“La situazione delle nostre carceri è drammatica” di Elisa Benzoni alganews.it, 24 dicembre 2018 Intervista a Riccardo Arena, direttore di Radio Carcere: “Bisogna avere un approccio dinamico e non statico sia sul fronte del processo penale che sul fronte delle pene, perché bisogna essere in grado di cogliere le differenze tra possibilità sanzionatorie, detentive e rieducative. Anche a parità di reati, le persone sono diverse e come tali, se colpevoli, devono essere punite in maniera diversa”. A spiegarlo Riccardo Arena, direttore di Radio Carcere, in onda su radio Radicale. “Un approccio flessibile e non statico al problema, dunque. Un approccio che dovrebbe cominciare dal processo penale prevedendo che il giudice di primo grado possa infliggere pene diverse da carcere e ammenda. Pene diverse, ivi comprese le misure alternative, che potrebbero essere esecutive in primo grado anche se non definitive. Un criterio che dovrebbe essere principio ispiratore anche per la detenzione. Oggi il sistema è statico e costosissimo. Non a caso le nuove carceri realizzate ultimamente, sono tutte uguali e non sembrano contenere una progettualità sul modello detentivo che si vuole attuare. Ora, è indubbio che gran parte delle nostre carceri sono vecchie e che devono essere dismesse. Ma credo che, più che carceri nuove, servano carceri diverse. Ovvero strutture detentive diversificate tra loro a seconda della persona che deve scontare la pena. Penso ad esempio a “carceri comunità” per chi è tossicodipendente; a “carceri laboratori” per chi vuole lavorare o vuole imparare un lavoro; e penso a una sorta di “alberghi sicuri” per chi in misura cautelare attende un primo giudizio e non è particolarmente pericoloso. D’altra parte esistono già strutture diversificate. Penso a Bollate dove gran parte dei detenuti lavora; o penso al carcere di Eboli che è specializzato per il trattamento delle tossicodipendenze. Strutture nate anni fa come esperimenti, che danno ottimi risultati ma che restano esperimenti. Perché?” In fondo la differenziazione della pena era uno dei principi ispiratori di una legge che è ancora in vigore, la legge Gozzini… “In Italia si fanno leggi bellissime che però non vengono attuate. Sarà un bel giorno quello in cui la politica, invece di proporre l’ennesima riforma, si concentrerà sull’applicazione della legge corrente. La legge Gozzini è una legge illuminata e ancora attuale. Il fatto è che, anche se viene sbandierata nei convegni, nella realtà delle carceri è rimasta lettera morta ed è in gran parte inapplicata. Una patologia questa che tutta italiana: fare leggi all’avanguardia (promossa più di 30 anni fa) per poi non applicarle”. Quale è la situazione nelle carceri italiane? “Drammatica e in peggioramento. E se non ci sarà una seria presa di coscienza del problema carceri, se non si sapranno individuare soluzioni concrete, il domani sarà con ogni probabilità peggiore dell’oggi”. 60 mila persone detenute oltre 10 mila sopra il numero prefissato… “Beh in verità il sovraffollamento è ancora più alto. Infatti, su 50 mila posti regolamentari, circa 4.500 sono inutilizzabili, come confermato dal Capo del Dap Francesco Basentini. Con la conseguenza che oggi abbiamo oltre 14 mila detenuti in più. Un dato gravissimo visto che in molte celle si vive in 4, in 5 e fino a 9 detenuti ammassati uno su l’altro. Ma non solo. Siccome molte delle nostre carceri sono vecchie e risalgono ai primi del Novecento, dell’Ottocento o addirittura del Seicento, oggi le persone detenute vivono, non solo nel sovraffollamento, ma in luoghi osceni e malsani senza poter avere alcuna possibilità di reinserimento, che prevede la legge”. Puoi individuare una relazione tra aumento dei reati e aumento della popolazione carceraria? “Direi di no, visto che dalle ultime statistiche emerge che i reati appaiono essere in calo. Ciò che invece colpisce è l’intera gestione del sistema; visto l’alto numero di persone detenute in attesa di un primo giudizio, che sono 10 mila e 260, e lo scarso ricorso alla misure alternative. Come dire: anche se i reati sono in calo, nelle carceri si registrano troppe entrate e poche uscite… forse “qualcuno” dovrebbe farsi una domanda”. E credi vi sia una relazione tra il giustizialismo (con l’introduzione di tutta una serie di nuovi reati e aggravamento delle pene) e l’aumento della popolazione carceraria? “Non vedo questo nesso. Credo invece che l’aumento della popolazione detenuta sia più da attribuirsi a una pessima, per non dire fallimentare, gestione del sistema processuale, sanzionatorio e trattamentale”. Cosa è cambiato nella classe dirigente politica nel loro modo di guardare al carcere? “Poco. Si è passati da una promessa tradita, quella del precedente Governo, che ha affossato la riforma penitenziaria, a un programma dell’attuale Governo che appare nebuloso e di difficile comprensione”. L’Italia purtroppo non ha il monopolio europeo del sovraffollamento carcerario… “Vero ma in altri paesi, come la Spagna, si sono posti concretamente il problema, lo hanno affrontato e ora, dopo un po’ di anni, stanno raccogliendo i frutti. Noi invece il problema non ce lo poniamo affatto se non per slogan. Il che mi sembra un modo di affrontare il problema assai diverso”. C’è qualche trend che possa considerarsi in miglioramento. C’è qualcosa che ha cominciato a funzionare? “No. Tutto peggiora. E se non ci sarà una seria presa di coscienza del problema carceri, se non si sapranno individuare soluzioni concrete, il domani sarà peggiore dell’oggi”. E la funzione rieducativa? “Oggi nella maggior parte delle carceri la funzione rieducativa della pena prevista dalla Costituzione non esiste. E di conseguenza, in barba alla nostra sicurezza, le persone detenute escono dalle carceri peggiori e non migliori rispetto a quando sono entrate. O, nell’ipotesi migliore, escono terrorizzati dal trattamento criminale inflitto dallo Stato. Una realtà distante anni luce da ciò che prevede la Costituzione e la legge ordinaria. Il tutto alla modica cifra di 3 miliardi di euro all’anno. Ti sembra sensato?” Per un carcere così, un suicidio in cella ogni settimana è quasi poco di Maurizio Tortorella Tempi, 24 dicembre 2018 Le prigioni italiane sono un vero “posto della disperazione”: secondo Openpolis le morti autoinflitte sono 1.046 dal 1992 a oggi. Ma probabilmente sono anche di più In Italia c’è un posto dove un uomo muore suicida ogni settimana. Faticate a immaginare quale sia questo “posto della disperazione”? Sono le nostre carceri. Sono state teatro di 1.046 suicidi dal 1992 a oggi, secondo il centro studi Openpolis. Ma quasi sicuramente la cifra è più elevata: la statistica di Openpolis si basa sui numeri del ministero della Giustizia, mentre l’associazione per i diritti dei detenuti Ristretti Orizzonti, nel suo dossier “Morire di carcere”, fornisce dati di molto superiori. Oltre ai suicidi accertati, infatti, Ristretti Orizzonti inserisce nella sua somma anche le morti “poco chiare”, ma comunque legate al disagio della detenzione. Per Ristretti orizzonti i suicidi in cella soltanto dal 2009 al 31 agosto 2016 sarebbero stati 423: in particolare, 326 detenuti si sono procurati la morte con l’impiccagione, altri 64 con il gas, 20 con l’avvelenamento e sei con il soffocamento. E il carcere uccide non soltanto in cella, ma anche nei corridoi, negli uffici e perfino a casa: secondo fonti sindacali della polizia penitenziaria, sono almeno cento gli agenti di custodia morti suicidi dal 2000. Tra i penitenziari, la statistica dei detenuti suicidi stilata da Openpolis vede al primo posto Poggioreale a Napoli, con 19 casi, seguito da Sollicciano a Firenze (17), e da Rebibbia a Roma (14). Tra gli ultimi anni, il peggiore è stato il 2010, con 69 morti in cella; il migliore (o meglio il meno disastroso) è stato il 2013, con 42 casi. È evidente la coincidenza tra gli anni in cui si è concentrata la più alta frequenza di suicidi tra i detenuti e quelli che hanno visto i più alti tassi di affollamento carcerario. Nel 2010 i quasi 200 istituti di pena italiani ospitavano quasi 68 mila detenuti, cioè 151 ogni 100 posti letto disponibili, e contemporaneamente si registravano 55 casi di morti auto-procurate. La situazione era nettamente migliorata due o tre anni fa, ma purtroppo adesso sta tornando a peggiorare. Alla fine dello scorso novembre i reclusi erano 55.251, tra i quali 2.335 donne e 18.714 stranieri. La capienza regolamentare dichiarata dal ministero della Giustizia, in realtà, sarebbe di 50.254 posti, quindi il sovraffollamento è di circa 5 mila unità. Il 36 per cento in attesa di giudizio - Il problema è che tra i detenuti i condannati definitivamente al 31 novembre erano 35.456 in totale: questo significa che altri 19.795 reclusi sono in attesa di giudizio, quasi il 36 per cento, più di uno su tre. Per l’esattezza, 9.846 sono quanti aspettano in cella il giudizio di primo grado. Nessun paese europeo arriva a questi livelli. Se poi si valuta quanto elevato è il costo delle carceri, tra 2,5 e 3 miliardi di euro l’anno, appare ancora più evidente che la situazione richiederebbe un vigoroso riassetto. Pochissimi anni fa i Radicali, forti del loro impegno per i reclusi, calcolavano arrivasse a 3.511 euro al mese la spesa per mantenere ogni detenuto. In realtà, secondo i Radicali, la maggior parte della cifra servirebbe a tenere in vita l’amministrazione, mentre in sé il detenuto non influenza molto i costi. Dei 3.511 euro spesi al mese, 3.104 euro servono al pagamento del personale di polizia e per quello civile, e altri 150,24 vengono impiegati per mantenere la struttura penitenziaria, mentre 110,28 euro servono per le utenze. Per la gestione concreta di ogni detenuto, quindi, la spesa media scende a 255,14 euro mensili. Oltre la metà, 137,84 euro, va a pagare vitto e materiale igienico; altri 67,71 euro retribuiscono il raro lavoro compiuto dietro le sbarre; il servizio sanitario assorbe 22,81 euro a testa. Alla luce di questi dati, i suicidi sono fin troppo pochi. Il record infame delle prigioni. Più di un suicidio ogni settimana di Azzurra Noemi Barbuto Libero, 24 dicembre 2018 Quest’anno sono stati ben 65 i detenuti che si sono tolti la vita nelle carceri italiane. Sovraffollamento, igiene carente: una tortura legalizzata. Che opprime pure le guardie. Ad oggi, vigilia di Natale, sono 65 i suicidi consumatisi nelle carceri della nostra penisola nel corso di questo 2018 che volge oramai al termine. Si tratta di un tragico record, che non si registrava dal 2011, quando i detenuti che si tolsero la vita furono 66. Nel 2017 i decessi volontari tra le sbarre sono stati 52, l’anno precedente 45, nel 2015 43 (fonte Centro Studi di Ristretti Orizzonti). Dal 2000 al 2018 sono stati ben 1.051 i suicidi in gattabuia. La media attuale è di oltre 5 episodi al mese, più di uno ogni sette giorni, con un rapporto di un suicida ogni 900 detenuti presenti. Gli ultimi casi sono avvenuti uno sabato scorso nel carcere di Messina, in cui un quarantatreenne si è impiccato; l’altro nella casa circondariale di Spini di Gardolo a Trento, dove nella notte tra venerdì e sabato scorsi si è tolto la vita un trentaduenne. Ne è seguita una sommossa da parte degli altri carcerati, che si sono barricati nei corridoi appiccando il fuoco a delle suppellettili, lamentando problemi relativi ai sevizi sanitari. Nello stesso istituto, qualche settimana prima, un altro ristretto era ricorso a questo gesto estremo. Martedì 11 dicembre era toccato, invece, a un trentenne recluso da un mese in custodia cautelare nel carcere Don Bosco di Pisa. Il giovane si è impiccato mentre il suo compagno di cella si trovava in bagno. Dietro ogni morte di questo tipo c’è il fallimento dello Stato, che ha imprigionato ed ha abbandonato la persona che aveva preso in carico con lo scopo di rieducarla prima di restituirla alla società civile, la stessa che si distingue troppo spesso per inciviltà e che, incapace di diventare cosciente delle proprie nefandezze, ipocrisie nonché dei propri crimini, considera la popolazione che vive al di là delle sbarre una massa informe di rifiuti tossici, da espellere in qualche modo, da nascondere, da ignorare. La verità è che se un detenuto si fa fuori non frega nulla a nessuno. Qualcuno addirittura commenta: “Uno in meno. Meglio così!”