia sciita. Al Sadr attua questa decisione come leader spirituale degli sciiti libanesi e come capo politico di Amal, il partito da lui fondato molto attivo nel paese dei cedri. Agli alauiti, come si sa, appartengono gli Assad. Da quel momento Hafez Al Assad, presidente siriano e padre dell’attuale capo di Stato, può esser considerato un leader sciita a tutti gli effetti e con tutte le conseguenze politiche del caso. Per questo il governo di Damasco tiene molto a Musa Al Sadr. Ma nel 1978, durante un viaggio in Libia dell’imam, accade qualcosa. In circostanze ancora non del tutto chiarite, l’imam scompare. Di lui più nessuna notizia, un caso che diventa uno dei più misteriosi della storia del Medio Oriente. Trent’anni dopo un tribunale libanese considera ufficialmente colpevole Muammar Gheddafi. Secondo la moglie di Hannibal, da suo marito sia i rapitori e sia, successivamente, le autorità libanesi cercano informazioni sul caso. Ma il quartogenito del Raìs all’epoca dei fatti ha solo due anni e, dopo diversi interrogatori, dimostra di non sapere nulla sulla sorte di Al Sadr. Viene però, come detto prima, incarcerato per oltraggio alla magistratura. E, dopo tre anni, Hannibal Gheddafi è ancora all’interno di una cella del carcere di Beirut. E, da qui, si arriva quindi all’intreccio figlio della cronaca delle scorse ore. Come rivelato dal quotidiano panarabo Asharq Al-Awsat, il governo di Damasco ha ufficialmente criticato la detenzione di Hannibal Gheddafi. Dalla capitale siriana, in particolare, sarebbe partita una dura lettera indirizzata alle autorità libanesi, in cui si considera ingiusta la detenzione del figlio di Gheddafi e si chiede dunque l’immediato rilascio. Un interessamento, quello di Damasco, che sorprende. Né Hannibal e né la moglie hanno cittadinanza siriana, la consorte più volte si è lamentata del fatto di essere lasciata sola con i tre figli avuti dal matrimonio con il figlio di Gheddafi, chiedendo di vedere il marito. Ma le richieste sono spesso più rivolte al Libano, di cui la donna è cittadina, che ovviamente alla Siria. Sui motivi meramente politici che hanno spinto Damasco a chiedere il rilascio di Hannibal Gheddafi c’è ovviamente stretto riserbo. Se da un lato è legittimo che un governo si attivi per le condizioni di un detenuto la cui famiglia vive nel proprio Paese, dall’altro si sa come in Medio Oriente nulla accade per caso. Per di più se, di mezzo, ci sono le famiglie ed i paesi più coinvolti dalle primavere arabe di sette anni fa. E se, soprattutto, ad essere tirato in ballo è il caso di uno degli imam sciiti più influenti degli ultimi anni. Il Nicaragua sempre più nel baratro: riparte la protesta delle università di Valentina Calzavara occhidellaguerra.it, 25 dicembre 2018 Era il 19 aprile quando scoppiò la rivolta. Da allora il Nicaragua non è più lo stesso. Scivola sempre più nel baratro: la corruzione ai piani alti, il malessere tra la gente. Nessuno dimentica la repressione del governo di Daniel Ortega. Nei mesi scorsi c’è stata una carneficina: 455 morti, oltre 600 manifestanti detenuti illegalmente, più di 2mila feriti. Il Paese ne è uscito sconvolto e continua a tremare. Per ora riposano le armi che hanno sparato a primavera, ma l’equilibrio è precario. Pochi giorni fa il rettore dell’Universidad Americana (Uam) Ernesto Medina Sandino ha rassegnato le dimissioni. Dopo undici anni alla guida della comunità accademica il suo addio diventerà effettivo a gennaio. Un gesto eclatante visto che, proprio dalle università nicaraguensi, iniziò la protesta civile. Decine di studenti rimasero arroccati nelle aule: la voce della cultura che si opponeva all’oppressione della dittatura. La protesta partita tra i banchi di scuola ha poi unito le generazioni: i nonni e i nipoti sono scesi in piazza uno a fianco all’altro contro la riforma previdenziale del governo. Di fatto, è stato solo un pretesto per chiedere democrazia, rispetto dei diritti umani e la fine della dinastia familiare e politica di Ortega che si ingrassa tenendo il Paese nella morsa della povertà. “Non è stato facile prendere la decisione di dire addio”, ha spiegato il rettore Ernesto Medina Sandino, “ma nel momento storico in cui vive il Nicaragua penso che le mie energie, le mie capacità e la mia esperienza debbano essere completamente dedicate a trovare una soluzione pacifica e duratura alla grave crisi che minaccia il futuro del Paese”. Le tante pressioni ricevute e la campagna denigratoria indirizzate al rettore Medina lo hanno spinto a lasciare l’incarico con la preghiera di non strumentalizzare: “Non voglio che la mia partenza sia usata per aprire