. Eppure in gabbia - dove risiedono anche gli incolpevoli o comunque individui in attesa di giudizio (i detenuti in attesa di primo giudizio sono 10.265, al 30 novembre di quest’anno), da considerarsi dunque innocenti per il sacrosanto principio della presunzione di innocenza - potrebbe finirci chiunque di noi. Il carcere, che si trova a volte nel cuore delle nostre città, ci riguarda da vicino. Non è solo un tetro edificio che costeggiamo con l’automobile mentre ci rechiamo da qualche parte. Al di là di quei decrepiti muri sono racchiuse esistenze. Vite che si spezzano troppo di frequente. Al ritmo sostenuto e inaccettabile, per l’appunto, di 65 morti ogni 12 mesi. La detenzione all’interno degli istituti di pena italiani è estremamente dura. Nelle 190 carceri che si trovano disseminate sul territorio nazionale, a fronte di una capienza regolamentare di 50.583 detenuti, al 30 novembre del 2018 ve ne sono 60.002, di cui 2.640 donne e 20.306 stranieri (fonte Dipartimento Amministrazione Penitenziaria). Il sovraffollamento, se non è la causa principale che conduce alla scelta di togliersi la vita, concorre di certo a rendere più penosa la condizione restrittiva, dunque a determinare quel senso di assoluta disperazione che alberga nell’animo di chi compie un atto estremo. In alcuni istituti non sono neanche garantiti i tre metri quadrati a persona nelle celle. Questo accade ad esempio, stando al dati raccolti dall’associazione Antigone, nelle case circondariali di Bergamo, di Catania “Piazza Lanza”, di Catanzaro “Ugo Caridi”, di Milano San Vittore “Francesco Cataldo”, di Monza, di Nuoro, di Pisa, di Voghera, di Campobasso, di Napoli-Poggioreale e altre. Nelle celle manca l’acqua calda, il riscaldamento spesso non funziona, come succede nelle carceri di Catania “Piazza Lanza”, di Frosinone, di Napoli-Poggioreale. Per non parlare delle docce in cella, assenti, salvo rarissime eccezioni. Mancano aree verdi e spazi per le lavorazioni. Codeste privazioni, la mancanza di educatori, l’impossibilità di eseguire sul detenuto un trattamento rieducativo individualizzato a causa del sovraffollamento, il gelo nei mesi freddi, il caldo insopportabile in quelli caldi, i topi, gli scarafaggi, le zanzare, la mancanza di privacy, il ritrovarsi ammassali in piccoli spazi, la mancanza di attività lavorative e ricreative, la mortificazione dei propri bisogni affettivi e l’annullamento del contatto con i propri familiari, assomigliano a vere e proprie torture prive di senso e di scopo. E non sì comprende come possa un individuo essere recuperato in situazioni di disagio di questo genere, che incidono negativamente persino sul personale deputato alla sorveglianza dei reclusi, ossia sugli agenti della polizia penitenziaria, i quali ogni dì assistono ad atti di autolesionismo, suicidi, tentati suicidi, risse, rivolte, diventando bersagli dell’esasperazione o della violenza dei detenuti stessi con i quali condividono la quotidianità tra le sbarre nonché - qualche volta - persino la scelta suicidarla. Vista come unica possibilità per evadere da un’esistenza buia e soffocante. L’ultimo episodio risale alla sera del 18 dicembre, quando un’assistente capo del corpo di Polizia penitenziaria, quarantunenne originaria della provincia di Messina, in servizio nel carcere di Monza dal 1998, mamma di un bimbo, si è sparata un colpo di pistola alla testa nei pressi di un’area industriale adiacente la struttura detentiva, appena terminato il turno di lavoro. Negli ultimi tre anni si sono ammazzati più di 55 poliziotti e dal 2000 ad oggi sono stati complessivamente più di 110 (fonte Sappe). Decreto sicurezza: impugnazioni inammissibili, niente compensi per difensore e Ctp di Eugenio Sacchettini Il Sole 24 Ore, 24 dicembre 2018 “Verboten impugnare”: in questo divieto il cerchio si chiude col mancato compenso a spese dello Stato al difensore che sia incappato nell’inammissibilità dell’impugnazione. È vero che una parallela disposizione già esiste da tempo in campo penale, ma è altrettanto vero che in questi ultimi anni il cammino per chi osi lagnarsi di una decisione è diventato impossibile sotto ogni profilo. Disposizioni in materia di giustizia del decreto sicurezza - Coll’articolo 15 del “Decreto Sicurezza” viene aggiunto l’articolo 130-bis al capo V del titolo IV (“Disposizioni particolari sul patrocinio a spese dello Stato nel processo civile, amministrativo, contabile e tributario del Dpr 30 maggio 2002 n. 115, Tu delle spese di giustizia”). La norma così introdotta, recante la rubrica “Esclusione dalla liquidazione dei compensi al difensore e al consulente tecnico di parte” dispone al primo comma che quando l’impugnazione, anche incidentale, è dichiarata inammissibile, al difensore non è liquidato alcun compenso. La novella viene così sostanzialmente ad allineare il gratuito patrocinio nel processo civile, amministrativo, contabile e tributario a ciò che già dispone nell’alveo del processo penale (Titolo II) il primo comma dell’articolo 106 Tu 115/2002 (recante la rubrica “Esclusione dalla liquidazione dei compensi al difensore e al consulente tecnico di parte”) in virtù del quale il compenso per le impugnazioni coltivate dalla parte non è liquidato se le stesse sono dichiarate inammissibili. L’intento delle due norme è evidentemente il medesimo: scoraggiare la proposizione, a spese dello Stato, di impugnazioni del tutto superflue, meramente dilatorie o improduttive di effetti a favore della parte, il cui esito di inammissibilità sia largamente prevedibile o addirittura previsto prima della presentazione del ricorso. La novella introdotta dall’articolo 130-bis del Tu 115/2002 intende quindi omologare in campo extra-penale quanto già previsto in area penale, nella quale peraltro le impugnazioni che poi finiscono per risultare inammissibili sono innumerevoli, mirando la conseguente dilazione della pendenza del processo, come noto, all’ottenimento dell’estinzione del reato per prescrizione. Consulenze superflue - Specularmente a quanto si è appena visto quanto all’ipotesi d’inammissibilità, l’articolo 15 del “Decreto Sicurezza” inserisce nell’aggiunto articolo 130-bis Tu 2002 n. 115 un secondo comma, in virtù del quale non possono essere altresì liquidate le spese sostenute per le consulenze tecniche di parte che, all’atto del conferimento dell’incarico, apparivano irrilevanti o superflue ai fini della prova. Anche qui la norma riprende in campo extra-penale quanto già disposto in ambito penale dal secondo comma dell’articolo 106 Tu, a norma del quale non possono essere liquidate le spese sostenute per le consulenze tecniche di parte che, all’atto del conferimento dell’incarico, apparivano irrilevanti o superflue ai fini della prova. Sia per l’ipotesi di mancato riconoscimento del compenso in caso d’inammissibilità dell’impugnazione sia per l’ipotesi in esame, come osservato dalla Consulta in ambito penale nella decisione n. 16 del 2018 di cui sopra e n. 178 del 2017, è cruciale l’individuazione di un punto di equilibrio tra garanzia del diritto di difesa per i non abbienti e necessità di contenimento della spesa pubblica in materia di giustizia, sottolineandosi il particolare scopo di contenere tali spese soprattutto nei confronti delle parti private. Conseguenze - La disciplina delle consulenze di parte viene così ad allinearsi in ogni settore quanto ai mancati compensi a spese dello Stato ove l’attività del Ctp si riveli irrilevante o superflua all’atto del conferimento dell’incarico ai fini della prova: da ciò sembra dedursi che nel provvedimento che neghi la liquidazione venga effettuata una valutazione (non meramente apparente, Cassazione penale, sezione IV, 14 novembre 2003 n. 43) che non si contenti di constatare la superfluità o irrilevanza deducibili dall’esito del giudizio, ma accerti che di tale superfluità o irrilevanza il Ctp doveva rendersi conto prima di accettare l’incarico. Valutazione non facile, perché un esperto in qualsiasi campo della scienza non è in grado di prevedere e non può esser quindi tenuto a compiere indagini d’ordine processuale e di fatto per una vicenda sconosciuta prima di assumere un incarico. È evidente che ciò spetta semmai all’avvocato che l’ha indicato alla bisogna. Ma non è arduo presagire che tale novella verrà a costituire un punto in più per scoraggiare gli esperti dall’accettare incarichi che potranno venire a rivelarsi poi, neppure in parte, retribuiti. Si verte infatti in un settore - seppure essenziale - già di per sé spinoso: sul tema della decurtazione di un terzo degli infimi importi spettanti all’ausiliario del magistrato disposta dal successivo articolo 106-bis del Tu è intervenuta ripetutamente la Consulta con sentenza 8 luglio-24 settembre 2015 n. 192 (in n. 42/2015 di “Guida al Diritto”, pagina 75), sentenze 29 gennaio 2016 n. 13 e 13 luglio 2017 n. 178. E numerose lagnanze sono state sollevate da traduttori e interpreti, pagati sistematicamente in ritardo appena 5 euro l’ora, per mancata osservanza della la Direttiva 2010/64/Ue. Applicabilità - Per ambedue le ipotesi adesso previste rispettivamente dal primo e dal secondo comma del nuovo articolo 130-bis del Tu 2002 n. 115 è da ritenere che la conseguenza del mancato compenso scatti a decorrere dall’entrata in vigore del decreto Sicurezza in esame, nel senso che soltanto laddove l’impugnazione inammissibile, ovvero la consulenza superflua o irrilevante siano state intraprese anteriormente a detta entrata in vigore nulla possa esser retribuito a spese dello Stato. Lo si desume, oltre che dalle basi interpretative sulla successione delle leggi, anche dalla linea assunta costantemente dalla Consulta in materia, a partire dalla sentenza n. 2/1981 sui compensi ai periti e consulenti tecnici, conformemente comunque a quanto indicato dalle sezioni Unite nella sopracitata sentenza 2014 n. 773. Reati fiscali senza attenuanti. Il manager non può beneficiare della tenuità del fatto di Debora Alberici Italia Oggi, 24 dicembre 2018 Giro di vite sull’esclusione della punibilità per speciale tenuità del fatto in relazione ai reati fiscali. L’imprenditore, infatti, non può usufruire del “beneficio” anche quando supera la soglia di punibilità dell’evasione fiscale o contributiva per poche migliaia di euro rispetto a un grande giro d’affari. Lo ha sancito la Corte di cassazione che, con la sentenza n. 52974 del 26 novembre 2018, ha confermato la condanna a carico di un manager che di fronte a un giro d’affari di 4 milioni di euro aveva omesso il pagamento dei contributi superando la soglia di punibilità per soli 12 mila euro. Il caso. L’imputato, all’esito di un giudizio abbreviato, era stato condannato alla pena di due mesi e venti giorni di reclusione per non aver versato entro il termine annuale le ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituti. Contro questa pronuncia il legale rappresentante ha presentato ricorso in Cassazione sostenendo che la Corte d’appello, nel negare l’applicabilità al caso concreto della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, avrebbe affermato un principio contrario all’orientamento espresso dalla Corte di legittimità e alla ratio della norma stessa. La soglia di punibilità. Il giudice della sentenza impugnata avrebbe infatti dichiarato che ogniqualvolta una fattispecie di reato preveda una soglia di punibilità, automaticamente deve considerarsi preclusa al giudice di merito la possibilità di applicare la causa di non punibilità ex articolo 131-bis del codice penale, avendo già compiuto il legislatore una valutazione di tenuità della condotta dalla norma prevista, escludendo la punibilità di tutte quelle condotte al di sotto della soglia determinata e la punibilità di quelle al di sopra. Ma le cose secondo la difesa del manager non starebbero proprio in questo modo. L’apertura delle sezioni delle Sezioni unite. L’affermazione della Corte d’appello, secondo il ricorrente, contrasterebbe con quanto affermato dalle Sezioni unite della Cassazione con la sentenza 13681/2016 in materia di stato di ebbrezza. In quella circostanza i giudici hanno stabilito il principio della non incompatibilità dell’istituto della tenuità del fatto ex articolo 131-bis del codice penale ai reati che prevedono soglie di punibilità. Infatti la soglia di punibilità rappresenta un elemento costitutivo la fattispecie di reato, indicante il quantum necessario per rendere la condotta dell’agente offensiva e dunque rilevante per l’ordinamento penale. In caso di mancato superamento della soglia il reato non esiste ontologicamente mancandone un elemento costitutivo. Una doppia valutazione. In pratica per verificare l’applicabilità o meno della speciale tenuità si devono tenere distinti il giudizio circa l’offensività della condotta, operato dal legislatore attraverso l’individuazione di una determinata soglia e il giudizio successivo, demandato al giudice, circa il grado dell’offesa in concreto realizzata. Questa “doppia valutazione” non sarebbe inoltre né illogica, né nuova all’ordinamento penale, tanto che se ne trova un’ipotesi codificata nell’articolo 316-ter del codice penale, attinente all’indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato. Pertanto il giudice di merito avrebbe dovuto dunque operare tale valutazione e verificare e la sussistenza nel caso in esame delle due condizioni previste dalla norma, ossia la particolare tenuità del fatto e la non abitualità della condotta. La risposta della Cassazione. La soluzione prospettata dal ricorrente non ha però trovato seguito in sede di legittimità. Gli Ermellini, infatti, hanno spiegato che non sussiste in astratto un’incompatibilità tra la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto di cui all’articolo 131 - bis del codice penale e la presenza di soglie di punibilità all’interno della fattispecie tipica, anche nel caso in cui, al di sotto della soglia di rilevanza penale, vi sia una fattispecie che integra un illecito amministrativo. Condotta da valutare nella sua interezza. Ma non basta: per la Suprema corte, in tema di reati tributari per i quali il legislatore ha previsto delle soglie, la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto è applicabile solo se l’ammontare dell’imposta non corrisposta è di pochissimo superiore a quello fissato dalla soglia di punibilità, atteso che l’eventuale tenuità dell’offesa non deve essere valutata con riferimento alla sola eccedenza rispetto alla soglia di punibilità prevista dal legislatore, bensì in rapporto alla condotta nella sua interezza, avendo dunque riguardo all’ammontare complessivo dell’imposta non versata. In altre parole, fini dell’applicabilità della causa di non punibilità per “particolare tenuità del fatto”, occorre sempre valutare la condotta in base ai criteri generali dettati dall’articolo 131-bis del codice penale, con particolare riferimento alla sua reiterazione negli anni di imposta e alla messa in pericolo del bene protetto. L’irrilevanza della crisi di liquidità. C’è di più. Con questa interessante decisione i Supremi giudici ribadiscono l’irrilevanza, in questi casi, della crisi di liquidità. Crisi che nella vicenda sottoposta all’esame della Corte aveva fatto scattare il concordato preventivo al termine del quale era stato interamente pagato il debito tributario con sacrificio del patrimonio personale dell’imputato per far fronte ai debiti dell’azienda. Ebbene, ha chiarito la Cassazione, la colpevolezza del sostituto di imposta non è esclusa dalla crisi di liquidità intervenuta al momento della scadenza del termine per la presentazione della dichiarazione annuale relativa all’esercizio precedente, a meno che l’imputato non dimostri che le difficoltà finanziarie non siano a lui imputabili e che le stesse, inoltre, non possano essere altrimenti fronteggiate con idonee misure anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale. Nel caso in esame, però, ha obiettato alla difesa “Piazza Cavour”, la procedura concorsuale è stata resa effettiva ben tre anni dopo il mancato pagamento delle ritenute previdenziali. Periodo nel quale il manager avrebbe dovuto pertanto accantonare il denaro a copertura del debito con l’Inps non essendo la crisi né repentina né imprevedibile. Patente contraffatta, comunque punibile l’uso di atto falso di Domenico Carola Il Sole 24 Ore, 24 dicembre 2018 Cassazione - Sezione V penale - Sentenza 5 dicembre 2018 n. 5446. I giudici della quinta sezione penale della Corte di cassazione con la sentenza n. 54461 del 5 dicembre 2018 hanno ritenute che se la condotta non è perseguibile perché non vi è prova che il reato sia stato commesso in Italia, torna a essere punibile l’uso di atto falso. La vicenda - Un conducente era stata condannato a pena di giustizia dal Tribunale di Milano in composizione monocratica in relazione al reato di cui agli articoli 477e 482 del codice penale,per aver contraffatto la patente di guida nazionale marocchina emessa apparentemente dalle competenti autorità locali, esibendola durante un controllo di polizia giudiziaria, mentre si trovava alla guida di un’autovettura. In seguito all’appello anche la Corte territoriale confermava la sentenza motivo per il quale l’imputato proponeva ricorso per cassazione lamentando vizio di motivazione in quanto la Corte territoriale non avendo accertato l’efficacia pubblicistica della patente di guida marocchina esibita, alla luce della giurisprudenza di legittimità, che ha rilevato come la falsificazione di un documento di guida straniero può costituire reato solo se sussistano le condizioni di validità di tale documento ex articoli 135 e 136 del codice della strada. Nel caso de quo, quindi, considerato che dai precedenti penali appariva evidente che egli si trovasse sul territorio nazionale da oltre un anno, la patente marocchina non avrebbe potuto legittimarlo alla guida in Italia, non potendo neanche ritenersi che questo documento fungesse da atto identificativo, visto che il ricorrente era munito di passaporto al momento del controllo. Sulla questione principale oggetto di esame, secondo i giudici penali, essendo stato omesso ogni accertamento circa il luogo di falsificazione della patente e ritenuta falsificata in Italia solo in base a mere presunzioni, cade la condizione di procedibilità. La decisione - Gli Ermellini annullano senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla qualificazione giuridica del fatto, ritenuta la fattispecie di cui all’articolo 489 codice penale, rideterminando la pena in mesi due, giorni venti di reclusione, rigettando nel resto il ricorso. La motivazione della sentenza impugnata si basa sull’affermazione che l’imputato avesse quanto meno concorso nella falsificazione, quindi è stato ritenuto che - al di là delle sue affermazioni secondo le quali la patente era stata contraffatta in Marocco e inviatagli in seguito in Italia dal fratello - non emergessero elementi per ritenere che la patente fosse stata contraffatta all’estero, dovendosi, invece, ritenere plausibile che la contraffazione fosse avvenuta in Italia, poiché l’imputato aveva riportato condanne in Italia sin dal 2004. Quindi la Corte ritiene che ai fini dell’integrazione del reato di uso di atto falso, è necessario che l’agente non abbia concorso nella falsità ovvero che non si tratti di concorso punibile, sicché sussiste reato quando la falsificazione non è punibile perché commessa all’estero, in difetto della condizione di procedibilità rappresentata dalla richiesta del ministro della Giustizia ex articolo 10 del codice penale, e l’agente abbia fatto uso dell’atto nello Stato. Ne discende, allora, la motivazione dell’accoglimento del ricorso, limitatamente alla qualificazione della condotta, come, peraltro, già chiesto dall’imputato con motivi di appello. Il concetto di desistenza volontaria dal progetto delittuoso. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 24 dicembre 2018 Delitto tentato - Desistenza - Determinazione volontaria - Cause esterne - Escludono la volontarietà. In tema di desistenza dal commettere il reato, la volontarietà intesa quale spontanea determinazione, si traduce nella scelta non necessitata di non proseguire nell’attività delittuosa, operata in una situazione di libertà interiore, indipendente da circostanze esterne, che rendano irrealizzabile o troppo rischioso il proseguimento del proposito (come nell’ipotesi del sopraggiungere degli agenti di polizia). • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 10 dicembre 2018 n. 55041. Reato - Tentativo - Mancata consumazione del reato - Elemento della volontarietà - Configurabilità. L’applicabilità dell’ipotesi della desistenza (articolo 56 del Cp, comma 3) richiede che la mancata consumazione del delitto sia dipendente dalla volontà dell’agente. E se è vero che non è necessario che la rinuncia all’azione criminosa sia espressione di un autentico ravvedimento, è però essenziale che la scelta sia volontaria, cioè non imposta da circostanze esterne (quali, ad esempio, la resistenza della vittima, ovvero, come nel caso di specie, l’intervento/presenza della polizia giudiziaria o difficoltà in executivis dell’azione criminosa) che rendano irrealizzabile o troppo rischioso il proseguimento dell’attività. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 16 marzo 2018 n. 12240. Reato - Delitto tentato (tentativo) - Desistenza - Volontarietà e spontaneità - Significato. La volontarietà della desistenza non deve essere confusa con la “spontaneità’“ della medesima, nel senso che la desistenza è volontaria anche quando non è spontanea perché indotta da ragioni utilitaristiche o da considerazioni dirette a evitare un male ipotizzabile o dalla presa di coscienza degli svantaggi che potrebbero derivare dal proseguimento dell’azione criminosa. Il requisito della volontarietà presuppone che la desistenza non sia riconducibile a cause esterne che rendano impossibile, o gravemente rischiosa, la prosecuzione dell’azione; la scelta deve quindi essere operata in una situazione di libertà interiore indipendente dalla presenza di fattori esterni idonei a menomare la libera determinazione dell’agente. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 13 febbraio 2014 n. 7036. Reato - Delitto tentato (tentativo) - Desistenza volontaria - Volontarietà della scelta - Significato - Fattispecie. In tema di desistenza dal delitto, benché la volontarietà non deve essere intesa come spontaneità, la decisione di interrompere l’azione non deve risultare necessitata. (Fattispecie in cui la Corte ha escluso la desistenza, in quanto la ragione dell’interruzione dell’attività delittuosa era da ricollegarsi all’intervento dei carabinieri). • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 24 aprile 2013 n. 18385. Sicilia: “è inaccettabile che detenuti vivano in quelle condizioni” di Aldo Ciaramella molisenetwork.net, 24 dicembre 2018 L’on. Occhionero (Leu) dopo visita alle carceri siciliane. L’on. Giuseppina Occhionero in visita ad alcune carceri della Sicilia accompagnata da Antonello Nicosia del Comitato nazionale dei Radicali italiani puntualizza “Un Paese che siede ai tavoli del G8e che si proclama civile non può accettare che i detenuti vivano in queste condizioni”. Una visita nelle carceri, ai sensi dell’ex articolo 67 dell’ordinamento penitenziario, ha messo ancora una volta in evidenza i problemi del sovraffollamento e delle condizioni inumane in cui sono costretti a vivere i detenuti. “Ho incontrato una grande umanità - ha raccontato la parlamentare - di persone che vivono in spazi angusti e in una situazione igienica che è riduttivo definire precaria. Il sistema delle carceri in Italia - ha aggiunto l’onorevole Occhionero - non è degno di un Paese occidentale e ha assoluto bisogno di interventi, sia sul piano dell’amministrazione che dal punto di vista legislativo”. Al termine della visita delle carceri in Sicilia, la deputata molisana ha ringraziato Antonello Nicosia e messo a disposizione il suo impegno nell’immediato per questa battaglia di civiltà. “Lo meritano le persone che ho incontrato e che hanno mostrato un’infinita dignità ma soprattutto - ha concluso Giuseppina Occhionero - lo deve garantire la patria del diritto, qual è l’Italia”. Catania: suicida detenuto di 47 anni, era in attesa di giudizio per rapina impropria Ristetti Orizzonti, 24 dicembre 2018 Giovedì scorso verso mezzogiorno Daniele Giordano, catanese di 47 anni, si è impiccato nel bagno della cella con un lenzuolo legato alla finestra del bagno. Era in carcere dallo scorso 29 settembre, fermato dalla Polizia per sottratto dei prodotti dolciari in un supermercato. Questa la cronaca del suo arresto, pubblicata dal quotidiano La Sicilia: “La Polizia ha arrestato il ladro di merendine. Gli agenti delle Volanti hanno messo le manette a Daniele Giordano, di 47 anni, accusato di rapina impropria. L’uomo, sottoposto alla sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno, è un taccheggiatore seriale conosciuto dai poliziotti come “serial Kinder”, un nomignolo che gli è stato affibbiato dalla sua “specializzazione” nel furto di prodotti dolciari. Giordano è stato notato da una pattuglia della Squadra Cinofili in via Domenico Tempio, mentre si allontanava precipitosamente dal parcheggio di un hard discount, trainando un carrello della spesa pieno di merce mentre era inseguito dal responsabile del supermercato. Aveva appena rubato 68 confezioni di prodotti di un famoso marchio di dolciumi, per un valore complessivo di 200 euro”. Santa Maria Capua Vetere (Ce): morto in carcere detenuto 27enne, forse per un infarto noicaserta.it, 24 dicembre 2018 Ritrovato senza vita in cella all’alba di ieri Raffaele Vincenzo Migliore, 27 anni. La prima ipotesi è che il decesso sia stato causato da un arresto cardiaco. Il giovane era stato arrestato alcuni mesi fa a causa di maltrattamenti in famiglia reiterati ed una volta, mentre era ai domiciliari, fu trovato nel centro della frazione Polvica e riarrestato. Poi successivamente ha avuto un aggravamento della misura in carcere. La salma è stata trasferita all’istituto di Medicina Legale di Caserta, dove sarà sottoposta ad una visita esterna. Dopo l’ispezione cadaverica il corpo del giovane sarà restituito ai familiari, molti dei quali sono increduli per la tragica notizia. Milano: la madre e l’assassino del figlio, un dialogo oltre i muri di Paolo Foschini Corriere della Sera, 24 dicembre 2018 Sembra facile? No, questa cosa non ci assomiglia neanche di lontano a una cosa facile. Chi ha subito un crimine, o ha avuto un familiare vittima di un crimine, lo sa molto bene. E lo sa anche chi un crimine lo ha commesso. Non è facile neanche pensarlo, di incontrarsi. Figurarsi farlo. E parlarsi. Eppure. Non è detto che le cose difficili siano impossibili. Forse a volte sono necessarie. Per questo leggete, nel giorno di Natale, queste due lettere. Da una parte una madre che ha perso un figlio. Ucciso da un pirata della strada. Dall’altra un ergastolano. Che di figli di altre madri, in un’altra vita, ne aveva uccisi più d’uno. Non serve che sappiate i dettagli delle loro storie di “prima”. Quel che invece dovete sapere è che il loro incontro non è stato casuale. Fa parte di un progetto, che di persone come loro ne coinvolge ormai parecchie. Autori di violenza, vittime di violenza. Si chiama Gruppo della Trasgressione, era nato 2i anni fa nel carcere milanese di San Vittore su iniziativa dello psicoterapeuta Angelo Aparo che lo guida tuttora, e il suo scopo era quello di “motivare i detenuti a interrogarsi sul divenire delle loro scelte”. Oggi “è un laboratorio permanente di riflessione cui partecipano detenuti, studenti universitarie comuni cittadini”, non più solo a San Vittore ma anche nelle carceri di Opera e Bollate, oltre che in una sede esterna a Milano dove il Gruppo è ospite dell’associazione Libera. Gli obiettivi principali sono “il riconoscimento reciproco, la formazione degli studenti, l’evoluzione del condannato, Io sviluppo di progetti comuni”. Come funziona? “Durante gli incontri, partendo dalle relazioni e dai vissuti dell’esperienza deviante, detenuti, studenti e comuni cittadini riflettono e producono testi su come si diventa criminali, sul modo confuso con cui il principio della giustizia è presente anche nel predatore, sul se e come si può rinunciare gradualmente all’eccitazione dell’abuso per il piacere della relazione, su quanto sia difficile stabilizzare l’equilibrio psico-sociale del neo-cittadino proveniente da un’adolescenza vissuta nella devianza”. Non è un percorso lineare né semplice, appunto. Ci vanno anni e impegno. Ma qual è il risultato? “L’incrocio fra le diverse attività favorisce nel detenuto il piacere e l’esercizio della responsabilità nei confronti dei progetti comuni, un senso di appartenenza alla collettività allargata, acquisizione di funzioni sociali riconoscibili, la progressiva emancipazione dall’identità deviante”. Basterebbe assistere a uno dei tanti incontri cui i componenti del Gruppo partecipano nelle scuole di fronte agli studenti per la prevenzione rispetto al bullismo. “Studiare, progettare e lavorare con chi ha commesso reati - conclude Aparo - giova alla società più della distanza garantita dalle mura del carcere”. Cara Elisabetta... grazie per non esserti fatta soffocare dal rancore Cara Elisabetta, eccomi a te, con la responsabilità di chi ha offeso la vita, per cercare di restituirti parte della bellezza che tu quotidianamente :ci regali. In questi giorni mi è stato detto se avessi il desiderio di scriverti una lettera. Non ho risposto subito perché pensavo tra me: ci chattiamo e sentiamo tutti i giorni, ci raccontiamo, ci ascoltiamo e ci sosteniamo per rispondere alle nostre fragilità e al tormento che regna nella solitudine dove tante volte ci rifugiamo... Che potrei dire di più a Elisabetta attraverso una lettera?”