nuove ferite o per approfondire quelle che ci dividono oggi. Mi sono trovato davanti a un bivio e ho scelto il sentiero che mi porta nel posto dove potrò essere più utile al nostro Paese”. Un passo di lato che non ha il suono della resa: “Faccio un appello a rafforzare l’unità della nostra comunità universitaria, a rispettare le nostre differenze e a unire tutte le nostre energie e capacità per costruire il nuovo Nicaragua”. La voglia di cambiamento continua a spirare, tra speranze e paure. A settembre ci fu lo sciopero nazionale per la liberazione dei manifestanti ancora in carcere, poi la nascita dei collettivi per chiedere alla Comunità Internazionale di innescare un vero processo di cambiamento. Sei milioni di nicaraguensi sono pronti a scendere nuovamente per strada, e anche loro si troveranno davanti a un bivio. Chi marcerà sull’asfalto sfidando i carri della morte, come sono state ribattezzate le Toyota Illux dei gruppi paramilitari che sparano sulla folla e fanno sparire gli oppositori. Le immagini della scorsa primavera restano nitide nella memoria: il quindicenne Álvaro Conrado fu colpito alla gola, e per ordine ministeriale le porte dell’ospedale rimasero chiuse. Poi l’omicidio del giornalista Ángel Gahona e ancora una lunga scia di morte. Sangue riversato dai centri alle campagne, nella capitale Managua, ma anche a León, Granada, Estelí, Matagalpa, Jinotepe, Masaya. Se tutto questo dovesse ripetersi molti nicaraguensi prenderanno poche cose e si caricheranno sulle spalle i figli per unirsi alla carovana di migranti che dall’Honduras fa rotta verso gli Stati Uniti. Allora potrebbe essere un’altra Siria, l’ennesima tragedia umanitaria. “La fuga in massa dei siriani ha prodotto milioni di rifugiati, seminando instabilità in tutto il Medio Oriente e in Europa, quella dei venezuelani è diventata il più grande spostamento di persone nell’America Latina. Un esodo dal Nicaragua creerebbe un’ondata di migranti e richiedenti asilo in America Centrale”, ha dichiarato l’ex ambasciatrice degli Stati Uniti, Nikki Haley, “il Consiglio di sicurezza dell’Onu non può osservare passivamente mentre il Nicaragua continua a scendere verso il baratro di uno stato fallito, corrotto e dittatoriale, perché sappiamo dove conduce questa strada”. Bolivia: da Morales amnistia e indulto per 2500 detenuti genteditalia.org, 25 dicembre 2018 Atto di clemenza del presidente: esclusi i traditori della patria e i trafficanti d’armi. Il presidente Evo Morales ha emesso un decreto di amnistia e indulto in favore di più di 2500 persone. “Abbiamo l’intenzione di porre fine ai ritardi della giustizia”, le parole del presidente sudamericano riportate dal quotidiano El Deber. “La mia richiesta agli avvocati è stata come aiutare i fratelli detenuti, a volte per una semplice denuncia e per ragioni economiche per cui non possono assumere un avvocato difensore. Per questo abbiamo disposto questo decreto”. Poco più di mille persone potranno beneficiare dell’amnistia, mentre circa 1.500 dell’indulto. I detenuti che potranno invocare la concessione del beneficio entro il prossimo anno non devono essere coinvolti in crimini di tradimento della patria e traffico di armi. Amnistia destinata alle donne incinte o con un bambino in allattamento, oppure disabili gravi con figli sotto i sei anni di età. Indulto invece riservato a coloro che hanno scontato due terzi della loro pena, a eccezione di colpevoli di femminicidio, infanticidio, tratta di esseri umani, rapina o contrabbando. Mauritania. Sit-in di attivisti movimento anti schiavitù disperso dalla polizia Nova, 25 dicembre 2018 La polizia mauritana ha disperso ieri un sit-in organizzato dagli attivisti dell’Iniziativa per la rinascita del Movimento abolizionista, gruppo contro la schiavitù, che chiedevano la liberazione del loro capo Biram Dah Abeid detenuto da alcuni mesi. Secondo “Sahara Media”, la polizia ha usato la forza per disperdere la manifestazione tenuta fuori dagli uffici del ministero della Giustizia. Secondo la stessa fonte, sei persone sono state ferite e portate in ospedale per il trattamento. Gli attivisti dell’Ira organizzano periodicamente delle manifestazioni per richiedere il rilascio del presidente del movimento, eletto membro del parlamento nelle ultime elezioni legislative sulla lista di un partito di opposizione, Sawab. L’Ira (acronimo di Initiative for the Resurgence of the Abolitionist Movement) è un gruppo anti-schiavitù mauritano fondato e guidato dallo stesso Biram Dah Abeid. In Mauritania si stima che vi siano ad oggi tra i 600.000 e i 140.000 schiavi. Il gruppo conta una rete di novemila attivisti.