. Ma ho capito bene, da molto tempo, quanto è importante che la positività sia fatta conoscere. Anche solo per dire che è possibile. E allora ecco. Tu e io ci conosciamo da circa due anni e da subito l’empatia ha fatto da timone per indirizzarci verso il riconoscimento reciproco del nostro dolore. Partecipi alle iniziative del Gruppo della Trasgressione, vieni a incontrarci, insieme organizziamo anche eventi. uante volte ti osservo mentre sei avulsa dal contesto dove ci troviamo e proprio in quei momenti mi sento inadeguato; il mio pensiero si fossilizza nel baratro, dei sensi di colpa e mi fa sentire responsabile di questi tuoi attimi di smarrimento. Donna senza risparmio d’amore! Donna che non ti dai un attimo di tregua nel portare il bene dove ha prevalso sempre il male. Combatti come un guerriero e ti fermi solamente quando riesci ad accudire noi, me... La vita è un mistero e l’uomo può solo ipotizzare di conoscerne una parte. Proprio questo mistero, a mio avviso, ci può donare quella prossimità di cui parla e ha scritto tanto il nostro prof. Angelo Aparo. Tu, come tutti gli esseri umani, spingi verso l’infinito ma, a differenza di tantissimi, un infinito ben definito: la fusione con Andrea, tuo figlio, che vive dentro di te e ti proietta a favore del bene. Un bene che riconosco, rispetto, di cui usufruisco e per il quale sono grato. Un bene che ti restituisce, ogni qualvolta scatta la magia, un battito del cuore di Andrea. Ricordo, e spesso lo dici nelle tue testimonianze, quanta rabbia e rancore e voglia di vendetta albergavano nei tuoi stati d’animo. Non vivevi se non per cercare giustizia, contro chi commette reati e contro parte delle Istituzioni che non riconoscevano, fino a prima dell’inizio delle tue battaglie, l’omicidio di strada. Poi hai conosciuto il Progetto Sicomoro. Progetto basato su incontri tra parenti di vittime o vittime e i carnefici, responsabili di reato. All’inizio è stata una lotta senza esclusione di colpi psicologici. Ma dopo i primi incontri, ascoltando e soprattutto toccando con mano la vulnerabilità e le fragilità di quegli autori di reato, ha prevalso in te la tua vera identità, la matrice ben cucita del tuo senso materno verso persone che hanno sbagliato ma dietro i cui sbagli vi è una infanzia abortita dal loro (mio) disconoscimento da parte di tutti, famiglia compresa. Hai percepito che dietro quelle maschere che hanno caratterizzato negativamente la nostra, vita ci sono uomini bisognosi di essere nutriti dal valore che ci permette di essere restituiti alla società. Credo che non ci possa essere iniziativa migliore di quella che stai portando avanti tu. Ti sei fatta alleata con chi prima combattevi senza remore. Una grande responsabilità. Che richiede impegno ma soprattutto capacità di cambiamento rispetto a un pensiero iniziale. Un lavoro fatto da chi ha subito l’offesa più grande che una madre possa subire: la morte di un figlio, per guida spericolata, da parte di uno scellerato che di responsabilità era privo. Non sono giudizi che potrebbero uscire dal mio pensiero poiché, come sai, ho compiuto le stesse crudeltà a ripetizione. Ma oggi, sentendomi un cittadino, sento anche il dovere di testimoniare a favore di chi ha subito, compresi noi stessi. Sono fortunato. E orgoglioso che tu abbia sposato le idee e iniziative del nostro Gruppo della Trasgressione. Mi permetto di estendere un grazie da parte di tutto il gruppo per dirti che sei un valore aggiunto e una ulteriore fonte di speranza soprattutto per chi, come te, ha subito atrocità ed è ancora soffocato dal rancore. Vorrei scriverti tante altre cose ma questa è una lettera aperta nella quale un podi intimità nascosta non guasta. Raccontarsi con gli altri è un bene, raccontarsi a quattrocchi è amore. Ti lascio con una sorta di poesia che ho scritto in uno dei tanti miei momenti di smarrimento. Eccola. “Due occhi tra, le canne di bambù ascoltano il silenzio della notte che accarezza i pensieri. Gocce che cadono, diamanti senza luce, frecce di dolore piantate nel cuore. Eco di passi severi, tra le mani un raggio di sole che illumina occhi anelanti a libertà. Un attimo, un bagliore nel buio. L’anima si nasconde, vuole l’oblio delle colpe, mentre il cuore intona il canto del perdono”. Con immensa gratitudine. Roberto Cannavò Caro Roberto... sono una vittima, ma non si può fermare il bene Esco dal carcere quasi di corsa, esco dal carcere e ho bisogno di una boccata d’aria, di luce. Ho bisogno di riprendere i contatti con il mondo esterno che pare mancarmi da tantissimo tempo. Esco dal carcere e mi rendo conto di aver fretta e so che la strada che mi separa da casa mi parrà interminabile. Il punto è che lì, in quella dimensione dagli spazi finiti, sbarrati, ovattati, mi sono sentita soffocare e dentro quelle mura che violentano la libertà nulla sembra esistere se non il presente e un pesante passato che ha segnato tutte quelle vite. Prima di uscire mi sono soffermata due minuti a chiacchierare con un agente. Non avevo mai visto corridoi sbarrati che portano alle celle. E la mia prima volta in carcere. Guardo a destra e poi a sinistra. Sbarre e volti. Sbarre e mani. E braccia lunghe che le oltrepassano quasi a volermi toccare. Sbarre e mani e occhi che mi cercano. Ho voglia di scappare perché quella visione mi fa male e dentro me ho solo spazio per il dolore perenne che provo per la morte di mio figlio. Sento la mia corazza farsi di cartapesta e non riesco più a celarmi dietro la coltre di rancore e odio che mi ha avvolta per quattro interminabili anni. Sono una Vittima, io. Sono una mamma monca, spezzata, mutilata. Una donna entrata in carcere per urlare agli autori di reato il mio dolore e per nessun’altra ragione che puntare il dito. Da giudice. Da inquisitore. Sono arrabbiata, legittimamente arrabbiata. Sono Vittima per sempre. Ma ora, nell’uscire da quel luogo di espiazione mi sento meno calata nel mio ruolo totalizzante. Ogni certezza si sgretola e provo una salvifica compassione per gli autori di reato. Compassione nell’accezione più nobile di questo termine troppo spesso frainteso. Provo compassione e non comprendo come un essere umano possa sopportare una vita dietro quelle sbarre. Proprio io che dietro quelle sbarre ce li avrei mandati tutti, i delinquenti. E senza neanche un giusto processo. Senza dovere aspettare quei tre gradi di giudizio che mi parevano un’enorme perdita di tempo e un grande spreco di denaro pubblico. E invece ecco che, calata in questa dimensione inaspettata, nessuno, ma proprio nessuno, neanche il più spietato assassino mi provoca sentimenti negativi. Nuovamente tento di combattere con quella che ero e che non sarò mai più. E mi dico che non posso trovare giustificazioni a tanto male e che la clemenza non rientrava proprio, neanche un po’, nei miei progetti di mamma orfana. Arrogante e chiusa nella mia bolla che credevo impenetrabile, mi atteggiavo a giudice senza averne alcun titolo. Ma arretra ogni difesa e perdo questa ardua lotta contro la mia gabbia fatta di odio e rancore. Da allora li incontro sempre. Sono persone, sono esseri umani che hanno sentimenti, che provano vergogna, rimorso. Persone che chiedono una seconda possibilità. Racconto il mio vissuto e trovo occhi pieni di lacrime e trovo solidarietà. Siamo facce della stessa medaglia: il dolore. Quello subito, quello provocato. Quegli occhi, quelle storie entrano dentro di me ed agiscono come il ferro operatorio di un abile chirurgo. Entrano nella carne e la feriscono, la fanno sanguinare. Quel ferro arriva in profondità e va a cercare il male per sradicarlo. Brucia, ma cauterizza. Ora so. Ne ho le prove. Il male si può sconfiggere, si può arginare, si può anche fermare. Ma il bene no. Una volta innescato, il bene dilaga e invade e pervade, inarrestabile e permeabile, travolge tutto ciò che c’è intorno. Mi sento una donna migliore. Sento che possiamo fare un pezzo di strada insieme, senza fretta, curandoci le ferite con un sorriso o un abbraccio. Senza troppe parole, fusi nei nostri ruoli e nei nostri dolori. Fuori piove, ma noi abbiamo il sole dentro. Si chiama Ascolto Accoglienza Amicizia Affetto Amore. Vibo Valentia: il carcere come luogo di recupero, iniziativa che ha coinvolto i detenuti di Sarah Sibiriu e Nicola Pirone Quotidiano del Sud, 24 dicembre 2018 Una piena ed efficace sinergia tra l’Istituto professionale Ipssara “Gagliardi” indirizzo agrario sezione carceraria, la casa circondariale e i sindaci del comprensorio vibonese ha permesso la realizzazione di un evento di notevole rilievo sociale e culturale che si è svolto nei giorni scorsi presso la sala polivalente della Casa Circondariale di Vibo Valentia. Nel corso della manifestazione, allietata dal maestro Antonio Scolieri con la collaborazione del complesso bandistico città di Curinga, i detenuti partecipanti al progetto Cad, organizzato e gestito dall’istituto “Gagliardi”, guidati dal professore Renato Arone, hanno consegnato al sindaco di Capistrano, Marco Martino, il lavoro da loro realizzato che consiste nell’aggiornamento e nella geo-referenzazione della mappe catastali e cartografia. “La portata del lavoro che sancisce l’apertura del carcere al territorio e alla comunità esterna - spiega la dottoressa Chiara La Cava, responsabile dell’area educativa - è stata tale da portare il sindaco di un altro paese del comprensorio, Domenico Amoroso sindaco di Polia, a chiedere analoga collaborazione”. Nel corso della stessa giornata è stato poi premiato uno dei detenuti ristretti per la partecipazione al concorso letterario “Scriviamo ad hoc” indetto dalla casa editrice “Ad hoc” che ha pubblicato il racconto inedito elaborato da Assumma Natale in una raccolta di scritti dal titolo “All’ombra del Vallo”. Il percorso, spiega il Direttore della struttura cittadina Antonio Galati, “si inserisce in un progetto di ampia portata sociale e culturale, in cui l’obiettivo principale è non solo fornire delle competenze specifiche in vista dell’auspicato reinserimento sociale del ristretto, ma realizzare fattivamente l’apertura e la collaborazione tra il mondo carcerario e il territorio in cui la struttura ricade”, ed in tale ottica sono state invitate a presenziare all’evento le Istituzioni e le autorità locali; pertanto “auspichiamo, e riteniamo imprescindibile - ribadisce il direttore - incrementare forme di dialogo e di collaborazione con la realtà esterna”. Il Comune di Capistrano, infatti, su richiesta del dirigente scolastico professor Gentile che aveva donato qualche mese fa cinque computer all’istituto al fine di poter garantire agli studenti detenuti una migliore e proficua attività didattica svolta nel percorso scolastico di competenza. Da questa richiesta in segno di ringraziamento per quanto fatto dal sindaco Marco Martino l’intenzione dell’istituto alberghiero e in particolar modo del professor Renato Arone che ha coordinato questo progetto quale docente presso il carcere di Vibo Valentia materia insegnata agraria, di ricambiare tale gesto e rilasciando all’ente un programma cartografico del territorio e del piccolo borgo incastonato tra le Preserre aggiornato in tutti i dettagli. Un patrimonio di enorme importanza che sarà fortemente funzionale per il l’espletamento delle attività tecniche quali concessioni e rilascio di certificazione di destinazione urbanistica. Soddisfatto della giornata anche il primo cittadino di Capistrano, Marco Martino: “Abbiamo parlato di cultura in un luogo da molti considerato di recupero - ha asserito - ma che allo stesso tempo possiede anche delle eccellenze che non devo essere abbandonate. È il primo di una serie di appuntamenti concordati insieme ai dirigenti dei due istituti per cercare di trarre e coinvolgere nelle attività anche i detenuti. Il dono ricevuto è di straordinaria importanza, per Capistrano ma anche per tutto il territorio dell’Angitola - no e Vibonese”. Trento: carcere di Spini, dopo la rivolta l’arcivescovo Tisi conferma visita per Natale ildolomiti.it, 24 dicembre 2018 ‘‘Voglio portare un messaggio per tutti’’. Confermata la visita dopo i disordini di sabato. Ghezzi deposita un’interrogazione e ringrazia agenti e vigili del fuoco. Un’interrogazione che sarà depositata oggi in consiglio provinciale da Futura 2018, la richiesta di Liberi e Uguali di “creare una rete” per affrontare il problema delle morti in carcere. Non scende l’attenzione in città e, in particolare, della politica sul carcere dopo i disordini dell’altro ieri a Spini. Intanto questa sera l’arcivescovo monsignor Lauro Tisi sarà nella struttura circondariale assieme al cappellano don Mauro Angeli per officiare la tradizionale messa della Vigilia di Natale. Colpito dai tristi eventi, il presule trentino non ha voluto rinunciare nemmeno quest’anno a una visita ai detenuti in occasione del Natale. Dopo tutta la giornata dedicata alla confessione nella basilica di Santa Maria Maggiore a Trento, monsignor Tisi celebrerà quindi a Spini di Gardolo la messa della Vigilia e “porterà personalmente il messaggio natalizio a tutte le persone detenute, alle forze di polizia penitenziaria e ai responsabili della struttura”, si legge in una nota della Diocesi. Ad accompagnare l’arcivescovo sarà il cappellano del carcere don Mauro Angeli. Alle 23, sempre di questa sera, monsignor Tisi si sposterà quindi a Castelnuovo, nella cui chiesa presiederà la messa natalizia. La mattina di Natale alle 10 sarà invece in Duomo per il pontificale solenne e nel pomeriggio, alle 18, sempre nella cattedrale cittadina presiederà la preghiera dei Vespri. Intanto sull’accaduto di sabato interviene, anche con alcune proposte, la politica. In particolare lo fa Futura 2018, gruppo di appartenenza del consigliere Paolo Ghezzi che sabato era arrivato ai cancelli della casa circondariale dopo il commissario del Governo e il questore e assieme all’avvocato Fabio Valcanover, al presidente dell’Ordine degli avvocati Andrea de Bertolini e al presidente della Camera penale Filippo Fedrizzi. “Nove suicidi in otto anni di attività del carcere di Spini di Gardolo, a Trento, inaugurato il 31 gennaio 2011. Troppi, per una casa circondariale nuova, che doveva diventare un modello per tutta Italia” si legge nella nota del gruppo consiliare Futura 2018. Seguono “le indicazioni” dei consiglieri provinciali Ghezzi e Coppola: “Copertura sanitaria 24 ore su 24, con attenzione particolare alle problematiche psichiche dei detenuti tossicodipendenti; maggiore attenzione al dialogo e alla socialità; un più equilibrato rapporto tra numero di detenuti e organici della polizia penitenziaria; allentamento delle tensioni interne tra direzione, agenti, detenuti, operatori sociali e volontari; una tettoia esterna alla casa circondariale per i familiari dei detenuti in attesa di colloquio”. Ancora, i consiglieri auspicano una “condanna degli ingiustificati e controproducenti vandalismi commessi da alcune decine di detenuti, con gravissimi danni alla struttura (cinque bracci su otto sono inagibili) e soprattutto agli spazi comuni dove si svolgono le attività di istruzione e di socializzazione”. I consiglieri provinciali ringraziano il comandante della polizia penitenziaria, Daniele Cutugno ed “elogiano i vigili del fuoco e la polizia penitenziaria che, con il loro pronto e coraggioso intervento, hanno salvato la vita di una ventina di detenuti e di un’operatrice della lavanderia negli spazi in fiamme”. Futura depositerà oggi un’interrogazione in consiglio provinciale “non solo sull’ultima tragedia, ma anche sulla situazione generale della casa circondariale di Spini di Gardolo”. Il gruppo “chiede al presidente della Provincia di inserire tra le priorità della giunta provinciale, in coordinamento con gli organismi statali competenti, una efficace revisione del sistema di assistenza sanitaria e sociale nel carcere di Trento”. Anche Liberi e Uguali interviene con una nota sull’accaduto che auspica un investimento in “percorsi riabilitativi” e nella creazione di una “rete di protezione psicologica e sociale”. Quindi l’attacco politico: “Le precedenti giunte di governo provinciale hanno investito molto, economicamente, nella costruzione del nuovo carcere, ma non altrettanto nella volontà di inserire nel territorio, in maniera responsabile, questa struttura, intervenendo nella sua gestione. L’attuale giunta, che ha fatto leva in tutta la campagna elettorale sulla paura, l’insicurezza, la pericolosità dei soggetti deboli e/o scomodi, probabilmente non saprà fare di meglio”. Sciacca (Ag): l’on. Occhionero dopo la visita “chiuderlo o riconvertirlo” corrieredisciacca.it, 24 dicembre 2018 “Il carcere di Sciacca deve essere chiuso o convertito in laboratorio per la rieducazione dei detenuti”: è la conclusione a cui sono giunti i protagonisti di una ispezione a sorpresa effettuata da una delegazione di Liberi e Uguali e Radicali Italiani all’interno della struttura detentiva saccense, dove allo stato attuale sono recluse 56 persone, l’80 per cento delle quali extracomunitari. L’ispezione è stata effettuata dal deputato nazionale Giusy Occhionero e dal componente del comitato nazionale dei radicali italiani Antonello Nicosia. I due hanno trascorso 4 ore all’interno della casa circondariale di Sciacca e le criticità emerse sono sostanzialmente quelle note, ovvero di un edificio monumentale che dovrebbe essere luogo di arte e cultura a disposizione della comunità locale e non struttura detentiva. “All’ingresso non mi sono sentita all’interno di un carcere - ha commentato il parlamentare Occhionero - c’è uno splendido chiostro e un complesso architettonico di grande pregio che deve essere aperto alla pubblica fruizione e utilizzato per iniziative culturali. Poi, è evidente che non essendoci la possibilità di fare nuove opere di adeguamento, l’immobile non si presta ad essere struttura detentiva”. Il complesso monumentale dei Carmelitani è casa circondariale da oltre un secolo: numerose sono state negli ultimi venti anni le iniziative di vari gruppi politici volte da una parte alla realizzazione di un nuovo carcere, dall’altra alla chiusura dell’attuale immobile, sito nel cuore del centro storico di Sciacca. “C’è tanta buona volontà da parte degli operatori della polizia penitenziaria e del personale sanitario - dice Nicosia - da anni si va avanti adattandosi, ma ci sono condizioni strutturali davvero precarie che vanno dai servizi inadeguati alla carenza idrica”. Tra i problemi rilevati alcune situazioni ormai croniche e il vitto: “I detenuti - aggiunge Nicosia - lamentano scarse porzioni di vitto ed il costo degli alimenti, in particolare della pasta, è molto più elevato rispetto ai prezzi normali di un supermercato”. “Al termine del giro di ispezioni che stiamo facendo in parte delle carceri della Sicilia occidentale - conclude il deputato di Liberi e Uguali Occhionero - predisporrò un’apposita interrogazione parlamentare con cui chiederò al governo di affrontare alcune situazioni critiche come quella di Sciacca e di una sezione del carcere Ucciardone di Palermo”. Nisida (Na): i Radicali “a rischio le attività produttive nel carcere minorile” di Fabrizio Ferrante linkabile.it, 24 dicembre 2018 I Radicali per il Mezzogiorno europeo hanno visitato il carcere minorile di Nisida nell’ambito di un ciclo di ispezioni che il tre gennaio a Santa Maria Capua Vetere. Il carcere minorile di Nisida era stato visitato lo scorso 16 giugno dai Radicali per il Mezzogiorno europeo e rispetto ad allora è emersa una novità che nel giro di pochi giorni potrebbe cambiare il volto di un carcere, ad oggi, definibile come modello. Questo a causa della probabile, imminente, chiusura di tutte le attività produttive presenti ad oggi a Nisida. Produzioni dolciarie (al momento sono in vendita panettoni e pandori prodotti nella pasticceria della struttura) presepi e le famose ceramice “Inciarmate a Nisida” potrebbero essere stoppate dal prossimo 1 gennaio. La ragione, ha spiegato il direttore Gianluca Guida, risiede nella mancanza delle autorizzazioni (Scia) che il ministero della Giustizia (segnatamente il dipartimento giustizia minorile) da cinque anni non rilascia. Tale diniego è motivato dal fatto che non è stato mai concesso il comodato d’uso degli spazi alle associazioni che operano (di fatto in deroga a qualunque norma) e producono a Nisida. Spazi che pur essendo parte del carcere non possono essere assegnati dalla struttura, con il ministero che non sblocca la vicenda in quanto gli spazi in questione sarebbero demaniali e dunque tocca al Demanio assegnare i comodati. Il tutto con un rimpallo di responsabilità in quanto dal Demanio hanno fatto sapere che la mancanza di autorizzazioni è da attribuire al Ministero dal momento che gli spazi sono già stati in dati in gestione, per cui la palla viene costantemente rimandata da un campo all’altro. In mezzo i detenuti e i tanti operatori/educatori che tra meno di due settimane potrebbero vedere venire meno un’importante serie di attività, che meglio di tante teorie contribuiscono a rieducare e reinserire in società i giovani e le giovani ospiti. Non resta che attendere pochi giorni e capire chi debba rilasciare la documentazione mancante, in particolare il comodato d’uso (che dal carcere si vorrebbe con cadenza annuale) per poi ottenere l’autorizzazione dal Ministero. Fino ad allora, ha precisato il direttore Guida, sarà possibile dal primo gennaio svolgere esclusivamente formazione ma non più produzione. Passando ai numeri, rispetto a giugno vi è una leggera flessione dei reclusi: sei mesi fa erano 66 mentre oggi sono 59 (in 73 di capienza regolamentare anche se per Guida il dato non dovrebbe superare i 50) di cui dieci ragazze, in una struttura che ospita giovani tra i 14 e i 25 anni di età anche se la media è fra 17 e 22. Gli stranieri sono pochi e ben integrati. I detenuti in articolo 21, quindi con lavoro esterno, sono quattro ma a giorni diventeranno sei. Tuttavia anche all’interno le attività e i laboratori non mancano. Innanzitutto si parte dalla scuola dell’obbligo più crediti formativi per l’istruzione superiore. Poi vi sono attività formative professionali e attività di utilità collettiva. In particolare con queste ultime si trasmette l’importanza della tutela per il bene comune. Ogni laboratorio impiega sei ragazzi, otto per l’edilizia. Vi sono infatti laboratori di ceramica con la cooperativa Nesis, di falegnameria, edilizia, cucina, pizzeria, pasticceria e friggitoria ma anche laboratori artistici con corsi di musica e teatro. Non manca lo sport in collaborazione con Uisp e Coni e al momento sono praticati basket, volley e pallamano oltre al calcio seppur in maniera non ufficiale. A tal proposito i ragazzi di Nisida hanno raccontato ai Radicali la loro esperienza del giorno prima, una partita giocata contro una formazione giovanile del Napoli. Tornando alle cifre, tra il 20% e il 25% dei ragazzi di Nisida è dentro per reati connessi alla droga mentre le ragazze prevalentemente per reati contro la persona (vi sono casi di parricidio) o furti. Tuttavia la maggior parte dei detenuti a Nisida è in attesa di giudizio di primo grado o di Appello. La permanenza media a Nisida è di un anno e mezzo. In questo carcere non vige il regime delle celle aperte anche se in realtà i ragazzi passano gran parte del loro tempo impegnati in diverse attività che si svolgono in altri luoghi del carcere. Dunque, ha spiegato il direttore, piuttosto che lasciarli girare all’esterno della cella con minore probabilità di controllarli, si preferisce tenerli impegnati in attività strutturate dove vi sia sempre almeno un adulto presente. Questo perché tali attività hanno un obiettivo sociale volto al reinserimento. In ogni caso, si torna in cella alle 20 e fino alle 23, talvolta le 24 (il sabato fino all’una di notte) è possibile guardare la tv. Tv che comprende anche le partite di calcio trasmesse da Sky. Dopo questi orari si spengono luci e televisore. Le celle sono pulite, spaziose e luminose. I bagni non hanno presentato criticità. Le camere sono occupate da due o tre detenuti con pochissime eccezioni di detenuti in cella singola. I colloqui con i familiari sono svolti il giovedì pomeriggio e il sabato mattina, per una o due ore. Non mancano luoghi aperti in cui i padri o le madri dietro le sbarre possono trascorrere tempo coi propri figli piccoli. Nisida, come constatato già a giugno, si conferma struttura rispettosa dell’articolo 27 della Costituzione ma per chiunque abbia a cuore il recupero dei giovani lì ristretti sono giorni di attesa con l’auspicio che la cessazione delle produzioni non si verifichi. Produzioni che sono un orgoglio non solo per il carcere ma anche per l’intero territorio flegreo su cui esso insiste, rappresentandone una splendida unicità. Voghera (Pv): alla Casa circondariale inaugurata la stanza per i nonni-detenuti ilperiodiconews.it, 24 dicembre 2018 Una stanza dove i nonni detenuti potranno incontrare i nipoti in uno spazio riservato e opportunamente allestito. Presso la Casa Circondariale di Voghera è stato inaugurato un locale per il ricongiungimento di nonni detenuti e nipoti. Il Progetto denominato “Libera un sorriso” è stato realizzato dal Lions Club Voghera Castello Visconteo e dal Leo Club Voghera, in collaborazione con la direzione e l’area giuridico-pedagogica della Casa Circondariale di Voghera con il patrocinio dell’assessorato ai Servizi Sociali del Comune di Voghera. Erano presenti il governatore Lions del distretto 108ib3 Giovanni Fasani, il Primo Vice Governatore Angelo Chiesa, il Presidente Lions Club Voghera Castello Visconteo Emanuela Martinotti, il past president Lions Club Voghera Castello Visconteo Giuseppe Fiocchi, il past president Leo Club Voghera Martina Fariseo, il presidente Leo Club Voghera Alessandra Dallara, i soci Lions, il sindaco di Voghera Carlo Barbieri, l’assessore alla Famiglia Simona Virgilio, il presidente del Consiglio Comunale Nicola Affronti, il personale dell’area pedagogica-giuridica della Casa circondariale di Voghera che ha collaborato all’evento, la dott.ssa Paola Fontana e la dott.ssa Laura Sarta dell’UEPE di Pavia. Alcuni detenuti hanno preparato un ricco buffet di deliziosi dolciumi e prelibatezze per ringraziare dell’attenzione prestata e per aver esaudito la loro richiesta con la realizzazione di questa stanza per l’incontro dei nonni detenuti con i nipoti. “Questa iniziativa costituisce per i Lions e i Leo un servizio di estrema importanza - afferma Martinotti - creare uno spazio all’interno del carcere che possa favorire l’incontro tra nonni detenuti e nipoti, significa consolidare le relazioni affettive e ricostituire, anche per poche ore, il nucleo familiare”. Il 12 aprile 2018 era stato organizzato un convegno dal Lions Club Castello Visconteo e dal Leo Club Voghera, presso il Circolo Il Ritrovo, in cui si era dibattuto di argomenti inerenti i rapporti tra la Città di Voghera e la Casa Circondariale. Quanto ricavato dall’evento è servito per allestire ed arredare la stanza dei nonni e nipoti con giochi per i bambini, quadri, arredi e tanto colore per ricreare un ambiente gioioso e sereno all’interno della struttura carceraria. “Ringrazio quanti hanno reso possibile la realizzazione di questo spazio destinato ai detenuti nonni, dimostrando cultura ed eleganza, di cui sono esempio da imitare. Il territorio vogherese, sempre sensibile a proposte di tale tenore, è ampiamente impegnato nelle attività rivolte ai ristretti di questo istituto. La comunità, attiva ed entusiasta, collabora abitualmente nell’opera rieducativa ed è rappresentata dal Lions Club Voghera Castello Visconteo e dal Leo Club di Voghera che hanno promosso l’allestimento della sala che oggi inauguriamo”, commenta la direttrice del Carcere Mariantonietta Tucci. Anche il capo area giuridico-pedagogica Fortunata Di Tullio ha sottolineato la valenza rieducativa del progetto “Libera un sorriso”. Milano: quel filo solidale tra San Vittore e il San Gerardo di Paolo Foschini Corriere della Sera, 24 dicembre 2018 A cominciare dalla prima tra tutte, quella del Bambino nato tra un asino e un bue, quasi sempre le storie di Natale hanno pochi testimoni. Questa ne ha pochissimi perché si è svolta al chiuso, in due luoghi diversi tra loro anche se uniti dal potente denominatore comune per cui la maggior parte degli ospiti vorrebbe non esserlo: carcere e un reparto di ospedale. Un carcere, quello di San Vittore; e un reparto, leucemie pediatriche, quello del San Gerardo di Monza. Luoghi di sofferenza e speranza. Anche se per la speranza, in un carcere, bisogna lavorarci su. A San Vittore, questa volta, il lavoro lo ha fatto un bambino. Si chiamava Me. Alessandro Maria Zancan. La leucemia se lo è portato via a 8 anni. Sua mamma, Luisa Mondella, dopo una visita con il comandante della polizia penitenziaria Manuela Federico, ha portato a San Vittore la sua storia. Luisa ha raccontato a detenuti e agenti la malattia e la scomparsa di Me, la decisione di creare la Fondazione Grande Ale Onlus e le mille attività che la Fondazione sostiene soprattutto al San Gerardo. Gli agenti hanno risposto con una raccolta fondi e poi con una visita ai bambini del reparto. Infine Luisa è tornata a San Vittore per la messa di Natale. Che ha concluso indicando nel piccolo grande Me un modello di speranza anche per un luogo come il carcere: “Lui ha insegnato che per essere felici, anche nelle situazioni difficili, occorre guardare la vita con occhi diversi, trovando il bene in ogni persona, non arrendendosi mai, apprezzando la quotidianità, trovando il coraggio di andare avanti. Amando nel dolore. E rialzandosi più forti”. Livorno: gozzi e velieri in miniatura, così i detenuti aiutano i bimbi di Luciano De Nigris Il Tirreno, 24 dicembre 2018 Sugli Scali Finocchietti in mostra i modellini realizzati in carcere: li mettono in vendita per raccogliere fondi destinati al reparto pediatria dell’ospedale. Sognando corsi per migliorare quello che per ora è un hobby: a cominciare dalla liuteria. In apparenza i protagonisti della mostra “Remi e vele per Livorno sono i modellini dei gozzi del Palio marinaro, in realtà per il tramite di questi oggetti sul palcoscenico della sala Simonini dell’ex Circoscrizione 2 sono i detenuti che li hanno realizzati. Il tempo passa molto lentamente, a volte si ferma e pesa come le mura e le sbarre di un carcere. Muovere le mani e costruire oggetti che producano suoni o barche che volino sull’acqua non libera il corpo, sì la mente. Modellini dei gozzi del Palio, galeoni con le vele al vento, carretti siciliani, viole e violini ci trasmettono il sogno di libertà degli uomini delle Sughere, il Carcere di Livorno. Una mostra voluta dal Garante dei detenuti Giovanni De Peppo, testimonianza viva della presenza di uomini oltre le mura e per raccogliere fondi da destinare al reparto di pediatria dell’ospedale cittadino. Dalla costruzione dei modellini è nato un sogno, imparare attraverso un corso di liuteria a costruire strumenti veri, imparare un mestiere. Si tratta di piccoli velieri, tradizionali carretti variopinti, un minuscolo pianoforte ed anche un paio di violini riprodotti a grandezza naturale: li hanno creati con cura e passione nel loro laboratorio di hobbistica i detenuti dell’Alta sicurezza nella Casa circondariale “Le Sughere”. I carcerati, attraverso la vendita delle loro creazioni portate in mostra, vogliono sentirsi parte attiva della società. Come? Il ricavato di questa mostra si trasformerà in fondi da devolvere al reparto di pediatria dell’ospedale di Livorno. Promossa dal Garante dei detenuti l’iniziativa racchiude perciò un duplice scopo: da una parte l’obiettivo di ricupero e di reinserimento sociale per chi si trova in carcere e dall’altra un sostegno concreto verso una struttura ospedaliera rivolta ai bambini. “Mentre si era all’opera - spiega il garante dei detenuti Giovanni De Peppo - ad un certo punto ci è venuto in mente di realizzare in miniatura i gozzi del Palio marinaro offrendo così un omaggio alla città di Livorno ed alla sua tradizione. Grazie al Comitato del Palio ho potuto fare le foto dei gozzi custoditi all’interno della Fortezza Nuova ed averne informazioni costruttive, mentre il Gruppo Navimodellisti di Livorno ci ha aiutato per i disegni”. L’idea potrebbe anche essere di riuscire a trasformare un’attività hobbistica in un’occasione lavorativa all’interno della struttura carceraria. In esposizione anche alcuni violini artigianali. Da qui è sorta la domanda: perché non cominciare a realizzare dei violini veri e propri, ovvero degli strumenti musicali professionali, e quindi mettere su un laboratorio di liuteria? E siccome è un sogno, ecco che gli organizzatori della mostra hanno pensato di ampliare la possibilità di sognare mettendo un libro sul quale qualunque visitatore potesse scrivere il proprio sogno. “Il carcere deve cambiare, lo dico io che lo vivo da mamma attraverso mio figlio detenuto”, dice la madre di uno dei carcerati. “Il detenuto - aggiunge - ha bisogno del sostegno delle famiglie. C’è bisogno che gli orari di ingresso siano liberalizzati così che cadano i vincoli per cui si può andare a far visita ai propri cari solo in determinati orari. Non solo: servono lavoro, palestra, cultura e attività, è necessario dare al detenuto la possibilità di mantenere il legame con il proprio cane, e dunque possa o tenergli compagnia o fargli visita. E poi il periodo d’aria: meglio ampliare la durata dell’“aria” perché i carcerati non devono esser tenuti rinchiusi come nel medioevo”. Milano: “Natale in carcere, lontano dagli affetti” di Luisa Bove chiesadimilano.it, 24 dicembre 2018 Alle 8.30 l’Arcivescovo Mario Delpini presiede la Messa presso l’istituto di pena di Bollate. Una visita molto attesa, soprattutto nei giorni di festa in cui i detenuti, ma anche gli agenti penitenziari avvertono la distanza da casa. Parla il direttore reggente Fabrizio Rinaldi. Gesù nasce per tutti. Ovunque. Anche in carcere. E a testimoniarlo, con la sua presenza nel giorno di Natale, sarà lo stesso Arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini, atteso dai detenuti della Casa di reclusione di Bollate come segno di attenzione e di speranza, anche là dove le giornate sembrano non passare mai, dove il tempo scava solchi profondi in ogni esistenza. Celebrerà la Messa il 25 dicembre alle 8.30 tra gli uomini e le donne che popolano l’Istituto di pena. La celebrazione eucaristica - spiega Fabrizio Rinaldi, direttore reggente dell’Istituto di pena - si svolgerà in teatro “che ha una capienza di un centinaio di posti: vi possono partecipare tutti coloro che lo desiderano”. Lui stesso sarà presente, come pure gli operatori e il personale di polizia. “Di solito partecipano anche molti volontari attivi in carcere”. Che cosa significa per la popolazione carceraria la visita dell’Arcivescovo di Milano? È un grandissimo onore, un segno di attenzione e di vicinanza da parte sua. La visita è molto sentita dai detenuti, dalle persone ristrette, per le quali questo segno di attenzione è ancora più importante perché Natale è un momento che vivono in maniera molto intensa. Anche perché la lontananza da casa, dai propri affetti, acuisce quelle che sono le emozioni forti di questi giorni di festa. Ricevere la visita di monsignor Delpini quindi è molto, molto importante per loro. C’è qualche iniziativa particolare in questi giorni? Anche nei reparti si cerca di fare festa: i reclusi vivono momenti insieme con l’aiuto dei volontari, mentre nei diversi laboratori si organizzano eventi con i detenuti lavoratori. Tutte queste iniziative vengono comunque favorite dall’istituto per permettere a tutti di stare insieme, socializzare e festeggiare. Quanti sono oggi i reclusi? E quelli che lavorano? Sono 1250, di cui quasi 150 donne. I detenuti che escono a lavorare (secondo quanto stabilito dall’articolo 21 dell’Ordinamento penitenziario, ndr) sono circa 200, molti dei quali impegnati nella ristorazione, nell’informatica e nei lavori di pulizia. A questi vanno aggiunti 40 semiliberi che escono la mattina e rientrano la sera: una parte di loro si reca al lavoro oltre ad andare dai propri cari. E quelli che lavorano all’interno? Abbiamo circa 140 detenuti impegnati in lavorazioni interne in 13 attività che fanno capo a cooperative o società private esterne. Inoltre ci sono poco più di 250 lavoranti alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, che svolgono i cosiddetti “lavori domestici” (pulizia, cucina…) per far funzionare il carcere. Cosa rappresenta per loro il lavoro? È l’occasione principale per il riscatto nella vita e per il reinserimento sociale delle persone che sono in esecuzione di pena detentiva. Avete anche studenti? Certo. Sono centinaia quelli impegnati nella scuola dell’obbligo. Poi abbiamo anche diversi universitari: attualmente sono circa una quarantina gli iscritti a diverse facoltà, a cominciare da quella di giurisprudenza. Tornando al Natale, immagino che anche molti agenti penitenziari lo festeggeranno in carcere, lontani dalla famiglia… Sì, è così. A volte questa lontananza dagli affetti è sentita anche da chi lavora, dagli operatori penitenziari all’interno delle carceri, in virtù del fatto che buona parte del personale proviene dalle isole, dal centro e dal sud Italia. Quindi anche per loro occasioni come il Natale sono momenti in cui non vivono in maniera diretta gli affetti familiari. Anche per loro quindi è molto importante la presenza e la testimonianza dell’Arcivescovo. Palermo: il coro di detenuti canta durante la celebrazione dell’arcivescovo al Pagliarelli Redattore Sociale, 24 dicembre 2018 Il maestro del coro Salvo Randazzo: “ Dentro ognuno di loro c’è un bel potenziale che va valorizzato per farlo uscire nel migliore dei modi”. Con grande emozione il coro di detenuti, formato da solo un mese, ha cantato in occasione della celebrazione religiosa ufficiata dall’arcivescovo Corrado Lorefice nella cappella centrale della Casa circondariale di Pagliarelli. Alla cerimonia, per l’occasione oltre ad un’ampia rappresentanza di detenuti e detenute, hanno partecipato anche la direttrice del carcere Francesca Vazzana e il sindaco della città Leoluca Orlando. L’animazione musicale della celebrazione liturgica è stata affidata ad un coro composto da persone detenute dirette dal maestro Salvo Randazzo. La performance musicale è il risultato di un laboratorio musicale di canto corale attivo nella Casa Circondariale in forza del progetto “Armonie: gli effetti dell’affetto” proposta dell’associazione “Un Nuovo Giorno” particolarmente impegnata a promuovere iniziative finalizzate a favorire la crescita culturale, umana e genitoriale della popolazione detenuta del carcere Pagliarelli. “Grazie alla professionalità e all’entusiasmo del maestro Randazzo - sottolinea Antonella Macaluso dell’associazione Un nuovo giorno -, molti detenuti stanno vivendo la possibilità di frequentare un laboratorio musicale scoprendo, in tal modo, tutto il fascino della bellezza della musica come cura dell’anima”. Durante la celebrazione religiosa 5 ospiti della struttura hanno ricevuto inoltre il sacramento della cresima. A conclusione della cerimonia si è esibito pure un coro spontaneo di donne detenute italiane e straniere che ha cantato in italiano, inglese e francese. “Per noi è molto importante avere il vescovo oggi - dice commosso un detenuto del coro - Lo sentiamo vicino alla nostra sofferenza e a tutte le nostre vite”. Tra i coristi in detenzione c’è Giuseppe Berlich di 35 anni, sposato e padre di 5 figli. “Potere cantare è per noi un modo molto bello di sfogarci che ci libera da tutta la nostra tensione - ha detto anche Giuseppe Berlich un altro corista di 35 anni - che abbiamo vivendo in questo luogo. E’ anche un’occasione piacevole di stare insieme che ci fa mettere passione e impegno in quello che cantiamo. Questa esperienza mi sta aiutando molto soprattutto facendomi acquistare maggiore fiducia e sicurezza in me stesso e verso gli altri. Per questo ringrazio tutti quelli che mi hanno dato questa possibilità”. “Impegnarsi con loro è sicuramente un’esperienza molto forte che emoziona tanto - ha aggiunto pure il maestro volontario del coro Salvo Randazzo che è corista presso il teatro Massimo -. Poterli incontrare fa certamente abbattere tutte quelle barriere che si hanno quando parliamo di reclusi. Dentro ognuno di loro c’è un bel potenziale che va accompagnato e valorizzato per farlo uscire nel migliore dei modi. Credo che il coro sia davvero un’attività costruttiva che li induce anche alla riflessione nella prospettiva di un futuro diverso”. “Ringrazio il vescovo per esserci vicino in questo momento di festa. Quella di oggi è solo una piccola rappresentanza dei nostri detenuti che sono circa 1300 - ha detto la direttrice Francesca Vazzana nel suo saluto all’arcivescovo. Al coro e ai presenti si uniscono con il pensiero anche tutti gli altri che non sono con noi. A tutti coloro che in questo momento sono lontani dalle loro famiglie faccio gli auguri di un sereno Natale”. “E’ una gioia stare in mezzo a voi nell’attesa del Santo Natale. La Pace nella bibbia non è solo assenza di guerra - dice nelle sua omelia l’arcivescovo Corrado Lorefice - ma è soprattutto l’armonia di quando Dio entra nel rapporto più autentico e profondo con gli uomini della terra. Il Natale ci deve fare liberare da tutte le nostre catene di un cuore indurito per intraprendere una strada nuova. Un cuore libero ci fa scoprire veramente chi siamo per diventare delle persone nuove. Il Signore può fare grandi cose quando riesce ad entrare nella nostra vita. A tutti ci viene data la possibilità di cambiare, trasformando il nostro cuore. Quando valorizziamo la persona che incontriamo, incontriamo anche noi stessi e Dio che è sempre in mezzo a noi”. Roma: “io, donna trans e mio padre boss detenuto, 25 anni dopo” di Anna Laura De Rosa La Repubblica, 24 dicembre 2018 L’incontro in una scuola tra la presidente Arcigay e il genitore detenuto a Rebibbia. Un incontro che spezza il fiato, di quelli che segnano uno spartiacque nella vita e ti rendono più forte, una volta vinto il dolore riemerso dal passato. Padre e figlia si ritrovano dopo oltre 25 anni di abbandoni e silenzi. Parlano sul palco davanti a 200 studenti. Si riconoscono, piangono e si abbracciano. Si emozionano ma restano distanti. E la platea è testimone di una storia particolare. Lei è una donna transgender, attivista Arcigay, che ha lottato per affermare la propria identità e i suoi diritti. Lui è un ex criminale del vesuviano, che sconta una pena nel carcere di Rebibbia. I due si incontrano per caso all’istituto Galiani di via don Bosco, in occasione di una giornata contro violenza di genere e transomofobia organizzata da scuola, Aics, palestra Kodocan e Antonello Sannino di Arcigay. Presente anche un gruppo di detenuti. “È stata tosta - racconta Daniela Lourdes Falanga, presidente di Arcigay Napoli - Osservavo mio padre sotto gli occhiali scuri. Lui si è seduto accanto a me e ha detto: “Credi che non ti abbia riconosciuto?”. Poi mi ha abbracciato. Ero sconvolta. Per la prima volta non ero invisibile ai suoi occhi. Finalmente uno sguardo di pace al bambino che sono stato. Mi sono sentita di nuovo quel bambino, con ricordi fortissimi. E parlavo davanti a mio padre, non era un estraneo”. I detenuti di Rebibbia mettono in scena una rappresentazione contro le discriminazioni. Leggono brani sulla violenza di genere. Il padre di Daniela parla delle condizioni in carcere. Quando la donna prende la parola sul palco, non trattiene le lacrime e l’emozione si diffonde tra i ragazzi in silenzio. “Non riuscivo a sostenere il peso di quei sentimenti - dice la 41enne - ma sono andata avanti per 20 minuti per dimostrare che si può uscire da camorra e malaffare. Si può cambiare ma serve una trasformazione culturale profonda”. L’attivista parla alla platea di discriminazioni e persone trans. Poi racconta la sua storia di bambino che sogna un corpo diverso. Il padre l’ascolta e si commuove. “Eravamo sbalorditi da una situazione che nessuno si aspettava - riprende Falanga - L’ultima volta che ho visto mio padre avevo 15 anni ed ero ancora un ragazzino, lui ieri si è trovato di fronte una donna forte e consapevole. Non abbiamo mai avuto un rapporto genitore - figlia. Alcuni anni dopo la mia nascita lui creò un’altra famiglia dove io non ero prevista. Da bambino percepivo la violenza di quell’ambiente e me ne sono staccata. Quando ho cominciato il percorso di transizione il paese fu sconvolto dal fatto che ero il primogenito del boss. Ma lui mi aveva già abbandonato come figlio, non come trans. E forse è pure peggio. Ho sempre sperato di incontrarlo un giorno, ho provato inutilmente a contattarlo anni fa”. Passato e presente si intrecciano. I due visitano la palestra accanto al Real Albergo dei poveri di piazza Carlo III. Nel cortile interno della struttura, il padre di Daniela ricorda di essere stato ancora adolescente nel “serraglio”, quando la struttura veniva utilizzata come riformatorio. Il detenuto riconosce persino la cella in cui è stato da bambino. “Mi ha commosso pensarlo in quel luogo di detenzione. Lo Stato deve intervenire di più nelle carceri e sostenere gli operatori sociali - dice Daniela - Non mi ha chiesto scusa, ma ormai non serve più. L’ho perdonato quando ho trovato la forza di diventare padre di me stessa. Gli sono grata per quanto fa nelle scuole da detenuto e da ex boss. Sono andata oltre l’egoismo di un figlio che non ha avuto un padre, ho trasformato il dolore in qualcosa di positivo per cambiare le cose e mi sento migliore. Dopo avermi abbracciato mi ha detto: “Sento che abbiamo lo stesso sangue, ma i figli sono di chi li cresce”. Un bambino non lo comprende, il tempo mi ha aiutato”. Se il volontariato è un bene di lusso di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 24 dicembre 2018 La “manovra del popolo” ha raddoppiato l’Ires al “non profit”, per raggranellare 118 milioni di euro. Ne valeva la pena?. Erano 65 anni che nessuno osava metter sullo stesso piano un’oreficeria di lusso, una multinazionale con 119 stabilimenti e il servizio ambulanze d’una valle alpina. La “finanziaria del popolo” l’ha fatto. Raddoppiando l’Ires al “non profit” per portarla al livello delle società che dal lucro sono mosse. Una scelta accolta dal mondo del volontariato come un pugno nell’occhio. Esempio: i soldi raschiati dalla nuova legge giallo-verde nei bilanci delle Pubbliche Assistenze dell’Anpas (350mila soci, 90 mila volontari, fondazione nel 1904) potrebbero esser superiori ai 20 milioni di euro nella sola Toscana, una delle realtà più generose d’Italia. Il costo, spiega Dimitri Bettini, “di 300 ambulanze o pulmini per disabili nuovi. Perché a questo sono serviti, negli anni, gli utili tassati fino a ieri al 12 e ora al 24%: a comprare mezzi di soccorso, campi tendati, cucine mobili, pompe, gruppi elettrogeni per le emergenze e le attività della di protezione civile”. Val la pena di toglierli da lì e buttarli nel calderone delle casse statali? Boh… Forse, prima di fare un passo così incauto in nome della “quota 100” e del reddito di cittadinanza, Matteo Salvini e Luigi Di Maio avrebbero potuto dare un’occhiata ai numeri del Terzo Settore. Cinque milioni e mezzo di volontari censiti dall’Istat (un italiano su sei, dai venti ai sessantaquattro anni), 343.432 organizzazioni senza fini di lucro, 812.706 dipendenti… Un figurone, per un paese come il nostro imbarazzato spesso da tante cose che non vanno. Un mondo di donne, uomini, ragazze e ragazzi che tutti i santi giorni, senza marcar visita i sabati e le domeniche o le feste comandate, quando c’è bisogno, tappano i buchi lasciati da tutte le parti da uno Stato che non ce la fa a fornire ai suoi cittadini, soprattutto quelli disabili troppo spesso abbandonati a se stessi, quella assistenza che viene loro solennemente garantita nei bla-bla della politica degli spot e della propaganda. Sono 118 i milioni che il governo gialloverde ha messo in conto di rastrellare sopprimendo quel 50% di sconto sull’imposta sul reddito delle società che lo Stato riconosceva alla galassia del volontariato dal lontano 1953 e confermato nel 1973. Tanti? Pochi? Fate i conti: mediamente ognuno di quei 5,5 milioni di volontari regala a chi ne ha bisogno almeno tre ore alla settimana (almeno: in realtà sono sempre di più, senza contare le emergenze di un terremoto o un’alluvione) per un totale annuale di 858 milioni di ore di lavoro. A 10 euro l’ora, paga ridicola per tanti impagabili esempi di abnegazione, quel volontariato regala allo Stato oltre otto miliardi e mezzo di euro. Quasi settanta volte di più di quanto andrà a rosicchiare sull’Ires. E parliamo di un mondo bastonato mentre parallelamente la stessa finanziaria gialloverde taglia il “soccorso civile” da 6,7 miliardi nel 2019 a 3,4 nel 2021. Speriamo bene… Sempre lì torniamo: valeva la pena? Eppure, secondo Claudia Fiaschi, portavoce del Forum Nazionale Terzo Settore, la botta alle organizzazioni senza fini di lucro potrebbe esser ancora più dura: “Il problema è l’indotto. Un ente religioso che ha messo a disposizione uno stabile a un affitto basso per un asilo nido, un ospizio, un centro rieducativo, come potrà permettersi ancora la stessa generosità?” Vale per le scuole, centri di assistenza, i ricoveri per anziani… “Almeno centomila organizzazioni non-profit saranno colpite”, spiega Riccardo Bonacina, fondatore e animatore di Vita.it, “Nell’attesa che la povertà venga abolita (mai annuncio fu più infelice), il Governo pare voler colpire chi ancora lavora a favore dei poveri e opera nella cultura e nell’assistenza. E intanto proroga le concessioni agli stabilimenti balneari (103 milioni incassati nel 2016) che per Nomisma hanno un giro d’affari di 15 miliardi”. Non basta. “Buona parte di queste organizzazioni non-profit che vengono oggi stangate”, ricorda Luca Degani dell’Università del volontariato, “sono nate anche oltre un secolo fa da donazioni di mecenati che si fidavano di “quell’istituto”. Avrebbero fatto lo stesso sapendo che un quarto dei proventi sarebbe finito allo Stato?” E le faranno quelle donazioni i mecenati di oggi e di domani? Il giudizio più duro, però, è forse quello di Silvio Garattini, fondatore e presidente del “Mario Negri”, già scottato dall’obbligo di pagare l’Imu per un istituto di ricerca al servizio dei cittadini: “Raddoppiare l’Ires sulle Ong del volontariato un’idea stupida prima ancora che sbagliata o ingiusta. E anche un cattivo affare per le casse dello Stato. Perché mai colpire i bilanci di organizzazioni benemerite che suppliscono generosamente tutti i giorni, in tanti settori, alle carenze dello Stato stesso? C’è da mettersi le mani nei capelli. Meno male, verrebbe da dire amaramente, che non raschieranno niente nella ricerca perché ormai, lì, dopo tanti tagli niente c’è”. Migranti. Open Arms: “fa freddo e manca cibo, dateci un porto” La Repubblica, 24 dicembre 2018 Salvini: “In Italia sono chiusi”. La nave della Ong si dirige verso la Spagna con 310 naufraghi. Il tempo peggiora. “Il leader italiano sarà giudicato dalla storia”. Diniego anche per Sea Watch 3, in mare con 33 migranti. “I viveri stanno finendo, le coperte non bastano per tutti e fa molto freddo. Questa notte un ragazzo è stato portato a Lampedusa dalla Guardia costiera italiana per un’infezione cutanea aggressiva”. Così Open Arms, la nave della organizzazione non governativa di Barcellona che si sta dirigendo verso la Spagna dopo il diniego del ministro dell’Interno, Matteo Salvini, a sbarcare i 310 naufraghi in un porto italiano. “Su Salvini c’è poco da commentare, ognuno deve prendersi le proprie responsabilità nei confronti della storia, noi continueremo a fare il nostro lavoro e ad aiutare le persone in difficoltà”. Un’altra imbarcazione si sta avvicinando a Open Arms per portare medicine, viveri e coperte. Una nave di una seconda ong, la Sea Watch 3 battente bandiera olandese, sabato scorso ha salvato 33 migranti al largo delle coste libiche, tra loro quattro donne e sei bambini, e ha avanzato richiesta di approdo a diversi Paesi, ma per ora non ha ottenuto risposta. “Abbiamo chiesto un porto sicuro dove far sbarcare le persone”, ha detto il portavoce della Ong tedesca, Ruben Neugebauer. “Italia e Malta si sono rifiutate e finora non c’è nessun Paese che voglia offrire un porto sicuro. Tenteremo di tutto per ottenerlo prima di Natale, il 25 dicembre il meteo peggiorerà, quindi invitiamo i Paesi europei a trovare una soluzione nelle prossime ventiquattro ore. I governi di Malta e Italia hanno risposto che si trovano a dover portare il peso ingiusto dei migranti che arrivano dall’Africa”. Matteo Salvini a Sea Watch ha replicato: “Un’altra nave di un’altra Ong chiede di portare in Italia decine di immigrati. La mia risposta non cambia: i porti italiani sono chiusi, stop al traffico di esseri umani”. L’Algeria dei militari corre verso il baratro di Tahar Ben Jelloun* La Stampa, 24 dicembre 2018 Nel suo spettacolo “Les Dinosaures”, il comico algerino Fellag fa una battuta amara: “In tutto il mondo, quando si tocca il fondo, con un buon colpo di talloni si risale. In Algeria, quando tocchiamo il fondo cominciamo a scavare”. La garbata disperazione dell’umorismo algerino la dice lunga sulla situazione paradossale di un Paese ricco e pieno di speranze che da tempo vive una grave crisi sociale, culturale e politica. Due sono i grandi mali che l’affliggono: Aziz Bouteflika, 81 anni, presidente della Repubblica dal 1999 e il fatto che lo Stato sia nelle mani dell’esercito dall’indipendenza del Paese, nel luglio del 1962. Da quando ha avuto un ictus nel 2013, il presidente di tanto in tanto viene ricoverato in una clinica in Francia o in Svizzera, non riceve più ospiti illustri e non parla più alla sua gente. Nonostante sia così indebolito, ha appena deciso di candidarsi per un quinto mandato sfidando la perplessità dei politici del suo entourage e dell’opinione pubblica. Nel frattempo la nazione aspetta, o, per meglio dire, s’annoia e si affida all’umorismo per vedere un giorno il paese uscire da questo letargo. L’Algeria, Paese ricco di petrolio e gas (dal 2022 non ci sarà più gas da esportare), soffre di una mancanza di visione. I militari hanno il controllo e nulla trapela di ciò che pensano o preparano. L’opposizione spesso evoca un sistema mafioso che pratica la corruzione su larga scala. Inoltre, qualsiasi tentativo da parte della componente etnica dei Cabili di esprimersi e affermare la propria identità berbera viene severamente represso. L’incubo della guerra - La guerra civile del 1992-2002, scoppiata quando il governo rifiutò i risultati delle elezioni legislative che davano la vittoria al Fronte islamico della salvezza (Fis), ha provocato oltre 100 mila morti e ha avuto un effetto devastante sul morale della popolazione e sulle sue speranze. Questo popolo coraggioso e intraprendente è stanco e si sente bloccato dalla presidenza quasi a vita di un uomo che governa senza averne più le capacità fisiche. Sempre secondo l’umorismo algerino, l’unica cosa che aumenta nel Paese è il bilancio dell’esercito. Attualmente ammonta a 13 miliardi di dollari (contro i 3,6 miliardi del confinante Marocco). Ed entro il 2023 l’esercito intende completare la modernizzazione spendendo 30 miliardi di dollari. Perché mai questo Paese debba spendere così tanto per armarsi quando la sua gioventù è annoiata, non trova lavoro e soprattutto non si sente motivata a intraprendere attività? Nel frattempo, circa 40 mila cinesi stanno realizzando nel Paese grandi opere, compresa la costruzione di autostrade. Altri cinesi si sono stabiliti in Algeria per avviare dei commerci. La Cina importa meno in Algeria di quanto esporti. Il saldo è spesso in suo favore. Ufficialmente ci sono 2.270.000 disoccupati, ovvero il 16,7% della popolazione attiva. Questa percentuale raggiunge il 29,7% per i giovani tra i 16 e i 24 anni. La repressione Nei giorni della Primavera araba erano scesi in piazza un migliaio di manifestanti, che si erano trovati di fronte diverse centinaia di poliziotti armati. La calma è stata quindi imposta con la forza e i manifestanti dispersi. Ciò non significa che il popolo algerino sia passivo o indifferente. È di certo traumatizzato dagli orrori della guerra civile contro gli islamisti, ma la stampa libera è molto critica nei confronti di ciò che sta accadendo. A un certo punto alcuni osservatori hanno pensato che l’Algeria avrebbe incanalato il malessere popolare provocando una guerra con il vicino Marocco. Da più di 45 anni, Algeri mette in discussione lo status del Sahara Occidentale, un territorio marocchino occupato dalla Spagna che il Marocco si è ripreso. Lo Stato investe solo nell’esercito, mentre i cinesi costruiscono le grandi opere Un gruppo di giovani lancia pietre contro la polizia nel corso di una protesta ha creato, armato e finanziato il movimento dei saharawi. Il Marocco combatte per la sua integrità territoriale e ha persino accettato di partecipare alle discussioni sotto l’egida delle Nazioni Unite ai primi di dicembre a Ginevra. L’Algeria e i suoi protetti erano lì. Ma non è stato deciso nulla di concreto. Alla fine di maggio è scoppiato un caso per un traffico di cocaina. Le forze navali ne hanno sequestrato 701 chili nel Porto di Orano, nel Nord- Ovest del Paese. Nella vicenda sarebbero coinvolte personalità di un certo rilievo. Di certo è stato licenziato il direttore della sicurezza nazionale, il generale Abdelghani Hamel. Pochi mesi dopo, abbiamo appreso dalla tv Al Arabyia che Bouteflika ha licenziato cinque generali e che altri sono stati costretti a dimettersi. Questi problemi nell’esercito si sommano e aggravano il disagio vissuto dalla società civile. Questa economia dipendente dagli idrocarburi rimane fragile. Accentua la paralisi politica di un modello con il fiato corto. Nel 2014, la Banca centrale algerina disponeva di una riserva di 194 miliardi di dollari. Secondo la testata online “360”: “Il ministro delle Finanze algerino ha detto che per la fine del 2019 resteranno solo 62 miliardi”. Notizia che un commentatore ha tradotto in una previsione preoccupante per il Maghreb: “Ci sarà presto una crisi simile a quella del Venezuela”. *Traduzione di Carla Reschia Siria. Leader curdo: “l’Isis non è sconfitto, ci sono 3mila jihadisti nelle nostre carceri” di Gianni Rosini Il Fatto Quotidiano, 24 dicembre 2018 “Se Turchia ci invade potrebbero fuggire”. Erdogan ha messo sulla sua testa una taglia da un milione di dollari. Salih Muslim, ex presidente del Partito dell’Unione Democratica (Pyd) dal 2010 al 2017 e oggi a capo della formazione curda che agisce nella Siria settentrionale, passa le giornate al telefono con gli alleati Usa che vogliono ritirare le truppe: “Ora Ankara può attaccarci da nord”. La voce è stanca, come quella di chi, dopo una lunga battaglia, pensa che il peggio sia passato, ma viene rigettato nel baratro di una nuova guerra, combattuta casa per casa, centimetro per centimetro, con il terrore di veder tornare i cadaveri degli amici dalla prima linea, uccisi da un cecchino o da uno Shahid, un kamikaze dello Stato Islamico. Il presidente turco Erdogan ha fatto mettere sulla sua testa una taglia da un milione di dollari e lo scorso febbraio ne ha chiesto invano l’estradizione alla Repubblica Ceca che lo aveva arrestato. Salih Muslim, ex presidente del Partito dell’Unione Democratica (Pyd) dal 2010 al 2017 e oggi a capo della diplomazia della formazione curda che agisce nella Siria settentrionale, dice di non volersi abbattere per il tweet con cui il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha annunciato un imminente ritiro delle truppe Usa dal nord del Paese, mettendo i curdi nel mirino dei carri armati di Ankara, e ha deciso di rimanere in Rojava per portare avanti il suo lavoro e sostenere da vicino il suo popolo. Qual è stata la vostra reazione e quella delle truppe sul campo? “La nostra lotta contro Daesh continua, anche se siamo preoccupati per una possibile invasione turca da nord. Gli Stati Uniti non si sono mai impegnati a proteggerci da questa evenienza, ci abbiamo sempre pensato da soli. Certo, la presenza delle truppe americane e gli accordi che avevano stipulato con il governo di Ankara ci garantivano una certa tranquillità, almeno su quel fronte”. Adesso, però, rischiate di dover combattere su due fronti: contro Isis e contro i turchi. Cosa vi preoccupa di più? “È vero, se la Turchia decidesse di avanzare si aprirebbe un secondo fronte che ci costringerebbe a combattere contro Daesh, da una parte, e frenare l’avanzata di Ankara, dall’altra. Daesh e Turchia, per noi, sono la stessa cosa: entrambi vogliono smantellare il nostro modello. Ma noi continueremo a difendere il nostro popolo come abbiamo sempre fatto”. Sentite di essere diventati un obiettivo concreto delle aspirazioni militari del presidente Erdogan? “Non ci sentiamo un obiettivo di Erdogan da due giorni, lo siamo sempre stati. Basta guardare cos’è successo ad Afrin”. Avete provato a parlare con i vostri referenti americani sul posto? Cosa vi hanno detto? “Con loro ci siamo sentiti anche ieri. Non hanno saputo fornirci informazioni precise perché ancora non credo esista un piano dettagliato di ritiro delle truppe. Ci hanno però detto che si tratta di una decisione arrivata dall’alto, da Washington, e che loro non possono farci proprio niente”. Siete stati gli uomini sul campo della cosiddetta coalizione occidentale, avete stanato casa per casa gli uomini di Daesh. Vi sentite traditi? “Questa decisione ci ha molto sorpreso. Ma credo che non siano solo i curdi ad essere stati traditi dagli Stati Uniti, ma anche gli altri Paesi della coalizione. Qui a combattere sono venute persone da tutta Europa”. Ma Daesh è veramente sconfitto? Solo nell’ultima settimana gli americani hanno effettuato decine di bombardamenti… “Trump dice che Daesh è stato sconfitto. È una bugia. Solo ad Hajin, dove si sta ancora combattendo, si stima che siano presenti circa 4mila jihadisti dello Stato Islamico e che quelli sparsi per tutta la Siria siano oltre 30mila. E stiamo parlando di combattenti molto preparati. Isis non è affatto finito e lo dimostrano le decine di bombardamenti americani nell’ultima settimana. Anche ieri e oggi. La guerra non è finita”. Crede che Isis potrebbe tornare e riconquistare territori nel nord della Siria? “Se i turchi ci invadessero e indebolissero le nostre truppe, il rischio sarebbe proprio quello. Ripeto: sono tanti, ben addestrati e disposti a tutto. Se gli Usa si ritirano e gli islamisti dovessero riconquistare questi territori, allora potremmo dire che i veri vincitori della guerra sono i terroristi e non gli americani o la coalizione occidentale”. Che piani avete? Quali saranno le vostre prossime mosse? “Nessuna prossima mossa, continueremo a fare quello che abbiamo sempre fatto: a lottare e difenderci da chi ci vuole attaccare. Speriamo che il resto della coalizione voglia aiutarci e proteggerci”. Voi detenete anche migliaia di combattenti dello Stato Islamico. Cosa ne sarà di loro dopo un’eventuale invasione turca? “Abbiamo circa 3mila terroristi nelle nostre prigioni. Non so cosa potrebbe accadere se i turchi mettessero mano su di loro. Per come conosco i turchi, potrebbero anche liberarli tutti. Quindi non siamo solo noi a dover essere impauriti, ma anche l’Europa”. Pakistan. L’appello di Amnesty International per Asia Bibi di Riccardo Noury Corriere della Sera, 24 dicembre 2018 Il 31 ottobre, dopo oltre 3400 giorni di carcere, era sembrato finito l’incubo per Asia Bibi, la cristiana condannata a morte otto anni prima in Pakistan per “blasfemia”. Ricordiamo la storia di questa donna di coraggio, resistenza e fede straordinari, oggi 51enne e madre di cinque figli. Asia Bibi venne arrestata nel 2009 a seguito di un alterco tanto banale quanto esemplificativo del clima in cui vivono le minoranze religiose in Pakistan: nel villaggio di Ittanwali, nel Punjab, due donne musulmane rifiutarono di prendere l’acqua dallo stesso pozzo dal quale l’aveva appena presa lei. Essendo cristiana, Asia aveva reso “impura” l’acqua, dunque imbevibile. Da qui il litigio, del quale l’imam della moschea di Ittanwali - che non aveva assistito al fatto - s’improvvisò testimone cardine della presunta “offesa all’Islam”. Così, nel 2010, venne emessa la condanna a morte per “blasfemia”, confermata in appello nel 2014 e poi sospesa nel 2015. Meno di due mesi fa l’avvocato di Asia Bibi, Saiful Malook, musulmano, è riuscito a convincere la Corte Suprema dell’infondatezza dell’accusa. Purtroppo, l’incubo non è affatto finito. Non appena si è diffusa la notizia dell’assoluzione, in Pakistan sono scoppiate violente proteste: una folla inferocita ha bloccato le strade, incendiato veicoli e minacciato di farsi giustizia da sola. I leader della protesta hanno chiesto che ad Asia Bibi fosse impedito di uscire dal paese e che la Corte Suprema rivedesse la sua decisione. Il governo pakistano ha ceduto, negando ad Asia il diritto di viaggiare all’estero e ponendo lei e la sua famiglia di fatto sotto la sua custodia. L’avvocato Maalok ha dovuto lasciare il paese. Ricordiamo, per dare l’idea del clima che c’è in Pakistan, che nel 2011, per aver preso le difese di Asia Bibi e aver criticato l’uso delle leggi sulla blasfemia, il governatore del Punjab, Salman Taseer, venne assassinato. L’omicida fu impiccato e la sua esecuzione è tuttora considerata alla stregua di un “martirio” da molti estremisti. Finché rimarranno in Pakistan, Asia e la sua famiglia sono in grave pericolo. Amnesty International ha lanciato un appello mondiale per chiedere alle autorità pakistane di non far mancare il loro sostegno alla Corte suprema - dunque di difendere la sentenza di assoluzione - e di consentire ad Asia e alla sua famiglia di lasciare il Pakistan in sicurezza per cercare asilo all’estero.